I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L’anno liturgico celebra Cristo
di Francesco Pio Tamburrino

L’anno liturgico si presenta come il calendario di Dio, che fissa gli appunta,menti decisivi per la vita dei fedeli e apre loro le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti di Cristo Signore, così da renderli in qualche modo presenti in ogni tempo.

Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo, è lo stesso ieri, oggi e sempre (Eb 13,8)


Le espressioni di cui si è servita la tradizione per indicare l’anno liturgico sono tutte cariche di riferimenti teologici: “anno del Signore”; “anno della redenzione” (cf. Lc 4,19-21); “anno della grazia” (cf. Is 61, 1-2);”anno di salvezza”. In filigrana, il riferimento di fondo è al mistero di Cristo, centro della storia di salvezza, al quale si riannoda, mediante il memoriale, il nostro tempo consacrato dalle celebrazioni della liturgia. “Le tappe dell’”anno di grazia” riflettono i momenti decisivi della realizzazione della nostra salvezza in Gesù Cristo. Nel suo svolgimento l’anno liturgico ci fa seguire il dispiegamento di tutta la ricchezza del mistero di Cristo (1).

La prima e più Importante nota teologica dell’anno liturgico è il riferimento a Cristo Signore. “L’anno liturgico non è un’idea, ma è una persona, Gesù Cristo e il suo mistero attuato nel tempo e che oggi LA Chiesa celebra sacramentalmente come “memoria”, “presenza”, “profezia” (2).

1. Mistero di Cristo

Il riferimento allo sviluppo storico dell’anno liturgico è particolarmente indicativo per cogliere la teologia che soggiace ad esso. Le scansioni celebrative sono nate nell’antichità cristiana da un unico centro vitale: il mistero pasquale. Il culto della Chiesa è nato dalla Pasqua e per celebrare la Pasqua nel “dies dominicus”. All’inizio della liturgia cristiana l’unica festa era la domenica, memoriale ebdomadario del grande giorno della resurrezione. Ben presto, i legami delle comunità cristiane con l’ebraismo hanno fatto organizzare una celebrazione annuale del mistero pasquale, che resterà il punto culminante dell’anno liturgico, come del resto lo fu di tutta la missione di Cristo nella sua morte e resurrezione.

Un po’ alla volta, intorno a questo centro salvifico, sotto l’esigenza di “storicizzare” il mistero pasquale, le celebrazioni si sono dilatate in un “triduo pasquale”, nella settimana santa. Dando luogo ai battesimi nella grande Veglia Pasquale, e organizzando la disciplina penitenziale nei “quaranta giorni” che precedono la Pasqua, ne è nata la Quaresima come forte periodo preparatorio alla Pasqua. Così pure, l’esigenza di accompagnare i neofiti in un itinerario di approfondimento dei sacramenti ricevuti ha prodotto un ulteriore ampliamento nella celebrazione della cinquantina pasquale, che si conclude con la Pentecoste. Lo sviluppo delle celebrazioni è fortemente unificato da quell’unico centro focale, che è la Pasqua di Resurrezione.

Si può dire che la genesi dell’anno liturgico non avvenne principalmente sotto la spinta del pensiero teologico, che pure si andava sviluppando e organizzando nelle dispute contro le tendenze ereticali. Le celebrazioni nascevano dalla percezione della “eccedenza” del mistero di Cristo. La ricchezza inesauribile di tale mistero, compresa anche, nelle sue molteplici sfaccettature, alla luce della historia salutis e dei Vangeli ha determinato l’espansione del mistero di Cristo su spazi sempre più ampi.

L’anno liturgico celebra essenzialmente Cristo, non solo nei due cicli “cristologici” per eccellenza (Natale e Pasqua) e nel proprio del tempo dall’Avvento alla Pentecoste, ma anche nelle feste della Beata Vergine Maria e dei santi. Il “santorale” infatti celebra lo stesso evento salvifico di Cristo, in quanto ricevuto dalle membra di cristo, visto cioè nei suoi frutti, realizzato nelle sue membra più perfettamente configurate al Cristo morto e risorto (3).

Dopo una eccessiva proliferazione di feste dei Santi e delle devozioni particolari, che minacciavano di oscurare nella mente dei fedeli il punto centrale e primario, costituito dal mistero di Cristo, il Concilio Vaticano II, nel classico articolo 104 della Costituzione Liturgica Sacrosanctum Concilium afferma che la Chiesa celebra sempre e soltanto il mistero pasquale anche nelle feste dei suoi Santi, in quanto questi, più o meno perfettamente sono configurati al mistero di Cristo morto e risorto, e come tali sono celebrati e presentati come modelli alla Chiesa.

2. Crescita in Cristo

L’anno liturgico è cristocentrico anche in forza dei sacramenti che si celebrano perché gli uomini possano essere associati alla salvezza operata da Cristo. “Moritur Christus ut fiat Ecclesia: muore Cristo perché nasca la Chiesa” (4): la Chiesa nasce dal mistero pasquale di Cristo comunicato nei sacramenti. In tal modo Cristo ci raggiunge e ci convoca nel suo mistero pasquale. I sacramenti, che riuniscono tutti i diversi aspetti del mistero, con la meravigliosa semplicità di un solo segno ricco di una straordinaria pienezza, ci permettono di accogliere, per mezzo di “ritus et praeces” i gesti che Cristo ha compiuto “per noi uomini e per la nostra salvezza”.

“L’anno liturgico è la vicenda di Cristo che si inserisce sul piano personale per diventare salvezza, non isolando la persona, ma immettendola nel dinamismo della “istoria salutis” (5)”. In esso infatti “mysteria redemptionis… (Ecclesia) fidelibus aperit, adeo ut omni tempore quodammodo praesentia reddantur: ricordando i misteri della redenzione, la Chiesa aopre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche, in modo tale da renderli come presenti a tutti i tempi” (Sacrosanctum Concilium, 102).

Nella liturgia cristiana, nessuna celebrazione è identica all’altra. L’anno liturgico è un andare avanti, a partire dal punto in cui si era arrivati, è un nuovo avvento di Cristo nella vita della Chiesa e di ciascuno. Di festa in festa siamo “sempre di nuovo” davanti a Dio in Cristo, per realizzare il “crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e testimoniarlo con una degna condotta di vita” (Colletta della I dom. di Quaresima).

