I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (seconda parte)

di Alberto Valentini

Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve



2. La preghiera in At 1,14

Il sommario di At 1,14 mette in primo piano la preghiera della comunità raccolta intorno agli apostoli. Si tratta di una preghiera sine glossa, senza le aggiunte o specificazioni, del resto preziose, che troviamo in altri testi.

Tale preghiera può includere diverse forme ed espressioni, come viene precisato, per es. nel sommario 2,42-47; ed è naturale che la comunità di At 1,14 spezzasse il pane in casa, frequentasse il tempio, celebrasse il Signore con salmi, inni e cantici spirituali (cf Col 3,16; Ef 5,19). (36)

La preghiera della comunità di At 1,14 poteva essere molto varia, ma ciò non viene detto. C’è tuttavia un elemento fondamentale di tale preghiera che non può essere messo in dubbio né trascurato: l’attesa dello Spirito. Tutto il contesto orienta in tale direzione: il sommario di 1,14 si colloca al centro del primo capitolo, a metà strada tra la promessa dello Spirito e la sua venuta; gli annunci sono espliciti: “comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere la promessa del Padre... voi sarete battezzati in Spirito santo fra non molti giorni” (1,4-5); riceverete la forza dello Spirito che verrà su di voi e sarete miei testimoni... “ (1,8). Il ritorno a Gerusalemme dal monte degli ulivi e il radunarsi in attesa, nella stanza superiore, si spiegano in base al comando del Signore e alla sua promessa.

Lo Spirito sarà donato in vista della testimonianza da rendere a Gesù (cf 1,8): la preghiera della comunità, pertanto, è anche in preparazione al futuro ministero affidato agli apostoli. Luca ama associare la preghiera al dono dello Spirito (37) e all'annuncio del vangelo, due realtà del resto inscindibili. Tale connessione è verificabile nella supplica unanime degli apostoli (4,24-31), nella preghiera per i diaconi (At 6,6), nell'orazione di Saulo (9,11) e di Pietro (10,9), nella preghiera comunitaria per Barnaba e Saulo in partenza per la missione (13,3): l'effetto della preghiera è lo Spirito che non solo permette di annunciare, (38) ma sceglie, invia (cf At 13,2.4) e orienta il cammino degli evangelizzatori (cf 16,6.7). Il legame tra Spirito e testimonianza, proclamato all'inizio degli Atti (1,8), è legge fondamentale di ogni apostolato.

At 1,14 non è un testo fra gli altri: è il primo dei sommari, inserito in un capitolo introduttivo e programmatico. La preghiera unanime ed assidua per ottenere lo Spirito non caratterizza solo gli apostoli e quanti sono radunati con loro nella stanza superiore, ma tutti i credenti, quanti sono chiamati a rendere testimonianza al Signore Gesù.

La preghiera della comunità delle origini dev'essere vista in analogia con Lc 3,21, dove si ha un significativo riferimento cristologico. Come Gesù nel battesimo, mentre era in preghiera, ricevette lo Spirito, e quindi iniziò il suo ministero (Lc 3,23), (39) così il primo nucleo della Chiesa neotestamentaria è in preghiera prima di ricevere lo Spirito che l'abiliterà alla sua missione di testimonianza. (40) A Pentecoste, soprattutto - in risposta alla preghiera dei discepoli per il Regno (cf Lc 11,2) - il Padre celeste effonde come dono il suo Spirito. (41)

2.1. Preghiera unanime

L'unione degli animi, dei cuori, è una delle note fondamentali della preghiera nella comunità primitiva. E' un elemento che emerge con particolare evidenza in At 1,14.

L'unanimità suppone ovviamente che la preghiera sia comunitaria. La nota comunitaria è il primo passo e la condizione indispensabile per una preghiera unanime. Appare utile pertanto riflettere prima sulla preghiera in comune dei credenti e poi sull'unità dei cuori di coloro che pregano insieme. (42)

Questa distinzione è suggerita dalla formulazione stessa del nostro sommario che inizia con "tutti costoro", (43) soggetto riferito agli Undici appena nominati, e aperto agli altri personaggi elencati successivamente: le donne, la madre di Gesù e i "fratelli" di lui.

La preghiera comunitaria, come si è detto, costituisce una novità degli Atti nei confronti del vangelo di Luca. Parecchi testi la mettono chiaramente in luce: "e pregando dicevano..." (1,24) ; "erano perseveranti...nelle preghiere" (2,42); "una preghiera insistente saliva dalla Chiesa verso Dio..." (12,5); "vi erano molti radunati e in preghiera" (12,12); "dopo aver digiunato e pregato e imposte loro le mani, li lasciarono partire" (13,3); "inginocchiatosi con tutti loro, pregò" (20,36); "inginocchiatici sulla spiaggia, pregammo..." 21,5).

Il segreto di questo cambiamento rispetto al vangelo - la sottolineatura della preghiera comunitaria - dipende dal fatto che i credenti ormai sperimentano di essere "chiesa": una comunità raccolta dallo Spirito e radunata, con gli apostoli, nel nome del Signore Gesù. (44)

La preghiera comunitaria, quando è autentica, è espressione e fonte di quella unione dei cuori che negli Atti viene ribadita con evidente intenzionalità.

Tale disposizione interiore, che è l'anima di ogni preghiera in comune e che la giustifica come tale, è espressa in At 1,14 dall'avverbio homothymadón,che caratterizza non solo il soggetto hoútoi pántes, ma l'intera proposizione: sono unanimi non solo gli Undici, ma tutte le persone elencate insieme con loro. Potremmo dire che attraverso quell'avverbio si realizza l'unità di coloro che vengono presentati come persone e gruppi distinti; (45) e tale unità si esprime nella preghiera. Non si tratta di una comunione passeggera ovvero occasionale: l'unanimità è perseverante, come perseverante è la preghiera che la sostiene. L'avverbio homothymadón, derivato dai LXX, (46) è un termine caratteristico degli Atti; (47) applicato alla comunità cristiana, esprime una forte connotazione religiosa. In tale “accezione forte ed intensamente religiosa” (48) ricorre non solo nel nostro testo, ma anche nei sommari successivi, i quali proiettano ulteriore luce sul senso del termine e sulla preziosa annotazione di At 1,14. In 2,46 si conferma: “ogni giorno unanimi erano assidui nel frequentare il tempio”; in 5,12: "tutti stavano unanimemente nel portico di Salomone”. Il medesimo avverbio ricorre nell’introduzione alla preghiera, in 4,24: “Essi unanimemente alzarono la voce a Dio...”. L’illustrazione più efficace di homothymadón si ha in 4,32 ove si afferma che “la moltitudine dei credenti era un cuor solo ed un’anima sola”. Homothymadón è divenuto, per così dire, un termine tecnico, addirittura un’"espressione stereotipa della comunità". (49) In tale avverbio è condensato quanto Paolo richiede a tutti i credenti: di acquisire una mentalità comune, affinché "unanimi (homothymadón),con una sola bocca" glorifichino Dio (cf Rm 15,6). La concordia dev’essere così intensa da tendere a realizzare e manifestare l’unità voluta da Cristo (cf Gv 17,22). Ciò si compie, anzitutto nella preghiera. (50)

La voce homothymadón non è stata scelta a caso: essa evoca una ricca tradizione a livello di riletture bibliche e giudaiche. La comunità del Nuovo Testamento che attende unanime il dono dello Spirito - la Legge della nuova Alleanza (cf Ger 31,31.33) - riprende e porta a compimento un’esperienza antica fondamentale: quella del popolo di Dio che ai piedi del Sinai, homothymadón (yahdâw) (Es 19,8), (51)accoglie il dono della legge e dell’alleanza. Tale esperienza, che ha segnato profondamente la storia d'Israele, rimane un punto di riferimento ideale per le generazioni successive. La tradizione giudaica ne fa oggetto di riflessioni edificanti. Secondo il midrash tale unanimità era frutto di un intervento diretto di Dio. In Egitto infatti gli israeliti erano caduti nei lacci dell'idolatria ed avevano contratto inimicizie; anche la loro partenza e le tappe del cammino nel deserto erano state segnate da divisioni e discordie. Giunti al Sinai, Dio operò un radicale rinnovamento del popolo, guarendolo da infermità e discordie: (52) il giorno dell'alleanza "erano tutti un cuor solo per accettare con gioia il Regno di Dio". (53) Luca si inserisce in questa tradizione interpretativa. Per lui la comunità di Pentecoste è il compimento definitivo di quell'assemblea del Sinai, posta alle origini della storia d'Israele, nella quale si era intravisto il disegno di Dio sul popolo dell'alleanza. La Pentecoste si presenta pertanto come nuovo Sinai e la comunità, in quel giorno radunata, come l'Israele dei tempi futuri. La Pentecoste cristiana non è tuttavia una semplice riproposizione dell'alleanza sinaitica, ma anche il suo superamento: è l'alleanza nuova, vaticinata dai profeti, (54) come proclamerà Pietro, dopo la venuta dello Spirito, citando Gioele (cf At, 2,17-21). L'unanimità è il segno evidente della salvezza operata dal Signore; è la caratteristica del popolo redento che finalmente può accogliere la Legge dello Spirito in cuori riconciliati per testimoniarla con coerenza e fedeltà.

2.2. Preghiera perseverante

L’altra nota fondamentale della preghiera della primitiva comunità, secondo At 1,14, è la perseveranza. L’assiduità, come l’unanimità, non ricorre soltanto nel nostro testo, ma anche in altri sommari: essa caratterizza la preghiera e la vita dei discepoli del Signore.

E’ noto il topos lucano della preghiera insistente e continua, (55) ma, in maniera più ampia, la perseveranza è uno dei tratti caratteristici della spiritualità lucana. Questo atteggiamento viene espresso in particolare con il verbo proskarteréo, cheetimologicamente significa "attaccarsi con forza a qualcosa", (56) e manifesta per conseguenza il senso di "essere costante, perseverante". (57) Su complessive dieci frequenze nel Nuovo Testamento, ben sei si trovano negli Atti, tre delle quali nei sommari. Solitamente il verbo ricorre in contesto liturgico, di preghiera e in genere religioso, come appare dai seguenti testi:

At 2,42: "erano perseveranti (58) nell'insegnamento degli Apostoli, nella koinonía,nello spezzare il pane e nelle preghiere".

2,46: "Ogni giorno, assidui frequentavano insieme il tempio...".

6,4 : "Noi saremo assidui alla preghiera e alla diaconia della parola".

Nella letteratura paolina il verbo ricorre solo tre volte e il sostantivo una volta sola, ma sempre - eccetto in Rm 13,6 - in contesto di preghiera:

Rm 12,12: "...pazienti nella tribolazione, costanti nella preghiera".

Col 4,2: "Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie".

Di particolare significato e solennità è la finale della lettera agli Efesini in cui troviamo il sostantivo proskartéresis (che è un hapax biblico): "Pregando con ogni preghiera e supplica nello Spirito, in ogni tempo, e vigilando a questo scopo con ogni perseveranza (proskarterései) e supplica per tutti i santi..." (Ef 6,18).

"Dato il gusto della koiné per i composti e la tendenza ad intensificare l'espressività delle parole, si può pensare che proskarteréo non differisca affatto dal semplice karteréo...Tuttavia, il suo impiego (il più delle volte con il dativo) rivela nuove accezioni, sia che si tratti di rimanere fedele a qualcuno, di dedicarsi esclusivamente a qualche cosa, o di consacrarvisi instancabilmente". (59) Per comprendere adeguatamente i brani del Nuovo Testamento, dove si parla di perseveranza nella preghiera, è necessario aver presente tale densità semantica. Se poi si riflette che il verbo proskarteréo applicato alla preghiera non si trova mai nella lingua profana né nei LXX, bisogna concludere che siamo di fronte a una creazione ad opera degli autori del Nuovo Testamento "e la sua frequenza rivela non solo uno stato di fatto nella chiesa primitiva, ma anche un'esigenza apostolica...trattasi della traduzione apostolica del precetto del Maestro" (60) di pregare, sempre senza perdersi d'animo (cf Lc 18,1; 1Ts 5,17).

Il sostantivo proskartéresis, data la sua unicità, dev'essere inteso alla stregua del verbo, con la medesima ricchezza di senso nei confronti della preghiera neotestamentaria.

Tale costanza-assiduità è espressa ovviamente anche con altre formule: è necessario pregare pántote, vale a dire, sempre, (61) en pantì kairói, in ogni tempo, (62) adialeíptos, senza sosta, in maniera ininterrotta. (63) "E' questo un atteggiamento e un modo di pregare diverso da quello del giudaismo del tempo, tutto basato su tempi fissi e rigide formule di preghiera": (64) esso si fonda sul rapporto personalissimo e costante che Gesù aveva col Padre e che aveva trasmesso ai discepoli insegnando loro a pregare.

Questa perseveranza, frutto dell'esempio e dell'insegnamento del Maestro, è illustrata da diverse pericopi evangeliche. Rinunciando ad altri brani, ci limitiamo a due testi di carattere escatologico, nei quali Luca insiste sulla necessità di una preghiera continua e insistente.

Ci riferiamo anzitutto alla parabola del giudice iniquo e della povera vedova (18,1-8), presente solo in Luca e raccontata per mostrare la necessità (tò deín) di pregare sempre, senza perdersi d'animo (cf 18,1): questo dev'essere l'atteggiamento di coloro che aspettano "il giorno del Figlio dell'uomo", non sapendo quando egli verrà. A conferma di ciò, il v. 7 afferma che i suoi eletti "gridano giorno e notte verso di lui": si tratta di coloro che - come la povera vedova - hanno subito persecuzioni e violenze, ed invocano Dio perché, con la sua venuta, renda loro giustizia. Si noti che le tribolazioni sostenute dagli "eletti" - i quali in realtà sono stati immolati - si spiegano a causa della parola di Dio e della "testimonianza" (65) (cf Ap 6,9; Lc 21,13). Essi attendono l'intervento divino con costanza e con preghiera insistente, sapendo che la loro liberazione è vicina (cf Lc 21,28). Il v. 8, che attualmente conclude la parabola, e all'origine doveva essere un detto indipendente, (66) accenna a un motivo classico dell'apocalittica: l'apostasia che deve manifestarsi alla fine dei tempi (cf 2Ts 2,3; Mt 24,11-12. 24); essa è una "seduzione" e rappresenta la "contro-testimonianza".

Il secondo testo da noi scelto è la conclusione della cosiddetta "apocalisse sinottica" (Mc 13; Mt 24-25; Lc 21), che in Luca presenta prospettive particolari.

A differenza di Marco che sottolinea l'ignoranza di "quando" il Figlio dell'uomo verrà (13,32-37), ed esorta a "stare attenti" (13,33) e a "vegliare" (13,33.35.37), Luca inizia con l'avvertimento: "Badate bene che i vostri cuori non si appesantiscano in crapule, ubriachezze e affanni della vita..." (21,34). (67) E mentre Matteo mette in guardia da comportamenti iniqui ed irresponsabili (Mt 24,48-49), Luca chiede di vegliare pregando in ogni tempo (Lc 21,36). (68) Diversamente dagli altri due sinottici, che concludono la pericope ribadendo l'imprevedibilità del ritorno finale - e in particolare da Matteo che prospetta il severo giudizio del Figlio dell'uomo (Mt 24,51) - Luca annuncia la possibilità di sfuggire agli eventi minacciosi che devono accadere, grazie proprio alla vigilanza e alla preghiera incessante. Egli introduce la consolante prospettiva di stare in piedi, con fiduciosa sicurezza, davanti al Figlio dell'uomo; (69) atteggiamento che riprende e prolunga quello del non lontano v. 28: "Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi in piedi e levate il capo, perché si avvicina la vostra redenzione".

