I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L'esperienza di liberazione dei figli di Giacobbe o Israele dall'Egitto sta al centro del «credo» biblico riportato nel libro del Deuteronomio nella preghiera del padre di famiglia nel giorno del ringraziamento.

5. La comunità in cammino
verso il Regno

di Marino Qualizza


5. Ecclesiologia di comunione CCC 1325; Ef 4/4-6; At 4/32; 2/44-45

Nel Catechismo della Chiesa cattolica si legge al n. 1325: “La comunione della vita divina e l’unità del popolo di Dio, su cui si fonda la Chiesa, sono adeguatamente espresse e mirabilmente prodotte dall’Eucarestia . In essa abbiamo il culmine sia dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono a Cristo e per Lui al Padre nello Spirito Santo”. Il testo del Catechismo riporta una citazione tolta dall’Istruzione Eucharisticum Mysterium del 1967. Siamo nei mesi immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, nel quale era stato posto in particolare evidenza il tema della comunione ecclesiale con riferimento specifico all’Eucarestia. È interessante notare come l’Eucarestia esprima – e soprattutto produca – la comunione con Dio e con i fratelli che fanno parte della Chiesa. Sarà importante allora, ogni volta che si parla di comunione ecclesiale, puntare l’accento non tanto suo vincoli giuridici ma soprattutto su quelli mistici determinati dall’Eucarestia e dagli altri due sacramenti dell’iniziazione cristiana, cioè il Battesimo e la Confermazione. L’insistere sull’Eucarestia non è il vezzo di una moda passeggera ma il permanere costante della vita ecclesiale anche quando gli aspetti giuridici erano molto evidenziati. In realtà tutta l’esperienza ecclesiale dei Padri della chiesa è fondata sui sacramenti dell’iniziazione cristiana. Si leggano a questo proposito le significative catechesi della Chiesa di Gerusalemme, catechesi legate al nome di Cirillo e risalenti al IV secolo. Ma fondare la comunione ecclesiale sull’Eucarestia è un importante capitolo dell’ecumenismo contemporaneo. Infatti la ricerca dell’unità e della convergenza delle tre confessioni cristiane può trovare intanto nella teologia eucaristica le linee guida e, una volta trovatele, potrà stabilire nella celebrazione quanto avrà concordato nei principi teologici. Ma della comunione ecclesiale abbiamo chiare e solenni indicazioni negli Atti degli Apostoli. Nel primo sommario di Atti 2,44-45 leggiamo: “Tutti i credenti, poi, stavano riuniti insieme e avevano tutto in comune; le loro proprietà e i loro beni li vendevano e ne facevano parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”. La comunione dei beni, nella prima comunità cristiana, era il risultato del dono dello Spirito e della conversione conseguente a cui Luca dedica tutto il secondo capitolo.

Non è la comunione dei beni che crea la conversione ma quest’ultima fonda quella rivoluzionaria novità di vita che costituisce il modello e l’orientamento di tutte le comunità successive. La stessa realtà è riportata nel secondo sommario della vita dei cristiani in Atti 4, 32: “La moltitudine di coloro che avevano abbracciato la fede aveva un cuore e un’anima sola. Non v’era nessuno che ritenesse cosa propria alcunché di ciò che possedeva, ma tutto era fra loro comune”. La comunione di cui si parla non riguarda un aspetto solo, quello più spirituale o quello più materiale, ma abbraccia la realtà intera. In altri termini qui ci viene proposto un modello di umanità che troverà la sua forma definitiva nel mondo futuro, ma che affonda le sue radici già in questa esistenza. Il che equivale a dire che la fede, dono della Pentecoste, crea uno stile di vita capace di rinnovare il mondo. Da qui allora l’esigenza, per i cristiani di oggi, di esprimere la loro fede preoccupandosi di dare un contributo originale al miglioramento delle condizioni di vita su questa terra. Il venir meno a questo impegno vuol dire prendere solo come metafora quanto gli Atti degli Apostoli hanno invece proposto come modello da imitare. Un altro testo biblico, quello di Efesini 4, 4-6, ci presenta addirittura una sintesi teologica che dall’unità di Dio passa a fondare quella fra gli uomini nella realtà ecclesiale. Leggiamo infatti: “Un solo corpo e un solo Spirito, così come siete stati chiamati ad una sola speranza, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, agisce per mezzo di tutti e dimora in tutti”. In estrema sintesi il testo ci propone la fonte e le basi dell’unità ecclesiale. In esso, in modo felice, sono collegati i principi teologici vissuti nella fede e mediati nei sacramenti. Ma ciò che determina, orienta e guida tutto e tutti è Dio Padre di Gesù Cristo. Non solo Egli agisce di sua iniziativa, come è ovvio, ma questa sua azione è mediata dall’azione convergente dei credenti. Essi, pur nella molteplicità delle loro persone, costruiscono quella unità composita riflesso dell’unità e della comunione tripersonale del nostro Dio.

Ogni lavoro pastorale, ogni sforzo di crescita personale, ogni impulso ecumenico dovranno sempre partire da questo Dio uno e trino fonte della nostra libertà, del nostro agire e della convergenza all’unità. È evidente che nella Chiesa ci vuole anche l’autorità e sono necessari i cartelli indicatori della strada da percorrere. Come pure sarà necessario un elenco delle verità fondamentali da credere. Ma tutto questo resterà estraneo ai credenti se non verrà costantemente vivificato dall’azione di Dio accolta da ognuno dei credenti. In conclusione possiamo dire che la comunione ecclesiale non è un’idea ma un’esperienza che si vive e si condivide; ed è così efficace da suscitare quella ricchezza di idee di cui la teologia si nutre.




Rapporto tra darwinismo e teologia
Adamo contro Dio?
di Carlo Molari



(...) Queste riflessioni sono ovvie, da tempo acquisite nella teologia cristiana e inserite persino nei catechismi.

Per questo sorprende la reazione della stampa come se l'ammissione del papa fosse straordinaria o potesse avere conseguenze sconvolgenti per la dottrina cristiana.

Binomio acquisito

Scrive ad esempio A. Oliverio sul Corriere della Sera (27/10/96, p. 38): «la teoria dell'evoluzione formulata da Darwin circa un secolo e mezzo fa conteneva in sé vari elementi di contrasto con la fede cristiana: non soltanto poneva in discussione il racconto biblico e i tempi e i modi della creazione della vita sulla terra, ma soprattutto implicava un'origine animale dell'uomo, apparentandolo con gli altri organismi viventi». Ora, se questo era vero al tempo di Darwin non lo era più qualche decennio dopo, quando sia i biblisti che i teologi cominciarono a interpretare la Scrittura in modo più rispondente alla sua natura religiosa e simbolica, e tanto più non lo è oggi, quando l'esegesi biblica e la teologia hanno acquisito metodi più raffinati di analisi dei testi antichi e dell'esperienza di fede.

Anche per Pio XII, già nel 1950, era chiaro che la Bibbia doveva essere interpretata diversamente da come avevano fatto al tempo di Galileo. Per questo l'affermazione di Giovanni Paolo II non «rappresenta un fatto nuovo», né «introduce un elemento di laicità nel campo della metafisica», come invece sostiene Oliverio.

Ancora più sorprendenti appaiono le affermazioni di E. Scalfari, secondo il quale l'ammissione del papa «sarebbe ben più che aggiornamento: sarebbe una rivoluzione con conseguenze incalcolabili sulla teologia e addirittura sulla fede» (Repubblica, 27/10/96, p. 1). Cercando poi di precisare quali conseguenze «avrebbe avuto una accettazione pura e semplice e completa dell'evoluzionismo da parte della chiesa», Scalfari scrive: «Adamo non sarebbe stato creato da Dio, tutta la simbologia dell'Eden, dell'albero della conoscenza, della tentazione del serpente, della cacciata dal paradiso, sarebbe caduta infranta (...) Non ci sarebbe stato il peccato originale, la colpa da riscattare e la necessità che il Figlio si facesse uomo per redimerci ed aprirci la via della salvezza».

«A stretto rigor di logica, questo azzeramento della Genesi e della dottrina neotestamentaria che a essa si ricollega avrebbe reso assai discutibile, perché non necessaria, la seconda Persona, e quindi l'intera struttura teologica che si compendi nel mistero della trinità». Il papa non sarebbe giunto a queste drammatiche conseguenze - continua Scalfari - solo perché postulerebbe «l'ancoraggio all'intervento divino sul cosmo e sull'uomo, creato "a immagine e somiglianza di Dio" perché possa onorarlo, amarlo e infine godere in eterno delle celesti beatitudini se il giudizio finale lo avrà ammesso al cospetto del suo creatore». Secondo Scalfari, quindi, il baratro è stato evitato solo perché, secondo il papa, il processo «ha richiesto un intervento diretto del creatore, è lui che ha inserito l'anima immortale nel corpo di quello strano bipede eretto e implume, che senza l'anima, non sarebbe stato l'uomo che è».

Qui Scalfari traduce bene il pensiero espresso dal papa, ma non ne coglie bene la portata. Non è infatti la convinzione di un intervento diretto di Dio a salvare la dottrina della fede cristiana. Si possono infatti accettare completamente le teorie evoluzioniste senza che cambi nulla nella fede come oggi viene vissuta e nella dottrina come oggi viene professata.

Il concetto di creazione

Da decenni la teologia cristiana utilizza un Concetto di creazione che non implica "interventi" di Dio, e inoltre può fare anche a meno di utilizzare il concetto di anima spirituale e immortale, come principio di differenza tra gli animali e l'uomo.

Per chiarire questi concetti del pensiero teologico occorre partire dal Concilio vaticano II. Nella costituzione pastorale Gaudium et spes il Concilio ha presentato la prospettiva evolutiva come una caratteristica della cultura attuale. Scriveva infatti: «il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine, a una concezione più dinamica cd evolutiva» (GS. 5). Conseguentemente il Concilio sollecitava i credenti a tener conto di questo mutamento. da cui sarebbe derivato «un formidabile complesso di nuovi problemi», che avrebbe richiesto «analisi e sintesi nuove».

Sollecitati da questo autorevole invito i teologi hanno raccolto diversi elementi già presenti nella tradizione cristiana e hanno messo a punto un concetto di creazione molto più ricco e fecondo di quello comune negli ultimi secoli. È stata infatti recuperata la nozione di creazione come dipendenza totale dell'essere da Dio. Scriveva S. Tommaso d'Aquino: «La creazione non è un cambiamento. È la dipendenza stessa dell'essere creato in rapporto al suo principio» (Contra Gentes, 2.18). Secondo questo modello l'azione creatrice di Dio investe con tutta la sua potenza il nulla o il caos originario, che però non è in grado di accogliere pienamente fin dall'inizio la perfezione offerta, ma solo nella successione e a frammenti. La creatura perciò è tempo, perché è successione. Intendendo la creazione in modo dinamico ed evolutivo, occorre dire che la forza creatrice alimenta in ogni istante il processo dell'evoluzione. Non vi è dunque alcuna necessità di "interventi" divini.