O. Casel paragona l’anno liturgico alla salita di una montagna attraverso tornanti che si affacciano sugli stessi versanti, ma a quote differenti: “Come una strada corre serpeggiando intorno ad un monte, allo scopo di poter raggiungere a poco a poco, in graduale salita, la ripida vetta, così noi dobbiamo ogni anno ripercorrere su un piano più elevato la stessa via, finché non sia raggiunto il punto finale, Cristo stesso, nostra meta”.

Si tratta insomma di “vivere questa vita di Cristo Signore, questo cammino imponente, dal seno della Vergine fino al trono della divina maestà nell’alto dei cieli, questo mistero. Si tratta di celebrare e di fare nostre grandi realtà della salvezza, non semplicemente di contemplare e imitare nel sentimento la vita terrena del Signore, nei suoi particolari.

Questo potrebbe farlo anche un non battezzato, mentre noi cristiani e cattolici siamo chiamati a celebrare il mistero di Cristo, servendoci della potenza che ci viene dallo Spirito di Dio; non ricevendo soltanto illuminazioni e grazie, ma partecipando all’oggettiva spirituale realtà di Cristo presente… Soltanto così possiamo attingere, pieni di gioia, dalla sorgente di vita che è Cristo Salvatore… L’affermazione di Cristo: Io sono la via si realizza così nel modo più elevato. Cristo non è semplicemente l’esempio e tanto meno uno che indichi la via: è invece la via vera e propria, che ci porta fino alla meta” (6). L’anno liturgico non ricalca la concezione statica, greco-romana, del tempo, chiuso nella ripetitiva ciclicità di mesi, stagioni e anni; deriva invece da quella biblica, che concepisce il succedersi del tempo come una spirale progressiva, diretta verso il compimento finale della salvezza.

“L’articolazione del ciclo liturgico non deve trarre in inganno. Le varie fasi (Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua) si giustificano come diversi approcci dell’unico mistero, e si caratterizzano per il riferimento alle sue fasi.

Procedimento pienamente legittimo e altamente pedagogici, purché si tenga ben presente che il mistero è uno solo: Cristo pasquale. E allora, quando celebro l’Avvento, non dimentico che egli è già venuto; quando celebro la Quaresima non mi sento come uno che attende ancora la purificazione dal sangue di Cristo, ma come un credente che porta già il sigillo della croce e vuole solo immedesimarsi meglio con essa… Ogni fase va collegata con il paschale sacramentum.

Così il Natale non è solo la celebrazione della nascita di Cristo: è il mistero della redenzione, vista in una determinata angolazione: il Verbo che si fa carne per salvarci (7).

3. Storia della salvezza in atto

La concentrazione cristologica del mistero celebrato nella liturgia va intesa secondo la legge intrinseca della economia di salvezza contenuta nelle Scritture e che ha raggiunto la sua pienezza in Cristo. Dalla creazione all’Apocalisse Dio entra nella storia degli uomini con un piano organico e progressivo, in cui “con eventi e parole intimamente connessi tra di loro” (Dei Verbum, 2), Dio attua la salvezza ponendovi Cristo Signore quale centro verso cui tutto converge e da cui tutto si irradia.”L’anno liturgico celebra il mistero di Dio in Cristo, quindi è radicato su quella serie di eventi mediante i quali Dio è entrato nella storia e nella vita dell’uomo” (8). La liturgia celebra tutta la storia della salvezza incentrata nella persona e nei fatti della vita storica di Gesù . il prima di Cristo è la storia sacra dell’Antico Testamento, colta nella sua dimensione essenzialmente profetica; il dopo di Cristo è il tempo della Chiesa, che ha per pietra angolare Cristo Gesù e per fondamento gli apostoli e i profeti della Nuova Alleanza.

Questa triplice dimensione storica è resa presente nella liturgia dall’annuncio degli avvenimento dell’Antico Testamento, del Vangelo e degli scritti apostolici. L’esempio più luminoso è presentato dalla successione delle letture della Veglia pasquale; ma anche le grandi formule di benedizione (dell’acqua, degli oli), di ordinazione,di dedicazione del tempio e dell’altare, le preghiere di “raccomandazione dell’anima”, seguono lo stesso modulo.

Il modo proprio con cui la liturgia permette di rivivere oggi gli eventi salvifici annunciati e commemorati nella celebrazione è il memoriale.

E’ vero che l’anno liturgico ha una sua funzione didascalica, utile per la catechesi, e nei contenuti offre l’essenziale per un itinerario di fede e di evangelizzazione. Tuttavia va tenuto presente che l’anno liturgico non è un album di cartelloni per la catechesi, ma la persona di Cristo: esso ci permette di entrare in contatto con i suoi misteri, che sono vivi e operanti nella liturgia.

Nel memoriale le azioni salvifiche di Cristo sono rese ritualmente contemporanee e attualizzate. L’avvenimento salvifico del passato non si ripete, ma si fa presente ed efficace qui-ora-per noi. “Ciò che era visibile del nostro redentore – afferma San Leone Magno – è passato nei riti sacramentali” (Discorso II sull’Ascensione, 1,4).

Se la festa della Chiesa è Cristo, celebrare significa partecipare alla sua grazia che ci salva. La categoria della “partecipazione” non deve essere banalizzata, limitandola – come spesso si è fatto nel periodo post- conciliare – al coinvolgimento dell’assemblea nei canti, nelle preghiere e nei ministeri, tirandola fuori dal mutismo e dalla passività in cui si era rifugiata per secoli. Partecipare è accogliere la presenza del Risorto, legarsi a lui e vivere con lui; è diventare parte di Cristo, divenendo suo pleroma, con la Chiesa e come la Chiesa. Cristo ci prende dentro i suoi misteri; mediante lo Spirito Santo li innesta nella nostra vita e li fa vivere in noi.

4. Riscatto del tempo

Nella liturgia convergono, come eredità della visione biblica, tre livelli del tempo: quello regolato dai cicli della natura (tempo cosmico); quello che si svolge nel fluire degli avvenimenti (tempo storico); l’uno e l’altro Dio li governa e li orienta verso un fine (tempo salvifico).

Nell’anno liturgico i cicli stagionali, la successione dei mesi, delle settimane e dei giorni, la sera e il mattino, la notte e il giorno, il tempo della vita terrena pieno di esperienze umane e luogo del divenire di tutte le cose, insomma il chronos assume una qualifica salvifica, mediante il kairòs: spazio e tempo propizio per la salvezza, abitato dal mistero di morte-resurrezione di Cristo.

