I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentasettesima parte

La povertà (2)

In una visione un po’ apocalittica – cara al P. Colin – la sorte della Società, del suo carisma e del spirito è legata, nell’ultimo numero delle Costituzioni, alle sorti della povertà. Con un minaccioso “Vae illi”, per chi causasse la decadenza su questo punto, il p. Fondatore fa intravedere quale potrebbe essere la più grande sciagura per la Società: senza un autentico spirito di povertà Gesù e Maria non potrebbero riconoscerla come loro propria.

Il concetto di povertà del P. Colin non sembra essere frutto di un pauperismo “di rottura”, né di un rigorismo riformista caratteristico di alcuni istituti religiosi nella seconda metà del sec. XIX. Il nesso stresso che il P. Colin stabilisce tra la povertà e lo spirito dell’Istituto fa pensare ad una intuizione originaria collegata con il carisma proprio della Società di Maria. Su questo il P. Fondatore non ha fatto altro che riproporre le beatitudini e lo spirito dei “poveri di Jahvè”, che hanno in Gesù e Maria i modelli più sublimi (Const., cap. XII, art. V, n. 443).

Martedì, 01 Agosto 2006 01:24

Le malattie dello spirito (Romano Guardini)

Chiunque sa qualcosa dell’amore, conosce questa legge: che solo nell’andar via da se stesso s’afferma quel senso di aperta vastità in cui l’io diventa reale e tutte le cose fioriscono.

Se mi capitasse un giorno - e potrebbe essere oggi di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora...

In questo mondo sommerso dalle parole, ove ormai si ha difficoltà a stare ad ascoltare perché troppi sono i rumori che disturbano il nostro ascolto, ove può essere detto tutto ed il contrario di tutto, dobbiamo avere la pazienza, la fiducia, la preoccupazione di annunciare il Cristo con la parola della nostra stessa vita.

Venerdì, 28 Luglio 2006 23:03

Šarî‘a (Maria Domenica Ferrari)

Šarî‘a
di Maria Domenica Ferrari



Se domandate a un musulmano che cos'è la šarî‘a vi dirà che l'insieme delle norme date da Dio per guidare il musulmano in ogni aspetto della sua vita; inoltre per l'Islam la differenza tra sacro e profano si colloca in campo giuridico e ciò determina l'importanza del diritto. Per molti la šarî‘a, anche occidentali, indica un blocco granitico, immutabile, di norme fissate una volta per tutte 14 secoli fa.

Dal punto di vista linguistico la parola šarî‘a ha come significato principale la religione e la legge religiosa. La radice da cui deriva š r ‘ da origine a parole che indicano l'inizio, l'avvio, il dirigersi. Nei lessici tradizionali troviamo che nelle aree pastorali e tra i Beduini il verbo šara‘a indicava l'abbeveraggio degli animali in pozze d'acqua permanenti. Un secondo campo sematico indicava lo stiramento, l'allungamento, šir‘a è una corda come quella dell'arco o del liuto. Šarî‘a è perciò la strada, la via, il cammino (che porta ad abbeverarsi) e il cammino per eccellenza è quello che porta alla salvezza eterna.

“Poi ti demmo una legge ( šarî‘a) per la Nostra Casa: seguila dunque" (1) questo è il solo passo coranico in cui viene usata come sostantivo.

Nelle parlate del Medio Oriente si usa per la totalità della religione šarî‘a al-Mûsâ, šarî‘a al-Masîh sono la religione/la legge di Mosè e del Messia. Nelle comunità ebraiche di lingua araba la parola più usata per tradurre Torah è šarî‘a; l'uso per tradurre norme, regole è evidente soprattutto per quanto riguarda alcuni versetti del Levitico, talvolta è impiegata anche per misvah. Un uso simile si trova negli scrittori cristiani, šarî‘a indica le norme apportate da un profeta.

La parola šarî‘a nella letteratura religiosa islamica designa le norme, la legge, un sistema di leggi o il messaggio di un profeta. Dio è il soggetto del verbo šara‘a , Muhammad è lo šâri‘ (legislatore) per eccellenza e la spiegazione della legge è uno degli attributi profetici.

La šarî‘a indica perciò le leggi, le normative derivate principalmente dal Corano e dagli hadîth che regolano la vita dei musulmani. Accanto alle due fonti tramandate, vi sono il consenso della comunità e il ragionamento del singolo che può essere limitato alla semplice deduzione, all'analogia o estendersi al ragionamento.

Su queste fonti interviene lo studioso di diritto (fuqahâ) per dare origine alla giurisprudenza musulmana il fiqh.