La realtà stessa, evolvendo, è in grado di accogliere in modo molto più ricco e profondo l'offerta vitale contenuta nell'energia creatrice, che alimenta tutto i processo. Il peccato è la resistenza che l'uomo pone alla forza di vita quando giunta a livello consapevole, sollecita decisioni consapevoli e libere.

Anche il catechismo degli adulti La verità vi farà liberi, pubblicato da vescovi italiani nel 1995, si pone in questa prospettiva: «Nella bibbia la creazione è presentata anche come la sua attività continua, il fondamento perenne di ogni cosa. L'universo dipende sempre da Dio, sia per iniziare, sia per continuare a esistere e per svilupparsi verso nuove e più alte forme di vita. Il soffio dello Spirito avvolge, penetra le creature, le sostiene e le fa germogliare come vento di primavera... La creazione non è il gesto compiuto da Dio in un tempo remoto, ma il dono di ogni giorno» (CdA, n. 360)

La stessa sensibilità appare quando il catechismo parla dell'origine d ogni uomo. Vi si dice che «partecipando a un processo evolutivo globale l'uomo nasce, si trasforma e muore come gli altri esseri della natura. Può ricevere la vita solo a frammenti» (n 372), «non viene alla luce come una realtà ben definita e compiuta, ma come un progetto da portare a compimento, con la sua stessa libera cooperazione», diventa se stesso attraverso i rapporti, «riceve e trasmette la vita in un tessuto di relazioni» (n. 366). Di conseguenza il male non viene attribuito solo al peccato perchè «molti mali derivano senz'altro dai limiti naturali, dall'inserimento nel mondo... La precarietà della condizione naturale viene poi aggravata da innumerevoli colpe personali, che procurano più o meno direttamente una infinità di guai, a sé e agli altri» (n. 372). Della solidarietà nel peccato si dice che «impedisce di integrare nella vita, in maniera significativa, i dolori che provengono dagli altri uomini e dai limiti inerenti alla natura» (n. 373).

La creazione e l’anima dell’uomo

Nel discorso del papa all'Accademia della scienze è riportata pure un'affermazione di Pio XII sulla creazione immediata dell'anima di ogni uomo da parte di Dio. L'accenno di Giovanni Paolo II è veloce e non approfondito, ma cita esplicitamente il testo della lettera enciclica Humani generis di Pio XII, che per la prima volta nei tempi moderni aveva parlato della creazione immediata dell'anima di ogni uomo («la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente da Dio», (DH. 3896). Ma oggi, accogliendo la prospettiva evolutiva e il concetto classico di creazione, il modello anima-corpo non è molto significativo e non appare necessario: inoltre parlare di creazione immediata dell'anima diventa incongruo.

Già il catechismo degli adulti della CEI ha in merito utilizzato un linguaggio più duttile e simbolico e ha evitato di parlare di creazione dell’anima: «secondo la concezione biblica l'uomo è"spirito, anima e corpo" (1 Ts 5.23) cioè un soggetto partecipe della vita divina, vivo e pieno di desideri, inserito nel mondo e sottomesso alla caducità» (CdA, n. 1017). Pur riconoscendo che «la nostra tradizione culturale preferisce parlare di anima e di corpo», conclude: «quel che conta è affermare l'unità dell'uomo, unico soggetto che vive a vari livelli, posto tra cielo e terra, uditore di Dio e interprete delle cose materiali».

Più decisa ancora è la scelta quando in riferimento alla continuità della vita il CdA scrive: «dopo la morte sopravvive l'io personale, dotato di coscienza e volontà. Se si vuole chiamarlo "anima" bisogna intendere questa parola in maniera biblica» (CdA n. 1195). Per questo il catechismo della CEI, commentando il secondo capitolo della Genesi, scrive: «L'uomo riceve direttamente da Dio il soffio della vita spirituale. L'evoluzione da sola non basta a dare origine al genere umano; la causalità biologica dei genitori non spiega da sola la nascita di un bambino, persona cosciente e libera, del tutto singolare. Occorre in entrambi i casi uno speciale concorso di Dio creatore» (n. 367).

Un cambio di prospettiva

In prospettiva evolutiva si continua ad affermare la continuità causale di Dio, che però non si esprime in interventi o cambiamenti di rotta. Essa offre possibilità molteplici alle creature che seguendo le proprie dinamiche si sviluppano per vie spesso casuali e nell'intreccio di molteplici relazioni. Ogni passo avanti dell'evoluzione consente una nuova espressione della causalità creatrice resa possibile da nuove capacità di accoglienza delle creature. Il nuovo emergente non deve essere inteso come un'inedita azione di Dio o un suo "intervento" nel processo evolutivo, ma come un nuovo modo di esprimersi, dal di dentro della creazione della stessa forza creatrice che fonda tutta la realtà. Come una luce che si espande quando si creano nuovi spazi alla sua presenza.

In ogni caso anche accettando pienamente la teoria evoluzionista, la dottrina cristiana resta intatta. Certamente molte nozioni tradizionali debbono essere sostituite da altre più coerenti. Questo è appunto il lavoro che il concilio chiedeva ai teologi in modo da adattare per quanto conviene «il vangelo sia alle capacità di tutti, sia alle esigenze dei sapienti» (GS, 44). In questi decenni molto lavoro è stato compiuto dai teologi e acquisizioni definitive sono state realizzate, sotto lo stimolo delle scienze, ma secondo dinamiche proprie della fede. Per questo esse resteranno anche quando le teorie evoluzioniste saranno sostituite da altre. Scrivevano già nel 1979 due noti teologi dell'Università gregoriana di Roma: «Se un giorno le scienze abbandonassero l'evoluzionismo, ciò in teologia non cambierebbe nulla. Resterebbe sempre un arricchimento dell'intelligenza della fede, provocata dall'incontro con l'evoluzionismo» (Alszeghy A. - Flick M., I primordi della salvezza, Marietti, 1979, p. 79).

Le discussioni di questi giorni potranno servire a rendere pubbliche queste acquisizioni teologiche, rimaste forse ancora patrimonio di pochi specialisti.

(da Testimoni, 15 dicembre 1996)

Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (prima parte)

di Alberto Valentini

Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve


1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo

La densa e concisa annotazione di At 1,14 non può essere compresa, anche dal punto di vista sintattico, senza i vv. 12-13 che la introducono ed inquadrano. Il lettore è invitato pertanto a considerare la breve pericope di At 1,12-14. Posta al centro del capitolo primo degli Atti, essa presenta molteplici motivi di interesse e funge da raccordo tra quanto si è detto nei vv. 4-8 e l'evento di Pentecoste che sarà narrato nel capitolo secondo.

Se ogni testo dev'essere letto alla luce del contesto immediato e remoto, questa esigenza vale in particolare per At 1,12-14, che presenta un'ampia rete di relazioni e contatti.

Il v. 12: "Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli ulivi..." collega il testo non solo con la scena dell'ascensione (9-11) appena descritta, ma anche con il v. 4, nel quale il Risorto comanda agli apostoli di non allontanarsi da Gerusalemme. (1)

La formula perifrastica hoù ésan kataménontes del v. 13 richiama il verbo della medesima radice (periménein)del v. 4, che rivela anche il senso di quell'attesa, finalizzata alla "epangelía" del Padre, esplicitata nel v. 5 come "battesimo per mezzo dello Spirito". (2)

I legami non si limitano a quanto precede, ma si estendono anche ai brani seguenti: la necessaria ricostituzione del gruppo dei Dodici (vv. 15-26), (3) dopo l'elenco degli Undici fatto nel v. 13, e soprattutto la venuta dello Spirito nel capitolo secondo. Il v. 2,1: "Al compiersi del giorno di Pentecoste erano tutti insieme nello stesso luogo" richiama certamente l'annuncio "fra non molti giorni" del v. 1,5, ma suppone il ritorno degli Undici a Gerusalemme, la salita alla stanza superiore e la preghiera unanime e assidua della comunità (vv. 12-14). I legami della nostra pericope con i vv. 2,1-4 appaiono piuttosto evidenti. Esiste anzitutto il rapporto di fondo: attesa-compimento, ma anche una chiara continuità tra le due scene che presentano gli stessi personaggi, nello stesso luogo, con il medesimo atteggiamento. (4)

I vv. 1,12-14 costituiscono in qualche modo un crocevia nell'articolazione del capitolo primo degli Atti e in rapporto all'evento di Pentecoste. Essi si giustificano a partire da un comando e da una promessa: comando di restare a Gerusalemme (v. 4) e promessa dello Spirito (v. 8), in vista della testimonianza da rendere al Signore Gesù. La nostra pericope è inscindibilmente legata a quanto precede e direttamente finalizzata al dono dello Spirito santo.

I collegamenti, tuttavia, vanno oltre il contesto immediato, proiettandosi in un ambito ben più vasto. Com'è noto, il capitolo primo degli Atti si presenta quale introduzione, che opera il raccordo tra il "tempo di Gesù" e il "tempo della Chiesa". Esso garantisce la continuità tra il primo e il secondo libro di Luca - come lo stesso autore afferma (vv. 1-2) (5) - ma al tempo stesso anticipa il programma di tutto il racconto degli Atti (v. 8). (6)

Se in chiave prospettica, il capitolo primo introduce il contenuto ed anticipa lo sviluppo degli Atti, retrospettivamente ripropone la conclusione del primo libro di Luca. (7) La parte finale del vangelo e quella iniziale degli Atti si presentano come pannelli di un dittico: si spiegano e si illuminano a vicenda. (8) Si confrontino Lc 24,44-53 e At 1,3-14: in tutt'e due le sezioni si possono distinguere tre elementi paralleli:

- una "catechesi" del Risorto (9) agli apostoli (10) (Lc 24,44.46-47; (11) At 1,3-8), seguita da un incarico di testimonianza (Lc 24,48; At 1,8) e dall'annuncio dell'invio della "promessa del Padre"- la "forza dall'alto" (Lc 24,49; At 4,4.5.8), in attesa della quale devono restare in città (Lc 24,49; At 1,4);

- il racconto dell'ascensione (Lc 24,50-52a; At 1,9-11).

- il ritorno a Gerusalemme e la vita della comunità (Lc 24,52b-53; At 1,12-14). (12)

La seconda parte del capitolo primo degli Atti (vv. 15-26), anche se legata alla prima, appare molto diversa: (13) mentre At 1,3-14 ripete, con delle variazioni, quanto è stato detto alla fine del vangelo, la seconda parte (vv. 15-26) ha come oggetto la definizione del ministero apostolico (1,21-22), che giunge al termine del discorso di Pietro ai fratelli, e prepara l'aggregazione di Mattia al collegio degli apostoli.

Nei vv. 12-14 troviamo un gruppo ristretto di persone insieme con gli Undici, nella scena successiva, invece, si parla di circa 120 persone, una comunità ben più vasta, interpellata per la scelta del dodicesimo apostolo. Ciò fa pensare che il gruppo descritto in 12-14 sia il nucleo originario e fondamentale della primitiva comunità, al quale si sono aggiunti poi altri discepoli. Esso si trova in una posizione particolare nella chiesa delle origini. Di questo primo nucleo ecclesiale si occupa la breve, ma preziosa annotazione del v. 14, oggetto della nostra riflessione.