Non solo la prospettiva lucana di vigilanza e di preghiera è differente, specie da quella di Matteo, ma il terzo evangelista aggiunge anche una cornice conclusiva al discorso escatologico. Si tratta di una specie di sommario circa il comportamento di Gesù, immediatamente prima della sua passione: "Di giorno era ad insegnare (forma perifrastica, come nei sommari degli Atti) nel tempio; di notte, uscendo, pernottava sul monte detto degli ulivi; e dall'aurora tutto il popolo andava da lui, nel tempio, per ascoltarlo" (Lc 21,37-38). Anche qui è rilevabile l'intervento lucano nel presentare Gesù, che di giorno "dimora" nel tempio, casa del Padre suo (cf Lc 2,49) e di notte si ritira sul monte degli ulivi, ovviamente in orazione. In questo atteggiamento di prolungata veglia in preghiera (Lc 21,37), prima della passione, Gesù attua in maniera singolare l'esortazione che l'evangelista, nel v. 36 - immediatamente prima - rivolgeva a tutti: "Vegliate, pregando in ogni tempo...".

Come si vede, Luca è stato colpito anzitutto dal comportamento di Gesù in preghiera, dal suo costante dialogo col Padre. La comunità apostolica non farà che seguire l'esempio del Maestro: (70) lo testimonia fin dall'inizio il sommario di At 1,14.

(continua)


Note

(36) E' da ritenere che nella comunità apostolica ci fosse un'autentica vita liturgica: la preghiera in quanto tale è solo una componente della liturgia, la quale è ben più ampia e coinvolgente.

(37) Al dire di H. Lampe, "in tutti i casi nei quali menziona la preghiera, il libro degli Atti afferma o suggerisce un legame strettissimo tra questo atto dell'uomo, che è la preghiera, e l'atto col quale Dio comunica lo Spirito...Essendo la preghiera il mezzo per l'uomo di sottomettersi all'efficace influsso dello Spirito, sembra naturale a Luca considerare il dono dello Spirito come la risposta principale di Dio alla preghiera dell'uomo" (G.W.H. Lampe, The Holy Spirit in the Writings of St. Luke, in Studies in the Gospels: Essays in Memory of Lightfoot, Oxford 1955, 168).

(38) Ciò è messo in particolare evidenza nella Pentecoste ("Tutti furono riempiti di Spirito santo, e cominciarono a parlare..." [At 2,4]) e al termine della preghiera degli apostoli nella persecuzione ("Tutti furono riempiti di Spirito santo, e proclamavano la parola di Dio con parresia" [At 4,31]).

(39) Non solo gli inizi, ma tutta l'azione salvifica di Gesù è dipende dalla sua unzione di Spirito santo e di potenza (cf At 10,38).

(40) "Con ciò Luca inequivocabilmente ritorna con il pensiero al battesimo di Gesù...Nel tempo dell'attività terrena di Gesù, lo Spirito santo è il dono messianico che contrassegna Gesù, che rende possibile e fruttuosa l'intera sua attività, mentre dopo la sua esaltazione lo stesso dono viene fatto all'intera comunità cristiana e trasforma il tempo della Chiesa in un tempo dello Spirito (cf Lc 11,13; 12,12; Act. Da un capo all'altro)" (R. Schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium salutis, V, Brescia 21971, 379).

(41) "Secondo l'interpretazione teologica offerta da Luca, dove è lo Spirito è già presente il Regno. Infatti il Regno escatologico di Dio, di cui Gesù è il messaggero per eccellenza, si realizza per mezzo dello Spirito, la cui presenza è caratteristica di tale Regno" ( S.S. Smalley, Spirit, Kingdom and Prayer in Luke-Acts, NT 15 [1973] 13). Si noti che in Lc 11,2 alcuni manoscritti - invece di "venga il tuo Regno" - riferiscono: "venga il tuo santo Spirito su di noi e ci purifichi" (cf Nestle - Aland, Novum Testamentum Graece, Stuttgart 271993).

(42) Evidentemente la preghiera comunitaria autentica, animata dallo Spirito, è di per sé unanime, ma il fatto che alcuni testi, specie nei sommari, sottolineino con termini forti ed espliciti l'unanimità degli oranti, ci porta a questa distinzione, che non intende certo contrapporre comunitario ad unanime, ma vuole semplicemente ribadire l'intensità della comunione che quei testi esprimono.

(43) Con quel pántes, tuttavia, si va probabilmente oltre la scena singola, per esprimere un giudizio più generale sulla comunità delle origini (cf B. Prete, a.c., 70). Si sarebbe potuto dire semplicemente "costoro", senza aggiungere l'aggettivo "tutti"; ma questa amplificazione del linguaggio fa parte dello stile dell'autore, come si può constatare in particolare nei sommari, dove ricorrono numerose espressioni generalizzanti. Ne presentiamo un inventario: molti prodigi e segni (2,43); tutti i credenti...avevano tutte le cose comuni (2,44); ne facevano parte a tutti (2,45); presso tutto il popolo (2,47); la moltitudine di coloro che avevano creduto (4,32); con grande potenza...grande benevolenza verso tutti loro (4,33); ci fu un timore grande per l'intera chiesa e per tutti quelli che ascoltavano queste cose" (5,11); molti segni e prodigi...tutti stavano insieme (5,12); la moltitudine di uomini e di donne (5,14); la folla delle città intorno a Gerusalemme...ed erano tutti guariti (5,16).

(44) Si noti che in Lc 11,2ss la preghiera insegnata da Gesù ai discepoli è già comunitaria, ma essi non sono ancora chiesa. Ciò avverrà negli Atti, come appare, in maniera particolarmente efficace, in 12,5: "una preghiera incessante saliva dalla Chiesa a Dio...". Bisogna però dire, che nello stadio iniziale, la comunità - così com'è descritta in At 2,42-47 - non viene ancora chiamata chiesa: ciò avverrà a partire da At 8,1.

(45) I gruppi che compongono la comunità delle origini non solo si trovano nello stesso luogo, ma, quel che più conta, sono uniti da profonda comunione, avendo un solo spirito, frutto dello Spirito che invocano.

(46) Nella Bibbia alessandrina il termine ricorre 36x ed è usato in particolare nel libro di Giobbe (14x) e in quello di Giuditta (6x), per tradurre l’ebraico yahad, yahdâw. Esso significa “insieme”, quando si tratta di una folla, di una massa di gente (cf At 7,57); in base all’etimologia, il termine non indica soltanto un’aggregazione di persone, ma sottolinea il loro accordo, l'unanimità; in particolare esprime la comunione fraterna dei credenti raccolti in preghiera: è questo il senso particolare che il termine riveste negli Atti, un significato noto ai LXX e al giudaismo (cf Gdt 4,12; Sap 10,20; Filone, vit. Mos. 1,72.

(47) Vi ricorre 10x (includendo anche At 18,12); nel resto del NT si trova soltanto in Rm 16,6, sempre in contesto religioso. Per il nostro studio interessa ovviamente sottolineare la connotazione positiva di tale avverbio, che viene usato anche in senso negativo per esprimere il coalizzarsi degli avversari; “Mit homothymadón schildert Lukas in Apg 1,14; 2,46; 4,24; 5,12; 8,6 die vorbildliche Einigkeit der Gemeinde, dagegen in 7,57; 18,12; 19,29 die Einigkeit einer christenfeindlichen Menge” (E. Haenchen, o.c.,159, nota 4).

(48) Cf B. Prete, o.c., 71.

VIII, 521.

(50) Cf C. Spicq, Note di lessicografia neotestamentaria, II, Brescia 1994, 254ss.

Conosciamo, tuttavia, il carattere edificante dei racconti degli Atti, in particolare dei sommari, né ci sono ignoti i conflitti e le tensioni presenti nelle comunità, ma l'unione degli spiriti non si fonda sulla simpatia reciproca dei membri o su affinità culturali, bensì su “un evento esterno al gruppo che viene ad interessarlo...provocando la sua reazione globale”. Nel nostro caso è “la risposta dei credenti a ciò che Dio ha operato per mezzo di Cristo, nel mondo e nella comunità...l’unanimità è un dono di Dio per la lode del Signore” (H.W. Heidland, a.c., 522).

(51) C'è qui un ulteriore motivo per connettere At 2,1 con 1,13-14 e non con 1,15-26. L'espressione "tutti insieme nello stesso luogo" di 2,1 esprime di per sé una vicinanza locale, "ma a giudicare dal vocabolario di Luca e dal legame che la unisce a 1,13-14, essa sembra esprimere contemporaneamente l'unanimità...Essi sono insieme non soltanto perché si trovano nel luogo, ma anche per l'unione dei cuori" (J. Dupont, La prima Pentecoste cristiana, a.c., 828s).

Si noti la risposta corale di tutta l'assemblea in Es 19,8 (cf Es 24,3.7): "Tutto quello che il Signore ha detto, noi lo faremo!" (Es 19,8; cf 24,3.7). Dio stesso se ne compiace con Mosè: "Ho udito le parole che questo popolo ti ha rivolte...Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre!" (Dt 5,28s).

(52) Cf A. Serra, E c'era la Madre di Gesù..., Milano-Roma 1989, 292s.

(53) Mekiltà Ex19,2; cf 19,8; 20,2. Cf anche Tg Ps-Jon a Es 19,2.

(54) Cf Ger 31,31-34; Ez 36,25-28; Gl 3,1-5 (LXX).

(55) Cf Lc 6,12; 18,1; 22,44; At 12,5.

(56) Nei LXX, con significato fondamentalmente analogo, si trova in Gb 2,9; Sir 2,2; 12,15; Is 42,14; 2Mac 7,17 e in particolare in 4Mac, dove, insieme col verbo, ricorrono anche il corrispondente sostantivo, aggettivo e avverbio. Il composto proskarteréo, ben più raro nei LXX, è presente in Nm 13,20; Tb 5,8 (S); Sus 6 (TH).

Nel NT karteréo si trova solo in Eb 11,27, a proposito della fede di Mosè. Più frequente invece è proskarteréo che viene usato 10x , per lo più negli Atti. Il sostantivo proskartéresis è usato solo in Ef 6,18.

(57) Questo significato viene marcato ulteriormente quando - come in At 1,14 - il verbo è in forma perifrastica (ésan proskarteroúntes). Tale modalità, nel nostro contesto, ricorre piuttosto frequentemente: cf At 1,13: ésan kataménontes; 2,2: ésan kathémenoi; 2,5: ésan ...katoikoúntes; 2,42: ésan proskarteroúntes.

La coniugazione perifrastica con l'ausiliare essere e il participio presente - che nella lingua ellenistica viene usata in maniera molto limitata - nel NT ricorre per lo più in Luca e nella prima parte degli Atti (1-13), ma anche nel vangelo di Marco. Tale formulazione, com'è noto, intende sottolineare la durata, la continuità dell'azione. Questo senso viene ulteriormente rafforzato quando, come nel nostro caso, l'ausiliare è all'imperfetto, tempo che di per sé presenta tale caratteristica. L'espressione intende dunque attirare l'attenzione sullo stile di vita della comunità delle origini. Circa l'uso della coniugazione perifrastica in Luca, cf E. Haenchen, o.c., 155s, n. 7; Blass-Debrunner, § 353.

(58) Tale formula presenta “un’intensa colorazione religiosa, che caratterizza in forma incisiva la vita di questo gruppo” (B. Prete, a.c., 70).

(59) C. Spicq, o.c., 472.

(60) Ivi, 474s.

(61) Cf Lc 18,1; 1Ts 1,2; 2Ts 1,3.11; Rm 1,10; Ef 5,20.

(62) Cf Lc 21,36; Ef 6,18.

(63) Cf 1Ts 2,13; 5,17; Rm 1,9.

(64) W. Grundmann, proskarteréo, GLNT, V, 227. Cf anche Strack-Billerbeck, II, 237s.

(65) La testimonianza - affidata anzitutto agli apostoli - è un tema essenziale per Luca ("testimonianza" si identifica con "martirio", ovviamente non solo per l'etimologia); essa suppone la potenza dello Spirito (At 1,8; 2,4; 4,31) e una preghiera costante, specie nella prova (At 4,24-30).

(66) Le parabole infatti non finiscono con interrogativi, come in questo caso.

(67) L'appesantimento del cuore è dovuto, secondo Luca, ad eccessi nel mangiare e nel bere e agli affanni della vita: le prime due indicazioni fanno pensare alla descrizione del ricco insensato (cf Lc 12,19) e di colui che "tutti i giorni banchettava lautamente" (16,19); gli affanni della vita ricordano coloro che ascoltano la parola, ma si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita (Lc 8,14). "Non può esserci dubbio alcuno: l'appesantimento del cuore contro cui Lc 21,34 mette in guardia, è esattamente, nel suo contesto lucano, quello che minaccia direttamente i ricchi ed è automaticamente legato al possesso dei beni della vita presente. L'avvertimento di questo versetto si iscrive nella linea di una preoccupazione che si manifesta lungo tutto il terzo vangelo e che costituisce l'altra faccia della sollecitudine di cui Luca dà prova nei riguardi dei poveri" (J. Dupont, Le tre apocalissi sinottiche, Bologna 1987, 148).

(68) "Prima di tutto egli intende precisare cosa significhi per lui l'immagine di non abbandonarsi al sonno: ...Il cristiano non può dormire perché non deve mai cessare di pregare: la vigilanza cristiana è quella della preghiera" (ivi). A conferma di ciò, Dupont cita proprio Lc 18,1. Tale modo di intendere l'attesa quale "atteggiamento attivo di preghiera" caratterizzava già la pietà giudaica, come appare dalle parole di Paolo davanti al re Agrippa (cf At 26,6-7), e nel vangelo, dalla descrizione della profetessa Anna, la quale "non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (Lc 2,37), e pertanto era in grado di parlare del Bambino "a tutti coloro che aspettavano la redenzione di Gerusalemme" (2,38) (cf ivi, 148s).

(69) Cf ivi, 149s.

(70) "Ed avvenne che mentre egli era in un luogo a pregare, come ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare..." (Lc 11,1): episodio che solo Luca riferisce.

I domenicani e lo studio della teologia
Una lettera d'amore a Dio
di Mario Chiaro

La saggezza è un fuoco: i teologi sono i fuochisti che lo alimentano. Dai domenicani viene lo stimolo per la decisa promozione di una teologia più al femminile e più radicata nella vita delle persone e delle culture. Gustavo Gutiérrez sintetizzando il pensiero di molti scrive: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio”.

Per i discepoli di san Domenico, fin dall’inizio, il sogno di Dio sì è legato al “fare teologia”. Domenico trascorse la sua vita incoraggiandoli a creare tavoli di studio e confronto con altri e fu imitato nel tempo da Caterina, Tommaso, Montesinos, Eckhart: senza questa stretta interazione teologica, nessuno di loro avrebbe potuto,da solo produrre ciò che invece ha prodotto. In particolare poi il fondatore dei domenicani ha mostrato che lo studio è inutile se non arreca beneficio ai poveri: a Palencia infatti vendette i suoi libri per procurarsi denaro e nutrire gli affamati, dichiarando di non voler studiare “su pelli morte, mentre quelle vive muoiono di fame”. Oggi una rinnovata coscienza di collaborazione tra consacrate e consacrati nella ricerca teologica, in una prospettiva di impegno per giustizia e pace, porta a testimoniare come, gettando ponti sopra le acque del genere, del potere e dell’esclusione, si possano superare le distanze fra i singoli e Dio, fra uomini e donne, fra ricchi e poveri.

DONNE FORMATE AD APRIRE GLI OCCHI

Nella spiritualità dominicana, lo studio è il processo di apertura verso l’altro, uno stile permanente che diventa “disciplina di veridicità che apre gli occhi” (cf. T. Radcliffe). Aprirsi per imparare dalla parola di Dio e da ogni frammento di verità e bellezza che ci sta intorno è studiare la teologia in contemplazione. Sr. Thérèse P. T. Bach Tuyet (delle domenicane vietnamite di Santa Caterina da Siena), direttrice dell’istituto domenicano intercongregazionale di san Tommaso a Ho Chi Minh City, ci tiene a sottolineare come la predicatrice domenicana in formazione debba essere innanzitutto una teologa con gli occhi aperti allo Spirito Santo nella società in cui vive. “Il contributo delle domenicane vietnamite consiste in questo momento nel difendere e promuovere la vita attraverso l’educazione nella fede e la cultura, nello sviluppo sociale e nella cura della salute dei poveri, dei giovani, delle donne e bambini, degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei malati di Aids. Per tradurre nella pratica queste missioni, la Chiesa richiede alle donne consacrate una nuova formazione, non inferiore a quella riservata agli uomini”.