I versetti coranici che riguardano aspetti legali sono una minoranza e la maggior parte di questi versetti si occupano di diritto di famiglia e di eredità.

La šarî‘a che regola la vita di un musulmano è di conseguenza una elaborazione fortemente temporale e secolare. Già la seconda fonte, la Sunna, cioè i comportamenti, le parole di Muhammad nel corso della sua vita, è sprovvista di sacralità, Muhammad è un profeta, esempio da imitare, ma essere umano.

Questa legge rivelata da Dio per condurre gli uomini nel corso della loro vita alla ricompensa finale si divide in

ibâdât che regolano i rapporti tra Dio e gli uomini

mu‘ âmalât che regolano i rapporti tra gli uomini.

Le ‘ibâdât sono eterne ed immutabili e sono i cinque pilastri della religione: la testimonianza di fede, la preghiera, il digiuno, l'elemosina legale ed il pellegrinaggio.

Le mu‘ âmalât riguardano tutti i restanti aspetti della vita sociale, economica, politica e si possono adattare ai tempi e ai luoghi, naturalmente rispettando lo spirito della šarî‘a, sono perciò modificabili e hanno dato vita a varie esperienze storiche di Islam.

Nel primo periodo, dopo la morte di Muhammad, la Comunità Islamica di fronte all'emergere di nuove istanze e all'espansione territoriale constatò che il solo Corano era insufficente, e iniziò a far riferimento alla tradizione, non più quella degli antenati come era in uso in ambiente tribale, ma a quella del profeta. Anche la tradizione è nel suo insieme soggetta a cambiamenti rispetto ai tempi, ai luoghi, e talvolta può scavalcare il Corano come nel caso della lapidazione degli adulteri, voluta dal secondo califfo ‘Umar, rispetto alla fustigazione coranica.

Con al-Šâfi‘î (m. 820) il fondatore del diritto musulmano, si fissarono i requisiti per l'accettazione degli hadîth, questo perché gli hadîth assunsero autorità assoluta. Nel corso di poco più di due secoli dalla morte di Muhammad gli interpreti del diritto si erano raggruppati in scuole giuridiche, ognuna con una metodologia propria sui principi di applicazione della legge. Di queste scuole quattro assunsero il valore di scuole canoniche di diritto e sono gunte fino ad oggi: la malîkita, la šâfi‘îta, la hanâfita e la hanbalita. I sunniti che rappresentano circa il 90% dei musulmani seguono una di queste 4 scuole, gli sciiti seguono la scuola ja‘farita che si differenzia dalle altre 4 solo in alcuni punti di secondaria importanza.

I movimenti fondamentalisti contemporanei sono convinti che la soluzione dei problemi in cui si dibattano le società musulmane è l’applicazione della šarî‘a, considerata da loro fissata fin dagli inizi e immutabile nel corso del tempo e dei luoghi. Per questi islamismi che si rifanno alla scuola giuridica più rigorosa, quella hanbalita, la sola šarî‘a valida è quella seguita all’epoca di Muhammad e dei primi quattro califfi, e rifiutano tutti gli sviluppi dello status della persona e le legislazioni degli stati musulmani che si rifanno alle legislazioni occidentali nei settori del commercio, della proprietà, della procedura penale, ignorando che la šarî‘a non è mai stata applicata integralmente e che anche nelle epoche di maggior splendore ai tribunali religiosi si affiancavano quelli amministrativi che si occupavano appunto di transazioni commerciali, di codice penale, di polizia.

1) Corano, XLV, 18

Martedì, 25 Luglio 2006 02:06

Il vero miracolo (Giovanni Vannucci)

Il vero miracolo
di Giovanni Vannucci



Leggendo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 13-21), vengono alla mente due spontanee domande: perché questo prodigio è stato riportato dall’evangelista Matteo? Esiste in esso un significato recondito? Alla prima domanda le risposte sono varie, da quella dell’apologetica più trita che Gesù avrebbe compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci per far toccare con le mani agli uomini presenti e futuri la sua natura divina, a quelle più sottili che vi vedono indicata l’essenza della nuova èra iniziata con Cristo: l’èra dell’amore assoluto i cui simboli sono il pane e il pesce.

Se dovessimo credere al mistero di Gesù Cristo per i miracoli che ha compiuto, dovremmo credere a tutti quelli che prima e dopo Cristo hanno compiuto, in buona o cattiva fede, dei miracoli. Sarebbe la logica conseguenza dell’assioma apologetico: chi si mostra Signore delle leggi della natura (il miracolo è per lo meno una sospensione del normale corso delle leggi che regolano l’universo) possiede una divina natura. E di miracoli l’umanità ne ricorda miliardi; anche tenendo conto che un buon numero sono il prodotto di ciurmatori, ne rimane una notevole quantità di compiuti in buona fede, e vediamo illogica l’equivalenza tra miracolo e natura divina di chi lo compie.