1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16

In base allo stile e alla terminologia impiegata, At 1,14 appare un brano redazionale. Nonostante la sua marcata brevità, esso va annoverato tra quei testi ricorrenti negli Atti - specie nella prima parte - chiamati convenzionalmente "sommari". (14) Collocato al centro della pagina iniziale degli Atti, può essere considerato come il primo breve sommario: "un bilancio teologico e spirituale", dopo la presentazione degli avvenimenti successivi alla risurrezione di Gesù e in attesa del dono dello Spirito; (15) "un sommario sulla vita di preghiera della comunità e sulla sua costituzione". (16)

Secondo P. Benoit, i sommari sono "quadri d'insieme che dipingono in maniera generale dei tratti o atteggiamenti della comunità, di cui i racconti adiacenti forniscono illustrazioni particolari...sono veri quadri ricapitolativi circa la vita della prima comunità". (17) Essi costituiscono un campo privilegiato di ricerca delle intenzioni e della teologia dell'autore. E' necessario pertanto metterne in rilievo ogni dettaglio, alla luce del contesto e nel confronto con i sommari paralleli. Nell'ambito del presente studio, ci limiteremo ad accennare ad alcuni rapporti che intercorrono tra il nostro testo e i sommari successivi, caratterizzanti la vita della comunità gerosolimitana delle origini. E' nota la parentela esistente tra questi brani, che presentano fenomeni letterari e teologici quasi identici, espressi con formule simili e complementari. (18)

All'interno di questa consonanza di fondo, i singoli testi contengono delle peculiarità, che è importante mettere in luce per poterli adeguatamente qualificare. (19)

Il testo di At 1,14 presenta con ogni evidenza due caratteristiche che lo segnalano nettamente: anzitutto la preghiera (20) unanime e perseverante, e poi l'indicazione dei membri che compongono la comunità primitiva. (21)

La prima nota, la preghiera, si trova - in forma più articolata e insieme con altri fondamentali elementi - nel sommario seguente (2, 42-47), (22) mentre non viene esplicitata ugualmente nei sommari successivi, i quali mettono in evidenza altri aspetti della comunità. Possiamo affermare che, partendo dal primo sommario e procedendo verso gli altri - nei primi cinque capitoli degli Atti - si assiste a un movimento che va dalla vita interna della comunità primitiva alle manifestazioni più esterne e visibili di essa. (23) “L’interesse del primo sommario è interamente rivolto alla vita religiosa ed interna dei primi credenti nella comunità ecclesiale”. (24) At 2,42-47, pur sottolineando la dimensione religiosa, (25) inserisce altre note, quali l’attività taumaturgica degli apostoli, la comunione dei credenti, la condivisione dei beni, la stima da parte del popolo e l’adesione quotidiana di nuovi membri alla fede.

Il brano di 4,32-35 segnala elementi simili: la comunione dei cuori e dei beni, la forte testimonianza resa dagli apostoli al Risorto, la stima di cui tutti sono circondati.

L’ultimo dei sommari presi in considerazione (5,12-16) si colloca sulla stessa linea, mettendo in luce i prodigi operati dagli apostoli, lo stare insieme, l'approvazione del popolo, l'aumento costante dei credenti, le numerose guarigioni.

In tutti questi brani è evidente una nota caratteristica - la comunione degli animi - anche se espressa in modi diversi: con l’avverbio homothymadón (1,14; 2,46; 5,12); con la formula un cuore ed un’anima sola (4,32); con l’espressione epì tò autó, che solitamente significa “insieme”, “ma che sembra avere un senso molto forte in 2,44 e 2,47”. (26) E, fatto degno di nota, tale unità di spirito è connessa, anche se non sempre esplicitamente, con la preghiera. Per quanto concerne l’avverbio homothymadón il legame è diretto, non solo nei tre testi citati, ma anche in 4,24, nell’introduzione alla preghiera degli apostoli: “Essi unanimemente alzarono la voce a Dio e dissero...”.

La preghiera sta alla base della comunione: questa infatti è frutto dello Spirito, il dono che il Padre celeste concede a quelli che lo pregano (cf Lc 11,13).

La seconda nota - la presentazione dei membri della comunità apostolica - è una peculiarità del nostro testo, che, per quanto breve, appare singolarmente articolato. Gli altri sommari parlano in maniera generale della moltitudine dei credenti, della vita interna della comunità e dei rapporti con l'esterno; si soffermano in particolare sugli apostoli, i quali hanno la presidenza della comunità, esercitano il ministero della parola (2,42), operano guarigioni e prodigi (2,43; 5,12), rendono testimonianza al Signore Gesù (4,33)...; ma quei brani non informano circa le diverse categorie di persone che compongono la comunità delle origini. At 1,14, invece, accanto agli apostoli, pone delle donne, Maria la madre di Gesù e i suoi "fratelli". Questi personaggi, non saranno più menzionati nel corso degli Atti, ma ormai sappiamo che fanno parte della comunità apostolica. Essi sono stati inseriti nel primo sommario con un duplice intento: mostrare la continuità degli Atti con la narrazione evangelica, e ricordare al lettore che essi hanno un ruolo non secondario nella comunità dei discepoli del Signore.

Dopo il breve confronto con i sommari, s'impone una riflessione sulla preghiera in Luca e in At 1,14; e, in un secondo momento, sulla comunità apostolica e i personaggi che la compongono.

1.3. La preghiera in Luca

all'ora dell'incenso" (Lc 1,10), (28) e si conclude con le scene della presentazione e del ritrovamento, inquadrate nel contesto di riti e celebrazioni liturgiche.

Insieme col culto ufficiale, viene sottolineata la pietà dei diversi personaggi, per alcuni tratti simile a quella che troviamo nelle prime pagine degli Atti. A Zaccaria viene rivelato che la sua preghiera è stata esaudita (1,13); Simeone è presentato come "giusto e pio...e lo Spirito santo era su di lui" (2,25); Anna "non si allontanava dal tempio e serviva Dio notte e giorno con digiuni e preghiere" (2,37); Maria, la madre di Gesù, per due volte (2,19.51b) viene presentata in atteggiamento sapienziale: intenta a conservare e confrontare nel suo cuore (29) tutte le parole e gli eventi concernenti il Figlio.

La preghiera nei racconti dell'infanzia si esprime in maniera privilegiata nel canto, fatto di lode, ringraziamento, benedizione, esaltazione di Dio e della salvezza manifestata in Cristo. Ricordiamo il cantico di Maria (1,46-55), di Zaccaria (1,68-79), degli angeli (2,14) e di Simeone (2,29-32); le lodi dei pastori (2,20), di Elisabetta (1,42-45) e di Anna (2,38). In Lc 1-2 si respira effettivamente un clima che richiama quello delle comunità degli Atti, imbevuto di profonda spiritualità e di lode divina. (30)

Il vangelo lucano, che si apre nel tempio con i racconti dell'infanzia, si conclude nel medesimo luogo, in contesto liturgico, con la lode di Dio (cf Lc 24,53). La preghiera, posta all'inizio e alla fine, forma come una grande inclusione e sottende tutto l'arco del terzo vangelo. All'interno di esso, Luca ama evidenziare la preghiera di Gesù: (31) lo fa con maggior insistenza e con sottolineature proprie nei confronti degli altri sinottici. A differenza di Marco e Matteo, che rispettivamente presentano tre volte Gesù in orazione, (32) Luca segnala il fatto ben otto volte e in contesti particolari, nei quali l'atteggiamento del Maestro emerge con maggiore rilievo. Cinque menzioni di Luca non hanno dunque paralleli in ambito sinottico: (33) Gesù è in preghiera nel battesimo (3,21); in occasione dell’elezione dei Dodici, passa tutta la notte in orazione (6,12); nella trasfigurazione, sale sulla montagna per pregare (9,28.29); dopo averlo visto pregare, uno dei discepoli gli chiede di insegnare loro a fare altrettanto (11, 1); (34) nell’ultima cena, solo Luca riferisce le parole di Gesù rivolte a Pietro che stava per rinnegarlo: “Ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno” (22,32).

In questi casi è evidente l'apporto redazionale di Luca; ma anche nei passi in cui segue la tradizione sinottica, egli presenta sfumature e rilievi, che emergono dal semplice confronto con i testi paralleli.

Gli Atti degli Apostoli non si limitano a mettere la preghiera in primo piano nelle sintesi stilizzate ed edificanti dei sommari, ma la mostrano nell’esperienza quotidiana delle comunità e dei singoli. Si prega in occasione dell’elezione di Mattia (1,24); quando gli apostoli, dopo l’interrogatorio da parte del Sinedrio, vengono rimessi in libertà (4,24-30); prima dell’imposizione delle mani ai sette (6,6); mentre Pietro è in prigione (12,5); e in diversi altri momenti. Utilizzando una formula di Gl 2,5, i cristiani si qualificano come “coloro che invocano il nome del Signore” (cf At 9,14.21), con riferimento al Cristo glorioso.

Da tutto ciò si può comprendere come l’invito di Gesù a pregare sempre, in ogni tempo, sia stato attuato fedelmente nella comunità primitiva. Edotta dallo Spirito e radunata intorno al Signore risorto, la Chiesa si presenta anzitutto come comunità di preghiera.

La preghiera, negli Atti - come del resto nelle lettere paoline - è caratterizzata da due note fondamentali: la perseveranza, elemento già sottolineato dal terzo vangelo, e la comunione, (35) aspetto che Luca - a differenza di Matteo (cf 5,23s; 18,19s) - non evidenzia nel vangelo. Su queste due note ci soffermeremo in seguito.


(continua)

Note

(1) Il cammino di un sabato (v. 12), che è di circa 2000 cubiti (880 metri), non costituisce un cambiamento di luogo: non è un allontanarsi da Gerusalemme.

(2) Questo è anche il senso della parallela locuzione perifrastica del v. 14: ésan proskarteroúntes...

(3) Si noti il deì oùn...del v. 21: è una scelta che si impone perché già operata dal Signore ( cf v. 24).

(4) Colpiscono le espressioni parallele:

1,14: "tutti costoro erano perseveranti homothymadòn.../ 2,1: "erano tutti homoú nello stesso luogo";

1,13: la stanza superiore hoù ésan kataménontes / 2,2: la casa hoù ésan kathémenoi.

At 2,1 sembra dunque in rapporto con 1,13-14 piuttosto che con 1,15. In At 2,1.2b Luca ripete, variando parzialmente i termini, la notizia di 1,13-14, che pare sia stata redatta per servire d'introduzione alla storia della Pentecoste. "In realtà, la lista di 1,13-14 costituiva la normale introduzione al racconto della Pentecoste; Luca l'ha separata, volendo riferire le circostanze dell'elezione del dodicesimo apostolo; ma questo episodio rappresenta soltanto una parentesi e, in esso, la notazione delle 120 persone è, a sua volta, un'ulteriore parentesi" (J. Dupont, La prima Pentecoste cristiana (Atti 2,1-11), in Id., Studi sugli Atti degli apostoli, Roma 1973, 828).

(5) At 1,1-2 richiama in maniera estremamente concisa ed efficace tutto il contenuto del vangelo, dall'inizio dell'attività di Gesù fino alla sua ascensione.

