Il dialogo ebraico-cristiano.
Il cammino fatto, i problemi aperti
di Innocenzo Gargano
Premessa
Si potrebbe parlare di un simile argomento riducendo tutto agli ultimi sessant’anni circa e leggendo insieme i documenti ufficiali a cominciare dai famosi Dieci punti di Seelisberg del 1947 per proseguire con la promulgazione della Dichiarazione del Concilio Vaticano II intitolata “Nostra Aetate” numero 4 e coi documenti ufficiali prodotti dal Consilio Ecumenico delle Chiese, dalla Santa Sede e dalle singole Chiese locali negli anni successivi al Concilio.
Si potrebbe anche richiamare l’attenzione su eventi importanti e a forte impatto simbolico come la visita del Papa Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma il 13 aprile del 1986, del riconoscimento diplomatico dello Stato di Israele da parte della Santa Sede, dei pellegrinaggi del Papa ad Aushwitz e al Muro occidentale del Tempio per finire, riferendoci in particolare all’Italia, con la decisione della CEI di celebrare ogni anno la Giornata dell’Ebraismo a partire dal 17 Gennaio del 1989.
Si dovrebbero aggiungere poi le numerose iniziative internazionali e locali ideate e celebrate dalle Amicizie ebraico-cristiane ormai conosciutissime a livello internazionale.
Si potrebbe perfino parlare, fra le altre iniziative, dei nostri venticinquennali Colloqui di Camaldoli e di infinite altre iniziative analoghe… Ma tutto questo non sarebbe affatto sufficiente a dare un’idea appropriata del cammino percorso e dei grossi problemi ancora aperti nel dialogo fra ebrei e cristiani e soprattutto rischierebbe di imprigionare all’interno di testi o di iniziative – sia pure lodevolissime e necessarie – lo spirito che ha soffiato sul mondo, e sull’Europa in particolare, dopo la tremenda esperienza della Seconda Guerra Mondiale e la tragedia che hanno rappresentato per l’umanità le ideologie omicide che hanno prevalso sui popoli nel XX secolo.
Penso perciò che il modo migliore per dare ragione della straordinaria librazione nuova dello Spirito sulle acque caotiche della storia vissuta specialmente dall’Europa durante il secolo breve, possa essere quello di riportare alla memoria radici molto lontane e da lì partire per individuare piccoli passi avanti e grandi utopie che stanno delineandosi davanti ai nostri occhi in questo straordinario compito del dialogo ebraico-cristiano.
La teologia della «sostituzione»
La rottura più grave nei rapporti fra ebrei e cristiani fu prodotta nella storia in concomitanza dell’assedio prima e della distruzione poi di Gerusalemme e del suo Tempio nel ’70 d. C. quando i discepoli di Gesù, ebrei cristiani, non ebbero la sensibilità patriottica che avevano mostrato altre componenti del popolo ebraico e furono di conseguenza sentiti come traditori dal resto del popolo ebraico. Giudizio che si accentuò, divenendo definitivo, durante il periodo che va dal ’70 al 135 d. C., anno in cui l’imperatore Adriano fece tabula rasa di Gerusalemme e rifondò la città chiamandola Aelia Capitolina.
Dopo il 135, e forse anche a causa di una lettura particolare di quegli avvenimenti, Melitone di Sardi, un vescovo cristiano dell’Asia Minore, pretese di concludere, ma non fu il solo, che con la venuta di Gesù e la nascita della Chiesa fosse finita l’antica alleanza e perciò tutto ciò che si leggeva nei testi dell’Antico Testamento a proposito di Israele dovesse essere ritenuto alla stregua del progetto di un architetto, progetto svuotato di senso e d’importanza dalla sua stessa realizzazione. Fu così del tutto ovvio dichiarare che la Chiesa – vero Israele spirituale - sostituiva ormai definitivamente l’Israele carnale.
Dio aveva deciso di sostituire nella sua predilezione Israele con la Chiesa e questo in modo definitivo fino alla fine del mondo.
Partendo da questo tipo di presupposto si sviluppò così una teologia pressoché comune a tutti i Padri della Chiesa, chiamata in seguito “teologia della sostituzione”.
Gli ebrei nella società cristianaFino a quando non intervenne il potere politico la polemica nei confronti degli ebrei, che risultava dal convincimento che abbiamo appena sintetizzato, rimase interna al mondo religioso sia ebraico che cristiano, ma quando, con Costantino imperatore, la parte pagano-cristiana all’interno della Chiesa e il cristianesimo all’interno del Mediterraneo presero il sopravvento, cominciò a non esserci più posto per gli ebrei nella società, la quale adesso accettava di tollerarli soltanto come ombra destinata a porre in rilievo la verità, parte luminosa della storia, identificata simpliciter con la cristianità; ma niente più.
A mano a mano che ci si avvicinava al Medioevo e che crebbe la convinzione, già chiarissima con Giustiniano, che l’Impero cristiano anticipa il regno di Dio sulla terra – nonostante le contestazioni di alcuni movimenti interni alla stessa Chiesa – gli ebrei diventavano l’ostacolo insormontabile che ritardava il ritorno del Signore e la piena realizzazione della storia. Da cui due alternative possibili: o costringere gli ebrei a convertirsi oppure cancellarne la presenza giuridica, e qualche volta anche fisica, entro i confini dell’Impero. Così si pensava praticamente in tutta l’oikoumene cristiana d’Oriente e d’Occidente durante i secoli della cristianità medievale.
La tragedia dei marrani e l’inquisizioneCon i Carolingi, e ancor più con le Crociate, la convinzione dell’illegittimità della presenza ebraica divenne dominante. Gli ebrei intanto si sentivano dilaniati dentro. Un loro maestro, il famosissimo Maimonide (morto nel 1204) tentò una via d’uscita dall’angoscia sostenendo che fosse legittimo apparire convertiti restando in realtà ebrei.
Maimonide ragionava così: se per salvare la vita, che è il dono più prezioso perché permette all’uomo di osservare i comandamenti di Dio, si è costretti ad apparire cristiani, che succeda così e cioè che si appaia cristiani pur di rimanere ebrei nella propria interiorità.