Fare teologia significa così risvegliare nelle donne la coscienza della propria dignità e dei propri diritti. “Per me come cristiana e domenicana, la teologia è sostegno per vivere la mistica e la prassi di Gesù, è un’occasione di apertura verso il significato amorevole della vita, della giustizia e della solidarietà. La riflessione teologica, la contemplazione nella prospettiva dell’incarnazione di Gesù mi ha portato a compromettermi con la realtà del mondo, in altri termini ad assumere una dimensione di fede, di speranza e a riconoscere i segni del nuovo cielo e della nuova terra presenti nell’oggi. Sono visibili le conquiste e le vittorie delle comunità ecclesiali di base nei movimenti sociali organizzati” (sr. Rosa Maria Barboza, brasiliana, provinciale della congregazione domenicana romana).

Una teologia al femminile permette di pensare al divino portando alla ribalta le represse immagini femminili di Dio, specialmente in un momento storico in cui la Chiesa diventa conscia di essere veramente universale: “E’ essenziale per il futuro della Chiesa in Asia che le donne asiatiche prendano il loro posto nella Chiesa come professioniste teologhe e studiose della Scrittura e che si esprimano con sicurezza… Oggi è imperativo che le donne domenicane (anche donne religiose e donne cristiane laiche) siano preparate a entrare intelligentemente e competentemente nelle relazioni dialogali con altre tradizioni religiose come una parte essenziale della missione della Chiesa” (Helen Graham delle suore di san Domenico di Maryknoll, per oltre 35 anni docente nelle Filippine).

“Fare teologia, per me è cercare la verità – dichiara sr. Diane Jagdeo, docente di teologia sistematica al seminario regionale di Trinidad. E la mia ricerca della verità è come quella della donna del Vangelo che, avendo perso la sua dracma, diligentemente la cerca fin quando non la trova… Oggi, se rifletto sulla mia vocazione di teologa, mi affliggono ancora le paure e le speranze e la profonda angoscia del nostro popolo caraibico… Sanare la terra e sanare la vita (il benessere dell’ecologia e degli uomini) mi sembra che siano all’ordine del giorno teologico per noi nei Caraibi”.

UOMINI CONSACRATI MA NON AUTOSUFFICIENTI

Lo studio della teologia è vitale per la formazione di una sintesi interiore che è necessaria per la maturità umana e spirituale, non solo delle donne ma anche degli uomini. Oggi infatti si entra nella vita religiosa con un bagaglio nella mente e nell’immaginazione che deve essere organizzato internamente, secondo i principi del Vangelo .Padre Wojciech Giertych, membro della provincia polacca e docente all’università Angelicum di Roma, sottolinea come lo sfondo del pensiero dei nuovi consacrati debba essere “riorganizzato perché la fede e la vocazione non siano basate sulle incertezze affettive. Bisogna che la fede entri nella vita dell’intelletto e nella sfera della libera scelta”.

Lo studio dunque è oggi prioritario in vista della identità umana e cristiana, oltre che in vista dell’apostolato. Così la teologia al maschile deve aprirsi alla teologia delle donne: “L’approccio femminile è meno razionale, più intellettuale, più descrittivo e poetico… Se manchiamo di approfittare dell’approccio femminile, la nostra teologia diventa rigida e asciutta, diventa troppo concettuale e non invita al mistero”.

”Il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dai laici, certamente cambierà il volto della teologia. Certamente essi ci presenteranno un diverso volto di Dio e un diverso volto della fede. Pensare Dio e la fede a partire dalla secolarità, dal matrimonio, dal lavoro manuale, dall’economia, dalla politica, a partire da … tutti gli angoli della vita terrena: questa sarà una buona notizia per la riflessione teologica. E il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dalle donne, è certo che cambierà il volto della teologia” (p. Felicisimo Martinez, docente in Spagna e Venezuela).

Una teologia così compresa, meno clericale e androcentrica, può essere molto utile alla questione lancinante di sapere come presentare la parola di Dio oggi in modo che sia davvero una buona novella e non dottrina fondamentalista. “Si tratterà – afferma p. Roger Houngbedjii del Benin – di elaborare una teologia che miri da una parte a far aderire i nostri contemporanei in modo radicale al Cristo, e dall’altra a renderli edotti dei loro diritti e doveri, delle cause profonde delle situazioni di ingiustizia e di povertà di cui sono vittime, in modo da condurli a essere responsabili del loro futuro. È in questa prospettiva che io credo di comprendere l’impegno del teologo domenicano nel contesto attuale dell’Africa”. Esiste dunque un legame intrinseco e dinamico tra ricerca teologica, vita di preghiera e solidarietà con i poveri, primi destinatari della buona novella.

LA MISERICORDIA DELLA VERITÀ

Lo studio insomma non è fine a se stesso: è il mezzo per aiutare il prossimo nella sua ricerca di salvezza e nell’approfondimento della propria relazione con Dio. Non si tratta di creare intellettuali, ma di formare evangelizzatori. In questo modo si apre la strada a una migliore inculturazione della fede, acquisendo uno stile di integrazione e flessibilità nell’apertura a popoli diversi dal proprio.

Si confessa sr. Antonietta Potente (che attualmente vive in una comunità di campesinos in Bolivia): “Sento che il sogno di un Dio vicino alla vita soggiace come qualcosa di nascosto, sempre più nascosto; sono sempre di meno le persone che hanno l’ardire di andare a Dio partendo dalla vita e soprattutto dalla vita più inedita. Sento che c’è tanta paura, che alcuni continuano a far teologia fra sicuri dogmatismi e superficiali diplomazie, quasi a cercare di sopravvivere fra le mode post-moderne le antiche tradizioni.

C’è chi continua a confondere la sete con il relativismo e pertanto continua a lanciare anatemi proibendo la novità dei versi del lavoro teologico. L’ordine a volte si dimentica delle sue origini … ho la sensazione che si studi poco, soprattutto tra i frati, affascinati dai facili successi o compensatori proselitismi pastorali e, noi donne, troppo chiuse in modelli di vita religiosa femminile a volte compensatori, a volte frustranti”.

Studiare teologia viva significa metterla al servizio della giustizia, poiché “la lotta per un mondo più giusto è inseparabile dalla verità. In special modo, tutti i teologi, se vogliono che il loro lavoro abbia davvero qualche valore, devono mostrarsi sensibili alla nostra povertà di significato, alla profonda sete di tutti gli esseri umani per il significato dell’esistenza, senza il quale non c’è speranza” (p. Timoty Radcliffe). Il nostro mondo globale è ferito da crepe e fratture, dalla marginalizzazione dei popoli più poveri: la sete di riconciliazione può essere lenita dalla presenza di teologi ed evangelizzatori sulle linee di frattura, invece che in aule asettiche.

La teologia è funzione ecclesiale che si compromette con la storia, che cerca di costruire un linguaggio su Dio con un popolo che vive la fede, nel contesto storico della sofferenza degli innocenti. Il noto teologo della liberazione, peruviano, Gustavo Gutiérrez (docente a Roma e a South Bend negli Stati Uniti) non esita a dire, sintetizzando il pensiero di molti: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa e al popolo a cui appartengo. L’amore continua a essere vivo, però si approfondisce e cambia la maniera di esprimerlo.

Cf. il volume dal titolo Superare le distanze: le figlie e i figli di Domenico fanno teologia, a cura di Suore domenicane internazionali, Pontificia università san Tommaso e Commissione internazionale giustizia e pace dell’ordine dei predicatori (Angelicum University Press di Roma e Edizioni Domenicane Italiane di Napoli). Trentasette teologhe/gi domenicane/i rispondono sotto forma di lettera a una griglia di domande sul senso e sullo stile del fare teologia oggi.

Il coraggio di fare autocritica
di Samir Khalil Samir

Il terrorismo nel nome dell'islam suscita ovunque nel mondo forti reazioni. L'immagine dell'islam assume una dimensione negativa. I benpensanti rispondono: «Questo non è il vero islam. L'islam significa pace (salam), l'islam è tolleranza». Eppure, questo terrorismo è spesso giustificato dalle fatwa di imam famosi, come Yusuf al-Qaradawi. Dopo l'attacco terroristico di Beslan sono state varie le reazioni nella stampa araba di giornalisti musulmani che osano fare autocritica. Abd Al-Rahman Al-Rashed, già direttore del quotidiano saudita pubblicato a Londra Al-Sharq Al-Awsat e attuale direttore della televisione al-Arabiyya, ha scritto il 4 settembre un articolo dal titolo emblematico: «La triste verità è che tutti i terroristi sono musulmani». Ecco qualche passaggio: «Ovviamente, non tutti i musulmani sono dei terroristi, ma purtroppo la maggioranza dei
terroristi nel mondo sono musulmani. I rapitori dei bambini dell'Ossezia sono musulmani, e gli assassini degli operai e cuochi nepalesi sono musulmani. Chi ha violentato e ucciso in Darfur sono musulmani, come le loro vittime. Chi ha fatto esplodere le case di residenza a Riyad e ad al-Khobar sono musulmani, e chi ha rapito i due giornalisti francesi sono musulmani. Le due donne che hanno fatto esplodere i due aerei la settimana scorsa sono musulmane, e Bin Laden ed al-Huti lo sono anche. La stragrande maggioranza di chi ha compiuto le operazioni suicide nei bus, nelle scuole e nelle case attraverso tutto il mondo, in questi ultimi dieci anni sono ugualmente musulmani» E ancora: «Che terribile record! Non ci rivela qualcosa su noi stessi, sulla nostra società e la nostra cultura? (...) Anziché giustificare questi atti, ci tocca prima di tutto riconoscere il fatto, piuttosto che scrivere articoli e fare dichiarazioni eloquenti per discolparsi. (...). Potremo ristabilire la nostra fama solo quando avremo ammesso il fatto, ovvio e vergognoso, che la maggioranza degli atti terroristici nel mondo sono compiuti da musulmani.
Dobbiamo prendere coscienza che la condizione necessaria per correggere la situazione dei nostri giovani che compiono queste operazioni vergognose è di curare la mente dei nostri sceicchi, che sono diventati predicatori rivoluzionari. Mandano i figli degli altri a morire mentre i propri figli sono nelle scuole europee». Khaled Hamad Al-Suleiman sul quotidiano ufficiale saudita 'Uqaz ha pubblicato un intervento intitolato: «Macellai nel nome di Dio». Inequivocabile il contenuto: «I propagandisti del jihad sono riusciti in pochi anni a deformare l'immagine dell'islam, laddove i nemici dell'islam non erano riusciti in centinaia di anni. Hanno ridotto l'islam ad essere associato a decapitazioni, tagli di gola, rapimenti di civili innocenti e kamikaze. L'immagine dei musulmani che hanno dato al mondo è quella di barbari e selvaggi, giusto capaci di massacrare gente. (...). È tempo che i musulmani siano i primi ad impegnarsi contro chi prende l'islam in ostaggio. Questo è oggi il vero jihad, questo è nostro dovere verso la religione dell'Unicità, in quanto musulmani».Sul quotidiano Al-Siyassa del Kuwait, Faisal Al-Qina'i scrive: «È triste leggere e sentire quelli che dovrebbero essere dei religiosi musulmani, come Yusuf al-Qaradàwi e altri, anziché difendere il vero islam, incoraggiare questi atti crudeli e autorizzare la decapitazione, l'uccisione e la presa di ostaggi». Suleiman al-Hatlan, sull'altro quotidiano saudita ufficiale, al-Watan, si domanda: «Se gli eroi della violenza e del terrorismo islamico non rappresentano il vero islam, chi dunque lo rappresenta? La triste verità è che gli atti di violenza e di barbarie che si moltiplicano oggi non sono altri che la conseguenza naturale di generazioni di musulmani ingannati e indottrinati con dichiarazioni di ostilità e di odio verso gli altri negli ultimi decenni, cosa che ha aumentato il ritardo e l'ignoranza del mondo musulmano. Tutte le nazioni del mondo hanno conosciuto l'oppressione e la guerra, ma tutte hanno difeso i loro diritti con la ragione e la scienza (...), mentre nel nostro mondo musulmano dominano le voci dell'oscurantismo e dell'ignoranza». All'interno del mondo arabo musulmano troppo spesso si accusa l'Occidente di essere la causa indiretta di tutti i guai, evitando così di fare l'autocritica, unica via di salvezza. Queste prese di posizione sono un inizio, un timido segno che qualcosa può forse cambiare.(da Mondo e Missione, novembre 2004, p. 14)

Le Chiese Ortodosse e l'ecumenismo
(dalla presentazione di Enzo Bianchi)

La fede e la storia delle Chiese d’Oriente, la visione ortodossa della liturgia, teologia, vita monastica e spiritualità, iconografia, religione popolare, missione, politica e scisma tra oriente e occidente nel libro di John Binns, apprezzato studioso anglicano.

E’ infatti uscito recentemente un libro interessante: “Le Chiese Ortodosse”, opera di John Binns, parroco anglicano di una Chiesa dell’Università di Cambridge.

Un libro che aiuta il lettore occidentale a conoscere l’oriente cristiano.

Di seguito alcuni stralci della presentazione del priore della Comunità di Bose.

Questo libro offre uno strumento prezioso per comprendere la vita di fede e la storia delle Chiese Ortodosse fino ai nostri giorni: un percorso di conoscenza sulle Chiese cristiane d’Oriente, che introduce in realtà al loro modo di sentire e conoscere il mistero di Cristo. Il lettore ritroverà così nella filigrana di queste pagine quella “spiritualità tornata alle fonti, cioè rientrata e riorientata sul mistero centrale Pasquale e parusiaco” che già Evdokimov riteneva il solo “ritorno efficace per la grande causa dell’unità cristiana”…

La grande intuizione dell’Oriente cristiano, espressa dall’adagio di Atanasio “ Dio si è fatto un uomo perché l’uomo divenga Dio”, è anche la mappa ideale che orienta gli itinerari qui suggeriti. Dio si è fatto un uomo, e continua a venire incontro all’uomo nella liturgia celebrata dalla Chiesa, una liturgia che presuppone e mostra la fede, trovando la sua verità nel sacramento del fratello. È un Dio che assume un umano, secondo l’insegnamento di Gregorio di Nazianzo, il “Teologo”, ed è perciò raffigurabile nella forma umana assunta dal Verbo: la bellezza del volto di Cristo narra nell’icona la trasfigurazione di tutto il creato. Ma “solo lo Spirito Santo può farci entrare nelle realismo del mistero“, rendendo la resurrezione di Cristo un evento operante nella nostra vita: è questa la théosis, la divinizzazione dell’uomo, che in Oriente segna radicalmente il monachesimo, ma al tempo stesso permea tutti gli aspetti della pietà e della missione della Chiesa. Siamo qui al cuore di quel “ricchissimo patrimonio liturgico e spirituale degli orientali…. di somma importanza per la fedele custodia dell’integra tradizione cristiana” che il Concilio Vaticano II invitava a riscoprire, riconoscendo le Chiese d’Oriente quali autentiche e Chiese sorelle della Chiesa di Roma, con la quale condividono una sostanziale comunione nella fede, nella prassi sacramentale e nella successione apostolica…..

Noi dobbiamo essere grati a all’Oriente Ortodosso, che ha saputo custodire con più lucidità e forza dell’Occidente alcuni elementi essenziali della vita cristiana: l’unità dell’iniziazione cristiana ( battesimo-cresima-eucaristia) anche nella prassi sacramentale; l’unità plurale del monachesimo, quale presenza di semplici cristiani nella Chiesa che tengono desta l’attesa della venuta del signore; la sinodalità, come cammino fatto insieme con ruoli e funzioni diversi, nella comune obbedienza a una parola rivelata, l’evangelo; infine, quello che con le parole delle metropolita del Monte Libano, Georges Khodr, potremmo definire “il mistero della diversità, della pluralità e dell’autentica dimensione di Chiesa locale, che continuano a manifestarsi nelle mondo ortodosso nonostante tutte le sue debolezze”.