(6) Il capitolo primo, con il suo prologo, rappresenta l'introduzione a una storia, quella degli Atti, che inizia con l'evento della Pentecoste e con il grande discorso inaugurale di Pietro.

(7) At 1,3-11 ricorda quel che Gesù fece e disse dalla risurrezione all'ascensione, riproponendo il contenuto delle ultime pericopi di Lc 24.

(8) "Dividendo la sua opera in due libri, Luca sa che deve accuratamente evitare di fare di questa divisione un'interruzione del racconto. Il procedimento raccomandato in questo caso è quello del cosiddetto 'intreccio delle estremità': la finale del primo libro anticipa gli eventi del secondo, e l'inizio del secondo ritorna su ciò che era già stato riferito nel primo" (J. Dupont, La missione di Paolo secondo Atti 26,16-23 e la missione degli apostoli secondo Luca 24,44-49 e Atti 1,8, in Id., Nuovi studi sugli Atti degli Apostoli, Cinisello Balsamo 1985, 406).

(9) La catechesi riguarda il passato e il futuro. In Lc 24,44 Gesù riprende, attualizzandole, le parole rivolte loro prima del suo "esodo", secondo le quali è necessario (deí) che si compiano tutte le cose scritte di Lui nella legge, nei profeti e nei salmi. Apre quindi la loro mente alla comprensione delle Scritture: si noti il parallelismo con l'episodio dei discepoli di Emmaus (vv. 25-27) ai quali apre non la mente, ma le Scritture (v. 32). Nel v. 46 viene riproposto in maniera esplicita il messaggio degli annunci della passione (Lc 9,22; 18,31-33), che adesso è divenuto Kerygma pasquale (cf 1Cor 15,3-4), ma con un'aggiunta significativa nel v. 47: che nel suo nome sia proclamata a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati (cf Mc 13,10; At 26,23). Questi tre elementi: la passione, la risurrezione e la missione di proclamare la salvezza alle genti fanno parte degli annunci profetici concernenti il Messia (cf Is 49,6 ripreso in Lc 2,31s; At 13,47; 26,23; 28,28).

(10) Secondo il vangelo, l'istruzione si svolge alla presenza degli "Undici e quelli che erano con loro" (Lc 24,33; cf 24,9). In At 1,2 si parla in maniera chiara degli "apostoli che egli si era scelti per mezzo dello Spirito santo".

(11) In realtà, Lc 24,44-49 - come osserva giustamente Dupont - "non si presenta come un unico discorso, ma come due discorsi", introdotti rispettivamente dalla formula "E disse loro", e separati dalla notizia narrativa del v. 45 (cf J. Dupont, a.c., 406).

(12) Il ritorno a Gerusalemme è presentato con la medesima formula: hypéstrepsan eis Ierousalém. Lc 24,52 sottolinea la nota di gioia: metà charàs megàles, che forma inclusione con la grande gioia diLc 2,10, annunciata alla nascita di Gesù. Atti 1,12 non mette in rilievo la gioia; essa però si trova, in At 2,46s, ove abbiamo anche una sintesi della vita liturgica della comunità primitiva.

(13) Cf G. Schneider, Gli Atti degli Apostoli, I, Brescia 1985, 272, nota 2. I vv. 1,15-26 costituiscono un "intermezzo": l'evento di Pentecoste si aggancia ai vv. 1,12-14.

(14) I principali e più noti sono At 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16, con i quali il nostro testo presenta evidenti contatti.

C. Ghidelli distingue tra sommari (quelli appena indicati), "notizie redazionali", in cui colloca il nostro brano, e "ritornelli", comprendenti brevi testi che intercalano la narrazione e "lasciano intravedere una strutturale unità di tutto il libro degli Atti" (C. Ghidelli, I tratti riassuntivi degli Atti degli Apostoli, in Il Messaggio della salvezza, V, Torino-Leumann 1968, 140).

(15) Cf R. Fabris, La presenza della Vergine al Cenacolo (At 1,14), in Marianum 50 (1988), 404s.

(16) G. Schneider, o.c., 273. Altrove Schneider annovera At 1,14 tra "le notizie minori in forma di sommario", come At 6,7; 9,31; 12,24; 16,5; 19,20; 28,30s (cf ivi, 147, nota 10).

(17) P. Benoit, Remarques sur les "Sommaires" des Actes II, IV et V, in Exégèse et Théologie, II, Paris 1961, 181.

(18) Non entriamo qui nella problematica circa la formazione e la redazione definitiva di questi brani, che rivelano molteplici contatti, secondo alcuni rimaneggiamenti e concordismi anche maldestri. Per tali questioni rimandiamo in particolare a P. Benoit, a.c, 181-192; H. Zimmermann, Die Sammelberichte der Apostelgeschichte, BZ 5 (1961), 71-82; H.J. Degenhardt, Lukas, Evangelist der Armen, Stuttgart 1965;
E. Haenchen, Die Apostelgeschichte, Göttingen 71977, 194-197; 228-231; 238-241; E. Rasco, Actus Apostolorum. Introductio et exempla exegetica, PUG, Romae 1968, 271-330.
Alle ricostruzioni parzialmente discutibili di Benoit, Zimmermann, Degenhardt e di altri studiosi, fa da contrasto la posizione di Haenchen, il quale attribuisce tutto all'attività redazionale di Luca. Su questa linea si colloca anche Schneider (o.c., 147s. 396. 527). Più prudente e possibilista appare Rasco, il quale rinuncia alla identificazione precisa dei materiali tradizionali e redazionali.

(19) Queste composizioni costituiscono "un prezioso e ricco polittico - di cui ogni singolo sommario rappresenta un pannello di particolare interesse - con il quale Luca ha delineato i vari aspetti della vita e della religiosità della chiesa primitiva” (B. Prete, Il sommario di Atti 1,13-14 e suo apporto per la conoscenza della Chiesa delle origini, SacDoct 18[1973]90).

(20) “La prière est la première action de l’Eglise au lendemain de l’Ascension (Actes 1,14). Elle précède tout autre souci” (Ph.-H. Menoud, La vie de l’Eglise naissante, Neuchâtel 21969, 88).

(21) L'elenco dei membri della comunità radunata intorno agli Undici si trova solo nel nostro sommario: negli altri tre si parla di: "tutti i credenti" (2,44), "moltitudine dei credenti" (4,32), "tutti" (5,12).

(22) E' da sottolineare l'importanza del v. 42, sia in se stesso sia in rapporto ad At 1,14. Collocato in posizione privilegiata - subito dopo il grande discorso di Pietro e l'adesione alla fede di quasi tremila persone - il v. 42 presenta una sintesi fondamentale della vita della comunità primitiva; sintesi che viene commentata nei vv. seguenti (43-47), e che costituisce un punto di riferimento decisivo per la Chiesa di ogni tempo.
Il v. 42 si trova, per così dire, in parallelismo con 1,14: questo è inserito prima dell'evento di Pentecoste, quello in conclusione; tutti e due iniziano con la formula perifrastica ésan proskarteroúntes; ambedue si concentrano sulla vita interna della comunità. Mentre però At 1,14 si limita a sottolineare la preghiera in preparazione al dono dello Spirito, At 2,42 presenta un quadro più completo della comunità radunata in conseguenza della della Pentecoste. Secondo At 2,42 la comunità - posta sotto il segno della "perseveranza" (cf anche l' "ogni giorno" del v. 46) - è caratterizzata da quattro note fondamentali, raggruppate a due a due: l'insegnamento degli apostoli e la koinonia, la frazione del pane e le preghiere. In base a questi tratti, i primi credenti si rivelano, in maniera privilegiata, quale comunità di preghiera, anzi comunità liturgica, e non solo per le ultime due note. La liturgia non si limita infatti alle preghiere e neppure alla celebrazione propriamente detta, ma inizia con la proclamazione della Parola (la didachè degli apostoli) e - in conseguenza della celebrazione del "mistero" - si conclude con l'impegno di vita dei credenti animato dalla carità (la koinonia).

(23) Fermo restando quanto si è detto - nella nota 22 - circa At 2,42.

(24) Cf B. Prete, a.c., 91.

(25) Anzi, vi ritorna ripetutamente (2,42.46.47), distinguendo le varie esperienze di preghiera e di liturgia sia in casa che al tempio.

(26) J. Dupont, L’unione tra i primi cristiani, in Id., Nuovi studi..., 284; cf 287ss.

(27) Qui e nella comunità di Gerusalemme, più che altrove, "l'esprit de la prière chrétienne est d'abord celui de la prière des pieux israélites qui maintiennent vivante en leur coeur la grande tradition biblique" (J. Dupont, Le discours de Milet, Paris 1962, 349).

(28) Si noti il caratteristico linguaggio, che ritroviamo nei sommari degli Atti: la locuzione ridondante "tutta la moltitudine del popolo" (cf At 2,44.47; 4,32; 5,12.14), e la forma perifrastica en... proseuchómenon (cf At 1,13.14; 2,42.46).

(29) Un atteggiamento simile si può ravvisare in Lc 1,66, riferito a tutti coloro che udivano le cose straordinarie legate alla nascita di Giovanni.

(30) E' significativo in tal senso, per es., il verbo ainéo che ricorre in Lc 2,13.20, a proposito della schiera celeste e dei pastori, e in At 2,47, con riferimento alla comunità che celebra le lodi di Dio.

(31) Negli Atti, l'autore insisterà sulla preghiera degli apostoli e dei credenti, i quali continuano quanto ha fatto e insegnato il Maestro.

(32) In Marco: dopo la giornata di Cafarnao (1,35); dopo la prima moltiplicazione dei pani (6,46); nel giardino degli ulivi (14,32-39). In Matteo: dopo la prima moltiplicazione dei pani (14,23); prima dell' arresto (26,36-44); in un testo peculiare del primo evangelista, secondo il quale i fanciulli vengono presentati a Gesù, non perché egli li tocchi ( Mc 10,13; Lc 18,15), ma perché imponga loro le mani e preghi per essi" (Mt 19,13).

(33) Nel quarto vangelo non si danno testi paralleli.

(34) Si noti il contesto totalmente diverso nel quale Matteo inserisce il Padre nostro (Mt 6,9-13).

(35) "Il s'agit alors de souligner l'application à la prière des Apôtres (6,4), des chrétiens (2,42-46), ainsi que l'unité réalisée par cette communauté en prière: qu'elle soit réunie dans le Temple, dans la "chambre haute", ou dans quelque maison privée" (L. Monloubou, La prière selon saint Luc [Lectio Divina 89], Paris 1976, 38).

Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio (…). Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”. (Marco 2, 1.12).

Il Paese delle croci di pietra
di Aldo Ferrari


La grande cupola bianca dell’Ararat riempie il cielo turchese d’Armenia. Fonte e perno dell’universo armeno, fondale fisso di un paesaggio aspro e immutato, colma gli occhi e la mente con la persistenza propria del simbolo: di una terra e di una storia. La montagna infatti si trova oggi in territorio turco, al confine con la Repubblica armena. Quasi un miraggio, dunque, e insieme un orizzonte inciso in ogni sguardo, memento di tutto ciò che è stato e di tutto ciò che è.