Forse i prodigi di Cristo sono riportati dagli evangelisti per ben altre motivazioni, che dovranno essere scoperte caso per caso. L’impressione che si ricava dalla lettura attenta delle relazioni sui miracoli di Cristo è che non li compiva volentieri: è sufficiente notare la sua riluttanza al miracolo delle nozze di Cana, per esserne persuasi. Egli compì miracoli forzato e costretto dalle preghiere e gli affetti di chi lo circondava, e quando si arrese una grande tristezza lo invase, dovendo constatare come l’intelligenza dell’uomo preferisse essere abbagliata che non convinta. Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù con tristezza dice ai dodici: «Voi non avete ancora capito» (Mc 8, 21).

Egli ardeva di comunicare agli uomini mortali la loro immortalità, ardeva di portare la loro mente negli spazi eterni, ove Iddio si rivela nella luce e nella vita e si manifesta come Padre e Padre amoroso. E Gesù era triste nel compimento dei miracoli, i suoi e gli altri si fermavano sull’aspetto clamoroso del prodigio e non volevano imparare ciò che con infinita pazienza stava insegnando. Ogni giorno, per colui che sa vedere, è denso di miracoli. Se ponessimo mente al perenne miracolo della vita, saremmo in continua adorazione dell’immensa e amorosa Mente che ci avvolge; in essa troveremmo di continuo la soluzione a ogni problema della nostra vita.

Se imparassimo a liberarci dall’interesse egoistico, a superare le difficoltà in un atto di confidente amore, se volessimo, scuotendo la nostra pigra ignoranza, protenderci nella nostra vera dimensione che è la divina realtà, sapremmo come chiedere a Dio ciò che Dio stesso brama di volerci dare: la compiuta sua somiglianza, la perfetta sua libertà, l’infinito suo operante amore! Ma abbiamo paura di ciò che veramente ci libera, vogliamo ciò che ci imprigiona, vogliamo la guarigione della carne che abbiamo resa inferma con i nostri disordini; vogliamo il trionfo delle nostre verità personalistiche che imprigionano lo spirito; vogliamo le ricchezze terrene che rendono quasi impossibile la salvezza eterna: questi miracoli domandiamo continuamente.

Nella narrazione del miracolo della moltiplicazione dei pani c’è un particolare sul quale dobbiamo fermare l’attenzione: Cristo dice ai discepoli, preoccupati dell’ora tarda e della fame della folla: «Datele voi da mangiare. Risposero: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Ed egli disse: portateli a me». I discepoli, con assoluta fede e altruismo totale, donano ciò che hanno, e aprono la via all’evento miracoloso. I discepoli presentano cinque pani, cinque forme di pane che sono la maturazione del grano trasformato in farina e questa, attraverso la panificazione, in un nutrimento perfetto e completo. Li presentano a Cristo senza chiedersi cosa ne avrebbe fatto, senza domandarsi come avrebbero saziato la loro propria fame, offrono con un atto di dedizione incondizionata quanto hanno, tutto quello che in quel momento avevano, e il miracolo ricopre la vallata ove erano i cinquemila uomini.

Il miracolo vero è quello che in quell’istante si è compiuto nella trasformazione del cuore dei discepoli: hanno dimenticato la loro fame, il loro diritto a possedere il proprio pane, hanno abolito il prefisso «mio»; il loro pane non è più loro, ma lo ripongono nelle mani di Cristo; in quell’istante di perfetta maturità essi stessi non sono più di se stessi, ma di tutti.

Noi crediamo che Gesù abbia fatto dei miracoli, ma non per i miracoli noi crediamo a Lui. Il vero miracolo che ci avvicina e ci fa credere è il rinnovamento dei tempi, la grandezza della sua rivelazione, la potenza del suo insegnamento. L’autentico suo miracolo è il discorso della Montagna, la novità e vastità del suo amore, la sua capacità di redimerci dall’interno. Crediamo in Gesù Cristo Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, non a motivo dei suoi miracoli, ma a cagione di Lui stesso. Per questo respingiamo i falsi profeti insieme ai loro prodigi apparenti o reali, come respingiamo le seduzioni di chiunque creda di farci sognare un sogno e crede a una visione.