Il tempo astronomico (chronos) misura in modo inarrestabile il nostro divenire e la nostra decadenza fisica. Dio riscatta la vita umana, facendole superare la prigione del proprio limite esistenziale, introducendola nella “pienezza del tempo” (Ef 1,10). “La realizzazione del mistero di Cristo ha inaugurato un’era nuova, cioè dei tempi che non sono più assoggettati alla vanità, alla decomposizione, ma riempiti ormai dell’azione dello Spirito in vista del ristabilimento di tutte le cose.

In Cristo ci è donato di vivere un tempo reale, non vuoto ma pieno, non fuggevole ma compiuto (K. Barth). Perché in lui il passato non si deposita in un pur ricorso, non si allontana, ma ci accompagna come una realtà viva; in lui il presente non si perde continuamente nella fretta della vita, non è subito sorpassato, ma si trova già, in maniera del compimento finale, della gloria a venire” (9).

Dio ha già operato la redenzione del tempo, con tutti i gesti di salvezza che ha compiuto dalla creazione fino ad oggi, da Abramo a Mosè, a Davide, ai profeti, fino alla pienezza dei tempi, in cui il Figlio eterno si è fatto uomo nel tempo e nello spazio e ha riempito di amore e di salvezza la vita degli uomini. Cristo Gesù è il punto di interferenza e di approdo nella storia del “tempo divino”.

La liturgia cristiana è l’ultima tappa della storia della salvezza, in continuità con ciò che Dio ha compiuto “in illo tempore”, e insieme aperta verso la realizzazione finale nel mistero che celebra.

L’anno liturgico è la continuazione della storia della salvezza. Il passato è costellato dai grandi interventi divini. Questi “magnalia”, nel tempo presente, sono i sacramenti. Senza clamore, sotto il velo dei segni, sono interventi meravigliosi di grazia che si svolgono sul nostro cammino.

Conclusione

Nella teologia dell’anno liturgico c’è la risposta al più angoscioso interrogativo dell’esistenza umana: la vita umana nel tempo non è una corsa insensata verso il nulla. La storia è lo spazio in cui Dio si affianca all’uomo e cammina con lui: luogo d’incontro e di amore, svelamento della filantropia divina, che si compromette fino a dare un nuovo senso s tutti gli interrogativi della vita: dal nascere al morire, dalle gioie alla sofferenza. La piccola storia, il frammento in cui si trova a vivere ogni uomo è un calice che attende di riempirsi in Cristo. La “virus” che usciva da Cristo deve poter raggiungere l’uomo, toccarlo (Lc 6,19) per guarirlo.

Il primato di Cristo, nell’anno liturgico, è primato di Dio nell’opera della salvezza. Egli è “il solo che opera meraviglie, perché eterna è la sua misericordia” (Sal 135,4). Il protagonista principale della liturgia non è né il ministro, né l’assemblea dei fedeli. Nella liturgia noi “movemur: siamo mossi” dallo Spirito (Rm 8,14). E’ lo Spirito che ci prende per mano, ci conduce verso il “Padre santo fonte di ogni santità” e ci introduce, mediante l’epiclesi, nella “grazia di Dio, che è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 6,23) (10).

Note

1) F. STOOP, L'an del grâce, in AA.VV., Les étapes de l’an de grâce, Neuchâtel 1962, p. 7.

2) A. BERGAMINI, Anno liturgico, in D. SARTORE – A.M. TRIACCA, Nuovo Dizionario di liturgia, Roma 1984, p. 65.

3) Cf. P. VISENTIN, La celebrazione del mistero pasquale nella memoria della Vergine e dei Santi, in ID., Culmen et fons, I, Padova 1987, pp. 340-344.

4) S. AGOSTINO, Tract. in Io 9,10.

5) M. MAGRASSI, Cristo luce sul nostro cammino, in Liturgia 12 (1978) p. 781.

6) O. CASEL, Il mistero del culto cristiano, tr. it., Torino 1959, pp. 113-114.

7) M. MAGRASSI, Cristo luce sul nostro cammino, cit., p. 783.

8) A. BERGAMINI, Anno Liturgico, cit., p. 67.

9) F. STOOP, L’an de grâce, cit. p. 22.

10) A. M. TRIACCA, Anno liturgico: «icona del rapporto tra “hodie” e l’”escaton”», in Rivista Liturgica 75 (1988) p. 479.

Memoria, azione nel presente

di Geneviève Makaping


«L’antisemitismo non è un'opinione. È una perversione. Una perversione che uccide. Non dobbiamo dimenticare quello che non si è potuto fermare». Parole del presidente francese Jacques Chirac.

Nel giorno della memoria, mi suscita angoscia profonda vedere documentari storicamente ben costruiti, libri che ci ricordano quello che fu e che non si poté fermare. Ma perché non si poté fermare? Cercare risposte sarebbe infruttuoso e porrebbe alimentare ritorsione, odio. Più utile chiederci che cosa possiamo fare ora.

Il ricordo, per ambire a dignità, dev'essere attivo, dinamico e vivo Perché tutto non si riduca a ovvie commemorazioni, dovremmo essere capaci di progettare l'azione del ricordo. È così che la Memoria diventa azione nel presente.

Nessuna cultura o comunità è mai minoranza in sé. Ciò implicherebbe che da qualche parte vi sia una maggioranza culturale. Ciascun gruppo è maggioranza rispetto a sé stesso. E poi, l'essere maggioranza o minoranza non ci fornisce nessuna informazione rispetto alla bontà o meno degli intenti. Appartenenza superiore o inferiore: questa visione del mondo in termini gerarchici ha generato razzismo e morte.

Guerre dimenticate, guerre mediatizzate, guerre dell'acqua, della fame e delle malattie. 60 anni fa, il genocidio. Bisogna andare oltre il pianto. Il ricordo da solo non basta. Siamo stati capaci di litigare persino sulle tragedie che abbiamo generato: è più drammatica la Shoah o sono più sconvolgenti le foibe? Vergogna. Vergogna due volte. Abbiamo reso bipartisan i nostri crimini contro l'umanità. Sì, mi vergogno anch'io.