L’Armenia è la più piccola delle quindici entità statali divenute indipendenti in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, e la sua popolazione, a causa della consistente emigrazione degli ultimi anni, è oggi ben inferiore agli oltre tre milioni e mezzo dell’epoca sovietica. Viaggiare in questo Paese significa entrare in contatto con una realtà che porta su di sè l’eredità di un passato tanto lungo e glorioso quanto tormentato. A partire dalle sue stesse dimensioni, che sono circa un decimo di quelle dall’antica Armenia, e che non le consentono oggi di avere un ruolo corrispondente a quello di molti periodi della sua storia. Ma almeno altrettanto importante, in chiave sia storica sia psicologica, è il fatto che tale ridimensionamento sia dovuto essenzialmente alla tragedia epocale del genocidio, che ha non solo sancito la perdita definitiva dei territori armeni occidentali, ma anche l’annientamento o l’espulsione della popolazione che vi abitava ininterrottamente da quasi tre millenni. Un evento cruciale per comprendere sia la diaspora che da esso è in larga misura scaturita, sia le sorti della Repubblica indipendente, che ancora ne subisce le ripercussioni. In primo luogo per i contrasti con la vicina Turchia, che non ha mai riconosciuto il genocidio, e quindi con l’altra Repubblica turca del Caucaso meridionale, l’Azerbaigian, con la quale l’Armenia ha in sospeso il contenzioso sul destino del territorio del Karabagh, abitato in larga maggioranza da armeni ma attribuito a Baku in epoca sovietica. Ciò significa che l’attuale Stato armeno deve fronteggiare non solo gli enormi problemi politici, economici e sociali di ogni Repubblica post-sovietica, ma anche una situazione geo-politica di estrema complessità. In questo compito è peraltro favorito dalla notevole compattezza etnica, mentre la forte coscienza nazionale che anima una diaspora più numerosa della popolazione che vive in patria consente a quest’ultima di non restare isolata e di trovare sostegno in numerosi Paesi del mondo (soprattutto nell’area del Vicino Medio Oriente, in Russia, in Francia e negli Stati Uniti).

Così come l’Ararat, anche la maggior parte dei monumenti del passato sono oggi in Turchia, dove versano in condizioni disastrose. Anche la Repubblica armena è ricchissima di testimonianze storiche e artistiche. Un itinerario attraverso questo territorio non può che iniziare dalla capitale, Erevan. Pur costruita prevalentemente in epoca sovietica, questa città ha nel complesso un aspetto gradevole, grazie ad un’urbanistica equilibrata e al pregio estetico del tufo, la pietra dalle numerose sfumature cromatiche che caratterizza l’architettura armena. Tra i monumenti più celebri è il Matenadaram (Biblioteca nazionale), che custodisce circa 17 mila manoscritti, molti dei quali impreziositi da bellissime miniature. Il fascino principale di Erevan nasce tuttavia dal profilo onnipresente delle sue vette perennemente innevate dell’Ararat, la montagna sulla quale, secondo la tradizione biblica, si arrestò l’arca di Noè. Nelle immediate vicinanze della città sorge il monumento alle vittime del genocidio. Una struttura all’aperto e un museo preservano la memoria della catastrofe che segnò in maniera indelebile la nazione armena.

È comunque lontano dal contesto urbano di Erevan che il genio specifico della cultura armena si manifesta con più intensità. In particolare, l’architettura è caratterizzata da uno stretto legame con l’ambiente; tende infatti ad inserirsi armoniosamente nel territorio, come se sorgesse dalla terra di cui riprende l’ocra e la porpora. Un esempio particolarmente significativo di questa aderenza al paesaggio è costituito da Geghard, un complesso monastico di straordinaria suggestione, costruito nel XIII secolo in un sito di antichi insediamenti eremitici. Rannicchiato nel fondo di una gola, il monastero si sviluppa in parte scavato nel vivo della montagna. Non lontano da Gerghard si trova il tempio pagano di Garni (I secolo d.C.), l’unico giunto sino ai nostri giorni in un’Armenia che per secoli si è intimamente identificata con la fede cristiana. Questa identificazione è stata duramente pagata dagli armeni, prima durante il lungo domino musulmano, poi sotto il «nero velluto della notte sovietica», per dirla con Mandel’stam, autore di “Viaggio in Armenia”. In questa terra ogni monumento cristiano assume pertanto un significato particolarmente intenso, testimoniando in maniera non scontata la fede di un popolo perennemente minacciato. Così a Noravank, un monastero isolato e deserto, costruito tra il XIII e il XIV secolo in una stretta valle con il medesimo tufo rossastro delle rupi circostanti, si ha l’impressione che al tramonto le mura assumano il colore del sangue. Naturalmente è solo una suggestione, indotta dalla conoscenza della dolorosa storia del popolo armeno.

Qui si trova la chiesa di Astvatsatsin (Madre di Dio), del XIV secolo, capolavoro dello scultore e miniatore Momik. Stretti gradini si inerpicano sulla facciata ovest fino all’ingresso, coronato da un timpano con l’immagine della Vergine con il Bambino attorniata dai santi Pietro e Paolo.

Quasi al confine con la Turchia, il profilo del monastero di Khor Virap (XVII secolo) si staglia contro il monte Ararat. Il nome in armeno significa “fossa profonda”. Al suo interno infatti è possibile discendere nella grotta in cui sarebbe stato imprigionato per tredici anni san Gregorio l’Illuminatore, colui che convertì l’Armenia la cristianesimo nei primi anni del IV secolo.

Non lontano sorge la cittadina di Etchmiatzin, il cui nome significa “l’Unigenito è disceso”, poichè Cristo vi apparve a san Gregorio. Qui risiede la suprema autorità della Chiesa armena, il “katholikos di tutti gli armeni”. Oltre alla cattedrale fondata da san Gregorio agli inizi del IV secolo, ricostruita nel V e nel XVII, vi si trovano alcune tra le più antiche e splendide chiese armene: ,Shoghakat (VI secolo, ricostruita nel XVII), che significa “effusione di luce”, e quelle intitolate alle sante vergini Gayanè e Hripsimè, edificate entrambe nel VI secolo. Nelle vicinanze di Etchmiatzin si incontrano anche le rovine dell’imponente chiesa di Zvartnots, del VII secolo, la cui ambiziosa e originale struttura non ha retto ai violenti terremoti che di frequente colpiscono questa regione. La corona di colonne superstiti lascia trapelare la leggendaria magnificenza di tempi passati.

Infatti, un altro itinerario di grande bellezza conduce al lago di Sevan, sulle cui rive azzurre si trovano due piccole chiese del IX secolo (Astvatsatsin e San Karapet) che un tempo sorgevano su un’isola e che oggi l’abbassamento delle acque, usate per l’irrigazione, ha ricondotto sulla terraferma. Nelle vicinanze si trova il cimitero di Noraduz, dove si possono ammirare numerosi khatchkar, le splendide “croci di pietra” che costituiscono forse le creazioni più caratteristiche dell’arte sacra armena. La croce (surb nshan, ovvero “santo segno”) ha del resto un ruolo centrale nella spiritualità del popolo armeno.

«Regno di pietre urlanti - / Armenia, Armenia!». Questi versi del poeta Mandel’stam sono un buon viatico per il cammino. Gettano una luce rivelatrice su una terra che, posta tra l’Anatolia e il Caucaso, conserva ancora oggi un sapore primigenio. Viaggiare per l’Armenia significa dunque percorrere sentieri che risalgono alle radici primordiali del mondo, penetrare nel cuore di chiese tetragone che hanno il colore del fuoco e nei silenzi secolari di monasteri simili a misteriosi congegni rotanti attorno ai rocchi delle alte cupole. E impastarsi lo sguardo nell’ocra di una terra all’ombra perenne dell’Ararat, «tenda di nomadi».

Venerdì, 07 Luglio 2006 21:36

Sul bipolarismo (Enrico Chiavacci)

Il termine ‘bipolarismo’ ha oggi un significato etico e politico che va oltre l’uso che se ne fa in questi tempi in Italia. In un mondo ormai globalizzato, sul piano economico come su quello dei media, si delinea ovunque uno scontro netto fra due visioni della vita associata.

L’uomo davanti al volto della Sindone
di Vladimir Zelinskij



IL VOLTO E IL VERBO

Oltre ad essere un oggetto della ricerca scientifica, la Sindone è anche un avvenimento spirituale che ci tocca come persone, ci coinvolge come avvenimento spirituale in un modo o in un altro. Non sono uno studioso della Sindone, perciò il tema della mia riflessione sarà proprio questo incontro con il Volto espostoci davanti, ma, in un certo senso, rivelatoci anche dentro di noi. Da quest’incontro usciamo sempre diversi, cambiati, segnati dal contatto col mistero che ci attira e ci supera. Il Volto della Sindone già nel momento del primo contatto rappresenta un appello che ci chiama alla contemplazione ed anche alla riscoperta di ciò che si trova nel fondamento di noi stessi. Noi ci riscopriamo come cristiani, ma anche come esseri umani, quando entriamo nella contemplazione di quel mistero con il Volto umano. Proviamo a fermarci davanti a questo Volto e ad accoglierlo come un appello, un messaggio personale.

La prima cosa che ci colpisce nel Volto della Sindone è il suo linguaggio espressivo e comunicativo. Sembra che il Volto entri in contatto con la parte nascosta e più profonda del nostro essere. Cosa ci dice? Cerchiamo di leggere questo messaggio, anche se in modo incompleto, parziale, troppo libero e poco scientifico. Cominciamo con una breve riflessione di san Gregorio di Nissa (dal suo trattato “La creazione dell’uomo”) che può servire come chiave della nostra lettura.

«Dice san Paolo : ‘Chi mai ha conosciuto lo Spirito del Signore?’ (Rm 11, 34). Io aggiungo: e chi mai ha conosciuto il proprio spirito? Quelli che si ritengono capaci di comprendere Dio, farebbero bene a guardare dentro se stessi: hanno forse compreso lo spirito che è in loro?

A mio parere, bisogna tenere presente la parola di Dio: “facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza”.

La natura divina ha come caratteristica l'incomprensibilità: la sua immagine deve somigliare anche in questo…

Di fatto, noi non arriviamo a comprendere la natura del nostro spirito. Perché esso è ad immagine del suo Creatore ed ha uguaglianza col suo Signore, reca l'impronta della natura incomprensibile, custodisce il mistero».