Credo però che più in profondità, per la Chiesa cattolica, l’importanza dell’esistenza delle Chiese ortodosse sia l’importanza dell’esistenza dell’altro. Senza la distanza dell’alterità non c’è spazio per l’unità nell’amore, ma solo per l’assorbimento, per la fusione. Solo tra diversi la comunione fraterna ha senso, ha sapore, manifesta la libertà dei figli di Dio suscitata dallo Spirito Santo, che custodisce la diversità senza discriminazioni, crea l’unità senza uniformare.

Quello che era rimasto offuscato da un millennio di estraniamento reciproco, e che il cammino ecumenico ha reso manifesto, è che l’unità presuppone la pluralità: essa non è mai senza l’altro, mai senza l’altro fratello, mai senza l’altra Chiesa, mai senza il riconoscimento dello statuto teologico dell’altro… si tratta di imparare che il bene grande dell’incontro e della comunione può richiedere la rinuncia a ricchezze non essenziali, l’a scesi di discernere e scegliere sempre l’essenziale.

La riscoperta di ciò che unisce è stato anche il metodo che ha orientato il dialogo teologico ufficiale tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse e dopo il Concilio, un dialogo il cui fine resta quello del ristabilimento della piena comunione. Se con le Chiese ortodosse calcedonesi si è registrata un’importante e non ininterrotta convergenza verso un consenso cristologico che supera la divisione intervenuta al Concilio di Calcedonia (451), il dialogo tra cattolici e ortodossi calcedonesi, dopo aver prodotto fondamentali documenti sul mistero della Chiesa e dell’Eucaristia alla luce delle mistero della Santa Trinità (Monaco di Baviera 1982), su Fede sacramenti e unità della Chiesa (Bari 1987) e sul Sacramento dell’ordine nella struttura sacramentale della Chiesa (Valamo 1988), s’è interrotto in modo doloroso all’inizio degli anni ’90. La comune e riscoperta della Chiesa come mistero di comunione, di “koinonia insieme ministeriale e pneumatica”, in cui trova il giusto equilibrio la dimensione trinitaria, senza scissione tra Spirito e Figlio, avrebbe dovuto aprire la riflessione sul nodo ecumenico essenziale: il rapporto tra comunione di Chiese e il ministero del vescovo di Roma. Che questo sia il punto decisivo, senza il quale non vi sarà possibilità di comunione vera e visibile nella fede, era convinzione profonda di Giovanni Paolo II, che nell’enciclica Ut unum sint ha invitato le altre Chiese cristiane a una ricerca condivisa sul modo di esercizio del papato; lo stesso Benedetto XVI, all’indomani della sua elezione, ha confermato in questo senso il proprio “impegno primario” per la “ ricostituzione della piena e visibile unità di tutti seguaci di Cristo”. Ma la sessione in programma a Monaco nel 1990, conseguenze ecclesiologiche e canoniche della struttura sacramentale della Chiesa: conciliarità e autorità nella Chiesa, non si è mai tenuta.

Il crollo del comunismo e la ritrovata libertà delle Chiese orientali in comunione con Roma ha riaperto una situazione conflittuale con le Chiese ortodosse (in Ucraina più di mille edifici di culto sono stati sottratti alla Chiesa ortodossa e restituiti ai greco cattolici, cui appartenevano prima della liquidazione della loro Chiesa da parte di Stalin nel 1946), e un altro calendario si è imposto ai lavori della commissione mista (…).

Gli ultimi capitoli del libro di Binns ci aiutano a comprendere qualcosa del malessere, della sofferenza non rappacificata che spingono le Chiese ortodosse –ormai presenza visibile e autorevole nelle diverse società - a mostrarsi sempre meno disponibili all’impegno ecumenico. Uscite da settant’anni di cattività comunista, o ancora minoritarie in paesi a maggioranza islamica, queste Chiese non sono a noi “contemporanee”, vivono una stagione che non è la nostra occidentale: con grande ritardo, spesso ancora prive di mezzi adeguati sul piano teologico, pastorale, missionario, devono affrontare la modernità, la quale pone seri problemi, solleva interrogativi, rivisita con la sua critica radicale tutto ciò che appartiene al vecchio mondo. Anche per questo risulta loro difficile scorgere nel progetto di evangelizzazione delle Chiese di occidente nei loro territori un aiuto e un insegnamento.

Il IV Vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici:

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti


Trentottesima parte

La precarietà

Lo spirito della Società, come scaturisce dal Carisma, è uno spirito di modestia; questo, secondo il P. Fondatore, è un carattere distintivo del Maristi dagli altri religiosi:

“Cerchiamo di adottare un genere di vita modesto che dia il meno possibile ombra a quelli tra i quali viviamo e che sia conforme e alla nostra vocazione e allo spirito della S. Vergine di cui noi portiamo il nome” (Parole di un Fondatore, Doc. 146, n. 4).

Questa caratteristica permette alla Società di fare ciò che gli altri istituti non possono (Ibid., Doc. 1, n. 2, p. 35; Doc. 19, n. 1), per la completa disponibilità a quei servizi della Chiesa che danno meno soddisfazione e minore gloria. Del resto, la Società è nata nell’umiltà e nel “deserto” dell’Hermitage e di Belley (Ibid., Doc. 85, n. 1); i suoi membri si considerano “tamquam extorres et peregrinos super terram” (Constit., p. 50, p. 19): due temi biblici – il deserto e l’esodo – tra i più ricchi di significato per il popolo di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza ( Cfr. R. CECOLIN, L’esodo, via di Dio verso la libertà, in AA.VV., Invito alla Bibbia, Roma 1974, pp. 45-83). La convinzione del P. Colin era l’efficienza della vita religiosa della Società e della sua attività nella Chiesa dipendesse dalla totale sfiducia nei mezzi umani, nel favore dei potenti (Constit., cap. V, art. IV, n. 214, p. 74), nelle possibilità economiche (Ibid., cap. VII, art. I, n. 276, p. 94) e, in generale, nelle proprie forze e capacità.

Al Marista vengono a mancare le sicurezze e il sostegno di tutto ciò che conta nel mondo, perché nella totale precarietà delle realtà terrene si appoggia unicamente alla Provvidenza del Padre e alla grazia.

Le pennellate più efficaci su questo tema sono tracciate dal P. Colin nel contesto della presenza missionaria del Marista nella Chiesa: “Fuggano la gloria di sé…scelgano i ministeri che meno brillano agli occhi degli uomini..” (Ibid., cap. VI, art. I, n. 262, p. 89).

La coscienza della precarietà delle realtà terrene fa volgere lo sguardo verso il Padre celeste, il quale, a sua volta, lo rivolge con benignità verso i suoi figli che confidano colo in Lui.

Il dialogo ebraico-cristiano.
Il cammino fatto, i problemi aperti
di Innocenzo Gargano

Premessa

Si potrebbe parlare di un simile argomento riducendo tutto agli ultimi sessant’anni circa e leggendo insieme i documenti ufficiali a cominciare dai famosi Dieci punti di Seelisberg del 1947 per proseguire con la promulgazione della Dichiarazione del Concilio Vaticano II intitolata “Nostra Aetate” numero 4 e coi documenti ufficiali prodotti dal Consilio Ecumenico delle Chiese, dalla Santa Sede e dalle singole Chiese locali negli anni successivi al Concilio.

Si potrebbe anche richiamare l’attenzione su eventi importanti e a forte impatto simbolico come la visita del Papa Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma il 13 aprile del 1986, del riconoscimento diplomatico dello Stato di Israele da parte della Santa Sede, dei pellegrinaggi del Papa ad Aushwitz e al Muro occidentale del Tempio per finire, riferendoci in particolare all’Italia, con la decisione della CEI di celebrare ogni anno la Giornata dell’Ebraismo a partire dal 17 Gennaio del 1989.

Si dovrebbero aggiungere poi le numerose iniziative internazionali e locali ideate e celebrate dalle Amicizie ebraico-cristiane ormai conosciutissime a livello internazionale.

Si potrebbe perfino parlare, fra le altre iniziative, dei nostri venticinquennali Colloqui di Camaldoli e di infinite altre iniziative analoghe… Ma tutto questo non sarebbe affatto sufficiente a dare un’idea appropriata del cammino percorso e dei grossi problemi ancora aperti nel dialogo fra ebrei e cristiani e soprattutto rischierebbe di imprigionare all’interno di testi o di iniziative – sia pure lodevolissime e necessarie – lo spirito che ha soffiato sul mondo, e sull’Europa in particolare, dopo la tremenda esperienza della Seconda Guerra Mondiale e la tragedia che hanno rappresentato per l’umanità le ideologie omicide che hanno prevalso sui popoli nel XX secolo.

Penso perciò che il modo migliore per dare ragione della straordinaria librazione nuova dello Spirito sulle acque caotiche della storia vissuta specialmente dall’Europa durante il secolo breve, possa essere quello di riportare alla memoria radici molto lontane e da lì partire per individuare piccoli passi avanti e grandi utopie che stanno delineandosi davanti ai nostri occhi in questo straordinario compito del dialogo ebraico-cristiano.

La teologia della «sostituzione»

La rottura più grave nei rapporti fra ebrei e cristiani fu prodotta nella storia in concomitanza dell’assedio prima e della distruzione poi di Gerusalemme e del suo Tempio nel ’70 d. C. quando i discepoli di Gesù, ebrei cristiani, non ebbero la sensibilità patriottica che avevano mostrato altre componenti del popolo ebraico e furono di conseguenza sentiti come traditori dal resto del popolo ebraico. Giudizio che si accentuò, divenendo definitivo, durante il periodo che va dal ’70 al 135 d. C., anno in cui l’imperatore Adriano fece tabula rasa di Gerusalemme e rifondò la città chiamandola Aelia Capitolina.

Dopo il 135, e forse anche a causa di una lettura particolare di quegli avvenimenti, Melitone di Sardi, un vescovo cristiano dell’Asia Minore, pretese di concludere, ma non fu il solo, che con la venuta di Gesù e la nascita della Chiesa fosse finita l’antica alleanza e perciò tutto ciò che si leggeva nei testi dell’Antico Testamento a proposito di Israele dovesse essere ritenuto alla stregua del progetto di un architetto, progetto svuotato di senso e d’importanza dalla sua stessa realizzazione. Fu così del tutto ovvio dichiarare che la Chiesa – vero Israele spirituale - sostituiva ormai definitivamente l’Israele carnale.

Dio aveva deciso di sostituire nella sua predilezione Israele con la Chiesa e questo in modo definitivo fino alla fine del mondo.

Partendo da questo tipo di presupposto si sviluppò così una teologia pressoché comune a tutti i Padri della Chiesa, chiamata in seguito “teologia della sostituzione”.

Gli ebrei nella società cristiana

Fino a quando non intervenne il potere politico la polemica nei confronti degli ebrei, che risultava dal convincimento che abbiamo appena sintetizzato, rimase interna al mondo religioso sia ebraico che cristiano, ma quando, con Costantino imperatore, la parte pagano-cristiana all’interno della Chiesa e il cristianesimo all’interno del Mediterraneo presero il sopravvento, cominciò a non esserci più posto per gli ebrei nella società, la quale adesso accettava di tollerarli soltanto come ombra destinata a porre in rilievo la verità, parte luminosa della storia, identificata simpliciter con la cristianità; ma niente più.

A mano a mano che ci si avvicinava al Medioevo e che crebbe la convinzione, già chiarissima con Giustiniano, che l’Impero cristiano anticipa il regno di Dio sulla terra – nonostante le contestazioni di alcuni movimenti interni alla stessa Chiesa – gli ebrei diventavano l’ostacolo insormontabile che ritardava il ritorno del Signore e la piena realizzazione della storia. Da cui due alternative possibili: o costringere gli ebrei a convertirsi oppure cancellarne la presenza giuridica, e qualche volta anche fisica, entro i confini dell’Impero. Così si pensava praticamente in tutta l’oikoumene cristiana d’Oriente e d’Occidente durante i secoli della cristianità medievale.

La tragedia dei marrani e l’inquisizione

Con i Carolingi, e ancor più con le Crociate, la convinzione dell’illegittimità della presenza ebraica divenne dominante. Gli ebrei intanto si sentivano dilaniati dentro. Un loro maestro, il famosissimo Maimonide (morto nel 1204) tentò una via d’uscita dall’angoscia sostenendo che fosse legittimo apparire convertiti restando in realtà ebrei.

Maimonide ragionava così: se per salvare la vita, che è il dono più prezioso perché permette all’uomo di osservare i comandamenti di Dio, si è costretti ad apparire cristiani, che succeda così e cioè che si appaia cristiani pur di rimanere ebrei nella propria interiorità.

Un simile ragionamento, divenuto presto assai diffuso, provocò reazioni virulente da parte dei cristiani che non sapevano più se fidarsi o meno dei cosiddetti “conversi” o convertiti. Gli ebrei, definiti ‘marrani’, sinonimo di ‘maiali’ nella lingua spagnola, divennero così agli occhi dei cristiani gli ambigui e i falsi per antonomasia da scovare e perseguire con tutti i mezzi possibili, compresa la tortura. Le chiese non disdegnarono in questo caso neppure le strade più assurde che comprendevano la delazione, gli autodafè e i roghi pubblici esemplari.

Nacque l’Inquisizione di tristissima memoria.

Gli ebrei venivano considerati adesso non solo causa del mancato ritorno glorioso del Signore, ma anche fonti e artefici oscuri di tutte le malattie, le pestilenze e i cataclismi naturali. Se non andava bene un raccolto o se avveniva un terremoto, o si diffondeva la peste, il capro espiatorio sul quale addossare tutte le colpe era puntualmente l’ebreo. Dovunque succedesse qualcuna di queste calamità si chiamavano in causa gli ebrei. Si pensava che uccidendo l’ebreo si potesse placare la divinità adirata e venir fuori da tutti i mali che attraversavano il mondo.

Una mentalità che non si arrestò, anzi si diffuse ancora di più con l’affermarsi delle identità nazionali. In alcuni casi si ripeté l’antica esperienza che aveva causato tanti lutti agli ebrei al tempo dell’ellenismo e del periodo dell’impero romano. Si divenne rigidamente intolleranti per difendere non solo l’identità politica e religiosa della nazione, ma anche la purezza del sangue. Si divenne insomma razzisti e la logica di tutto questo comportò la soppressione fisica pura e semplice o l’espulsione dei diversi e della loro diversità oltre i confini delle nazioni cristiane.

Fu tremendamente tragica soprattutto l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492.

Le tragedie dell’età moderna

L’età moderna, che siamo stati abituati a far iniziare da questo anno in cui venne scoperta l’America, si inaugurò di fatto con l’ultima e più drammatica delle espulsioni, quella che vietava agli ebrei di risiedere non solo nella Spagna, ma anche in tutti gli altri territori allora dominati dagli spagnoli, comprese la Sicilia e l’Italia meridionale. Gli ebrei furono costretti di nuovo a spargersi ai quattro venti, ma soprattutto nell’Europa orientale e meridionale e nei paesi arabi.

In realtà proprio l’età moderna, di cui l’occidente si sente così fiero, fece enorme fatica ad elaborare tutte le diversità della società in cui gradualmente si affermava e chi ne pagò più pesantemente le spese furono proprio gli ebrei in compagnia di tutti coloro ai quali la società di allora li assimilava.

I due secoli XVI e XVII furono assai difficili per tutti coloro che si ribellavano alla decisione dei potenti di sottomettersi col corpo e con lo spirito al potere regnante secondo il principio del “cuius regio eius et religio”.

L’anno 1600 assistette sgomento al rogo di Giordano Bruno in Campo dei fiori a Roma, complice San Roberto Bellarmino, dottore della Chiesa e gesuita, il quale sentì l’assurdo di una simile condanna, ma non riuscì a trovare le coordinate giuridiche e teologiche adeguate per impedirne la pena capitale. E se tutto questo succedeva nei confronti di Giordano Bruno, frate domenicano, cosa poteva succedere per un ebreo che oggettivamente si trovava in prima fila fra coloro che contestavano i difensori ad oltranza dello status quo?