Un simile ragionamento, divenuto presto assai diffuso, provocò reazioni virulente da parte dei cristiani che non sapevano più se fidarsi o meno dei cosiddetti “conversi” o convertiti. Gli ebrei, definiti ‘marrani’, sinonimo di ‘maiali’ nella lingua spagnola, divennero così agli occhi dei cristiani gli ambigui e i falsi per antonomasia da scovare e perseguire con tutti i mezzi possibili, compresa la tortura. Le chiese non disdegnarono in questo caso neppure le strade più assurde che comprendevano la delazione, gli autodafè e i roghi pubblici esemplari.
Nacque l’Inquisizione di tristissima memoria.
Gli ebrei venivano considerati adesso non solo causa del mancato ritorno glorioso del Signore, ma anche fonti e artefici oscuri di tutte le malattie, le pestilenze e i cataclismi naturali. Se non andava bene un raccolto o se avveniva un terremoto, o si diffondeva la peste, il capro espiatorio sul quale addossare tutte le colpe era puntualmente l’ebreo. Dovunque succedesse qualcuna di queste calamità si chiamavano in causa gli ebrei. Si pensava che uccidendo l’ebreo si potesse placare la divinità adirata e venir fuori da tutti i mali che attraversavano il mondo.
Una mentalità che non si arrestò, anzi si diffuse ancora di più con l’affermarsi delle identità nazionali. In alcuni casi si ripeté l’antica esperienza che aveva causato tanti lutti agli ebrei al tempo dell’ellenismo e del periodo dell’impero romano. Si divenne rigidamente intolleranti per difendere non solo l’identità politica e religiosa della nazione, ma anche la purezza del sangue. Si divenne insomma razzisti e la logica di tutto questo comportò la soppressione fisica pura e semplice o l’espulsione dei diversi e della loro diversità oltre i confini delle nazioni cristiane.
Fu tremendamente tragica soprattutto l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492.
Le tragedie dell’età modernaL’età moderna, che siamo stati abituati a far iniziare da questo anno in cui venne scoperta l’America, si inaugurò di fatto con l’ultima e più drammatica delle espulsioni, quella che vietava agli ebrei di risiedere non solo nella Spagna, ma anche in tutti gli altri territori allora dominati dagli spagnoli, comprese la Sicilia e l’Italia meridionale. Gli ebrei furono costretti di nuovo a spargersi ai quattro venti, ma soprattutto nell’Europa orientale e meridionale e nei paesi arabi.
In realtà proprio l’età moderna, di cui l’occidente si sente così fiero, fece enorme fatica ad elaborare tutte le diversità della società in cui gradualmente si affermava e chi ne pagò più pesantemente le spese furono proprio gli ebrei in compagnia di tutti coloro ai quali la società di allora li assimilava.
I due secoli XVI e XVII furono assai difficili per tutti coloro che si ribellavano alla decisione dei potenti di sottomettersi col corpo e con lo spirito al potere regnante secondo il principio del “cuius regio eius et religio”.
L’anno 1600 assistette sgomento al rogo di Giordano Bruno in Campo dei fiori a Roma, complice San Roberto Bellarmino, dottore della Chiesa e gesuita, il quale sentì l’assurdo di una simile condanna, ma non riuscì a trovare le coordinate giuridiche e teologiche adeguate per impedirne la pena capitale. E se tutto questo succedeva nei confronti di Giordano Bruno, frate domenicano, cosa poteva succedere per un ebreo che oggettivamente si trovava in prima fila fra coloro che contestavano i difensori ad oltranza dello status quo?
Quei secoli furono duecento anni spaventosi che però sfociarono, nel XVIII secolo nella nascita, sviluppo e affermazione dell’illuminismo, che ebbe il suo culmine con la Rivoluzione francese del 1789, quando si aprirono i ghetti e gli ebrei ritornarono finalmente a respirare nella nostra Europa.
Infatti dopo aver subito l’obbligo di mettersi un segno distintivo sul petto (la famosa stella gialla) per permettere ai cristiani di sapere a prima vista con chi avevano a che fare, si erano creati, verso la fine del Medioevo, anche i ghetti, cioè quartieri chiusi da mura con tanto di porta e chiavistelli, perché gli ebrei non uscissero, complice il buio della notte, a contaminare i cristiani.
I cristiani più fervorosi, non contenti di questo, percorrevano tutte le strade possibili per convertire gli ebrei. Alcuni di loro in Quaresima spingevano, o meglio costringevano, gli ebrei a sorbirsi i quaresimali del predicatore di turno e, per essere sicuri di fare proprio tutto perché gli ebrei li ascoltassero davvero, si preoccupavano di inviare infermieri specializzati alle porte delle chiese, per un lavaggio appropriato delle orecchie ebraiche con acqua calda atta a eliminare eventuali tamponi auricolari dei malcapitati.
Tutto questo e altro ancora, è stato vissuto nel rapporto fra ebrei e cristiani in Europa fino alla Rivoluzione francese. Né le cose andarono immediatamente meglio dopo la sconfitta di Napoleone e la restaurazione della prima metà dell’Ottocento. Fra le cose da restaurare ci fu infatti in qualche caso anche il ristabilimento dei confini dei ghetti e sappiamo che soltanto i Piemontesi smantellarono, con la presa di Roma del 1870, lo storico ghetto degli ebrei romani.
Dai Pogrom alla Shoà-OlocaustoQuando nel lungo secolo XIX, che alcuni fanno terminare con la prima guerra mondiale, ai pregiudizi “religiosi” si aggiunsero anche i pregiudizi sociali, economici e politici, si arrivò ai famigerati Pogrom dell’Europa dell’Est. La tragedia della Shoà, spesso chiamata Olocausto, in cui più di 6 milioni di ebrei furono ridotti in cenere, insieme con milioni di altri esseri umani, a loro volta ritenuti “diversi” come era “diverso” l’ebreo, non nacque dunque all’improvviso.
Riflettiamo sopra questi fatti, perché fanno parte integrante dei rapporti fra ebrei e cristiani. L’accoglienza dell’ebreo è infatti una sorta di archetipo. Accogliendo il “diverso”, identificato con l’ebreo, ci si educa ad accogliere anche tutti gli altri “diversi” presenti nell’umanità.