Il nucleo del messaggio: che lo spirito umano custodisce in sé il mistero dell’immagine. Ma quel mistero è illuminato dall’impronta del Verbo. L’immagine riflette in sé la rivelazione del Verbo, perché il Verbo che si fa carne diventa icona. E l’icona porta il messaggio del mistero dell’immagine. La prima cosa che vediamo con uno sguardo non fuggente sulla Sindone è che il suo Volto rappresenta un prototipo delle icone, con la sua espressività specifica della tradizione orientale. L’icona, però, prima di nascere come opera d’arte, è concepita nella contemplazione, nell’esperienza spirituale. Dio creò l’uomo a sua immagine, cioè secondo un modello preesistito - e questo modello fu il Verbo che era presso di Lui. L’immagine uscita dal Verbo diventa una realtà fisica, visibile e questa realtà si mantiene, dura, rimane con noi. Il compito dell’icona è di rendere visibile il perenne mistero del Verbo, il miracolo dell’Incarnazione. Proviamo, però, a rischiare nel porre una domanda: è davvero possibile trovare qualche legame comune fra il Volto ed il Verbo, fra l’immagine di Dio e la raffigurazione della Sindone? Sotto un’altra forma, la stessa domanda se la ponevano anche i Padri della Chiesa. Alcuni di loro rispondevano in modo affermativo: sì, l’uomo fu creato su “modello” del Cristo, nella previsione dell’Incarnazione. L’atto di fede nel Verbo che si è fatto carne suggerisce anche che il Verbo si sia fatto Volto. E non un qualsiasi volto umano, ma in un certo senso il Volto modello, il Volto archetipo.

Cosa vuol dire archetipo in questo contesto? Per i cristiani l’incontro con il Volto come Verbo prima di tutto è un avvenimento di riconoscenza. La riconoscenza è uno degli atti costitutivi della nostra fede. Crediamo in ciò che riconosciamo. Riconosciamo ciò che troviamo adatto alla nostra visione, simile al nostro pensiero. Non conosciamo e non conosceremo mai l’essenza di Dio, ma possiamo conoscere la Sua manifestazione nella Vita e nel Volto dell’Uomo. E quell’Uomo esprime l’incomprensibile essenza del Padre. Ma anche il Volto - questo è la nostra ipotesi o, piuttosto, intuizione - parla dell’essenza del Padre, perché anche il Volto del Figlio esprime ciò che il Padre ci dice.

Ricordiamo quel brano famoso del Vangelo di San Giovanni: “Se conoscete Me, conoscete anche il Padre; fin da ora Lo conoscete e Lo avete veduto. Gli disse Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta”: Gli rispose Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto Me ha visto il Padre” (Gv. 14,9).

Cosa dice il Padre con il Volto del Figlio ucciso? Il Padre parla con il silenzio, con il tormento del Figlio Unico, con le tracce della morte sulla croce, con la morte che promette la vita. Il Volto non è sfigurato, anzi, è ancora bello, stupendo. Il Volto che tace è anche il Verbo che continua a parlare con noi, anche con la lingua del suo silenzio e della sua bellezza. La bellezza del Volto porta anche un suo messaggio, quello della bontà della santità umana. Così il Padre parla di noi stessi.

Se facessimo un bilancio dell’antropologia ortodossa in una riga, essa consisterebbe nel ritorno a questa bellezza iniziale, persa dopo la caduta. La bellezza vuol dire la santità dell’uomo appena creato con il Verbo di Dio e per il Verbo. La santità è il ritorno all’autentica natura umana creata per Cristo, in Cristo e con Cristo. Questo punto è importante; per l’Ortodossia, non è l’uomo com’è nella sua condizione empirica, macchiata dal peccato, un vero uomo, ma solo colui che è stato concepito e plasmato nell’amore di Dio. In altre parole, la vera natura umana è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio, che va ricercata, restituita e manifestata. Perciò l’antropologia cristiana porta in sé anche la soteriologia.

Prima di tutto l’uomo riconosce nel Volto il suo modello perduto, il nucleo del suo proprio “io”, come lui riconosce il Verbo nella sua fede. Il Verbo con il Volto di Dio martirizzato si trova alla radice della nostra vera personalità. Il Verbo si è fatto Volto di Colui che si è sacrificato per noi e questo Volto rimane l’espressione della rivelazione del Padre, la rivelazione che continua e che si manifesta anche come opera d’arte. Anche l’arte - nel senso primordiale - è il ritorno al mondo buono (in senso biblico), vale a dire, bello e santo, creato e voluto da Dio. L’arte ecclesiale è quella che non soltanto porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”, ma anche ha la coscienza chiara della sua nostalgia.

Perciò il messaggio della contemplazione del Volto è quello della nostalgia e della similitudine. Similia similibus cognoscuntur. Tutta la famiglia umana partecipa all’Incarnazione perché ogni uomo ha una particella del Verbo, il raggio del Logos, nella sua umanità. Troviamo questa intuizione, dopo il suo sviluppo nella teologia patristica, soprattutto nella “liturgia cosmica” di San Massimo il Confessore che parla dei logoi delle cose nel loro insieme che celebrano il Logos di Dio che si è fatto Uomo.

Concludiamo questa prima parte con il kondakion della domenica dell’Ortodossia:

“L’indescrivibile Verbo del Padre, incarnandosi da Te, Madre di Dio, è stato circoscritto e riportata all’antica forma l’immagine deturpata, l’ha fusa con la divina bellezza. Noi dunque, proclamando la salvezza a fatti e a parole vogliamo descriverla”.

IL VOLTO COME ICONA

1. Tre principi dell’arte ecclesiale

Cominciamo dall’inizio.

(Gn 1,31) – così finisce ogni giorno nella storia della creazione del cielo e della terra, della luce e delle acque, degli alberi e degli animali. La patria dell’uomo e della donna, creati nell’ultimo giorno, fu il giardino dell’Eden, con tutta la sua bontà iniziale - di cui la famiglia umana non perse completamente la memoria, anche quando le porte del giardino vennero chiuse dietro di loro. Il primo principio dell’arte ecclesiale è il ritorno al mondo appena creato, perché essa porta in sé la memoria nostalgica “dell’originale del mondo”. dentro di sé. Ma anche un riflesso del Volto. Troviamo quest’intuizione nella teologia patristica che parla dei logoi delle cose che celebrano tutte insieme il Logos divino, il quale tramite l’uomo ha dato il volto a tutta la creazione. Così si può definire il secondo principio dell’arte ecclesiale: la celebrazione del mondo in Cristo o piuttosto la riscoperta del Volto di Cristo nel mondo creato da Lui.

Questa celebrazione, però, ha un suo scopo, una sua indicazione, non solo verso il passato (quasi che esso non fosse degno di una memoria sempre viva), ma anche verso l’incontro imminente con Dio nel “mondo che verrà”. “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, dice Gesù (Mt 4,17) e questo annuncio può risuonare al nostro udito come terzo principio dell’arte ecclesiale: la testimonianza della conversione, vale a dire, del profondo cambiamento del nostro essere sulla soglia del Regno, per vedere Dio “faccia a faccia” (1 Cor 13,12).

Con questi tre princìpi (esposti qui in modo per forza schematico): la memoria sacra e personalizzata della creazione, la ricapitolazione del creato nel Verbo e la trasfigurazione del creato nella luce del suo Volto che porta la promessa del mondo che verrà, abbiamo un primo approccio all'arte dell’icona. Ma questi tre princìpi possono essere ridotti ad uno solo: alla visione e alla raffigurazione artistica della santità nascosta del mondo e della sua creazione prediletta: l’uomo.

Scoprire e far vedere nell’uomo la propria icona è compito dell’arte della pittura, come anche dell’arte della santità.

2. L’arte come comunione

La vera natura umana, come abbiamo detto, è l’icona dell’uomo, la sua somiglianza con Dio che va ricercata, restituita, manifestata.

Alle soglie del Regno ci conducono tre accompagnatori o testimoni principali di Dio: la Santa Scrittura, l’immagine e il sacramento - che hanno una profonda e reciproca affinità. Credo che nella propria essenza ognuna di queste realtà sia convertibile all’altra, poiché la Scrittura veramente accolta e vissuta diventa un sacramento della comprensione che si compie nella mente e nel cuore dell’uomo, e dal sacramento nasce la contemplazione delle immagini come opere di Dio. L’icona è il frutto della contemplazione, ma la contemplazione cresce e si sviluppa nell’esperienza spirituale che è la manifestazione della presenza reale di Dio in senso eucaristico, sacramentale. Lo scopo dell’icona è quello di esprimere il mistero della presenza di Dio che ci guarda in faccia mediante il segreto del Suo Volto - ch’è infatti il sacramento della luce nascosta.

Tutto quello che si manifesta è luce”, - afferma san Paolo (Ef 5,13) e la vocazione dell’uomo è di scoprirla e di manifestarla nella propria vita, nella propria fede, come anche nella propria creatività artistica. L'icona è il mezzo della comunione con la luce nascosta, e rivelata nel nostro mondo creato nella materia. La materia, la creta della creazione, contiene in sé ciò che va manifestato nello spirito. Sotto l’influenza della filosofia neoplatonica anche nel cristianesimo dei primi secoli è emerso un certo disprezzo per il mondo materiale, aspetto che era all’origine dell’eresia degli iconoclasti (VII-VIII sec.). La fede cristiana, però, che confessa la sua speranza nella risurrezione dei morti e nella trasfigurazione del mondo attuale (che non sarà sostituito completamente con il “mondo che verrà”, ma svelerà la sua bellezza nascosta) si ricorda sempre della sacralità della materia che è servita nell’atto della creazione del mondo, ma anche dell’incarnazione del Figlio di Dio.

3. L’icona come teofania

La materia è venerata non per se stessa, ma come portatrice delle immagini, dei messaggi della salvezza. Nel miracolo dell’incarnazione il Signore ha nuovamente consacrato tutto ciò che Egli aveva creato. La Sua parola, la Sua morte e resurrezione hanno lasciato le immagini della Sua presenza e la Chiesa manifesta questa presenza attraverso l’immagine, il volto trasfigurato dell’uomo. L’arte in Chiesa è il nostro saper organizzare a modo nostro la materia “personalizzata” che ci circonda o trasferirla nelle immagini, che scopriamo in noi stessi. Nell’arte che chiamiamo laica siamo padroni della nostra ricchezza interiore e possiamo giocare con le immagini come vogliamo.

L’arte ecclesiale è diversa. Il suo messaggio è già conosciuto dall’inizio, i segni che essa utilizza sono contenuti nella nostra fede. L’uomo non deve scegliere fra le immagini accumulate e mescolate nel proprio “io”, ma deve manifestare ciò che esiste già, nella profondità o nel “principio” del suo essere. L’arte ecclesiale esprime ciò che è dato fin da principio, messo in noi, manifestato a noi: il Volto del Verbo. Di questo dono, della profondità umana che si svela solo nell’esperienza del santo, ne parla San Giovanni nella sua prima lettera:

Ciò che era fin dal principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza…” (1 Gv 1,1-2).

L’icona, se la guardiamo alla luce di queste parole, è la testimonianza di ciò che noi, uomini, abbiamo veduto, anche se “in maniera confusa”, toccato, anche se solo nello spirito, contemplato, anche se in momenti rarissimi, di ciò che portiamo dentro noi stessi, anche se non lo sappiamo - e di ciò che dobbiamo far vedere agli altri, il Verbo della vita, ed anche il Volto della vita, la vita avvolta nella morte. Ma l’icona è la testimonianza della vita che continua a vivere nel popolo di Dio e nel Suo corpo che è Chiesa. Osiamo dire che la Chiesa stessa è anche l’icona della testimonianza, del vedere ciò che è invisibile, del comprendere ciò che è incomprensibile, del vivere ciò che appartiene a Dio. L’icona del Volto del Figlio morto porta in sé la caparra della Risurrezione e la vittoria della vita in Dio e con Dio.