Ah, le foibe!. Lo confesso: non sapevo cosa fossero. Solo a 47 anni, ho appreso l'esistenza del termine infoibare. Ho subito pensato a nok guè, parola bamiléké (la mia etnia; sono camerunese) per significare il grande serpente capace di ingoiare grandi prede. Da buona migrante, ho aperto l'enciclopedia. Foiba (dal lat.. fovèa, fossa). Caverne a grande sviluppo verticale presenti nella Venezia Giulia, con struttura a pozzo, al fonda del quale si accumulano materiali rocciosi o scorrono ruscelli sotterranei. Le F. sono uno dei più appariscenti fenomeni carsici dell’Istria. Tra il 1943 e il 1945 nelle F istriane trovarono la morte migliaia di italiani, massacrati dalle truppe partigiane del maresciallo Tito. Come dire che il buon Dio ha intarsiato e cesellato quel territorio e noi ci abbiamo messo il significato.

Memoria dinamica. Come? Dotandoci di strumenti che ci aiutino a non costruire barriere. Ve ne sono ancora molte.

Tra i gruppi perseguitati dai nazisti vi erano i nomadi, i testimoni di Geova, i tedeschi oppositori del nazismo, i membri dell'intellighenzia polacca, gli omosessuali, i delinquenti abituali, le persone cosiddette antisociali (erano considerati tali i mendicanti, i vagabondi e i venditori ambulanti).

Oggi, questi stessi uomini e donne vivono nella nostra società. Con quali occhi li guardiamo? Con quali stereotipi li rappresentiamo e li teniamo a distanza.? Ancora si perpetrano genocidi. Abbiamo perso la capacità di ricordare, di indignarci e ribellarci di fronte ai soprusi?

Racconta un a internato, che aveva il compito di accudire un carnefice: «Io lo guardavo senza quegli stivali, senza quel cappello e senza quel cappotto, lui era niente - capite? - un niente. Poi gli infilavo gli stivali e il cappotto e il cappello e ritornava a essere l'espressione della morte».

Memoria dinamica. Va costruita senza il sentimento di vendetta. Vendetta contro chi? Contro la nostra storia? La storia appartiene a tutti. Fino ai diciotto anni, vivevo in Africa. Non avevo sentito mai parlare di genocidio; o meglio, non ne avevo sentito parlare in modo da sentirmi parte di quella brutta pagina della storia. Mi ricordo, però, che noi studenti e studentesse ripetevamo in modo ossessivo: «Deutschland Uber Alles». Noi, piccoli neri, lo dicevamo persino con un piglio di fierezza, essendo stati colonizzati dai tedeschi, i più forti d'Europa. I più forti tra i bianchi. Noi eravamo sedati e, inconsapevolmente, servi dei più forti.

Non ricordo di aver mai sentito il numero sei milioni o dieci milioni. Ne avessero parlato o scritto, fossi stata anche in cima a una palma da cocco, me ne sarei ricordata. Neanche i miei genitori potevano ricordarsene: erano analfabeti, come ce ne sono ancora canti nei mondi terzi.

Allora, contro chi dovremmo vendicarci di quanto accadde? Contro noi stessi o contro le nuove generazioni? La verità storica deve far nascere in noi la volontà di ricostruire quello che abbiamo disfatto, senza rancore. Un accessibile linguaggio di pace, che dica cosa sono fame, guerra, odio, stenti, senza necessariamente doverli sperimentare.

Proviamo a contare fino a 10 milioni 860mila. Dicono le statistiche che gli ebrei uccisi nei campi furono 5.860.000 e 5 milioni i civili non ebrei trucidati. E il numero degli infoibati? C'è chi dice da 250 a 300mila, e chi dai 4mila a 5mila. Non sappiamo il numero esatto? Basta la conta.

Proviamo a scavare. Dove? Nella nostra coscienza. Vi saluto, addolorati.

(Tratto da Nigrizia, marzo 2005, pag. 77)

Giovedì, 31 Agosto 2006 03:14

Delle vite sconvolte… (AA.VV.)

Il primo, André Rochette, è partito quando aveva quarantasette anni per un ricerca non sapeva di che, verso l'India, su istigazione del suo maestro Arnaud Desjardin. La seconda, Hermes Garanger, è rimasta in Francia, ma per fare un viaggio interiore, un ritiro buddista di tre anni, tre mesi, e tre giorni. Il terzo, fratel Didier Maury, aiuta gli altri a superare le tappe di un cammino iniziatici. Tre itinerari, tre incontri.

Il ritorno a Dio
nell'insegnamento monastico
di San Bernardo
di Sr Maria Pia Schindele o. cist.

La regola di San Benedetto ini­zia con l'invito, di « ritornare a Dio con la fatica dell'obbedienza, dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia della disobbedienza» (RB Prol. 2).

Il pensiero di San Bernardo, nell'insegnamento della vita monastica, è improntato sul ritorno a Dio. Nei suoi scritti troviamo la consapevolezza che Dio ha creato l’uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1,26). Mediante la similitudo - ossia la somiglian­za con Lui - dovremmo essere comparte­cipi della sua vita divina. La disobbedienza a Dio però ci allontanò dalla regio similitudinis e ci portò verso la dissimilitudinis cioè verso «la regione della dissomiglianza», di modo che noi soltanto attraverso l'ob­bedienza al piano salvifico di Dio possia­mo ritornare a Lui.

Tra gli antichi testi dei Padri della Chie­sa, che hanno ispirato in lui questi pensie­ri, potrebbero essere state le Confessioni di Sant'Agostino che dice: «Mi scoprii lonta­no da Te in una regione dissimile». (1)

Bernardo sviluppa il tema del ritorno a Dio soprattutto nel trattato intitolato «La grazia e il libero arbitrio» e in alcuni degli ultimi sermoni sul Commento al Cantico dei Cantici. Questo tema è ricorrente an­che negli altri suoi scritti e sermoni.

1) Ritorno a Dio nel trattato "De Gratia et libero arbitrio"

Nell’analisi sul concetto della grazia e del libero arbitrio, Bernardo sviluppa il ritor­no dell'anima a Dio nella regione della similitudine. Espone la nozione che, per il libero arbitrio che Dio ci ha elargito, sia­mo sempre immagine di Dio, imago Dei, e lo resteremo malgrado le nostre errate de­cisioni che facciamo con la disobbedienza, perché l'immagine di Dio è indistruttibile; mentre alla somiglianza con Dio, similitudo, arriviamo solo se ci lasciamo trasformare dall'obbedienza ai suoi comanda­menti. Questo lasciarsi trasformare rinnova le forze dell'anima e, attraverso la rectitudo, la rettitudine dei nostri sentimenti e del nostro comportamento indirizza tutto il nostro essere verso Dio.

a) Il nostro ritorno nella regione della somiglianza

Bernardo nel suo trattato chiama Gesù Cristo «la Divina Sapienza» che vuole ricondurci a Dio. Descrive questo ritorno a Dio paragonando la Divina Sapienza alla donna del Vangelo che cerca la dracma per­duta (Lc 15,8). Così il Figlio dell'Uomo cerca in noi l'immagine di Dio sfigurata fino alla irriconoscibilità dal nostro pecca­to di disobbedienza. Bernardo spiega a proposito che questa immagine è il no­stro indistruttibile libero arbitrio, con il quale possiamo obbedire oppure disobbe­dire a Dio. Alla somiglianza con Dio l'uo­mo è riportato attraverso l'obbedienza al Verbo Incarnato.