Quei secoli furono duecento anni spaventosi che però sfociarono, nel XVIII secolo nella nascita, sviluppo e affermazione dell’illuminismo, che ebbe il suo culmine con la Rivoluzione francese del 1789, quando si aprirono i ghetti e gli ebrei ritornarono finalmente a respirare nella nostra Europa.

Infatti dopo aver subito l’obbligo di mettersi un segno distintivo sul petto (la famosa stella gialla) per permettere ai cristiani di sapere a prima vista con chi avevano a che fare, si erano creati, verso la fine del Medioevo, anche i ghetti, cioè quartieri chiusi da mura con tanto di porta e chiavistelli, perché gli ebrei non uscissero, complice il buio della notte, a contaminare i cristiani.

I cristiani più fervorosi, non contenti di questo, percorrevano tutte le strade possibili per convertire gli ebrei. Alcuni di loro in Quaresima spingevano, o meglio costringevano, gli ebrei a sorbirsi i quaresimali del predicatore di turno e, per essere sicuri di fare proprio tutto perché gli ebrei li ascoltassero davvero, si preoccupavano di inviare infermieri specializzati alle porte delle chiese, per un lavaggio appropriato delle orecchie ebraiche con acqua calda atta a eliminare eventuali tamponi auricolari dei malcapitati.

Tutto questo e altro ancora, è stato vissuto nel rapporto fra ebrei e cristiani in Europa fino alla Rivoluzione francese. Né le cose andarono immediatamente meglio dopo la sconfitta di Napoleone e la restaurazione della prima metà dell’Ottocento. Fra le cose da restaurare ci fu infatti in qualche caso anche il ristabilimento dei confini dei ghetti e sappiamo che soltanto i Piemontesi smantellarono, con la presa di Roma del 1870, lo storico ghetto degli ebrei romani.

Dai Pogrom alla Shoà-Olocausto

Quando nel lungo secolo XIX, che alcuni fanno terminare con la prima guerra mondiale, ai pregiudizi “religiosi” si aggiunsero anche i pregiudizi sociali, economici e politici, si arrivò ai famigerati Pogrom dell’Europa dell’Est. La tragedia della Shoà, spesso chiamata Olocausto, in cui più di 6 milioni di ebrei furono ridotti in cenere, insieme con milioni di altri esseri umani, a loro volta ritenuti “diversi” come era “diverso” l’ebreo, non nacque dunque all’improvviso.

Riflettiamo sopra questi fatti, perché fanno parte integrante dei rapporti fra ebrei e cristiani. L’accoglienza dell’ebreo è infatti una sorta di archetipo. Accogliendo il “diverso”, identificato con l’ebreo, ci si educa ad accogliere anche tutti gli altri “diversi” presenti nell’umanità.

Non per niente i nazisti cominciarono con gli ebrei e poi finirono col fare fuori tutti i “diversi”: gli zingari, gli omosessuali, i matti, i dissenzienti politici e alla fine i polacchi, tutti considerati ugualmente carne da macello, perché diversi come erano diversi gli ebrei.

Sono cose terribili ma è indispensabile partire da qui per capire il capovolgimento di pensiero e prassi dell’atteggiamento successivo dei cristiani nei confronti degli stessi ebrei. I nostri amici ebrei contemporanei hanno tutti indistintamente dei parenti finiti nelle camere a gas: chi i genitori, chi i nonni, chi gli zii, chi i fratelli, chi le sorelle chi cugini e cugine e questo ha costretto i cristiani a mettersi di fatto nella pelle degli interlocutori per poterli capire in qualche modo dall’interno.

Un anno andai a tenere una conferenza a Napoli, in un contesto di amicizia ebraico – cristiana. Avevo, appuntata sulla giacca, una crocetta dorata da prete. Alla fine della conferenza una donna mi disse: “Padre, guardi, le devo confessare una cosa: per la prima volta ho potuto guardare una croce e non sentirmi dentro ribollire il sangue nelle vene per le violenze che in nome della croce sono state fatte a me e ai miei familiari”.

Terribile.

Noi veneriamo la croce perché segno dell'umiliazione di Cristo: per loro invece la stessa croce è il segno della loro personale umiliazione sopportata per secoli.

Quella famosa frase antigiudaica presente in Matteo: “che il suo sangue ricada su di noi e sopra i nostri figli” pesa ancora moltissimo sulle spalle ebraiche.

La tragedia della Shoà è stata talmente assurda, che non ci sono parole adatte a raccontarla.

Serve solo il silenzio.

L’impotenza di Dio nell’esperienza ebraica

Sono stato a Dachau, sono stato pellegrino ad Auschwitz. Ho visto cose assolutamente irraccontabili.

Soltanto Dio, quando lo deciderà e vorrà, romperà questo assoluto silenzio su cose che superano ogni possibilità e immaginazione umana.

Ha scritto un ebreo – cristiano, famoso in Italia, si chiama Paolo De Benedetti: “Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione, e noi proseguiamo a credere in Lui e a sperare nella vita futura , perché vogliamo capire cosa ci risponderà. Non vogliamo discorsi, perché la prova che Dio ci ha chiesto è veramente grande, non ci sono parole utili finché non sia Lui, direttamente Lui, a parlare”.

Dopo Auschwitz è stato messo in discussione il concetto stesso di Dio: non è la stessa cosa parlare di Dio prima e dopo Auschwitz.

Hanz Jonas, filosofo ebreo, ha parlato di un Dio che ha dimostrato di non essere più onnipotente: “Basta con queste fandonie! Con la creazione dell’uomo, dotato della sua stessa libertà, Dio ha rinunciato una volta per tutte alla sua onnipotenza. Dio non è intervenuto ad Auschwitz semplicemente perché non era in condizione di farlo”.

Martin Buber preferì parlare di eclissi di Dio, per poi spiegare: “ L’eclissi della luce, non è estinzione della luce”. “Tu hai fatto di tutto per toglierci la fede, e io nonostante tutto proseguo a credere fermamente in Te”: recitava un frammento trovato ad Auschwitz.

Il grido di Gesù sulla croce non fu molto diverso.

Scriveva Luigi Pareyson: “l’effettiva scelta dell’uomo non è pre–veduta da Dio, ma veduta. Non ha nessun senso quel pre. È veduta quando l’uomo la fa ed è veduta nella sua temporalità. Non è dunque pre – scienza, ma è scienza contemporanea, è scienza temporale. Il sapere divino è contemporaneo all’agire umano, la libertà ha un potere iniziale di scelta di fronte a possibilità inaudite, impreviste e imprevedibili. C’è dunque una contemporaneità di scelte e di atti nella libertà.”

Auschwitz, in cui è stata consumata l’eclissi di Dio e umiliata definitivamente la sua onnipotenza, ha aperto gli occhi dell’umanità sull’incredibile e tragica valenza della libertà dell’uomo, rispettata scrupolosamente da Dio, per non venire meno alla parola data e compiuta nell’atto stesso della creazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza. Ne risulta una tremenda responsabilità.

Ad Auschwitz, il Dio infinitamente buono ha rivelato che la sua radicale impotenza nei confronti del male è reale. Una verità amara per l’umanità, perché ne assegna all’uomo e solo all’uomo, in ogni tempo, in ogni luogo, la responsabilità. (Devo queste riflessioni all’intuizione di un ex presidente dell’amicizia ebraico-cristiana di Torino: l’amico Ernesto Riva).

Le possibili strade di un dialogo

Qualcuno ha parlato di necessario passaggio dalla religione alla fede, aggiungendo comunque che quest’ultima perché resti tale, ha bisogno di essere attraversata continuamente dal pungolo salutare del dubbio e della paura. Non c’è mai evidenza. Se si pretende l’evidenza si finisce nell’integrismo e nell’integralismo che ne è la conseguenza logica e naturale.

Dialogare con gli ebrei ignorando Auschwitz significherebbe trastullarsi in gondola fra le onde del mare, nella vacua ricerca di un tranquillo vivere secundum naturam.

La Chiesa non può farlo più.

Ma fare memoria di Auschwitz significa non solo fare memoria di quel particolare passato dell’uomo concreto, storico, fatto di carne e sangue, del quale siamo impastati tutti, che costituisce l’anima stessa dell’eredità ebraica, ma significa anche ripensare alla radice il presupposto della lettura cristiana della storia ebraica a partire anzitutto dall’eliminazione di almeno due equivoci millenari: il creduto ripudio di Israele da parte di Dio e la terribile accusa di deicidio addossata agli ebrei dai cristiani.

L’eliminazione di questi equivoci, dovuta al coraggio del Padri del Concilio Vaticano II, in aggiunta a correzioni analoghe in campo protestante, ha prodotto un capovolgimento nei rapporti dei cristiani con l’insieme della storia e della cultura spirituale ebraiche che possiamo definire come passaggio dalla consuetudine al disprezzo alla consuetudine al rispetto.

Le conseguenze rivoluzionarie di tutto questo stanno evidenziandosi lentamente nel mondo cristiano e stanno producendo frutti non tanto a livello istituzionale o propriamente teorico, quanto soprattutto a livello pratico e di condivisione di vita e di proposte che possiamo definire impropriamente ‘pastorali’.

In sostanza le Chiese, considerate nella loro globalità di popolo dei credenti in Cristo, hanno finalmente dato inizio ad un confronto serio con la radice comune che condividono con gli ebrei riconosciuti solennemente dal Papa come rispettati, venerati, amati fratelli maggiori.

Con una conseguenza fondamentale: l’esclusione assoluta di ogni proselitismo cristiano nei confronti degli ebrei. I cristiani hanno cominciato cioè a rendersi conto che non sono gli ebrei a dover essere innestati nel tronco cristiano, ma i cristiani stessi a dover mostrare riconoscenza per essere stati innestati nel tronco ebraico.

La scena di Gesù che a dodici anni si pone rispettosamente in ascolto degli anziani nel Tempio comincia diventare l’icona per eccellenza dei cristiani che, sempre più numerosi, fanno altrettanto mettendosi sinceramente in ascolto della sapienza ebraica.

Ne sta risultando un’esplosione significativa di interesse per la tradizione, la cultura, la spiritualità ebraiche che si traduce in migliaia di pubblicazioni che, soprattutto a partire dagli anni ottanta del XX secolo, vengono proposte da case editrici piccole e grandi sul mercato europeo e americano.

Facciamo qualche esempio.

La scoperta di «godere con rendimento di grazie»

Il pio ebreo recita ad alta voce due volte al giorno alcuni versetti del libro del Deuteronomio e del libro dei Numeri, seguiti da un piccolo credo desunto ancora dal libro del Deuteronomio. Questo piccolo credo comincia così: “ Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto. Il Signore ci fece uscire dall’Egitto, ci condusse in questo luogo, ci dette questo Paese dove scorre latte e miele, per questo io presento le primizie dei frutti del suolo che Tu Signore mi hai dato. Il testo insiste: “deporrai davanti al Signore il tuo cesto e gioirai con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te”.

dei quali non hai voluto godere durante la tua vita terrena”. Ma questo godimento è vissuto con la piena consapevolezza della gratuità e nel ricordo costante di una peregrinatio continua verso la terra promessa, che appartiene misteriosamente alla identità ebraica originaria. L’ebreo è sedentario e simultaneamente in cammino, come un nomade, un pellegrino che sale costantemente sulla montagna di Gerusalemme la città della pace e del re dei re.

Per gli ebrei non fruire dei piaceri significa indispettirsi nei confronti del donatore. La vita è un piacere da godere comunque con rendimento di grazie, senza appropriarsene mai egoisticamente e condividendolo sempre in comunione con la propria comunità e con lo straniero.

La riscoperta dei fratelli ebrei contemporanei ci sta portando anche questo. Potremmo perfino dire che dialogare con gli ebrei significa lasciarsi in qualche modo ri evangelizzare.

Tantissimi aspetti della nostra vita quotidiana non ci vengono assolutamente infatti dall’insegnamento dell’ebreo Gesù, ma da altre parti.

L’importanza di «fare memoria»

Una delle cose più importanti, che la rivisitazione della tradizione ebraica ha comportato nella sensibilità cristiana, è stata l’importanza di fare memoria.

Questo punto è stato sempre fondamentale anche nella proposta cristiana, ma l’amicizia con gli ebrei permette di capire meglio in modo semplice e chiaro, perché il riferimento a fatti concreti, avvenuti nella storia e sperimentati da uomini intessuti di pelle ed ossa come noi, sia così determinante sia per l’identità degli uni che per quella degli altri.

Nonostante la tragicità e l’angoscia provocate dalle scelte libere dell’uomo, noi, ebrei e cristiani, facciamo memoria non soltanto della storia sofferta, ma anche della storia goduta, in questo nostro mondo, così com’è, con la sua bellezza, con le sue attrazioni, con la possibilità dei godimenti delle cose buone della vita, ma anche con la sua enigmaticità, le sue luci, le sue ombre, accettate insieme.

Uno dei testi più antichi del N.T., certamente testo fondante della Chiesa cristiana, la Prima Lettera ai Corinti (15,11) recita fra l’altro:“Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che si fece vedere a Cefa e quindi ai dodici, ultimo fra tutti si fece vedere da me, Paolo. Pertanto sia io che loro così predichiamo, così avete creduto.”

Ciò che accomuna la proposta ebraica e quella cristiana è dunque l’irrinunciabile riferimento a dei fatti precisi, concreti, accaduti nella storia e testimoniati da persone, che hanno visto e udito e perciò ne parlano, trasmettendo quello che anch’essi hanno ricevuto. Non si tratta mai semplicemente di idee o di proposte sapienziali o mistiche, o altre cose del genere, ma di fatti.

Il recupero della centralità dell’ascolto

In questo processo di trasmissione, che nel nostro linguaggio chiamiamo traditio o tradizione, gli ebrei ci insegnano che ha un’importanza determinante l’ascolto. La prima parola pronunciata all’inizio e al termine della giornata dall’ebreo osservante è infatti Shemà, “ascolta”.

Bisogna chiarire, dal momento che anche nel testo Paolino citato se ne fa espresso riferimento, che in ebraico fra i tanti modi con cui si indica la Bibbia ce n’è anche uno molto significativo per noi : è il termine Micrà, che di per sé non significa tanto scrittura, come spesso viene tradotto, quanto lettura e si tratta non tanto di lettura compiuta con gli occhi quanto di suono che percuote l’orecchio.

I maestri ebrei spiegano che Dio è una parola non da leggere ma da ascoltare: che la parola sia stata scritta è fondamentale, ma solo perché diventi parola da ascoltare. Tutto sommato il libro, in quanto libro scritto, è solo un passaggio strumentale, accidentale, utilizzato appunto come strumento che provoca la generazione dei suoni: quest’onda sonora che percuote l’orecchio, ma non si ferma all’orecchio. “ Fides ex auditu” avrebbe detto S. Paolo.

In questo senso si può e si deve dire che né gli ebrei, né i cristiani sono tecnicamente una religione del libro. Definizione quest’ultima coniata dagli Islamici che avevano ed hanno una concezione diversa del libro sacro. Nella Seconda Lettera ai Corinti (3,6) Paolo può permettersi persino di dire che Littera occidit” ( la lettera uccide), cioè che il testo scritto chiuso in se stesso, può diventare omicida. Affermazione estremamente grave: quanti omicidi sono stati compiuti per seguire la lettera!

Il Rabbino Copciovschi, grande amico dei Colloqui di Camaldoli e già rabbino capo di Milano, spiegava che “ascoltare” in ebraico non comporta solo il coinvolgimento dell’organo fisico dell’udito ma anche un’accoglienza del suono della voce nell’orecchio del cuore in cui ha sede quell’organo misterioso dell’essere umano che presiede ad ogni decisione.

La regola di S. Benedetto, testo fondamentale di formazione per tutti i monaci cristiani d’occidente, inizia anch’essa del resto con queste parole precise:” Obsculta, fili praecepta magistri et inclina aurem cordis tui, et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple”, che nella traduzione è reso così:“ ascolta, figlio, gli insegnamenti del maestro e apri l’orecchio del tuo cuore, accogli volentieri i consigli di un padre che ti vuole bene e mettili in pratica con fedeltà”.