4. L’icona e lo spazio liturgico

Secondo la fede ortodossa, le immagini, quelle vere, presentano i propri prototipi. L’icona ha vita propria solo all’interno dell’attività spirituale, nella vita della preghiera o della contemplazione; nell’album, nel museo, nella collezione privata essa perde il suo senso sacramentale. Ciò che il Vangelo dice con la parola, il Volto lo dice con il suo messaggio.

Le icone, in un certo senso, “raccontano” il loro prototipo, portano una buona notizia della loro presenza fra di noi e nel Regno dei cieli, fanno vedere l’indescrivibile fra di noi. L’idea principale dell’iconoclastia del VI-VII secolo fu che l’indescrivibile e l’incomprensibile non potessero essere raffigurati, che il mistero divino non si lasciasse svelare. Ma in verità l’icona non vuole riportarci “l’immagine dell’inesprimibile”, come afferma san Gregorio Palamas, ma soltanto il suo volto umano, penetrato dalla luce inesprimibile.

è l’immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura”, afferma San Paolo (Col. 1,15) e ciò vuole dire che il Cristo rende presente l’invisibile volto del Padre, ma anche il visibile volto della creazione nella luce della Trinità. “Io sono la luce del mondo”, afferma Cristo (Gv 8,12) e la Chiesa canta: “La Tua luce risplende sui volti dei Tuoi santi”. L’icona di Cristo fa risplendere il vero volto dell’uomo nella luce della Trinità - così si può esprimere la saggezza antropologica dell’icona. Pregare con le icone significa proprio questo: sentire e percepire la stessa grazia o la stessa luce che riempie il Santo Volto e che santifica anche noi.

IL MESSAGGIO DELLA SINDONE

Ma la Sindone non è un’icona fatta dall’uomo. Questo è vero, e vero è anche ciò che il Volto della Sindone porta in sé nell’arte, ma con la pienezza e la profondità che deriva dall’originale del Volto umano. Questo Volto ci riporta all’immagine, al Modello inciso nello spirito umano, all’arte come immagine dello spirito. La sindone è come un’icona del Verbo, che ci parla e si trova in comunione con lo spirito che ci fu dato.

Sì, possiamo parlare del Volto della Sindone come dell’avvenimento della comunione spirituale al Corpo di Cristo, poiché il Volto diventa Verbo che si offre nei santi misteri celebrati dalla Chiesa.

L’atto della comunione a questa icona include un messaggio l i t u r g i c o, come glorificazione del Verbo che si è fatto Volto.

Questo avvenimento contiene anche un messaggio p e n i t e n z i a l e, cioè la purificazione del cuore davanti al Dio crocefisso.

La Sindone ci parla anche della "k e n o s i s", nella quale ricordiamo che Cristo ha rinunciato alla natura divina (vd. Fil 2,6). La kénosis fa l’uomo partecipe della natura di Cristo, nel suo sacrificio fino al rifiuto della vita stessa nel martirio.

Un altro messaggio della Sindone è il ricordo e u c a r i s t i c o, perché la contemplazione del Volto contiene in sé l'unione del nostro spirito con Cristo. Da qui si chiarisce il senso della santità perfetta come sacramento dell'unione, che trasfigura il nostro corpo, riempito dal fuoco nascosto dell'Eucaristia.

Leggiamo qui anche un messaggio a p o f a t i c o, perché il Volto parla del mistero che non potremo mai decifrare.

Nonché un messaggio e s c a t o l o g i c o: il Volto morto promette la vita in abbondanza.

Un altro messaggio del Volto è quello della t e s t i m o n i a n z a; tutto ciò che è santo è testimone di un altro Regno davanti agli uomini.

Ma la Sindone porta anche un messaggio e t i c o: nella luce del Volto possiamo vedere anche il volto di un altro uomo.

"Tu hai visto il volto del tuo prossimo, disse un santo antico, tu hai visto il volto del tuo Dio". E questo amore si esprime sempre come servizio, come libero sacrificio per lui. La libertà senza amore porta alla schiavitù, all'ideologia che impone il suo giogo. La libertà penetrata dall'amore è sempre personale, essa è destinata a scoprire il mistero e l’unicità di un'altra persona, a scoprire l'amore di Dio riversato su di lei. Attraverso questo amore da persona a persona noi scopriamo anche la "personalità" della creazione del mondo in Dio.

Ma ogni personalità è dotata di un volto.

IL VOLTO COME LUCE

Alla Tua luce vediamo la Luce”, esclama Davide (Ps. 35, 10) e la gioia e la nostalgia di questo grido fa la grandezza e il dramma del Primo Testamento. Dio entra nel mondo da Lui creato e nello stesso tempo rifiuta la sua rivelazione, “perché il Signore ha deciso di abitare sulla nube” (1 Re, 8, 12). Manifestandosi nel roveto ardente, negli Angeli, nella legge, e sotto tante altre immagini, Egli rimane tuttavia al di là di questi e del mondo umano.

Nel momento in cui il Signore ha deciso di rivelare il Suo volto nel volto umano, l’aurora è spuntata e “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce” (Mt. 4, 12). Questa luce che Cristo ha portato ha la stessa “sostanza” della luce che illumina le genti ed ogni uomo. Dio entra nel nostro mondo oscuro, rivela il Suo nome, non nasconde più il Suo volto. La storia di questa rivelazione, raccontata nel Vangelo come con una linea tratteggiata, raggiunge la piena chiarezza in quel brano profetico che parla della trasfigurazione. Qui traspare una delle tracce che mostrano la strada al mistero della similitudine del volto divino ed umano. Proviamo a rileggere quest’episodio e a meditarlo nello spirito della fedeltà alla tradizione cristiana orientale.

“...Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” – dice san Matteo (17, 1-2). Il tropario bizantino cantato durante la celebrazione liturgica nel giorno della festa della Trasfigurazione dà la sua interpretazione di questo racconto: “Ti trasfigurasti sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la tua gloria, per come potevano. Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna, per l'intercessione della Deìpara, o datore di luce: gloria a te!”. Il contenuto è lo stesso, ma la storia della Trasfigurazione si trasforma nella preghiera e nella speranza. “Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna”, perché questa luce ci porterà alla vera conoscenza di Dio nella sua manifestazione accessibile agli uomini o nella Sua “energia”, come dice Gregorio Palamas.

Cristo mostra la Sua gloria, ma non avviene in lui alcun cambiamento perché - dice - è: “quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv. 17, 5); ciò che cambia è la percezione umana. La Trasfigurazione, secondo l’interpretazione ortodossa, prima di tutto apre le occhi agli apostoli, trasforma la loro anima e la loro vista, rivelando anche l’autentica natura umana.

Ma il messaggio di Giovanni, come quello di Pietro, di Paolo e degli altri apostoli è non soltanto già un frutto della vera visione, della perfetta conoscenza di Dio “come Egli è” (1 Gv. 3,2), ma anche la testimonianza discreta degli uomini come essi sono. Vedere Dio “come è” significa raggiungere la somiglianza con Dio e vedere nello spirito ciò che non può essere visto, toccare nel pensiero ciò che non può essere toccato. L’Invisibile apre il suo volto, perché, come dice Sant’Ireneo di Lione, “Cristo è il visibile di Dio”, ma lo stesso Cristo - Verbo, Vita e Volto - è anche l’invisibile dell’uomo. E lo Spirito Santo quando l’uomo Lo cerca, fa nascere, apparire, manifestare l’invisibile nel cuore umano.

Tutta la Scrittura ci porta alla rivelazione della luce nella quale si chiarisce anche tutto ciò “che c’è in ogni uomo” (Gv. 2,25). Perché in Cristo ogni uomo, anche se immerso nelle tenebre, si avvolge della luce che non perde il suo carattere ineffabile. Dal momento della sua creazione ad immagine di Dio, dal suo concepimento per l’amore del Signore, ogni uomo è cristico, penetrato dallo splendore del Verbo. Ma il mistero dello splendore, nell’uomo “naturale”, è quasi introvabile, brucia appena e ha bisogno di essere acceso dalla fede, dalla scelta umana, da quella scintilla che illumina il Volto con la luce di cui ogni uomo è dotato. L’uomo lo riceve come dono e lo rivela in sé con lo sforzo, e così la vita della sua fede può diventare un avvenimento permanente della teofania interiore.

All’inizio di questa teofania si trova un’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale in senso ontologico: nell’”anima mia” (Ps. 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre che è “nei cieli” - ma sono “cieli” aperti nel cuore umano. La rivelazione porta in sè la presenza reale e vivificante del Volto del Figlio di Dio, “ricordato” e manifestato dallo Spirito Santo, e il Figlio di Dio e lo Spirito Santo rivelano il Padre come unica fonte del mistero trinitario. Così il mistero si rivolge a noi, si apre a noi e si rivela dentro di noi e noi assistiamo alla sua teofania, in cui Dio mostra nell’anima dell’uomo la gloria del Suo volto trasfigurato. Il luogo della teofania è la fede stessa, la conoscenza di Dio, la celebrazione, l’icona, la santità, il martirio, la bellezza, tutta la creazione.

“Dio è Luce, - dice San Simeone il Teologo, - e coloro che Egli rende degni lo vedono come Luce; quelli che lo hanno ricevuto lo hanno ricevuto come luce. La luce della sua gloria anticipa infatti il suo volto ed è impossibile che Egli appaia altrimenti che nella luce.”

Da questa luce nasce anche la santità umana che è, in un certo senso, la “processione” dal Regno promesso (che si trova dentro di noi) a quello che si apre fuori di noi, dalla luce invisibile al visibile. L’irradiazione del Regno, che si può vedere a volte negli occhi del cittadino del Regno, in modo impercettibile penetra e avvolge tutto ciò che lo circonda: il suo deserto o il suo bosco, la sua famiglia o la sua comunità, le sue parole o il suo silenzio, la sua missione o il suo eremitaggio, anche il suo corpo mortale o la memoria che lui lascia dopo la morte. La memoria di lui si cristallizza nella sua immagine dipinta che esprime l’idea o il mistero del volto umano che è sempre quello di Cristo, incarnato, crocefisso, risorto...

Perché “è Dio che disse, - scrive san Paolo, - Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor. 4,6).

Venerdì, 07 Luglio 2006 21:14

Caricature e insulti (Giuseppe Scattolin)

Se vogliamo creare la base per una globalizzazione umana di convivenza fra culture e religioni diverse, dobbiamo tutti impegnarci seriamente in un ingente - e costante - lavoro di coraggiosa autocritica e di rispettosa critica.

La speranza che non delude
card. Godfried Danneels



Come combattere la depressione? Come vivere la speranza, giorno per giorno, in tempi difficili? Da cosa si può riconoscere che noi siamo degli “esseri di speranza”? Perché la speranza non è un pio pensiero, un'ipotesi gratuita ma deve manifestarsi nel comportamento quotidiano. In altri termini, c'è “una spiritualità della speranza”? Tentiamo di discernerne i componenti.