Non per niente i nazisti cominciarono con gli ebrei e poi finirono col fare fuori tutti i “diversi”: gli zingari, gli omosessuali, i matti, i dissenzienti politici e alla fine i polacchi, tutti considerati ugualmente carne da macello, perché diversi come erano diversi gli ebrei.
Sono cose terribili ma è indispensabile partire da qui per capire il capovolgimento di pensiero e prassi dell’atteggiamento successivo dei cristiani nei confronti degli stessi ebrei. I nostri amici ebrei contemporanei hanno tutti indistintamente dei parenti finiti nelle camere a gas: chi i genitori, chi i nonni, chi gli zii, chi i fratelli, chi le sorelle chi cugini e cugine e questo ha costretto i cristiani a mettersi di fatto nella pelle degli interlocutori per poterli capire in qualche modo dall’interno.
Un anno andai a tenere una conferenza a Napoli, in un contesto di amicizia ebraico – cristiana. Avevo, appuntata sulla giacca, una crocetta dorata da prete. Alla fine della conferenza una donna mi disse: “Padre, guardi, le devo confessare una cosa: per la prima volta ho potuto guardare una croce e non sentirmi dentro ribollire il sangue nelle vene per le violenze che in nome della croce sono state fatte a me e ai miei familiari”.
Terribile.
Noi veneriamo la croce perché segno dell'umiliazione di Cristo: per loro invece la stessa croce è il segno della loro personale umiliazione sopportata per secoli.Quella famosa frase antigiudaica presente in Matteo: “che il suo sangue ricada su di noi e sopra i nostri figli” pesa ancora moltissimo sulle spalle ebraiche.
La tragedia della Shoà è stata talmente assurda, che non ci sono parole adatte a raccontarla.
Serve solo il silenzio.
L’impotenza di Dio nell’esperienza ebraicaSono stato a Dachau, sono stato pellegrino ad Auschwitz. Ho visto cose assolutamente irraccontabili.
Soltanto Dio, quando lo deciderà e vorrà, romperà questo assoluto silenzio su cose che superano ogni possibilità e immaginazione umana.
Ha scritto un ebreo – cristiano, famoso in Italia, si chiama Paolo De Benedetti: “Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione, e noi proseguiamo a credere in Lui e a sperare nella vita futura , perché vogliamo capire cosa ci risponderà. Non vogliamo discorsi, perché la prova che Dio ci ha chiesto è veramente grande, non ci sono parole utili finché non sia Lui, direttamente Lui, a parlare”.
Dopo Auschwitz è stato messo in discussione il concetto stesso di Dio: non è la stessa cosa parlare di Dio prima e dopo Auschwitz.
Hanz Jonas, filosofo ebreo, ha parlato di un Dio che ha dimostrato di non essere più onnipotente: “Basta con queste fandonie! Con la creazione dell’uomo, dotato della sua stessa libertà, Dio ha rinunciato una volta per tutte alla sua onnipotenza. Dio non è intervenuto ad Auschwitz semplicemente perché non era in condizione di farlo”.
Martin Buber preferì parlare di eclissi di Dio, per poi spiegare: “ L’eclissi della luce, non è estinzione della luce”. “Tu hai fatto di tutto per toglierci la fede, e io nonostante tutto proseguo a credere fermamente in Te”: recitava un frammento trovato ad Auschwitz.
Il grido di Gesù sulla croce non fu molto diverso.
Scriveva Luigi Pareyson: “l’effettiva scelta dell’uomo non è pre–veduta da Dio, ma veduta. Non ha nessun senso quel pre. È veduta quando l’uomo la fa ed è veduta nella sua temporalità. Non è dunque pre – scienza, ma è scienza contemporanea, è scienza temporale. Il sapere divino è contemporaneo all’agire umano, la libertà ha un potere iniziale di scelta di fronte a possibilità inaudite, impreviste e imprevedibili. C’è dunque una contemporaneità di scelte e di atti nella libertà.”
Auschwitz, in cui è stata consumata l’eclissi di Dio e umiliata definitivamente la sua onnipotenza, ha aperto gli occhi dell’umanità sull’incredibile e tragica valenza della libertà dell’uomo, rispettata scrupolosamente da Dio, per non venire meno alla parola data e compiuta nell’atto stesso della creazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza. Ne risulta una tremenda responsabilità.
Ad Auschwitz, il Dio infinitamente buono ha rivelato che la sua radicale impotenza nei confronti del male è reale. Una verità amara per l’umanità, perché ne assegna all’uomo e solo all’uomo, in ogni tempo, in ogni luogo, la responsabilità. (Devo queste riflessioni all’intuizione di un ex presidente dell’amicizia ebraico-cristiana di Torino: l’amico Ernesto Riva).
Le possibili strade di un dialogo
Qualcuno ha parlato di necessario passaggio dalla religione alla fede, aggiungendo comunque che quest’ultima perché resti tale, ha bisogno di essere attraversata continuamente dal pungolo salutare del dubbio e della paura. Non c’è mai evidenza. Se si pretende l’evidenza si finisce nell’integrismo e nell’integralismo che ne è la conseguenza logica e naturale.
Dialogare con gli ebrei ignorando Auschwitz significherebbe trastullarsi in gondola fra le onde del mare, nella vacua ricerca di un tranquillo vivere secundum naturam.
La Chiesa non può farlo più.
Ma fare memoria di Auschwitz significa non solo fare memoria di quel particolare passato dell’uomo concreto, storico, fatto di carne e sangue, del quale siamo impastati tutti, che costituisce l’anima stessa dell’eredità ebraica, ma significa anche ripensare alla radice il presupposto della lettura cristiana della storia ebraica a partire anzitutto dall’eliminazione di almeno due equivoci millenari: il creduto ripudio di Israele da parte di Dio e la terribile accusa di deicidio addossata agli ebrei dai cristiani.
L’eliminazione di questi equivoci, dovuta al coraggio del Padri del Concilio Vaticano II, in aggiunta a correzioni analoghe in campo protestante, ha prodotto un capovolgimento nei rapporti dei cristiani con l’insieme della storia e della cultura spirituale ebraiche che possiamo definire come passaggio dalla consuetudine al disprezzo alla consuetudine al rispetto.