Cristo è la verità, la verità è oltre le apparenze, è la verità che solo lo spirito può contemplare in silenziosa solitudine, e il miracolo è che ogni uomo può vivere questa verità quando ha raggiunto la totale dimenticanza di se stesso divenendo offerta pura e totale.


(Giovanni Vannucci, «Il vero miracolo», 18a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 141-143).
Martedì, 25 Luglio 2006 01:48

Macrocosmo e microcosmo (Maimonide Moisè)

Macrocosmo e microcosmo
di Maimonide Moisè






Mosheh ben Maimon fu 'personalità di assoluto rilievo nell'intera storia del giudaismo, uomo fuori del comune, soprattutto noto come l'autore della "Guida dei perplessi "e del "Mishnè Torab", rispetto alle quali nessun'altra opera del pensiero ebraico classico ha avuto una risonanza paragonabile. Dalle molteplici attività, tra cui quella di medico alla corte del visir al-Fadil. Maimonide fu il primo a concludere una durevole alleanza tra il giudaismo e la filosofia greco-musulmana del suo tempo, certo mirando non a svuotare le Scritture della loro sostanza, ma a soddisfare il bisogno di aprirsi una nuova strada. Quella di questo 'secondo Mosè' - come venne chiamato - fu la scelta di porre a confronto le credenze tradizionali del suo popolo con le conquiste scientifiche della sua epoca, o, anche, quella di innestare le proprie idee filosofiche sul testo della Bibbia, che è un documento rivelato. Maimonide fu ben noto alla riflessione cristiana medievale, che dialogò criticamente col suo pensiero.



( dalla Guida dei perplessi)

1 Sappi che quest’universo nel suo complesso non forma che un solo individuo; ossia: il globo dell’ultimo cielo, con tutto quello che contiene, è indubitamente un solo individuo, come Ruben e David.

2 Avviene delle sue diverse sostanze, ossia delle sostanze di questo globo con tutto ciò che contiene, come avviene, per esempio, delle diverse sostanze delle membra dell’individuo umano. Come dunque Ruben, per esempio, è un solo individuo, benché composto di diverse parti, come la carne e le ossa, e di umori e di spiriti differenti, cosí questo globo nel suo complesso abbraccia le sfere e i quattro elementi con ciò che ne è composto. Non vi è assolutamente alcun vuoto ma è un solido pieno che ha per centro il globo terrestre; la terra è circondata dall’acqua, questa dall’aria, questa dal fuoco, e quest’ultimo è circondato dal quinto corpo, il quale si compone di molte sfere, contenute le une nelle altre, tra le quali non vi è cavità, né vuoto, ma si cingono esattamente applicate le une alle altre. Esse hanno tutte un moto circolare uguale, né è in alcuna di loro precipitazione, né lentezza, ossia, che niuna di quelle sfere si muove talora lentamente, ma ciascuna per la sua celerità e la sua maniera di muoversi resta sottoposta alla sua legge naturale. Ma queste sfere si muovono alcune piú rapidamente delle altre, e quella che ha il moto piú rapido è la sfera che circonda tutto, ossia, quella che ha moto diurno e che le fa muovere tutte con lei, come la parte si muove nel tutto, poiché tutte formano delle parti in lei. Queste sfere hanno dei diversi centri; alcune hanno per centro il centro del mondo, altre hanno il loro centro fuori del centro del mondo; e altre seguono perpetuamente il loro moto particolare dall’Oriente all’Occidente ed altre si muovono dall’Occidente all’Oriente. Ogni astro in queste sfere fa parte della sfera, nella quale resta fisso al suo posto; né ha moto che gli sia particolare né si mostra mosso se non dal moto del corpo del quale è parte. La materia di tutto questo quinto corpo, che ha il moto circolare, non è simile a quella dei corpi dei quattro elementi che si trovano interiormente. Il numero di queste sfere, che circondano il mondo, non può per alcun modo essere minore di diciotto ma è tuttavia possibile che ve ne siano di piú, ed è cosa da esaminarsi. Se poi vi siano delle sfere in circolazione che non circondano il mondo, è pure cosa da esaminare.