Tutta la vita cristiana è costruita su tre pilastri: fede, speranza e carità. Essi si tengono in reciproco equilibrio. Se si rompe l'equilibrio, il cristiano perde, per così dire, la bussola. Vacilla.

FEDE E SPERANZA

Senza la fede la speranza non può vivere: si trasforma nel sognare. Secondo la lettera agli Ebrei, “la fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” ( Eb 11, 1) . Senza la fede negli eventi salvifici - Antico e Nuovo Testamento - la nostra speranza è solo immaginazione, una chimera.

Al contrario, senza la speranza, la fede è morta: una fossa comune dei fatti del passato che serve solo a popolare la memoria; non c'è più niente da aspettarsi, non c'è più niente di nuovo da vivere. Certamente, un tempo è successo qualcosa, ma la “rivoluzione” a fatto il suo tempo e il vulcano si è spento.

Questo gioco sottile della fede e della speranza è uno degli ingredienti di una spiritualità equilibrata: ne determina il grado di salute. Perché, nella fede, c'è già una parte di speranza: noi crediamo nella Risurrezione del Cristo a titolo di garanzia della nostra propria risurrezione che verrà. Ma nella speranza c'è anche una parte di fede: la speranza trova uno stimolo che gli offre la fede. Poiché la promessa si è già realizzata, essa si può nuovamente realizzare.

DOPPIA TENTAZIONE

In questo ambito il cristiano è sottoposto a due tentazioni: quello della temeraria fiducia nella novità e quella della mancanza d'immaginazione.

Colui che vive solo proteso all'avvenire, che si preoccupa solo delle sue realizzazioni, affrancato da tutta la saggezza trasmessa dal passato, costui è privato della memoria. Non si rende conto del fatto che certe “vie nuove” sono state sperimentate già da molto tempo e si sono rivelate impraticabili. Privato della memoria, egli sperimenta a tutto andare. Questa è la fonte di dolorose delusioni, e più tardi anche di demotivazione. Sono i rivoluzionari senza memoria che si ricongiungono per primi al campo dei conservatori.

Ma, al contrario, c'è anche la mancanza d'immaginazione, l'illusione d'una vita senza rischi. Ci si dimentica che c'è sempre “un di più” che non è ancora stato inventato o sperimentato. C'è qui una speranza insufficiente. Perché il momento presente contiene ancora tante cose meravigliose rimaste inutilizzate.

SPERANZA E CARITÀ

Chi ha fiducia in Dio e spera in Lui, deve come Lui donarsi interamente agli uomini. La speranza si riversa nella carità. Ciò suppone un delicato equilibrio tra i due atteggiamenti: attendere nella fiducia e rimboccarsi le maniche per l'azione. Il cristiano è sempre come seduto sul bordo estremo della sua sedia. Seduto su quello che dispone d'un appoggio sicuro: la speranza. All'estremo bordo della sedia, perché è pronto ad alzarsi e a pagare di persona. La poltrona del fannullone non fa parte dei suoi mobili.

Non si accorda una piena fiducia a Dio se non Lo si ama. E non si può amare Dio se non si ama il proprio prossimo. Così la fede conduce alla speranza e la speranza conduce all'amore. In sovrappiù non si spera mai solo per se stessi. La speranza non ha raggiunto il suo termine finché essa non si estende a tutti gli uomini, all'intero universo. Come posso raggiungere il cielo nella gioia, se so che sarò tutto solo?

Fede, speranza e carità, le tre grandi che non possono fare a meno l'una dell'altra. La fede vede cosa è già, la speranza dice ciò che verrà, la carità ama ciò che è; la speranza si occupa già di ciò che sarà. Per il nostro tempo la speranza sarebbe ugualmente la più grande? Comunque sia le tre si tengono reciprocamente in equilibrio e tutte e tre ci sono necessarie.

VEGLIARE NELLA PREGHIERA

Infatti non c'è che un solo esercizio di speranza: vegliare nella preghiera. L'atteggiamento silenzioso di attesa davanti a Dio è la scuola della speranza. Imparare ad attendere e porsi come una vedetta.

Tutta la Bibbia descrive la preghiera come vigilanza e attenzione: tenersi pronti per il ritorno del Signore presso di Lui e provvedere alle lucerne nella Sua attesa. I salmi sono i libri delle lamentazioni per eccellenza, dell'attesa della giustizia, dell'attesa che il giusto sia protetto e il perdono accordato al peccatore, della perseveranza nelle prove. “Mio Dio, mio Dio, quanto tempo ancora... ?”.

Pregare è anche mantenersi con pazienza tra il passato e l'avvenire. È prendere nelle mani la Bibbia e ricordarsi “le meraviglie che fece il Signore”. È il nutrire la propria memoria e permetterle di lavorare. Ma è anche lo sperare con il cuore ardente ai giorni del compimento, al tempo della ‘liberazione d'Israele' e del ritorno del Signore. “Maranatha”.

Pregare è render grazie per tutto quello che ci ha preceduti ed entrare già nelle promesse di quanto deve ancora venire. È esultare di gioia cantando il Magnificat ed esercitarsi al paziente abbandono del Nunc dimittis . È il sedersi tra Maria e Simeone, tra l'azione delle grazie e la speranza corrisposta.

A dire il vero, esiste per una cultura (e per una Chiesa!) una terapia della depressione diversa dalla preghiera? “È perché voi non pregate, che siete senza coraggio” , potrebbe dire Giovanni alle Chiese in una nuova versione della sua Apocalisse.

IMPEGNARSI

La speranza non giungerà mai se io non m'impegno in niente, se non mi decido a fare qualcosa, se non scelgo. La nostra cultura deve reimparare a legarsi, a scegliere, a risolversi a qualcosa. Si è sviluppata una sorta d'irresolutezza generalizzata: di fronte al matrimonio, di fronte ad ogni impegno definitivo, di fronte a ogni decisione di rendersi disponibili in maniera impegnativa. Può darsi che ci siano delle spiegazioni di questo atteggiamento, delle motivazioni più o meno ammissibili. Ma ci sono anche delle ragioni soggiacenti molto poco eleganti. Una specie di narcisismo che non permette di rinunciare alle proprie comodità, il bisogno di garanzie assolute - questa mentalità che spinge a sottoscrivere un'assicurazione a fronte di qualsiasi cosa - e a volte manifestamente la pigrizia e il “ciascuno per sé”.

Ma bisogna anche rilevare nella nostra cultura il disagio della percezione del tempo. Non solo l'impossibilità di aspettare, la legge del “tutto, tutto subito”, ma anche la diffidenza fondamentale per il credito da accordare al tempo. Dobbiamo imparare di nuovo a fare del tempo un amico... aspettando di ridivenire sensibili a una realtà chiamata classicamente “Provvidenza divina”. Quando vorremo capire che Dio si prende cura di noi molto meglio di quanto lo possiamo fare noi stessi?

LA CRISI DELLA FEDELTÀ

Nella sfera del “provvisorio” nella quale noi evolviamo, sopravviene anche la crisi della lealtà. E questo in tanti ambiti: matrimoni, amicizie, affari, ambienti di lavoro. La fedeltà non la si guarda più con ammirazione, ma tutt'al più con sorpresa, se non con compassione.

Così si degrada il tessuto sociale: è logorato. Da che tempo è tempo, la fedeltà ha avuto un ruolo legato fino a un certo punto con il tragico della condizione umana. La fedeltà di Lefte al suo voto lo portò ad immolare sua figlia. La fedeltà di Antigone alle leggi non scritte dell'amore fraterno la condusse alla morte. Questo tragico era profondamente umano, anche se pagano. Proclamava chiaro e forte che non si può mancare alla parola data. La nostra epoca non conosce più i tormenti di questo aspro dramma pagano. Ne conosce altri. Lo strappo di tanti partner abbandonati e di tanti bambini privati dei genitori, la fatica di dover continuamente riprovare con qualcun altro, i cinici preavvisi significati a delle persone che invecchiando rischiano di costar troppo caro, la rottura dei contratti, quella specie di amnesia che riguarda i propri impegni passati...

L'infedeltà rende una società profondamente deprimente. In più, l'infedeltà ha la tendenza di propagarsi con la velocità dei funghi in una foresta. Un girotondo di streghe. Ogni infedeltà fa venir voglia alla parte lesa di fare altrettanto.

Se vogliamo sfuggire a questo funesto ingranaggio, bisognerà ritrovare la virtù naturale della fedeltà. Ricordandoci che è d'altronde il tratto più caratteristico di Dio: è un Dio fedele.

LA SPERANZA SI PRENDE CURA DEGLI ALTRI

L'esclusione, comunque si manifesti, provoca molta disperazione nella nostra società. Esclusione dal lavoro e dall'avvenire, esclusione da se stesso, dalla patria e dalla cultura, esclusione dalle cure e dall'alloggio. Troppa gente oltrepassa il limite. Questo assomiglia a una spirale che si stringe sempre di più, un laccio attorno al collo. Tutti gli assistenti sociali, gli uomini politici, i sacerdoti e gli animatori pastorali la conoscono bene. È la preoccupazione costante dei servizi sociali, e la Fondazione Re Baldovino l'ha studiata a fondo dal punto di vista scientifico.

Cosa dovremo fare se vogliamo dare delle possibilità alla speranza? Certamente dei provvedimenti di giustizia s'impongono alla collettività. Molti responsabili politici ci lavorano d'altronde con prudenza. Ma si è creata anche una rete di punti d'ascolto e soccorso, troppo numerosi per enumerarli, che funzionano spesso grazie al numero di benefattori, e ricevendo migliaia di persone, giovani e vecchie, con tutti i loro possibili problemi. Poiché i servizi pubblici non bastano, né per il numero, né per l'efficacia, né soprattutto per questa prossimità affettuosa necessaria a chi soffre. Pensiamo al corpo umano: quando un'arteria s'incrosta e si ostruisce, sono dei piccoli vasi sanguigni che ne sostituiscono la funzione. Quindi, a fianco degli organismi pubblici, agiscono delle migliaia di piccoli centri di speranza. La speranza si prende dunque cura degli altri. Questo è sufficiente?

LA SPERANZA ANTICIPA

La speranza non può accontentarsi di limitare o riparare i danni quando il danno è fatto. La speranza è anche previdente. Vuole agire preventivamente. Se noi non agiamo preventivamente, in effetti trascuriamo le vittime ed esponiamo il contribuente a degli oneri sempre più pesanti. Poiché la vittima è già ferita e riparare costa molto più che prevenire. Oltre tutto la società avrà la tendenza a scindersi in assistenti e assistiti. La frattura sociale diventerà sempre più profonda.

Dove si colloca la prevenzione? Nelle scuole e nelle famiglie. Non bisogna investire di più in questa azione? Non solo dal punto di vista finanziario, ma anche psicologicamente? La mancanza di speranza nella nostra società è spesso imputabile al fatto che genitori ed educatori abdicano. Da ciò la necessità di lanciare questo appello profetico: “Aiutate i genitori e i maestri” . Tutto quello che non si fa a casa e a scuola, si iscriverà automaticamente un giorno al debito della società.


(Il testo è tratto dalla lettera pastorale: Espérer?)

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