Le conseguenze rivoluzionarie di tutto questo stanno evidenziandosi lentamente nel mondo cristiano e stanno producendo frutti non tanto a livello istituzionale o propriamente teorico, quanto soprattutto a livello pratico e di condivisione di vita e di proposte che possiamo definire impropriamente ‘pastorali’.
In sostanza le Chiese, considerate nella loro globalità di popolo dei credenti in Cristo, hanno finalmente dato inizio ad un confronto serio con la radice comune che condividono con gli ebrei riconosciuti solennemente dal Papa come rispettati, venerati, amati fratelli maggiori.
Con una conseguenza fondamentale: l’esclusione assoluta di ogni proselitismo cristiano nei confronti degli ebrei. I cristiani hanno cominciato cioè a rendersi conto che non sono gli ebrei a dover essere innestati nel tronco cristiano, ma i cristiani stessi a dover mostrare riconoscenza per essere stati innestati nel tronco ebraico.
La scena di Gesù che a dodici anni si pone rispettosamente in ascolto degli anziani nel Tempio comincia diventare l’icona per eccellenza dei cristiani che, sempre più numerosi, fanno altrettanto mettendosi sinceramente in ascolto della sapienza ebraica.
Ne sta risultando un’esplosione significativa di interesse per la tradizione, la cultura, la spiritualità ebraiche che si traduce in migliaia di pubblicazioni che, soprattutto a partire dagli anni ottanta del XX secolo, vengono proposte da case editrici piccole e grandi sul mercato europeo e americano.
Facciamo qualche esempio.
La scoperta di «godere con rendimento di grazie»Il pio ebreo recita ad alta voce due volte al giorno alcuni versetti del libro del Deuteronomio e del libro dei Numeri, seguiti da un piccolo credo desunto ancora dal libro del Deuteronomio. Questo piccolo credo comincia così: “ Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto. Il Signore ci fece uscire dall’Egitto, ci condusse in questo luogo, ci dette questo Paese dove scorre latte e miele, per questo io presento le primizie dei frutti del suolo che Tu Signore mi hai dato. Il testo insiste: “deporrai davanti al Signore il tuo cesto e gioirai con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te”.
dei quali non hai voluto godere durante la tua vita terrena”. Ma questo godimento è vissuto con la piena consapevolezza della gratuità e nel ricordo costante di una peregrinatio continua verso la terra promessa, che appartiene misteriosamente alla identità ebraica originaria. L’ebreo è sedentario e simultaneamente in cammino, come un nomade, un pellegrino che sale costantemente sulla montagna di Gerusalemme la città della pace e del re dei re.Per gli ebrei non fruire dei piaceri significa indispettirsi nei confronti del donatore. La vita è un piacere da godere comunque con rendimento di grazie, senza appropriarsene mai egoisticamente e condividendolo sempre in comunione con la propria comunità e con lo straniero.
La riscoperta dei fratelli ebrei contemporanei ci sta portando anche questo. Potremmo perfino dire che dialogare con gli ebrei significa lasciarsi in qualche modo ri evangelizzare.
Tantissimi aspetti della nostra vita quotidiana non ci vengono assolutamente infatti dall’insegnamento dell’ebreo Gesù, ma da altre parti.
L’importanza di «fare memoria»Una delle cose più importanti, che la rivisitazione della tradizione ebraica ha comportato nella sensibilità cristiana, è stata l’importanza di fare memoria.
Questo punto è stato sempre fondamentale anche nella proposta cristiana, ma l’amicizia con gli ebrei permette di capire meglio in modo semplice e chiaro, perché il riferimento a fatti concreti, avvenuti nella storia e sperimentati da uomini intessuti di pelle ed ossa come noi, sia così determinante sia per l’identità degli uni che per quella degli altri.
Nonostante la tragicità e l’angoscia provocate dalle scelte libere dell’uomo, noi, ebrei e cristiani, facciamo memoria non soltanto della storia sofferta, ma anche della storia goduta, in questo nostro mondo, così com’è, con la sua bellezza, con le sue attrazioni, con la possibilità dei godimenti delle cose buone della vita, ma anche con la sua enigmaticità, le sue luci, le sue ombre, accettate insieme.
Uno dei testi più antichi del N.T., certamente testo fondante della Chiesa cristiana, la Prima Lettera ai Corinti (15,11) recita fra l’altro:“Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che si fece vedere a Cefa e quindi ai dodici, ultimo fra tutti si fece vedere da me, Paolo. Pertanto sia io che loro così predichiamo, così avete creduto.”
Ciò che accomuna la proposta ebraica e quella cristiana è dunque l’irrinunciabile riferimento a dei fatti precisi, concreti, accaduti nella storia e testimoniati da persone, che hanno visto e udito e perciò ne parlano, trasmettendo quello che anch’essi hanno ricevuto. Non si tratta mai semplicemente di idee o di proposte sapienziali o mistiche, o altre cose del genere, ma di fatti.
Il recupero della centralità dell’ascoltoIn questo processo di trasmissione, che nel nostro linguaggio chiamiamo traditio o tradizione, gli ebrei ci insegnano che ha un’importanza determinante l’ascolto. La prima parola pronunciata all’inizio e al termine della giornata dall’ebreo osservante è infatti Shemà, “ascolta”.
Bisogna chiarire, dal momento che anche nel testo Paolino citato se ne fa espresso riferimento, che in ebraico fra i tanti modi con cui si indica la Bibbia ce n’è anche uno molto significativo per noi : è il termine Micrà, che di per sé non significa tanto scrittura, come spesso viene tradotto, quanto lettura e si tratta non tanto di lettura compiuta con gli occhi quanto di suono che percuote l’orecchio.
I maestri ebrei spiegano che Dio è una parola non da leggere ma da ascoltare: che la parola sia stata scritta è fondamentale, ma solo perché diventi parola da ascoltare. Tutto sommato il libro, in quanto libro scritto, è solo un passaggio strumentale, accidentale, utilizzato appunto come strumento che provoca la generazione dei suoni: quest’onda sonora che percuote l’orecchio, ma non si ferma all’orecchio. “ Fides ex auditu” avrebbe detto S. Paolo.