Bernardo dice:

«Se quella donna del Vangelo non accen­desse la lampada, cioè se la Sapienza Incarnata, non mettesse sottosopra la casa, ovviamente quella dei vizi, e non cercasse la sua dracma (l'uomo) che aveva perduto, la sua immagine, questa che, privata della nativa bellezza e tutta brutta sotto la pelle sporca del peccato, era nascosta come nella polvere, egli trovatala la pulisce e l’innalza dal luogo della dissomiglianza, e la reinte­gra nel primitivo aspetto, la rende simile a Sé nella gloria dei santi, anzi un giorno la renderà in tutto conforme a Se stesso, come dice la Scrittura: «Sappiamo che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo così come Egli è» (1Gv 3,2)». (2)

b) Il nostro rinnovamento per mezzo di Gesù Cristo

Bernardo afferma che il nostro ritorno a Dio prevede, che veniamo «trasformati» secondo l'ideale di Gesù Cristo e lo indica quale «forma» (3)- modello - corrispondente al suo essere divino, al quale dobbiamo conformar­ci. Se viviamo secondo il suo ideale, saremo da Lui trasformati, gli assomiglieremo e sperimenteremo la Sua vita in noi.

Riguardo al rinnovamento della nostra volontà secondo l'ideale del Signore Bernardo scrive:

«Venne perciò la stessa, forma, cui si doveva conformare il libero arbitrio: infatti per recuperare la forma primitiva, l'uomo do­veva essere riformato da quella forma in base alla quale era stato anche formato». (4)

Questo concetto viene riproposto anche da un'altra angolatura, per ribadire il fon­damentale significato salvifico a tutta la comunità ecclesiale avente necessità di redenzione, Bernardo dice, «Colui che era deforme ha dovuto essere formato di nuovo per mezzo della forma, Cristo Gesù; le membra non possono essere condotte a compimen­to se non con il capo». (5)

c) Il rinnovamento delle nostre forze d'animo

pensiero, attraverso il quale cominciamo a riconoscere do che è buono e quindi ciò che corrisponde alla vo­lontà di Dio. Dal consensus voluntatis - dal consenso della nostra volontà - dipende l'ul­teriore aiuto di Dio, che elimina la nostra incapacità di fare il bene. Dandoci la gioia per il bene, ci dà la forza di fare il bene. Così Dio ci rende idonei alla «libertà dal pecca­to», e ci conduce alla «libertà dalla mise­ria»; quindi alla somiglianza con Lui e alla compartecipazione della sua gloria divina. (6)

Come altri scrittori ecclesiastici prima e contemporanei del suo tempo, Bernardo distingue le forze d'animo dell'uomo in memoria, ratio e voluntas. La memoria è la capacità data a noi di sperimentare Dio e di entrare in contatto con Lui. È in certo qual modo il nostro «ricordo» o «memo­ria» di Dio e quindi viene qualche volta anche chiamato recordatio.

La ragione con la quale possiamo «rico­noscere» o «ravvisare» il bene viene chia­mata ratio oppure sensus. Qualche volta questa parola è indicata con intentio, per­ché noi formiamo con la ragione la nostra «intenzione», che viene indicata anche come «modo di pensare» o «desiderio».

Siccome il nostro volere - voluntas - è accompagnato dai nostri sentimenti e dal nostro amore, troviamo per esso nei testi aventi per oggetto il nostro «rinnovamen­to» le parole voluntas, affectio oppure amor.

Quando Bernardo definisce il rinnova-mento interiore dell'uomo dice che consi­ste in tre disposizioni dell'anima: propo­sito retto - rettitudine intentionis -, sentimento puro -, puritate affectionis - e ri­cordo del bene operare - recordatione bonae operationis - grazie al quale la memoria ri­splende per la consapevolezza della sua buona coscienza. (7)

Nel trattato sulla grazia e il libero arbi­trio Bernardo menziona il «proposito incur­vato dalle preoccupazioni terrene», (8)che si può trovare nell'uomo e che deve essere sollevato con la rettitudo intentionis - «la rettitudine dell'intenzione». In questo con­testo è da considerare, quello che egli dice nel XXIV Sermone sul Cantico dei Cantici sul confronto tra l'homo rectus - l'«uomo retto» - e l’homo curvatus - l'«uomo gobbo», quando scrive: cose terrene, è una gobba dell'anima e, al contrario, meditare e desiderare le cose di lassù, è rettitudine». (9)

Riguardo a tutti gli sforzi, che noi intra­prendiamo in questo desiderio rivolto ver­so l'alto, Bernardo spiega nel trattato «La grazia e il libero arbitrio», che attraverso essi «il nostro uomo interiore si rinnova di gior­no in giorno» (2 Cor 4, 16). E continua:

«Poiché il proposito, incurvato dalle preoc­cupazioni terrene, a poco a poco dal basso risorge verso l'alto: e il sentimento, che langue per i desideri della carne, gradatamente s’irrobustisce all'amore dello spirito, e la memoria, ch’è macchiata dalla bruttura delle vecchie opere, resa candida dalle nuove e buone azioni di giorno in gior­no gioisce di più. Infatti il rinnovamento interiore consiste in queste tre disposi­zioni: proposito retto, sentimento puro, ricordo del bene operare grazie al quale la memoria rifulge ben consapevole di sé». (10)

d) Significato della rectitudo

Riguardo al nostro rinnovamento inte­riore è importante la rectitudo - la «retta intenzione» - del nostro modo di pensare e di agire, perché se la nostra volontà è in­teramente indirizzata a Dio, è ordinata.