Alcuni maestri ebrei hanno ripreso a introdurre i cristiani anche nei segreti nascosti del midrash. Conosciamo l’importanza data dagli ebrei alla viva voce di ogni testo scritto. Presso di loro qualche volta una interpretazione è data semplicemente dalla dizione: dal modo come leggi già interpreti.

Se il Targum è la traduzione orale immediata di un testo declamato, il midrash aggiunge alla declamazione un’interpretazione attualizzante, anch’essa orale, del non detto del testo scavato in profondità. Spesso questo si ottiene con la sottolineatura e il cambiamento di una interpunzione. Una stessa parola, se subisce un cambio di vocale, o la trasposizione di una lettera o di un accento, indica altre cose e poi altre e altre ancora, quasi all’infinito, rintracciabili con l’ausilio di testi paralleli, analogie, assonanze, allitterazioni o altro, che trasformano di fatto il testo in vera e propria opera d’arte.

La Scrittura viene così interpretata non solo applicando le leggi proprie della filologia, ma utilizzando anche la creatività che è propria di un interprete che possieda lo stesso spirito dell’agiografo che ha prodotto il testo ritenuto ispirato.

Tutte queste cose stanno riscoprendo i cristiani nella lettura della Bibbia compiuta all’interno di un’amicizia ritrovata coi fratelli ebrei con conseguenze del tutto inedite nella fruizione globale dell’Antico Testamento con spazi nuovi aperti anche alla comprensione dei Vangeli e degli altri scritti del Nuovo Testamento.

Il ritorno alla tradizione

È risaputo che nell’insegnamento dei saggi ebrei succeduti alla tragedia del ‘70, si distingueva fra Torah scritta e Torah orale, legge scritta e legge orale. L’una e l’altra fatte risalire in ultima analisi allo stesso Mosè.

Anche nella tradizione cristiana si parla di scrittura e tradizione. E così si va riscoprendo sempre più che, per gli uni e per gli altri, ebrei e cristiani, il punto di partenza, identico, è la tradizione orale. I discepoli hanno ascoltato Gesù e hanno trasmesso viva voce ciò che viva voce avevano ricevuto. Gli uni e gli altri solo in un secondo momento hanno sentito la necessità di mettere per iscritto ciò che avevano udito e sperimentato.

Nel II secolo, Papia, vescovo di Ierapolis, si permetteva di scrivere queste parole: “io preferisco la tradizione orale, ai testi scritti, che non hanno la stessa vitalità e che sono lettera morta”.

Un libro senza interpretazione è lettera morta.

Ireneo di Lione qualche decennio più tardi, avrebbe rivendicato a sua volta la necessità di interpretare oralmente i testi scritti canonicamente ricevuti dalla Chiesa in parallelo con la prassi presente nell’assemblea dei saggi ebrei.

Principio, questo, di concordia, diacronica e sincronica, comune sia agli ebrei che ai cristiani, che di fatto ha permesso e permette tuttora un’enorme molteplicità di proposte teologiche, giuridiche e comportamentali.

Il confronto continuo con Israele aveva contribuito anche in passato dunque a produrre un intreccio fecondo fra modo di essere credenti da parte degli ebrei e modo di essere credenti da parte dei cristiani.

Questo non significa che ci fosse consapevolezza piena dall’una e dall’altra parte. Forse facevano così solo perché convivevano e perché condividevano tante cose, derivate dal fatto che gli uni e gli altri si riferivano alla radice comune di un albero del quale si sentivano rami distinti, contrapposti, e tuttavia connaturali. Un grande mistero del quale adesso siamo divenuti finalmente più consapevoli da una parte e dall’altra.

Un amico ebreo mi confidò un giorno: “È come se noi ebrei e voi cristiani camminassimo tutti e due su un pavimento di specchio: una parte di noi vede le cose dal basso in alto e l’altra parte dall’alto verso il basso, ma il punto è comune: dove metto il piede io lo metti anche tu. E tuttavia io ho una postura e tu un’altra!”.

Sta di fatto che in ogni epoca storica è possibile osservare specularmente risposte teoriche e proposte pratiche di vita analoghe nel mondo ebraico e nel mondo cristiano fino ad oggi.

Faccio due esempi:

Il primo è quello di Origene, che interpretava la Bibbia con gli stessi metodi e nella stessa città di Cesarea di Palestina, contemporaneamente ai padri ebrei della Mishnà. Un professore universitario di Gerusalemme faceva notare qualche anno fa che nel commento al Cantico dei cantici Origene non fa altro che ripetere l’interpretazione dei rabbi, mettendo semplicemente al posto di Dio Gesù e al posto di Israele la Chiesa o l’anima credente.

Il secondo è questo: S. Francesco d’Assisi e il pellegrino russo proponevano gli stessi stili di vita dei kassidim ebrei loro contemporanei. Questo avveniva non perché fossero influenzati l’uno dall’altro in modo esplicito, ma perché l’humus al quale attingevano sia gli uni che gli altri era lo stesso. Vale la stessa cosa anche per noi.

Cammini aperti verso il futuro

Abbiamo parlato di strade analoghe, ma dobbiamo aggiungere anche i risvolti tragici della specularità. Ne propongo alcuni, anche questi a titolo di esempio, che servano a individuare meglio l’itinerario che ancora resta da fare.

Primo: il senso di superiorità che molto presto segnò e continua ancora oggi a segnare le due parti: l’una fondata sulla oggettiva superiorità numerica e di potere; l’altra sulla convinzione, nonostante tutto, di una indiscussa primogenitura e superiorità spirituale.

Secondo: il modo diverso di definire e di proporre la rispettiva identità. La tradizione rabbinica in cui si riconoscevano e si riconoscono gli ebrei accoglie all’interno di sé, addirittura elogiandole, conservandole e trasmettendole, le interpretazioni più varie e persino contraddittorie che scuole e singoli maestri propongono in piena libertà.

Né l’ortodossia né l’ortoprassi sono un problema. Due ebrei possono credere o non credere cose diverse e “osservare” la legge in modo diversissimo e ciò nonostante sentirsi pienamente ebrei.

Si è ebrei se si accettano queste quattro cose fondamentali: l’unico Dio, il popolo, la legge, la terra. Quest’ultima difesa in modo particolare perché la legge è stata data per venga messa in pratica nella terra promessa da Dio ad Abramo e alla sua discendenza. Se si elimina dunque la terra promessa si toglie una colonna portante dell’identità ebraica! Il che spiega molti punti della nostra incomprensione nei confronti dei fratelli ebrei.

Ma esiste anche un’altra preoccupazione: stabilire l’ebraicità o meno degli individui secondo carne e sangue è considerata da alcuni fratelli ebrei un problema estremamente importante.

Il criterio di “mater semper nota” è determinante per alcuni e relativa per altri. Ne consegue un’accentuata diversità per cui non sai mai fino a che punto l’interlocutore che hai davanti riscuota il consenso dei suoi correligionari oppure no.

I motivi per i quali alcuni sono così rigidi e altri no, si riducono spesso alla sfida della modernità e, oggi, della postmodernità, che comporta la temuta assimilazione con conseguente messa in pericolo della perdita di identità e conseguente abbassamento della guardia di fronte al proselitismo cristiano o ‘goin’, che si può far strada soprattutto attraverso i matrimoni misti.

I metodi dei nazisti, che quando occupavano un territorio, verificavano la ebraicità o meno delle famiglie fino alla settima generazione, hanno prodotto negli ebrei risultati contradditori.

Sta di fatto che oggi siamo posti di fronte a una molteplicità di modi di essere o sentirsi ebrei che va dai superortodossi di Meah Shaarim ai giudei messianici e ai giudeo-cristiani di origine protestante, ortodossa o cattolica, che pongono serie difficoltà al proseguimento di un dialogo sereno e rispettoso dall’una e dall’altra parte.

La tradizione cristiana, e cattolica in particolare, avendo eliminato qualunque riferimento a carne e sangue, per stabilire l’identità, non ha né strumenti culturali né sensibilità spirituale adeguati a tener conto di questi problemi senza approfittare della debolezza degli altri.

Il risultato è spesso una rigidità apparentemente inspiegabile da parte dei fratelli ebrei che non trovano altra strada per far avvertire agli interlocutori la propria difficoltà, se non quella di rendere più difficile possibile il dialogo in modo da mandare allo scoperto soltanto coloro che sono abbastanza forti nella propria identità da potersi proteggere.

La storia ha insegnato a tutti che questi problemi non sono facilmente superabili soprattutto se si tiene conto di ciò che è successo per secoli quando la convinzione di essere nella verità ha armato di fervore i cristiani a tal punto da sentirsi in dovere, oltre che in diritto non solo di proporre, ma anche di imporre con le buone o con le cattive la propria fede religiosa agli altri.

Il dialogo dei gesti significativi

Il cammino del dialogo resta ancora molto lungo, ma è già tantissimo averlo iniziato.

Tutto cominciò, per noi cattolici, con un gesto minimale compiuto da Giovanni XXIII il quale, passando di sabato con la sua macchina davanti alla sinagoga di Roma, fermò il suo corteo di macchine, scese e benedisse gli ebrei che stavano uscendo dalla sinagoga.

Racconta Elio Toaf, ex Rabbino capo di Roma: “fece fermare il corteo di macchine che lo accompagnava e benedisse noi, che dopo un comprensibile smarrimento, cominciammo ad applaudirlo con molto entusiasmo, mentre lui ci diceva:siete fratelli miei”. Era la prima volta che un Papa ci benediceva. Fu quello il primo vero gesto di riconciliazione: quel giorno cominciammo a sperare in una svolta dei cristiani negli atteggiamenti verso di noi.”

Era il 17 marzo 1962.

Richiamandosi probabilmente a questo episodio, Giovanni Paolo II amplificò quel gesto chiedendo, per la prima volta dopo duemila anni, di far visita alla Sinagoga di Roma e venendo accolto con lacrime di gioia dai vicini di casa che abitavano semplicemente dall’altra parte del Tevere, il 13 aprile 1986.

Con i fratelli ebrei si va avanti per gesti significativi come questi , ma anche come quelli compiuti dallo stesso Papa Giovanni Paolo II col pellegrinaggio ad Aushwitz, col riconoscimento dello Stato d’Israele e soprattutto con quel biglietto di richiesta di perdono imbucato tre le fessure del Muro Occidentale del Tempio a Gerusalemme in occasione del suo pellegrinaggio giubilare in Terra Santa.

Le parole non servono – mi dicono spesso i miei amici ebrei – perché i Papi e i vescovi cattolici ci hanno abituati purtroppo, nella lunghissima storia dei nostri rapporti reciproci, a continue docce scozzesi. Ci hanno fatto passare dall’esaltazione di sentirci fratelli alla depressione angosciante di sentirci definire deicidi. Gli stessi documenti moderni della Santa Sede, perfino dopo il Concilio, non sono stati affatto omogenei. Perciò preferiamo i gesti significativi e, più ancora, fatti concreti che servano a lenire ferite o a limare cicatrici, purtroppo assai appariscenti, vecchie di quasi due millenni.

Il futuro è nelle nostre mani

Se resta difficile da parte dei fratelli ebrei credere nella sincerità della nostra conversione – loro la chiamano teshuvàAntisemitismo, antigiudaismo, antisionismo, antiisraelianismo sono tutti termini che esprimono la realtà di un disagio presente ancora in molti di noi. – non è che si possa dare per scontato il dialogo neppure da parte della cristianità.

Siamo preoccupati di distinguere questi termini per mostrare le nostre ragioni, ma spesso le motivazioni passano insensibilmente dal piano religioso, al piano politico e perfino razziale, senza che ce ne accorgiamo, perché ci resta ancora difficile, assai difficile, assumerci il peso di una storia lunghissima.

Vorremmo accettare di essere eredi dei nostri padri soltanto nel patrimonio positivo, ma facciamo enorme fatica a riconoscerci eredi anche dei loro limiti, dei loro sbagli e forse, - perché non dirlo? – dei loro gravi, oggettivamente gravi, peccati.

E, nonostante tutto, il clima nuovo che si è determinato col Concilio Vaticano II, ci permette di rileggere con occhi certamente diversi ciò che fin dal tempo di Paolo veniva proclamato nelle assemblee cristiane che cantavano insieme la Berakà della bellissima Lettera agli Efesini,:

“ Benedetto sia Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero, cioè il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose: in Lui siamo stati fatti anche noi eredi” con l’aggiunta: “ Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai fatti della promessa, senza speranza, senza Dio in questo mondo, ora invece grazie a Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio.”

Lo spazio per un rapporto completamente nuovo con gli ebrei si è aperto di nuovo davanti ai nostri occhi ma lo possiamo percorrere legittimamente, raccogliendone i frutti, ad una condizione: che accettiamo di portare sulle nostre spalle un’eredità che ha segnato per secoli la vita dei nostri padri con conseguenze più o meno avvertite che ci riguardano tutti, anche oggi.

Sarebbe anche troppo facile scrollarci di dosso superficialmente il passato protestando “io non c’ero”. Così facendo, noi rischieremmo di essere talmente improvvidi da non aver imparato nulla dalla storia, col rischio, purtroppo assai realistico, di ripetere gli stessi sbagli dei nostri santi padri del passato.

La venuta di Gesù di Nazareth

Ma qualcuno mi dirà: D’accordo, ma andiamo al sodo: cosa pensano gli ebrei di Gesù di Nazareth? Hanno fatto anche loro qualche passo avanti nella riconsiderazione della persona di Gesù, così ignorata per non dire altro, nel loro insegnamento?

Domande assolutamente legittime.

Parliamone allora ma accettiamo l’idea che tutto abbia avuto inizio proprio con la venuta di Gesù di Nazareth, che già il NT definisce segno di contraddizione.

Prendere atto di questo è estremamente importante. Nel Vangelo secondo Luca il vecchio Simeone dice di lui: “Questo bambino sarà segno di contraddizione perché si mettano a nudo i segreti di molti cuori”.

Proprio Gesù che era venuto – secondo la fede cristiana – per essere luce delle genti e gloria del suo popolo Israele, è stato punto di demarcazione, pietra angolare che ha costretto Israele prima e i Gentili poi a prendere posizione. E sappiamo tutti che compiendo una scelta se ne esclude un’altra. Da qui alla polemica nei confronti di coloro che hanno compiuto una scelta diversa dalla nostra, il passaggio è quasi naturale. La polemica sembra anzi necessaria per rinforzare le motivazioni della propria scelta e definire meglio la propria identità.

Non c’è da scandalizzarsi nel constatare che il Nuovo Testamento è stato scritto nella polemica, così come era nato e cresciuto in contesto polemico. Tutto questo però significa anche che quello che si attribuisce a Gesù nel Nuovo Testamento va vagliato attentamente perché altro è ciò che Gesù è stato e ha detto e altro è ciò che i discepoli di Gesù hanno interpretato, ciascuno a modo suo, e hanno redatto per iscritto.

Altro è Gesù e altro sono i discepoli che, nella loro diversa sensibilità, hanno redatto i vangeli, e altro ancora è tutto ciò che ne è seguito nella interpretazione patristica, per esempio, dello stesso Nuovo Testamento. Non sarebbe fuori posto ricordare l’insegnamento di Origene il quale sosteneva che, come è necessario distinguere fra lettera e spirito nel testo dell’Antico Testamento, altrettanto necessario è farlo a proposito del Nuovo Testamento.

Il contesto storico del Mediterraneo Orientale

I primi passaggi sono avvenuti in un periodo delicatissimo della storia del Mediterraneo. Un periodo in cui l’identità ebraica, che era consapevole della propria tradizione e della propria ricchezza religiosa e culturale, non accettava di essere sottoposta a quel cilindro compressore che era per tutti nel Medio Oriente la cosiddetta civiltà greco-romana.