In questo senso si può e si deve dire che né gli ebrei, né i cristiani sono tecnicamente una religione del libro. Definizione quest’ultima coniata dagli Islamici che avevano ed hanno una concezione diversa del libro sacro. Nella Seconda Lettera ai Corinti (3,6) Paolo può permettersi persino di dire che Littera occidit” ( la lettera uccide), cioè che il testo scritto chiuso in se stesso, può diventare omicida. Affermazione estremamente grave: quanti omicidi sono stati compiuti per seguire la lettera!
Il Rabbino Copciovschi, grande amico dei Colloqui di Camaldoli e già rabbino capo di Milano, spiegava che “ascoltare” in ebraico non comporta solo il coinvolgimento dell’organo fisico dell’udito ma anche un’accoglienza del suono della voce nell’orecchio del cuore in cui ha sede quell’organo misterioso dell’essere umano che presiede ad ogni decisione.
La regola di S. Benedetto, testo fondamentale di formazione per tutti i monaci cristiani d’occidente, inizia anch’essa del resto con queste parole precise:” Obsculta, fili praecepta magistri et inclina aurem cordis tui, et admonitionem pii patris libenter excipe et efficaciter comple”, che nella traduzione è reso così:“ ascolta, figlio, gli insegnamenti del maestro e apri l’orecchio del tuo cuore, accogli volentieri i consigli di un padre che ti vuole bene e mettili in pratica con fedeltà”.
Alcuni maestri ebrei hanno ripreso a introdurre i cristiani anche nei segreti nascosti del midrash. Conosciamo l’importanza data dagli ebrei alla viva voce di ogni testo scritto. Presso di loro qualche volta una interpretazione è data semplicemente dalla dizione: dal modo come leggi già interpreti.
Se il Targum è la traduzione orale immediata di un testo declamato, il midrash aggiunge alla declamazione un’interpretazione attualizzante, anch’essa orale, del non detto del testo scavato in profondità. Spesso questo si ottiene con la sottolineatura e il cambiamento di una interpunzione. Una stessa parola, se subisce un cambio di vocale, o la trasposizione di una lettera o di un accento, indica altre cose e poi altre e altre ancora, quasi all’infinito, rintracciabili con l’ausilio di testi paralleli, analogie, assonanze, allitterazioni o altro, che trasformano di fatto il testo in vera e propria opera d’arte.
La Scrittura viene così interpretata non solo applicando le leggi proprie della filologia, ma utilizzando anche la creatività che è propria di un interprete che possieda lo stesso spirito dell’agiografo che ha prodotto il testo ritenuto ispirato.
Tutte queste cose stanno riscoprendo i cristiani nella lettura della Bibbia compiuta all’interno di un’amicizia ritrovata coi fratelli ebrei con conseguenze del tutto inedite nella fruizione globale dell’Antico Testamento con spazi nuovi aperti anche alla comprensione dei Vangeli e degli altri scritti del Nuovo Testamento.
Il ritorno alla tradizioneÈ risaputo che nell’insegnamento dei saggi ebrei succeduti alla tragedia del ‘70, si distingueva fra Torah scritta e Torah orale, legge scritta e legge orale. L’una e l’altra fatte risalire in ultima analisi allo stesso Mosè.
Anche nella tradizione cristiana si parla di scrittura e tradizione. E così si va riscoprendo sempre più che, per gli uni e per gli altri, ebrei e cristiani, il punto di partenza, identico, è la tradizione orale. I discepoli hanno ascoltato Gesù e hanno trasmesso viva voce ciò che viva voce avevano ricevuto. Gli uni e gli altri solo in un secondo momento hanno sentito la necessità di mettere per iscritto ciò che avevano udito e sperimentato.
Nel II secolo, Papia, vescovo di Ierapolis, si permetteva di scrivere queste parole: “io preferisco la tradizione orale, ai testi scritti, che non hanno la stessa vitalità e che sono lettera morta”.
Un libro senza interpretazione è lettera morta.
Ireneo di Lione qualche decennio più tardi, avrebbe rivendicato a sua volta la necessità di interpretare oralmente i testi scritti canonicamente ricevuti dalla Chiesa in parallelo con la prassi presente nell’assemblea dei saggi ebrei.
Principio, questo, di concordia, diacronica e sincronica, comune sia agli ebrei che ai cristiani, che di fatto ha permesso e permette tuttora un’enorme molteplicità di proposte teologiche, giuridiche e comportamentali.
Il confronto continuo con Israele aveva contribuito anche in passato dunque a produrre un intreccio fecondo fra modo di essere credenti da parte degli ebrei e modo di essere credenti da parte dei cristiani.
Questo non significa che ci fosse consapevolezza piena dall’una e dall’altra parte. Forse facevano così solo perché convivevano e perché condividevano tante cose, derivate dal fatto che gli uni e gli altri si riferivano alla radice comune di un albero del quale si sentivano rami distinti, contrapposti, e tuttavia connaturali. Un grande mistero del quale adesso siamo divenuti finalmente più consapevoli da una parte e dall’altra.
Un amico ebreo mi confidò un giorno: “È come se noi ebrei e voi cristiani camminassimo tutti e due su un pavimento di specchio: una parte di noi vede le cose dal basso in alto e l’altra parte dall’alto verso il basso, ma il punto è comune: dove metto il piede io lo metti anche tu. E tuttavia io ho una postura e tu un’altra!”.
Sta di fatto che in ogni epoca storica è possibile osservare specularmente risposte teoriche e proposte pratiche di vita analoghe nel mondo ebraico e nel mondo cristiano fino ad oggi.
Faccio due esempi:
Il primo è quello di Origene, che interpretava la Bibbia con gli stessi metodi e nella stessa città di Cesarea di Palestina, contemporaneamente ai padri ebrei della Mishnà. Un professore universitario di Gerusalemme faceva notare qualche anno fa che nel commento al Cantico dei cantici Origene non fa altro che ripetere l’interpretazione dei rabbi, mettendo semplicemente al posto di Dio Gesù e al posto di Israele la Chiesa o l’anima credente.
Il secondo è questo: S. Francesco d’Assisi e il pellegrino russo proponevano gli stessi stili di vita dei kassidim ebrei loro contemporanei. Questo avveniva non perché fossero influenzati l’uno dall’altro in modo esplicito, ma perché l’humus al quale attingevano sia gli uni che gli altri era lo stesso. Vale la stessa cosa anche per noi.