Bernardo descrive la volontà ordinata, ad lineam rectitudinis, - la norma del retto agi­re-, con la risposta negativa di Gesù a quei discepoli che lo pregavano di avere posti d'onore nel suo regno, dice Bernardo: «Fu loro insegnato a ricondurre la volontà distorta sulla retta linea, quando udirono: "Potete bere il calice, che io berrò?» (Mt 20,22)». (11)

Secondo S. Bernardo sono pochi gli uo­mini spirituali che posseggono la piena li­bertà di ragionare, che li porti sempre al retto agire, per questo dice:

regno!” (Mt 6, 10). Questo regno non si realizzerà compiutamente neppure in loro, fino al momento in cui non solo il peccato non regnerà nel loro corpo morta­le, ma non ci sarà più assolutamente, ne potrà esserci, nel corpo ormai immortale». (12)

2) Il ritorno a Dio nei Sermones super Cantica Canticorum

Negli ultimi sermoni sul commento al Cantico dei Cantici, che S. Bernardo ci regalò poco prima della sua morte, egli non si riferisce più alla somiglianza con Dio «persa» a causa del peccato, ma a quella «sovrapposta» dal peccato. Bisogna scoprire questa somiglianza con Dio evitando il peccato e abbandonando tutto quello che ci impedisce di essere uniti completamen­te a Dio.

a) Alla nostra "grandezza" manca l'orientamento lineare verso il Signore

Nel suo 80° sermone sul Cantico dei Cantici, Bernardo insegna che la nostra somiglianza con Dio donataci al momen­to della creazione consiste nella semplicità, nell'immortalità e nella libertà. In que­sti tre doni di Dio egli riconosce la magnitudo, cioè la «grandezza» dataci, che non possiamo perdere. Ma neanche la pos­siamo sviluppare finché non abbiamo ot­tenuta la rectitudo, ossia il nostro «orienta­mento lineare» versoil Signore. (13)

b) Il ritorno a Dio è ritorno a noi stessi

Nel sermone 82 sul Cantico dei Cantici, Bernardo spiega la «somiglianza con Dio» come la forma nativa, cioè la «figura nativa dell'anima». Pero, in noi, rimane senza effetto, perché è coperta ed oscurata dalla nostra forma peregrina, la «forma estranea del peccato», Bernardo afferma:

«Quello che la Scrittura dice della dissomiglianza avvenuta, non lo dice per­ché la somiglianza sia stata distrutta, ma perché è sopravvenuta la dissomiglianza.

L'anima non si sveste della sua forma nativa, ma ne riveste una estranea, la quale viene aggiunta senza che la prima sia perduta; e quella che sopravviene ha potuto oscurare quella innata, ma non distruggerla». (14)

Secondo l'esperienza di Bernardo il no­stro ritorno a Dio è anche un ritorno a noi stessi e dimostra che non possiamo essere «simili a noi stessi», cioè essere veramente «noi stessi», prima che tutto il nostro essere non si sia rinnovato in Dio: «Quindi l’anima non è più simile a Dio, non è più simile a se stessa». (15) Il mistico tedesco Meister Eckhart, vissuto nel 13° secolo, cita spesso questo passo con la breve for­mula:«Allontanato Dio, ti sei anche allontanato da te stesso».

c) Riscoprire la somiglianza con Dio attraverso la purezza del cuore

Bernardo poi confronta la somiglianza con Dio all'oro, diventato scuro per una sovrapposizione di impurità, così l’anima per il peccato è diventata irriconoscibile. Secondo la sua consuetudine, fa riferimento sia a un passo del Nuovo che dell'Antico Testamento: «Si è ottenebrata la loro mente ottusa», dice l’apostolo (Rm 1, 21) e il Pro­feta: «Ah! come si è annerito l’oro, si è alterato l'oro migliore» (Lam 4,1). Bernardo dice che l'autoredi queste lamentazioni

distrutto il fondamento del colore. Resta nel fondamento la costante semplicità, ma non apparisce, coperta come è dalla doppiezza dell'umano inganno, dalla simulazione, dalla ipocrisia». (16)

Per Bernardo nostro tendere alla com­partecipazione della vita divina, vuol dire eliminare e abbandonare tutto quello che ci separa dalla nostra somiglianza con Dio. La nostra ascesi consiste nel «lasciare la sovrapposizione: doppiezza, simulazione, ipocrisia» ed ascoltare il nostro intimo per sapere quale è la volontà di Dio riguardo a nostro comportamento e alle nostre azio­ni. Se noi accogliamo questa volontà divi­na, Dio elimina ogni dissidio in noi e ci dona la - simplicitas cordis - la «semplicità o purezza di cuore». Essa è indicata nelVangelo di Matteo, dove Gesùdice: 'Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce» (Mt 6, 22).

si purifica l'ani­ma dal peccato e da tutti i «depositi» che coprono e oscurano la nostra somiglianza con Dio. Ci accorgiamo allora che il «to­gliere questi depositi» non porta ad un im­poverimento di noi stessi. Si tratta piutto­sto di riportare alla luce la nostra somi­glianza con Dio, nella quale si fonda il nostro vero essere.

Se nelle intenzioni del nostro cuore vi è soltanto l'accettazione della divina volon­tà, otteniamo - la simplicitas cordis - la sem­plicità del cuore. Con l'accettazione del divino volere ci viene concessa la – rectitudo - ossia l'orientamento verso Dio, che porta alla somiglianza con Lui e all'uniformità alla sua divina Volontà.

d) L'uniformità nel volere è "sposalizio" spirituale

Nel suo 83° sermone, Bernardo indica la totale adesione dell'anima a Dio quale «sposalizio». In questo contesto egli chiama il Si­gnore, il VERBO, come l'Essere che corri­sponde alla Seconda Persona Divina:

«Tale conformità rende l'anima sposa del VERBO. Mentre è già simile a Lui per na­tura, si rende ulteriormente simile a Lui at­traverso la volontà, amandolo come a sua volta è amata. Dunque, se l’anima ama per­fettamente, è diventata sposa. Che cosa c'è di più dolce di questa uniformità? Che cosa c'è di più desiderabile di questo amore?». (17)

Questo passo trova il suo culmine nell'affermazione:

«Questo è veramente un contratto di spirituale e santo connubio».