Gli ebrei avevano cominciato a difendersi dal rischio dell’assimilazione o appiattimento già fin dal 169 a.C., quando con Antioco Epifane c’era stata assoluta intolleranza da parte del mondo ellenistico nei confronti della diversità ebraica. Si pensava che, per poter mantenere unito politicamente l’impero ereditato da Alessandro Magno, fosse necessario sottomettere tutti non soltanto all’unico potere politico e militare, ma anche allo stesso credo religioso. Dove questo non si riusciva ad ottenerlo con la convinzione si tentava poi di ottenerlo con la costrizione e la violenza. Faceva paura la diversità in quanto tale, perché si era convinti che minasse l’unità del regno. Per questo Antioco Epifane pretese di profanare il Tempio di Gerusalemme con la presenza di un simulacro pagano, gesto indispensabile secondo lui per sottomettere gli ebrei alle comuni leggi ellenistiche del proprio regno. Non si accontentò solo di questo, ma fece anche questo. provocando l’inevitabile reazione violenta degli ebrei.

La rivolta dei Maccabei, che almeno per qualche decennio ebbe qualche fortuna, finì col gettare gli ebrei in braccio agli odiati romani. Fu infatti proprio Simeone, l’ultimo dei fratelli Maccabei, a stipulare per primo un’alleanza con i romani, considerati allora un popolo rispettoso delle leggi e delle consuetudini degli altri e popolo pieno di dignità. Simeone però, chiedendo aiuto, apriva di fatto il varco all’ingerenza dei romani in Medio Oriente facendoli diventare ben presto arbitri decisivi in ogni conflitto o decisione importante.

Pompeo non fece che raccogliere frutti già maturi quando condusse le sue legioni vittoriose in terra d’Israele ed entrò stupito nel buio sacro del Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.

Gli anni fra il ‘60 circa a. C. e il ’60 circa d. C. furono anni di relativa calma in Medio Oriente. Si parlò addirittura di toto orbe in pace composito dopo le vittorie di Augusto e la definitiva sottomissione dell’Egitto al potere di Roma, ma furono anni solo di relativa pace, che coincisero col tempo in cui si svolse la vita di Gesù di Nazareth.

La mediazione, della dinastia Asmonea prima e degli erodiadi poi, non riuscì comunque a spegnere del tutto il desiderio di affermare la propria indipendenza da parte degli ebrei che finirono col ribellarsi venendo schiacciati con crudeltà inaudita prima da Tito nel ’70 e poi da Adriano nel 135 d. C..

In realtà il mondo ebraico di quei decenni pullulava di correnti religiose, politiche e di pensiero, di ogni tipo. Oggi, grazie alle scoperte avvenute a partire dal ritrovamento dei rotoli di Qumran e della biblioteca di Nag Hammadi (anni 1946-1948) e anche grazie ai ritrovamenti archeologici seguiti alla guerra dei 6 giorni (1967), sappiamo molto di più sul mondo contemporaneo di Gesù di Nazareth. Non siamo certo in grado di scrivere una biografia di Gesù, e nessuno si permetterebbe di farlo seriamente, ma già iniziano a venir fuori lavori molto seri che permettono di arrivare nelle vicinanze assai prossime ad un ebreo marginale della Galilea del tempo del secondo Tempio, che fu il tempo di Gesù di Nazareth.

Da tutti gli elementi che possediamo oggi, grazie – come dicevamo - a scoperte archeologiche e letterarie che prima non venivano neppure prese in considerazione, possiamo infatti delineare meglio la silhouette di un ebreo del tempo di Gesù per cui, mettendo insieme il puzzle di ciò che poteva essere la situazione e il comportamento di un individuo come Gesù in quel determinato territorio, in quel preciso periodo storico, possiamo avvicinarci moltissimo alla sua persona storica.

Tutto questo ha comportato la caduta di una serie di giudizi e pregiudizi, ma soprattutto ha aperto agli studiosi orizzonti nuovissimi per la comprensione del Nuovo Testamento e della coeva letteratura rabbinica che sarà l’anima dell’ebraismo che si accompagnerà nei secoli successivi allo sviluppo del movimento cristiano.

Gli ebrei nostri contemporanei hanno un approccio assai diverso di Gesù di Nazareth rispetto a quello dei loro correligionari dei secoli passati. Conoscono tutti la frase spesso ripetuta a partire da Flusser: “La fede di Gesù ci unisce, la fede in Gesù ci divide”. Non è molto per noi cristiani, ma è un enorme passo avanti per i nostri fratelli ebrei ed è ancora più confortante constatare che nelle Università israeliane e nelle facoltà rabbiniche il Nuovo Testamento diviene un testo sempre più studiato da specialisti ebrei e perfino nell’educazione dei giovani israeliani la figura di Gesù conquista uno spazio sempre più grande, che viene poi allargato alla conoscenza non solo approssimativa del cristianesimo durante gli anni del servizio militare obbligatorio degli israeliani.

Le opinioni degli ebrei su Gesù sono, come sempre, assai diversificate, ma è indubbio che buona parte dei nostri interlocutori oggi non soltanto considerano Gesù un ebreo come loro – opinione ormai generale nella mentalità ebraica -, ma anche come un grande personaggio del passato, talmente grande che alcuni si spingono addirittura a considerarlo profeta, anzi il più grande dei profeti di Israele, per il semplice fatto che, grazie a lui, la Torà di Israele è stata divulgata su tutta le terra!

Qualcuno si spinge anche oltre scoprendo in lui il mediatore attraverso il quale la benedizione promessa ad Abramo ha trovato una strada misteriosa per raggiungere concretamente tutti i popoli della terra.

Assai diverso è invece l’approccio che proseguono a mantenere gli ebrei nostri contemporanei sull’Apostolo Paolo. Ma su questo occorrerebbe altro tempo a disposizione.

A proposito di Paolo mi permetto di invitare a dare uno sguardo, per chi fosse interessato, ai quattro volumetti che ho pubblicato in questi ultimi quattro anni (2001.2.3.4) sulla Lettera ai Romani presso le edizioni Dehoniane di Bologna.

Giacché ci siamo, tento adesso di dare anche qualche titolo bibliografico per indicare alcuni testi che ho tenuto presente in questa mia lezione, ma anche per proporre letture che facilitino l’approfondimento del tema trattato.

Consiglio anzitutto due volumi un po’ impegnativi: Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo. Un profilo storico-filosofico, Morcelliana, Brescia 2003; Stefano Levi della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somigliane, conflitti, Feltrinelli 2003. A questi si può aggiungere Paolo Sacchi, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, meno impegnativo, ma lavoro sintetico di un grande esperto dell’ebraismo del Secondo Tempio e della letteratura apocalittica o intertestamentaria. Molto ben fatti sono i Quaderni “Ecumenismo e dialogo” a cura di Stefano Rosso ed Emilia Turco, editi (pro manuscripto) dalla «Commissione Interregionale per l’ecumenismo e il dialogo» di Piemonte e Valle d’Aosta, soprattutto il quaderno n. 7 del 2003. Non posso fare a meno ovviamente di ricordare poi, dulcis in fundo, gli Atti dei Colloqui di Camaldoli dei quali cito solo l’ultimo volume: Innocenzo Gargano ( a cura), “Siate Santi perché io sono Santo" (Lv 19,2). Costruirsi e costruire fra diversi. Atti del XXIII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli (4-8 dicembre 2002), Editore Pazzini, Verucchio 2003.

(relazione tenuta al Corso Superiore di Scienze Religiose, Trento 25/XI/2004)

Le Chiese dell'oriente cristiano
Le chiese ortodosse autocefale
di Mervyn Duffy


Ci sono tredici chiese ortodosse generalmente riconosciute come “autocefale”, che in greco significa “con un proprio capo”. Una chiesa autocefala possiede il diritto di risolvere tutti i problemi interni con la sua autorità ed è abilitata a scegliere i propri vescovi, incluso il Patriarca, l’Arcivescovo o il Metropolita che è a capo della chiesa. Mentre ogni chiesa autocefala agisce indipendentemente, essa rimane in piena comunione sacramentale e canonica con tutte le altre.

Oggi queste chiese ortodosse autocefale includono i quattro antichi patriarcati orientali (Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), esistono poi dieci altre chiese ortodosse emerse nel corso dei secoli in Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Cipro, Grecia, Polonia, Albania, e nelle repubbliche Ceca e Slovacca. Di sua iniziativa, il patriarcato di Mosca ha concesso lo status autocefalo a molte delle sue parrocchie nordamericane sotto il nome di Chiesa Ortodossa in America. Tuttavia, poiché il Patriarcato di Costantinopoli reclama il diritto esclusivo a concedere lo status autocefalo, esso e molte altre chiese ortodosse non riconoscono l’autocefalia della Chiesa americana.

Nove di queste chiese autocefale sono patriarcati: Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria e Georgia. Le altre sono guidate da un arcivescovo o da un metropolita.


Sabato, 02 Settembre 2006 21:15

Perché riviva il Vaticano II (Marcelo Barros)

Perché riviva il Vaticano II
di Marcelo Barros

L’8 dicembre 1965, in piazza San Pietro, a Roma, una solenne santa messa celebrata da Papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II. Dopo la celebrazione eucaristica, il pontefice bene­disse la prima pietra di una chiesa romana dedicata a Maria, Madre della Chiesa, che sarebbe servita da memoriale del Concilio. Sempre in quell'occasione, dopo aver in­viato "al mondo" una lunga serie di mes­saggi. il Papa consegnò a mons. Felici il breve con cui chiudeva ufficialmente la grande assise. Nel discorso di chiusura, il Papa affermò: «Il culto di Dio che si è fat­to uomo è andato incontro al culto dell'uomo che si è fatto Dio». Quale perfetta descrizione del mistero del Natale, che si sarebbe celebrato di lì a poche settimane!

Oggi, a 40 anni esatti da quella data, molti cristiani propongono la celebrazio­ne di un nuovo concilio. Essi sono con­vinti che occorra rilanciare l'opera allora iniziata ma - è questa la loro opinione - sfortunatamente interrotta e messa da par­te agli inizi degli anni Settanta. E spiegano: mentre la società civile è alla ricerca di un nuovo mondo possibile, le comunità cristiane hanno il diritto di sperare in una chiesa "sempre rinnovata", capace di essere la profetica anticipazione di una uma­nità più giusta e fraterna.

il deposito della fede e la formulazione in cui esso è espresso. Pertan­to, egli varò il Concilio sulla base di tre grandi intuizioni: apertura al mondo con-temporaneo. vocazione ecumenica e op­zione per i poveri».

In verità, l'invito rivolto alla chiesa di diventate “chiesa dei poveri" fu più volte udito nel corso dei lavori conciliari, ma non li recepito e sviluppato. Sarebbe per lo più servito. alcuni anni dopo. a convin­cere i poveri del Terzo Mondo che la chie­sa non sarebbe mai stata profondamente evangelica, se non avesse accettato la pro­posta formulata nel corso della Seconda Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellin (1968): «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa au­tenticamente povera, missionaria, pasqua­le, spoglia di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli es­seri umani e di tutto intero l'essere umano» (Medellin 5,15a).

Va da sé che questo cammino fu reso possibile dal fatto che il Concilio aveva sottolineato il carattere locale della chie­sa. Si disse che la chiesa locale o partico­lare altro non è che la chiesa universale che si «ha evento In un luogo determinato. Di recente, la Federazione dei vescovi catto­lici dell'Asia, nel 'documento di sintesi preparato in occasione del Sinodo per l'Asia e intitolato Ciò che Lo spirito dice alte chiese, ha affermato: «La comprensione che la chiesa ha di sé stessa è di essere ve­ramente chiesa locale, incarnata in un po­polo, autoctona e inculturata. Essa è il cor­po di Cristo fitto reale e incarnato in un popolo particolare, nel tempo e nello spa­zio». La chiesa universale è più che una somma di chiese: essa è la comunione delle chiese locali.

Organismi ecumenici e comunità ec­clesiali di base sono oggi convinti che è ur­gente iniziare un processo conciliare che ponga la chiesa in costante stato sinodale, cioè di dialogo e di ricerca comune. Quan­do Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica attraversava un periodo di estrema chiusura istitu­zionale e di rigidità dottrinale. Nel frat­tempo, però, a partire dell'inizio del secolo XX, anche se sospettati e messi sotto ac­cusa dalla curia vaticana e dalla maggior parte dei vescovi, erano sorti il movimen­to biblico, il movimento delle comunità di base e altri ancora. Per decenni e superan­do molte difficoltà, questi movimenti, for­mati da laici, sacerdoti e religiosi, avevano aiutato le comunità locali a crescere. Ben­ché quasi relegate nella clandestinità, furono proprio queste nuove realtà ecclesia­li vive a offrire alla chiesa tutta una base teologica e una spiritualità nuove che avrebbero trasformato l'evento Concilio in una vera e propria primavera per tutta la comunità cattolica.

Quella primavera non deve finire. Es­sa va rinnovata. Pertanto, mentre ci ap­prestiamo a celebrare il Natale di Gesù Cristo - il mistero in cui «il culto di Dio che si è si è fitto uomo va incontro al cul­to dell'uomo che si è fitto Dio» - dobbia­mo desiderare ardentemente anche un nuovo natale della chiesa. Pronti anche ad andare «contro corrente" e contro l'oscu­rità della notte. Perché solo così si può ac­celerare il ritorno dell'aurora.

(da Nigrizia, dicembre 2005)

“Il pensiero di Cristo”:
la conoscenza mistica
nelle "Centurie gnostiche"
di San Massimo Confessore
di Vladimir Zelinskij


Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture...” (Lc.24, 45)

San Massimo il Confessore, “il genio della sintesi” secondo l’espressione di Harnak, “il modello esemplare per una nuova era” (1), come lo chiama lo studioso moderno W. Völker, ha creato il ponte fra l’eredità patristica dei primi cinque secoli e lo sviluppo teologico delle epoche successive. Nel suo pensiero la fedeltà assoluta ai predecessori va insieme con l’originalità non meno assoluta del suo spirito creativo. E fra le sue numerose opere le “Centurie gnostiche” sono ritenute da un teologo di statura come Hans Urs von Balthasar “ciò che di più significativo noi possediamo dalla penna del Confessore”. (2) Ma, forse, anche ciò che vi è di più difficile, come già faceva notare il patriarca Fozio.

Ma che cosa sono le “Centurie”? Un mosaico di sentenze sparse, con la loro ricchezza stupenda di colori, di sfumature, di incisioni del pensiero, ma con una struttura irreperibile? Un albero di duecento rami, con foglie che mantengono tutta la loro freschezza spirituale ed intellettuale, ma con la radice, che dà la vita a tutto, nascosta? La forma aforistica, abbastanza tradizionale, che Massimo ha recepito dal suo maestro Evagrio, ha una somiglianza soltanto esteriore con le opere analoghe dei suoi predecessori: né in Evagrio, né in nessun altro troviamo questa stupenda confusione di generi. Infatti, nei “Duecento capitoli sulla conoscenza di Dio e sull’incarnazione di Cristo” (un altro titolo delle “Centurie gnostiche”) la teologia non si separa dall’amore alla sapienza, il trattato gnoseologico dalla poesia del pensiero, e il concetto dall’allegoria e dalla contemplazione.

Questa originalità del genere letterario proviene da un carattere esistenziale dell’opera massimiana: qui non si tratta della dottrina cristologica nel senso stretto e preciso, ma - diciamo in modo metaforico – dell’“inabitazione” nel pensiero imbevuto dalla preghiera davanti al mistero aperto e rivelato del Dio Vivente. Questo mistero agisce nell’essere umano, e noi siamo chiamati dal nostro autore ad essere non soltanto testimoni di questa “inabitazione”, ma anche gli ospiti invitati a condividere il suo spazio spirituale. Quando entriamo in questo spazio, sembra di sentire il battito del cuore, mentre il pensiero prega nella contemplazione.

Ma dalla densità esistenziale nasce anche la difficoltà del testo: esso non è scritto come sistema logico e coerente, e neanche come codice segreto da decifrare per ricostruire il senso celato, ma è come un cammino che, già battuto, ogni lettore deve fare proprio sulle tracce del santo pensatore, diventando discepolo alla scuola della sua fede. E il cammino si ripete in quasi tutte le duecento stradine che portano alla stessa meta: la vita nella Parola di Dio, che è – secondo le parole di s. Massimo - “rugiada, acqua, fonte e fiume” (Centurie, II, 67), ma altresì “via, porta, chiave e regno” (II, 69) nascosti nel cuore umano; il lettore è in tal modo condotto a quel “Verbo-pensiero”, che nasce nell’uomo e lo santifica.