Cammini aperti verso il futuroAbbiamo parlato di strade analoghe, ma dobbiamo aggiungere anche i risvolti tragici della specularità. Ne propongo alcuni, anche questi a titolo di esempio, che servano a individuare meglio l’itinerario che ancora resta da fare.
Primo: il senso di superiorità che molto presto segnò e continua ancora oggi a segnare le due parti: l’una fondata sulla oggettiva superiorità numerica e di potere; l’altra sulla convinzione, nonostante tutto, di una indiscussa primogenitura e superiorità spirituale.
Secondo: il modo diverso di definire e di proporre la rispettiva identità. La tradizione rabbinica in cui si riconoscevano e si riconoscono gli ebrei accoglie all’interno di sé, addirittura elogiandole, conservandole e trasmettendole, le interpretazioni più varie e persino contraddittorie che scuole e singoli maestri propongono in piena libertà.
Né l’ortodossia né l’ortoprassi sono un problema. Due ebrei possono credere o non credere cose diverse e “osservare” la legge in modo diversissimo e ciò nonostante sentirsi pienamente ebrei.
Si è ebrei se si accettano queste quattro cose fondamentali: l’unico Dio, il popolo, la legge, la terra. Quest’ultima difesa in modo particolare perché la legge è stata data per venga messa in pratica nella terra promessa da Dio ad Abramo e alla sua discendenza. Se si elimina dunque la terra promessa si toglie una colonna portante dell’identità ebraica! Il che spiega molti punti della nostra incomprensione nei confronti dei fratelli ebrei.
Ma esiste anche un’altra preoccupazione: stabilire l’ebraicità o meno degli individui secondo carne e sangue è considerata da alcuni fratelli ebrei un problema estremamente importante.
Il criterio di “mater semper nota” è determinante per alcuni e relativa per altri. Ne consegue un’accentuata diversità per cui non sai mai fino a che punto l’interlocutore che hai davanti riscuota il consenso dei suoi correligionari oppure no.
I motivi per i quali alcuni sono così rigidi e altri no, si riducono spesso alla sfida della modernità e, oggi, della postmodernità, che comporta la temuta assimilazione con conseguente messa in pericolo della perdita di identità e conseguente abbassamento della guardia di fronte al proselitismo cristiano o ‘goin’, che si può far strada soprattutto attraverso i matrimoni misti.
I metodi dei nazisti, che quando occupavano un territorio, verificavano la ebraicità o meno delle famiglie fino alla settima generazione, hanno prodotto negli ebrei risultati contradditori.
Sta di fatto che oggi siamo posti di fronte a una molteplicità di modi di essere o sentirsi ebrei che va dai superortodossi di Meah Shaarim ai giudei messianici e ai giudeo-cristiani di origine protestante, ortodossa o cattolica, che pongono serie difficoltà al proseguimento di un dialogo sereno e rispettoso dall’una e dall’altra parte.
La tradizione cristiana, e cattolica in particolare, avendo eliminato qualunque riferimento a carne e sangue, per stabilire l’identità, non ha né strumenti culturali né sensibilità spirituale adeguati a tener conto di questi problemi senza approfittare della debolezza degli altri.
Il risultato è spesso una rigidità apparentemente inspiegabile da parte dei fratelli ebrei che non trovano altra strada per far avvertire agli interlocutori la propria difficoltà, se non quella di rendere più difficile possibile il dialogo in modo da mandare allo scoperto soltanto coloro che sono abbastanza forti nella propria identità da potersi proteggere.
La storia ha insegnato a tutti che questi problemi non sono facilmente superabili soprattutto se si tiene conto di ciò che è successo per secoli quando la convinzione di essere nella verità ha armato di fervore i cristiani a tal punto da sentirsi in dovere, oltre che in diritto non solo di proporre, ma anche di imporre con le buone o con le cattive la propria fede religiosa agli altri.
Il dialogo dei gesti significativiIl cammino del dialogo resta ancora molto lungo, ma è già tantissimo averlo iniziato.
Tutto cominciò, per noi cattolici, con un gesto minimale compiuto da Giovanni XXIII il quale, passando di sabato con la sua macchina davanti alla sinagoga di Roma, fermò il suo corteo di macchine, scese e benedisse gli ebrei che stavano uscendo dalla sinagoga.
Racconta Elio Toaf, ex Rabbino capo di Roma: “fece fermare il corteo di macchine che lo accompagnava e benedisse noi, che dopo un comprensibile smarrimento, cominciammo ad applaudirlo con molto entusiasmo, mentre lui ci diceva:siete fratelli miei”. Era la prima volta che un Papa ci benediceva. Fu quello il primo vero gesto di riconciliazione: quel giorno cominciammo a sperare in una svolta dei cristiani negli atteggiamenti verso di noi.”
Era il 17 marzo 1962.
Richiamandosi probabilmente a questo episodio, Giovanni Paolo II amplificò quel gesto chiedendo, per la prima volta dopo duemila anni, di far visita alla Sinagoga di Roma e venendo accolto con lacrime di gioia dai vicini di casa che abitavano semplicemente dall’altra parte del Tevere, il 13 aprile 1986.
Con i fratelli ebrei si va avanti per gesti significativi come questi , ma anche come quelli compiuti dallo stesso Papa Giovanni Paolo II col pellegrinaggio ad Aushwitz, col riconoscimento dello Stato d’Israele e soprattutto con quel biglietto di richiesta di perdono imbucato tre le fessure del Muro Occidentale del Tempio a Gerusalemme in occasione del suo pellegrinaggio giubilare in Terra Santa.
Le parole non servono – mi dicono spesso i miei amici ebrei – perché i Papi e i vescovi cattolici ci hanno abituati purtroppo, nella lunghissima storia dei nostri rapporti reciproci, a continue docce scozzesi. Ci hanno fatto passare dall’esaltazione di sentirci fratelli alla depressione angosciante di sentirci definire deicidi. Gli stessi documenti moderni della Santa Sede, perfino dopo il Concilio, non sono stati affatto omogenei. Perciò preferiamo i gesti significativi e, più ancora, fatti concreti che servano a lenire ferite o a limare cicatrici, purtroppo assai appariscenti, vecchie di quasi due millenni.