Poi Bernardo continua:

«Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso veramente dove il volere e non volere le medesime cose ha fatto uno solo di due spiriti». (18)

Nel sermone 85 sul commento al “Cantico dei Cantici" Bernardo afferma:

118, 106)». (19)

In riferimento a quei membri della chiesa, che hanno accolto la chiamata allo sposalizio con il Signore, Bernardo aggiunge:

«L'anima che vedrai abbandonare tutto e aderire con tutto l’ardore al VERBO, vive­re per il VERBO, secondo il VERBO com­portarsi, concepire dal VERBO per poi par­torire al VERBO, che possa dire: “Per me vivere è Cristo e morire un guadagno” con­siderala coniuge e sposata al VERBO». (20)

Note

1) Sant’Agostino, Le confessioni, a cura di M. Pellegrino e C. Carena, Città Nuova, Roma, 1965, lib. VII, 10,16, pag. 201.

2) Cfr. Le opere di San Bernardo, a cura di F. Gastaldelli, Scriptorium Claravallense, Fondazione di Studi Cistercensi, Milano 1984, vol. 1, La grazia e il libero arbitrio, X, 32, pp. 397-399. (d’ora innanzi San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio).

3) Bernardo riprende un tema altamente tradizionale, presente nei teologi del suo tempo: Cristo, in quanto Logos divino, è il luogo delle idee, l’archetipo della creazione (= forma dell’universo).

4) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, X, 33, p. 399.

5) Ibid., XIV, 49, p. 419.

6) Cfr. Ibid., II, 4- III,7, p. 363-369.

7) Cfr. Ibid., XIV, 49, p. 419.

8) Ibid.

9) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, a cura di D. Turco, Ed. Vivere In, Roma, 1986, col. I, serm. XXIV, 7, pag. 268.

10) San Bernardo, La grazia e il libero arbitrio, XIV, 49, p. 419.

11) Ibid., VI, 17, p. 381.

12) Ibid., IV, 12, p. 375.

13) Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico dei Cantici, LXXX, 2, pag. 381/2.

14) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.

15) Ibid., LXXXII, 5, p. 385.

16) Ibid., LXXXII, 2, p. 382.

17) Ibid., LXXXIII, 3, p. 392.

18) Ibid.

19) Ibid., LXXXV, 12, p. 417.

20) Ibid., p. 418.


(da Vita Nostra)

Commissione Teologica Internazionale
Cristianesimo e religioni
a cura di A. Dall'Osto

Il documento della commissione teologica, qui ripreso nelle grandi linee, entra subito nel vivo della questione chiedendosi: le religioni sono mediazioni di salvezza per i loro seguaci?

A questa domanda c'è chi dà una risposta negativa, anzi alcuni dicono che tale impostazione non ha senso; altri danno una risposta affermativa, che a sua volta apre la via ad altre domande: sono mediazioni salvifiche autonome, o si realizza in esse la salvezza di Gesù Cristo?

Si è tentato di classificare in vari modi le diverse posizioni teologiche di fronte a questo problema. La commissione ha adottato la seguente classificazione:

  • L'ecclesiocentrismo esclusivista: è frutto di un determinato sistema teologico, o di un'errata comprensione della frase extra Ecclesiam nulla salus, ma non è più difeso dai teologi cattolici, dopo le chiare affermazioni di Pio XII e del concilio Vaticano II sulla possibilità di salvezza per quelli che non appartengono visibilmente alla chiesa (cf., per esempio, LG 16; GS 22.
  • Il cristocentrismo: accetta che nelle religioni possa esserci la salvezza, ma nega loro un'autonomia salvifica, a motivo dell'unicità e dell'universalità della salvezza di Gesù Cristo. Questa posizione è senza dubbio la più comune tra i teologi cattolici, pur essendoci differenze tra loro. Essa cerca di conciliare la volontà salvifica universale di Dio con il fatto che ogni uomo si realizza come tale all'interno di una tradizione culturale, che ha nella propria religione la più alta espressione e l'ultimo fondamento.
  • Il teocentrismo: vuole essere un superamento del cristocentrismo, un cambiamento di prospettiva, una rivoluzione copernicana. Questa posizione deriva, tra gli altri motivi, da una certa cattiva coscienza dovuta all'intreccio dell'azione missionaria del passato con la politica coloniale, talvolta anche dimenticando l'eroismo che accompagnò l'azione evangelizzatrice. Esso vuole riconoscere le ricchezze delle religioni e la testimonianza morale dei loro seguaci e, in ultima istanza, intende facilitare l'unione di tutte le religioni in vista di un'azione comune per la pace e la giustizia nel mondo. Possiamo distinguere un teocentrismo nel quale Gesù Cristo, senza essere costitutivo, è considerato normativo della salvezza e un altro nel quale non si riconosce a Gesù Cristo neppure questo valore normativo. Nel primo caso, senza negare che anche altri possano mediare la salvezza, si riconosce in Gesù Cristo il mediatore che meglio la esprime; l'amore di Dio si rivela più chiaramente nella sua persona e nella sua opera, ed è così il paradigma per gli altri mediatori. Tuttavia senza di lui non si rimarrebbe senza salvezza, ma soltanto senza la sua manifestazione più perfetta. Nel secondo caso, Gesù Cristo non è considerato nè come costitutivo né come normativo per la salvezza dell'uomo. Dio è trascendente e incomprensibile, quindi non possiamo giudicare i suoi disegni con le nostre categorie umane; come, del resto, non possiamo valutare o mettere a confronto i diversi sistemi religiosi.
  • Il soteriocentrismo radicalizza ancor più la posizione teocentrica, essendo meno interessato alla questione su Gesù Cristo (ortodossia) e più all'impegno effettivo di ogni religione nei confronti dell'umanità che soffre (ortoprassi). In tale prospettiva, il valore delle religioni sta nel promuovere il Regno, la salvezza, il benessere dell'umanità: questa posizione può così essere caratterizzata come pragmatica e immanentistica.

La questione della verità

Alla base di tutta questa discussione è il problema della verità delle religioni; ma oggi si nota una tendenza a relegarlo in secondo piano, separandolo dalla riflessione sul valore salvifico. La questione della verità comporta seri problemi di ordine teorico e pratico, tanto che in passato ebbe conseguenze negative nell'incontro tra le religioni. Di qui la tendenza a sminuire o a relativizzare tale problema, affermando che i criteri di verità valgono soltanto per la propria religione.

Alcuni introducono una nozione più esistenziale di verità, considerando soltanto la condotta morale corretta della persona, senza dare importanza al fatto che le sue convinzioni religiose possano essere condannate. Si crea così una certa confusione tra «essere nella salvezza» ed «essere nella verità»: bisognerebbe piuttosto collocarsi nella prospettiva cristiana della salvezza come verità e dell'essere nella verità come salvezza. Tralasciare il discorso sulla verità conduce a mettere superficialmente sullo stesso piano tutte le religioni, svuotandole in fondo del loro potenziale salvifico. Affermare che tutte sono vere equivale a dichiarare che tutte sono false: sacrificare la questione della verità è incompatibile con la visione cristiana.