Come avviene questa nascita? Il capitolo 83 della seconda “Centuria” dice:

“Il pensiero di Cristo che i santi ricevono secondo il detto ‘Noi abbiamo il pensiero di Cristo’, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettiva, né come completamento del nostro pensiero, ma come illuminando mediante la propria qualità la potenza del nostro pensiero e portandola alla sua stessa operazione. Anch’io, infatti, dico di avere il pensiero di Cristo, che pensa secondo Lui e pensa Lui attraverso tutte cose”. (3)

Così san Paolo, alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo” (1 Cor.2,16), “Nos autem sensum Christi habemus”, secondo la Vulgata. Qui in un attimo, come è spesso da Paolo, tutta la visione trinitaria si svela davanti a noi. Il “pensiero di Cristo” (νουν Χριστου), il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso, significa che il nostro intelletto e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori” (Ef.3,17) abbiano qualche sostanza in comune e questa sostanza si chiama lo Spirito Santo. “Conformando l’operazione intellettiva umana a quella di Cristo, lo Spirito Santo mette l’anima in grado di conoscere per oscura, intima esperienza mistica Colui nel quale si concentra la contemplazione del Cristo: il Padre... Lo Spirito Santo, che scruta la profondità di Dio comunica al credente il mistero di Dio che non può essere scrutato da nessun intelletto umano, lo rende partecipe – attraverso la fede – della conoscenza che Cristo ha del Padre”. (4)

Questa rivelazione del mistero trinitario vissuto nell’intelletto umano, che è stata data all’apostolo dei pagani, trova il suo sviluppo nella teologia di Massimo il Confessore, teologia costruita alla scuola dello Pseudo Dionigi, ma anche dell’esegesi di Filone d’Alessandria e di Origene. Da tutta questa eredità il Confessore è riuscito a creare una sintesi completamente originale ed organica. Il suo “pensiero di Cristo che ricevono i santi” si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).

“Il pensiero di Cristo... non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma come “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos, in altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o, secondo le parole del vescovo Basile Osborn, la sua “struttura interiore”. Ma, come sappiamo, il simile è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé l’immagine di lui, che è capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo”: con il “pensiero di Cristo” pensiamo ciò che non può essere pensato, tocchiamo ciò che non può essere toccato, né con i sensi, né con l’intelletto.

“Ogni pensiero è proprio di chi pensa e di chi è pensato, ma Dio non appartiene né alla categoria di chi pensa, né di chi è pensato: infatti è superiore a queste”, dice s. Massimo (II, 2), poiché il nostro intelletto - pensando – sottopone Dio alle condizioni delle cose che appartengono all’intelletto stesso, cioè limitate. Dio non può in nessun caso essere un soggetto del pensiero, ma nello stesso tempo può essere vissuto e “toccato” con la mente, il cui “logos” umano partecipa al Logos divino. L’essenza del divino è oltre qualsiasi atto della conoscenza; ma essa si lascia “spogliare” dall'illuminazione dello Spirito Santo, che si unisce all’intelletto. “Il pensiero di Cristo” si riempie con la forza illuminatrice dello Spirito che si comunica attraverso la fede in Cristo. In altre parole: il nostro pensiero con il suo logos partecipa, per la fede, al Logos divino e alla Trinità, ma anche a tutto il creato. Perché

“infatti la fede è una conoscenza vera che possiede principi indimostrabili (i logoi), essendo come sostanza (ipostasi) di cose superiori alla mente ed alla ragione” (I, 9).

La fede in Massimo è un organo della vera conoscenza delle cose, in cui i logoi, o “principi indimostrabili”, offrono (mediante la fede) “la prova delle cose, che non si vedono”, come dice la Lettera agli Ebrei (11,1).

Ma c’è un’analogia con la definizione paolina anche più profonda: la fede come conoscenza della “sostanza di cose superiori alla ragione” coincide – ciò che ha notato anche von Balthasar - con il fondamento delle cose che si sperano: la parola greca – ipostasis – è la stessa, ed anche il messaggio è quello di Paolo. La fede, che viene come dono, scaturisce della stessa dimensione divina che l’uomo porta in sé. (5) La capacità di credere, il dono della fede e l’ipostasi stessa della fede, logica massimiana, sono come “una cosa sola”, di cui l’immagine più incisiva è “il pensiero di Cristo”. In questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica; in questo pensiero siamo chiamati ad entrare, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.

“Il mistero dell’Incarnazione (letteralmente “incorporazione”) del Verbo ha la fede, forza di tutti i segreti e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili” (I, 66).

Il capitolo sull’Incarnazione, che ci introduce - secondo von Balthasar - nel santuario del pensiero di Massimo”, (6) serve da chiave alla pratica della sua conoscenza mistica. Il mistero dell’Incarnazione entra in ogni suo pensiero, in ogni immagine; si chiarisce nella profondità splendida dalla sua vita in Cristo.

Ma è davvero corretto, secondo l’essenza delle cose, parlare di mistero nei confronti di Colui che il profeta (Ml. 4,2) chiama, “Il Sole di giustizia” (I,12)? Di fatto in Lui s’incontrano la sostanza dell’inconoscibilità e l’essenza della luce; ciò che si cela, che sfugge all’occhio e ciò che si rivela a noi; ciò che non può essere visibile e ciò che è più reale di qualsiasi realtà terrena. La presenza di questo mistero, che si rivela in noi “nel pensiero di Cristo”, come in tutte queste immagini della Parola che troviamo nei Capitoli, mantiene il suo carattere paradossale. Infatti, nella logica delle “Centurie” si possono trovare due “teorie della conoscenza”: una areopagitiana, che insiste sull’inaccessibilità assoluta di Dio allo spirito umano; un’altra di radice origeniana ed evagriana, che sviluppa il proprio cammino verso Dio nell’abbandono di qualsiasi immagine e forma per accedere direttamente alla luce del Dio trinitario. Ma, come osserva Hans Urs von Balthasar, (7) una siffatta contrapposizione è artificiale: le due visioni provengono dallo stesso “mistero dell’Incarnazione” che, nella vita spirituale, si esprime attraverso la carità e la pratica dell’ascesi.

Questa pratica serve per la purificazione, ossia la liberazione del mistero dentro di noi, nascosto e incarnato nella sostanza dell’ipostasi della speranza. La liberazione del mistero significa la ricerca della sua trasparenza nel buio del nostro essere, il suo “sfaccettarsi” in immagini e concetti. I “Duecento capitoli” ci offrono, con particolare ricchezza, i simboli sfaccettati del cammino interiore dell’uomo verso il mistero di Cristo nascosto dentro lui. L’idea dell’ascetismo, tradizionale per l’Oriente cristiano, sotto la penna del Confessore si riveste della poesia biblica delle allegorie.

Ascetismo, secondo la tradizione patristica, è un ritorno a se stesso, alla propria natura creata da Dio, attraverso la purificazione del cuore e il rifiuto dei “movimenti innaturali dell’ira e della concupiscenza” (I, 16). L’uomo si purifica trattandosi come una pietra preziosa, liberando lo splendore interiore a lui proprio; così “chi risplende è ritenuto degno di riposare con il Verbo sposo nel talamo dei misteri” (I,16).

Il suo cammino spirituale, secondo i “Capitoli” di s. Massimo, ha due livelli. Il primo grado si acquista con il silenzio (ossia, il sabato) e con la circoncisione dell’anima (ossia, con la mietitura). Tutte queste figure hanno lo stesso significato di stadio iniziale della guerra contro le passioni e “l’assalto dei nemici invisibili”. Perciò il lavoro ascetico (spiegato da s. Massimo sulle tracce dei suoi grandi predecessori) precede sempre i frutti della conoscenza nello Spirito.

Il sabato nel suo sistema ha tanti significato, o piuttosto compiti che l’anima deve svolgere. Il sabato è l’attuazione di buone opere, ma anche il compimento della saggezza - che deriva dalla vita attiva - nella carità, il compimento della conoscenza, naturale e divina, dei logoi delle cose e del loro divenire; il sabato è il possesso del logos degli esseri, ma anche “l’imperturbabilità dell’anima razionale che secondo la vita attiva ha eliminato del tutto le tracce del peccato” (1,37).

Ma dopo essere ascesa al sabato, l’anima va avanti ed entra nel “sabato dei sabati”, nella circoncisione della circoncisione, nella mietitura della mietitura ch’è “la comprensione di Dio, a tutti inaccessibile, che sussiste in modo inconoscibile nella mente in seguito alla contemplazione mistica degli esseri intelligibili” (1,43).

La comprensione di Dio nella Sua incomprensibilità fa intravedere la Sua sapienza, scoperta anzitutto negli esseri, poi nella Sua propria sostanza inaccessibile, che può essere trovata, ma non toccata, vissuta, ma non posseduta, rivelata, ma non conquistata, perché “Dio dona senza fatica a noi, che non ce l’attendevamo, le sagge contemplazioni della sua sapienza” (I,17)... “Ora l’esperto asceta è un agricoltore spirituale, che trapianta - come un albero selvatico - la contemplazione delle cose visibili alla sensazione nella regione delle cose intelligibili, e trova il tesoro, cioè la manifestazione per grazia della Sapienza che si trova negli esseri” (I,17).

Ma l’anima dell’asceta che scopre la sapienza del “pensiero di Cristo” in sé (quel pensiero che abbraccia tutti gli esseri nella luce della grazia), l’anima che vive l’ineffabile esperienza della scoperta della propria vicinanza con Dio diventa - nel suo sabato mistico e silenzioso - il modello del cosmo in cui si riuniscono i “principi” di tutte le cose. “Riposo del sabato - dice il Confessore - è il totale incontro in Lui di tutte le creature” (I,47). E poco oltre ripete le parole del Libro della Genesi: “E Dio vide quanto aveva fatto ed ecco andava molto bene” (I,57).

Il cammino delle “Centurie” ruota attorno alla sua scoperta di una bellezza ineffabile che non si lascia mai esprimere pienamente nelle parole o nelle immagini. Per questo esso crea tante immagini, tante parole, che cercano di raccogliere “il tesoro in vasi di creta” (2 Cor. 4,7), ossia i “beni della grazia” che si ricevono e si danno.

Il pensiero di Cristo” è uno dei tanti nomi del tesoro scoperto; significa la vera e propria comunione intellettuale, o comunione della ragione (secondo il termine di Lev Karsavin), che si realizza nello Spirito Santo, il quale illumina ogni cosa vissuta nel pensiero. La mente comunica al mistero di Cristo, al pensiero di Cristo nascosto in tutte le cose create, visibili ed invisibili, e “contemplate con l’intelletto nelle opere da Lui compiute” (Rom.1,20). L’arte della conoscenza mistica è l’arte della contemplazione: il dono di vedere tutte le cose nello Spirito “che ci è stato dato” (Rom.5,5) o, se si vuole, nel “pensiero di Cristo che pensa Lui attraverso tutte le cose”.

Rileggendo i “Capitoli gnostici” e le altre opere di Massimo il Confessore si capisce ciò che dovrebbe essere la vocazione della filosofia cristiana. Non si tratta solo dell’insegnamento della sana dottrina, ma della cosa più essenziale: di ragionare nello Spirito, di creare la conoscenza a partire dalla propria vita spirituale. Infatti le “Centurie” portano in sé i semi delle grandi idee che avranno il loro sviluppo nella filosofia europea, anche più recente. Non riconosciamo forse nel concetto massimiano del “pensiero nudo”, “della mente spogliata” (I, 84) che percepisce Dio, l’intuizione fondamentale dell’“epoché” della fenomenologia husserliana? O nell’idea dell’essere che non può essere pensato, ma che si apre alla conoscenza negli esseri, la distinzione fra “das Sein” e “das Seiende” di Heidegger? O nell’immagine di Dio come Pensiero puro una certa eco della filosofia della religione di Hegel (“Dio stesso è secondo la sostanza il pensiero, dice Massimo...” (I. 82)? O nel concetto di due tipi della conoscenza ciò che diventerà quasi un luogo comune nella filosofia europea? E nella visione della “sapienza che si trova negli esseri” non c’è una radice della sofiologia russa? Anche il confronto spirituale dell’uomo con il suo proprio pensiero non è degenerato all’alba del razionalismo moderno nella solitudine metafisica del “Cogito ergo sum”?

Certo, c’è una differenza radicale fra la creazione del suo universo a partire dalla ragione pura e la scoperta del mistero della Parola fuori e dentro di noi. Il pensiero di s. Massimo non è teso a sviluppare un sistema segnato dalla coerenza intellettuale, chiuso ed autonomo, ma si trova in comunione permanente con la fonte che lo nutre. Esso aspira alla trasparenza assoluta dell’intelletto aperto ed illuminato dalla vita di Cristo, per cui la trasparenza del pensiero diventa la sapienza che porta in sé i logoi degli esseri. In tal modo la mente umana riesce ad “uscire dal ‘se stesso’, oltrepassare il pensiero, rimanere nel silenzio” (I,81) o, in altre parole, riesce a diventare il sacramento della conoscenza, la comunione dell’intero nostro essere alla “pienezza della divinità” che abita in Cristo (Vd. Col. 2,9)

“Chi ha imparato a scavare secondo i patriarchi mediante la vita attiva e contemplativa i pozzi che sono in lui della virtù e della conoscenza - dice s. Massimo (II,40) - vi troverà dentro Cristo fonte della vita, da cui la sapienza ci ordina di bere dicendo: ‘Bevi le acque dalle tue cisterne e dalla fonte dei tuoi pozzi’ (Prov.5,15). Facendo ciò, troveremo i suoi tesori che sono dentro di noi”.

Nella filosofia russa esiste il concetto della “conoscenza integrale”, che fa eco alla nostalgia, all’ideale impossibile, all’ideale perduto piuttosto che alla realtà della sapienza. Nel pensiero di s. Massimo questa conoscenza è pienamente realizzata, non soltanto nella genialità dell’intelletto creativo, ma nell’armonia di tutto l’essere umano in quanto tempio di Dio, in cui l’attività del pensiero si svolge come celebrazione liturgica, come offerta portata all’altare. La conoscenza integrale può nascere solo nell’uomo deificato, e le “Centurie” servono in questo caso anche come scuola pratica e spirituale della deificazione. Nella conoscenza integrale il corpo e la mente diventano lo strumento di Dio; e la parola umana che dà la sua carne alla parola di Dio e il pensiero completamente posseduto da Dio appaiono lavoro dell’intelletto che - nella luce dello Spirito - si trasforma nel pensiero di Cristo.

“Chi mediante la virtù e la conoscenza - dice s. Massimo nell’ultimo capitolo delle Centurie - ha armonizzato il corpo con l’anima, è divenuto cetra, flauto e tempio di Dio: cetra, perché ha custodito bene l’armonia delle virtù; flauto, perché ha accolto mediante la contemplazione divina l’ispirazione dello Spirito; tempio, perché è divenuto dimora della Parola mediante la purezza della mente” (II,100).

Note

1) Cfr. W.Völker, Maximus Confessore al Meister der geistlichen Leben, Wiesbaden 1965. In Massimo Confessore, Il Dio-uomo, a cura di Aldo Ceresa-Castaldo, Jaca Book, Milano, 1980, p. 15-16.

2) Hans Urs von Balthasar, Kosmische Liturgie. Das Welbild Maximus‘ des Bekenners, Zweite Auflage, Einsiedeln, p. 482; in Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 17.

3) Massimo Confessore, Il Dio-uomo, p. 103.

4) Giuseppe de Gennari - Elisabetta S. Salzer, Letteratura mistica. San Paolo mistico, Libreria Editrice Vaticana, 1999, p. 203.

5) “Dio offre ai pii la capacità di credere e confessare la sua reale esistenza” (I,9).

6) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 628.

7) Von Balthasar, Kosmische Liturgie, p. 504.

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