Il futuro è nelle nostre maniSe resta difficile da parte dei fratelli ebrei credere nella sincerità della nostra conversione – loro la chiamano teshuvàAntisemitismo, antigiudaismo, antisionismo, antiisraelianismo sono tutti termini che esprimono la realtà di un disagio presente ancora in molti di noi. – non è che si possa dare per scontato il dialogo neppure da parte della cristianità.
Siamo preoccupati di distinguere questi termini per mostrare le nostre ragioni, ma spesso le motivazioni passano insensibilmente dal piano religioso, al piano politico e perfino razziale, senza che ce ne accorgiamo, perché ci resta ancora difficile, assai difficile, assumerci il peso di una storia lunghissima.
Vorremmo accettare di essere eredi dei nostri padri soltanto nel patrimonio positivo, ma facciamo enorme fatica a riconoscerci eredi anche dei loro limiti, dei loro sbagli e forse, - perché non dirlo? – dei loro gravi, oggettivamente gravi, peccati.
E, nonostante tutto, il clima nuovo che si è determinato col Concilio Vaticano II, ci permette di rileggere con occhi certamente diversi ciò che fin dal tempo di Paolo veniva proclamato nelle assemblee cristiane che cantavano insieme la Berakà della bellissima Lettera agli Efesini,:
“ Benedetto sia Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero, cioè il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose: in Lui siamo stati fatti anche noi eredi” con l’aggiunta: “ Ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai fatti della promessa, senza speranza, senza Dio in questo mondo, ora invece grazie a Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio.”
Lo spazio per un rapporto completamente nuovo con gli ebrei si è aperto di nuovo davanti ai nostri occhi ma lo possiamo percorrere legittimamente, raccogliendone i frutti, ad una condizione: che accettiamo di portare sulle nostre spalle un’eredità che ha segnato per secoli la vita dei nostri padri con conseguenze più o meno avvertite che ci riguardano tutti, anche oggi.
Sarebbe anche troppo facile scrollarci di dosso superficialmente il passato protestando “io non c’ero”. Così facendo, noi rischieremmo di essere talmente improvvidi da non aver imparato nulla dalla storia, col rischio, purtroppo assai realistico, di ripetere gli stessi sbagli dei nostri santi padri del passato.
La venuta di Gesù di Nazareth
Ma qualcuno mi dirà: D’accordo, ma andiamo al sodo: cosa pensano gli ebrei di Gesù di Nazareth? Hanno fatto anche loro qualche passo avanti nella riconsiderazione della persona di Gesù, così ignorata per non dire altro, nel loro insegnamento?
Domande assolutamente legittime.
Parliamone allora ma accettiamo l’idea che tutto abbia avuto inizio proprio con la venuta di Gesù di Nazareth, che già il NT definisce segno di contraddizione.
Prendere atto di questo è estremamente importante. Nel Vangelo secondo Luca il vecchio Simeone dice di lui: “Questo bambino sarà segno di contraddizione perché si mettano a nudo i segreti di molti cuori”.
Proprio Gesù che era venuto – secondo la fede cristiana – per essere luce delle genti e gloria del suo popolo Israele, è stato punto di demarcazione, pietra angolare che ha costretto Israele prima e i Gentili poi a prendere posizione. E sappiamo tutti che compiendo una scelta se ne esclude un’altra. Da qui alla polemica nei confronti di coloro che hanno compiuto una scelta diversa dalla nostra, il passaggio è quasi naturale. La polemica sembra anzi necessaria per rinforzare le motivazioni della propria scelta e definire meglio la propria identità.
Non c’è da scandalizzarsi nel constatare che il Nuovo Testamento è stato scritto nella polemica, così come era nato e cresciuto in contesto polemico. Tutto questo però significa anche che quello che si attribuisce a Gesù nel Nuovo Testamento va vagliato attentamente perché altro è ciò che Gesù è stato e ha detto e altro è ciò che i discepoli di Gesù hanno interpretato, ciascuno a modo suo, e hanno redatto per iscritto.
Altro è Gesù e altro sono i discepoli che, nella loro diversa sensibilità, hanno redatto i vangeli, e altro ancora è tutto ciò che ne è seguito nella interpretazione patristica, per esempio, dello stesso Nuovo Testamento. Non sarebbe fuori posto ricordare l’insegnamento di Origene il quale sosteneva che, come è necessario distinguere fra lettera e spirito nel testo dell’Antico Testamento, altrettanto necessario è farlo a proposito del Nuovo Testamento.
Il contesto storico del Mediterraneo Orientale
I primi passaggi sono avvenuti in un periodo delicatissimo della storia del Mediterraneo. Un periodo in cui l’identità ebraica, che era consapevole della propria tradizione e della propria ricchezza religiosa e culturale, non accettava di essere sottoposta a quel cilindro compressore che era per tutti nel Medio Oriente la cosiddetta civiltà greco-romana.
Gli ebrei avevano cominciato a difendersi dal rischio dell’assimilazione o appiattimento già fin dal 169 a.C., quando con Antioco Epifane c’era stata assoluta intolleranza da parte del mondo ellenistico nei confronti della diversità ebraica. Si pensava che, per poter mantenere unito politicamente l’impero ereditato da Alessandro Magno, fosse necessario sottomettere tutti non soltanto all’unico potere politico e militare, ma anche allo stesso credo religioso. Dove questo non si riusciva ad ottenerlo con la convinzione si tentava poi di ottenerlo con la costrizione e la violenza. Faceva paura la diversità in quanto tale, perché si era convinti che minasse l’unità del regno. Per questo Antioco Epifane pretese di profanare il Tempio di Gerusalemme con la presenza di un simulacro pagano, gesto indispensabile secondo lui per sottomettere gli ebrei alle comuni leggi ellenistiche del proprio regno. Non si accontentò solo di questo, ma fece anche questo. provocando l’inevitabile reazione violenta degli ebrei.
La rivolta dei Maccabei, che almeno per qualche decennio ebbe qualche fortuna, finì col gettare gli ebrei in braccio agli odiati romani. Fu infatti proprio Simeone, l’ultimo dei fratelli Maccabei, a stipulare per primo un’alleanza con i romani, considerati allora un popolo rispettoso delle leggi e delle consuetudini degli altri e popolo pieno di dignità. Simeone però, chiedendo aiuto, apriva di fatto il varco all’ingerenza dei romani in Medio Oriente facendoli diventare ben presto arbitri decisivi in ogni conflitto o decisione importante.