3 Interiormente alla sfera inferiore che è la piú vicina a noi vi è una materia diversa da quella del quinto corpo e che ricevette quattro forme primitive, con le quali si formano quattro corpi (che sono) la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Ciascuno di questi quattro (corpi) ha un luogo naturale che gli è particolare, né si trova in altro (luogo) sino che è lasciato nella sua natura. Sono corpi inanimati, che non hanno né vita né percezione, né si muovono da se stessi ma restano in riposo nei loro luoghi naturali. E se uno di essi fosse costretto ad uscire dal suo luogo naturale, allora, quando cessa la causa che lo costrinse, si muove per ritornare al suo luogo naturale; poiché ha in sé il principio in virtú del quale si muove, in linea retta, per tornare al suo luogo, ma non ha in sé alcun principio nel quale debba sempre restare in riposo o muoversi altrimenti che in linea retta. I moti in linea retta che fanno questi quattro elementi, quando si muovono per tornare ai loro luoghi, sono di due specie: un moto verso la circonferenza, che è proprio del fuoco e dell’aria, e un moto verso il centro, che è proprio dell’acqua e della terra; e ciascuno, dopo essere arrivato al suo luogo naturale, resta in riposo. Ma quei corpi (celesti), che hanno il moto circolare, sono viventi e hanno un’anima onde si muovono, né vi è in loro assolutamente alcun principio di riposo, né subiscono alcun cambiamento, se non nella posizione, avendo il moto circolare. In quanto poi (all’intelligenza, e cioè) se abbiano anche un’intelligenza con la quale percepiscono, questa (è cosa) che non può essere dichiarata se non con una sottile speculazione. Quando tutto il quinto corpo compie il suo moto circolare, ne nasce sempre negli elementi un moto sforzato, per il quale escono dalle loro regioni, ossia (ne nasce un moto) nel fuoco e nell’aria che sono spinti (ambedue questi elementi) verso l’acqua e tutti penetrano nel corpo della terra sino nelle sue profondità, in guisa che ne risulta una mescolanza di elementi. Poscia cominciano a muoversi per ritornare nelle loro regioni (rispettive), e quindi anche delle particelle di terra abbandonano i loro luoghi riunendosi all’acqua, all’aria, al fuoco. In tutto ciò gli elementi agiscono gli uni sugli altri, e la mescolanza subisce una trasformazione, onde ne nascono prima le diverse specie di vapori, poi le diverse specie di minerali, tutte le specie delle piante e molte specie di animali, secondo il temperamento della mescolanza.

4 Tutto ciò che nasce e perisce, non nasce che dagli elementi e ad essi ritorna quando perisce. Cosí gli elementi nascono gli uni dagli altri e si perdono gli uni negli altri, poiché tutto ha una stessa materia, e la materia non può esistere senza forma, come niuna forma fisica, di quelle che nascono e periscono, non può esistere senza materia. Dunque, la nascita e la distruzione degli elementi, come di tutto quello che nasce e che in loro si svolge perdendosi, seguono (in un certo modo) un moto circolare, simile a quello del cielo; per la qual cosa il moto di questa materia formata, mediante le forme che le sopravvengono successivamente, può compararsi al moto che fa il cielo nel luogo, ripetendosi le stesse posizioni per ciascuna delle sue parti.

(tratto da Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1966, vol. IV, pagg. 1133-1135)


La guerra o la pace sono per voi
di Raoul Follereau



Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi.
Scrivevo, venticinque anni fa:
O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l’uomo vivrà per l’uomo, o gli uomini moriranno.
Tutti e tutti insieme
.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire.
Bisogna scegliere. Subito. E per sempre.
Ieri, l’allarme.
Domani, l’inferno.
I Grandi – questi giganti che hanno cessato di essere uomini – possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all’idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un’intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore.
L’Apocalisse è all’angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire “NO” al suicidio dell’umanità.
“Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere”. Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele…
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il Tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me.
Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare.
Questa è l’ultima ambizione della mia vita, e l’oggetto di questo “testamento”.
Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C’è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l’umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: “la pace, la pace”, perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.

I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano.
Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.

Allontanatevi dai mascalzoni dell’intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste “tecniche divinizzate” che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi “progressi” e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell’anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell’uomo.
Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione!
La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l’Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell’umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d’amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.
Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un “progresso” folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido “ho fame!” che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: ESSERE VERAMENTE FRATELLI.
Allora… domani?
Domani, siete voi.



La fede cambia il credente nella sua vita privata, nella sua vita interiore, ma lo rende sempre anche protagonista di una novità relazionale che riguarda il suo popolo, la sua comunità di vita, la sua discendenza diffusa nello spazio e nel tempo.

Giovedì, 13 Luglio 2006 02:14

Cammino nel deserto

Il deserto è una dimensione della spiritualità cristiana: è il luogo in cui il signore ci conduce per “rinnovarci nello spirito della nostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef4,24); è lo spazio in cui moriamo a noi stessi e cominciamo a vivere come figli di Dio, animati dallo Spirito di Cristo morto e risorto.

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