Pompeo non fece che raccogliere frutti già maturi quando condusse le sue legioni vittoriose in terra d’Israele ed entrò stupito nel buio sacro del Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme.
Gli anni fra il ‘60 circa a. C. e il ’60 circa d. C. furono anni di relativa calma in Medio Oriente. Si parlò addirittura di toto orbe in pace composito dopo le vittorie di Augusto e la definitiva sottomissione dell’Egitto al potere di Roma, ma furono anni solo di relativa pace, che coincisero col tempo in cui si svolse la vita di Gesù di Nazareth.
La mediazione, della dinastia Asmonea prima e degli erodiadi poi, non riuscì comunque a spegnere del tutto il desiderio di affermare la propria indipendenza da parte degli ebrei che finirono col ribellarsi venendo schiacciati con crudeltà inaudita prima da Tito nel ’70 e poi da Adriano nel 135 d. C..
In realtà il mondo ebraico di quei decenni pullulava di correnti religiose, politiche e di pensiero, di ogni tipo. Oggi, grazie alle scoperte avvenute a partire dal ritrovamento dei rotoli di Qumran e della biblioteca di Nag Hammadi (anni 1946-1948) e anche grazie ai ritrovamenti archeologici seguiti alla guerra dei 6 giorni (1967), sappiamo molto di più sul mondo contemporaneo di Gesù di Nazareth. Non siamo certo in grado di scrivere una biografia di Gesù, e nessuno si permetterebbe di farlo seriamente, ma già iniziano a venir fuori lavori molto seri che permettono di arrivare nelle vicinanze assai prossime ad un ebreo marginale della Galilea del tempo del secondo Tempio, che fu il tempo di Gesù di Nazareth.
Da tutti gli elementi che possediamo oggi, grazie – come dicevamo - a scoperte archeologiche e letterarie che prima non venivano neppure prese in considerazione, possiamo infatti delineare meglio la silhouette di un ebreo del tempo di Gesù per cui, mettendo insieme il puzzle di ciò che poteva essere la situazione e il comportamento di un individuo come Gesù in quel determinato territorio, in quel preciso periodo storico, possiamo avvicinarci moltissimo alla sua persona storica.
Tutto questo ha comportato la caduta di una serie di giudizi e pregiudizi, ma soprattutto ha aperto agli studiosi orizzonti nuovissimi per la comprensione del Nuovo Testamento e della coeva letteratura rabbinica che sarà l’anima dell’ebraismo che si accompagnerà nei secoli successivi allo sviluppo del movimento cristiano.
Gli ebrei nostri contemporanei hanno un approccio assai diverso di Gesù di Nazareth rispetto a quello dei loro correligionari dei secoli passati. Conoscono tutti la frase spesso ripetuta a partire da Flusser: “La fede di Gesù ci unisce, la fede in Gesù ci divide”. Non è molto per noi cristiani, ma è un enorme passo avanti per i nostri fratelli ebrei ed è ancora più confortante constatare che nelle Università israeliane e nelle facoltà rabbiniche il Nuovo Testamento diviene un testo sempre più studiato da specialisti ebrei e perfino nell’educazione dei giovani israeliani la figura di Gesù conquista uno spazio sempre più grande, che viene poi allargato alla conoscenza non solo approssimativa del cristianesimo durante gli anni del servizio militare obbligatorio degli israeliani.
Le opinioni degli ebrei su Gesù sono, come sempre, assai diversificate, ma è indubbio che buona parte dei nostri interlocutori oggi non soltanto considerano Gesù un ebreo come loro – opinione ormai generale nella mentalità ebraica -, ma anche come un grande personaggio del passato, talmente grande che alcuni si spingono addirittura a considerarlo profeta, anzi il più grande dei profeti di Israele, per il semplice fatto che, grazie a lui, la Torà di Israele è stata divulgata su tutta le terra!
Qualcuno si spinge anche oltre scoprendo in lui il mediatore attraverso il quale la benedizione promessa ad Abramo ha trovato una strada misteriosa per raggiungere concretamente tutti i popoli della terra.
Assai diverso è invece l’approccio che proseguono a mantenere gli ebrei nostri contemporanei sull’Apostolo Paolo. Ma su questo occorrerebbe altro tempo a disposizione.
A proposito di Paolo mi permetto di invitare a dare uno sguardo, per chi fosse interessato, ai quattro volumetti che ho pubblicato in questi ultimi quattro anni (2001.2.3.4) sulla Lettera ai Romani presso le edizioni Dehoniane di Bologna.
Giacché ci siamo, tento adesso di dare anche qualche titolo bibliografico per indicare alcuni testi che ho tenuto presente in questa mia lezione, ma anche per proporre letture che facilitino l’approfondimento del tema trattato.
Consiglio anzitutto due volumi un po’ impegnativi: Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo. Un profilo storico-filosofico, Morcelliana, Brescia 2003; Stefano Levi della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somigliane, conflitti, Feltrinelli 2003. A questi si può aggiungere Paolo Sacchi, Gesù e la sua gente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, meno impegnativo, ma lavoro sintetico di un grande esperto dell’ebraismo del Secondo Tempio e della letteratura apocalittica o intertestamentaria. Molto ben fatti sono i Quaderni “Ecumenismo e dialogo” a cura di Stefano Rosso ed Emilia Turco, editi (pro manuscripto) dalla «Commissione Interregionale per l’ecumenismo e il dialogo» di Piemonte e Valle d’Aosta, soprattutto il quaderno n. 7 del 2003. Non posso fare a meno ovviamente di ricordare poi, dulcis in fundo, gli Atti dei Colloqui di Camaldoli dei quali cito solo l’ultimo volume: Innocenzo Gargano ( a cura), “Siate Santi perché io sono Santo" (Lv 19,2). Costruirsi e costruire fra diversi. Atti del XXIII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli (4-8 dicembre 2002), Editore Pazzini, Verucchio 2003.(relazione tenuta al Corso Superiore di Scienze Religiose, Trento 25/XI/2004)