La questione di Dio

C'è una posizione cosiddetta pluralista che pone sullo stesso piano tutte le religioni. In pratica vuole eliminare dal cristianesimo qualunque pretesa di esclusività o di superiorità rispetto alle altre religioni. Perciò afferma che la realtà ultima delle diverse religioni è identica e, insieme, relativizza la concezione cristiana di Dio in quello che ha di dogmatico e di vincolante. Così distingue Dio in se stesso, inaccessibile all'uomo, e Dio manifestato nell'esperienza umana. Le immagini di Dio sono costituite dall'esperienza della trascendenza e dal rispettivo contesto socioculturale: non sono Dio, però tendono correttamente verso di lui; questo può dirsi anche delle rappresentazioni non personali della divinità: di conseguenza nessuna di esse può considerarsi esclusiva.

Ne segue che tutte le religioni sono relative, non in quanto tendono verso l'Assoluto, ma nelle loro espressioni e nei loro silenzi. Posto che c'è un unico Dio e uno stesso piano di salvezza per tutti gli uomini, le espressioni religiose sono ordinate le une alle altre e sono complementari tra loro. Poiché il Mistero è universalmente attivo e presente, nessuna delle sue manifestazioni può pretendere di essere l'ultima e la definitiva. In tal modo la questione di Dio si trova in intima connessione con quella della rivelazione.

Il dibattito cristologico

Dietro alla problematica teologica è stata sempre presente la questione cristologica.

La maggiore difficoltà del cristianesimo si è sempre focalizzata nell'«incarnazione di Dio», che conferisce alla persona e all'azione di Gesù Cristo le caratteristiche di unicità e di universalità in ordine alla salvezza dell'umanità. Ma come può un avvenimento particolare e storico avere una pretesa universale? Come si può avviare un dialogo interreligioso, rispettando tutte le religioni e senza considerarle in partenza come imperfette e inferiori, se riconosciamo in Gesù Cristo, e soltanto in lui, il Salvatore unico e universale dell'umanità? Non si potrebbe concepire la persona e l'azione salvifica di Dio a partire da altri mediatori oltre a Gesù Cristo?

Il problema cristologico è legato essenzialmente a quello del valore salvifico delle religioni. Si possono osservare a questo riguardo diverse posizioni.

Vi è anzitutto il cosiddetto «teocentrismo salvifico», che accetta un pluralismo di mediazioni salvifiche legittime e vere. All'interno di questa posizione, un gruppo di teologi attribuisce a Gesù Cristo un valore normativo, in quanto la sua persona e la sua vita rivelano, nel modo più chiaro e decisivo, l'amore di Dio per gli uomini. La maggiore difficoltà di tale concezione è che non offre, nè all'interno nè all'esterno del cristianesimo, un fondamento di tale normatività che si attribuisce a Gesù.

Un altro gruppo di teologi sostiene un teocentrismo salvifico con una cristologia non normativa. Svincolare Cristo da Dio priva il cristianesimo di qualsiasi pretesa universalistica della salvezza (e così diventerebbe possibile il dialogo autentico con le religioni), ma implica la necessità di confrontarsi con la fede della chiesa e in concreto con il dogma di Calcedonia. Questi teologi considerano tale dogma come un'espressione storicamente condizionata dalla filosofia greca, che dev'essere attualizzata perché impedisce il dialogo interreligioso. L'incarnazione sarebbe un'espressione non oggettiva, ma metaforica, poetica, mitologica: essa vuole soltanto significare l'amore di Dio che si incarna in uomini e donne la cui vita riflette l'azione di Dio. Le affermazioni dell'esclusività salvifica di Gesù Cristo possono essere spiegate con il contesto storico-culturale: cultura classica (una sola verità certa e immutabile), mentalità escatologico-apocalittica (profeta finale, rivelazione definitiva) e atteggiamento di una minoranza (linguaggio di sopravvivenza, un unico salvatore).

La conseguenza più importante di tale concezione è che Gesù Cristo non può essere considerato l'unico ed esclusivo mediatore. Soltanto per i cristiani egli è la forma umana di Dio, che adeguatamente rende possibile l'incontro dell'uomo con Dio, benché non in modo esclusivo. È totus Deus, poiché è l'amore attivo di Dio su questa terra, ma non è totum Dei, poiché non esaurisce in sé l'amore di Dio. Potremmo anche dire: totum Verbum, sed non totum Verbi. Il Logos, che è più grande di Gesù, può incarnarsi anche nei fondatori di altre religioni.

Questa stessa problematica ritorna quando si afferma che Gesù è il Cristo, ma il Cristo è più che Gesù. Questo facilita molto l'universalizzazione dell'azione del Logos nelle religioni: ma i testi neotestamentari non concepiscono il Logos di Dio prescindendo da Gesù. Un altro modo di argomentare in questa stessa linea consiste nell'attribuire allo Spirito Santo l'azione salvifica universale di Dio, che non condurrebbe necessariamente alla fede in Gesù Cristo.

Le diverse posizioni di fronte alle religioni determinano comprensioni differenziate riguardo all'attività missionaria della chiesa e al dialogo interreligioso. Se le religioni sono anch'esse vie alla salvezza (posizione pluralista), allora la conversione non è più l'obiettivo primario della missione, in quanto ciò che importa è che ciascuno, animato dalla testimonianza degli altri, viva profondamente la propria fede.

Una certa funzione salvifica

Il documento della commissione dedica a questo punto ampio spazio allo studio dell'iniziativa del Padre, la mediazione universale di Cristo, l'universalità del dono dello Spirito Santo e la funzione della chiesa nella salvezza di tutti.

In questa luce, si pone l'interrogativo: qual è il valore delle religioni in ordine alla salvezza?

Oggi, risponde il documento, non è in discussione la possibilità di salvezza fuori della chiesa di quelli che vivono secondo coscienza. Ribadisce tuttavia che questa salvezza non si produce indipendentemente da Cristo e dalla sua chiesa: essa si fonda sulla presenza universale dello Spirito, che non si può separare dal mistero pasquale di Gesù (GS 22: RM 10 ecc.). Alcuni testi del Vaticano II trattano specificamente delle religioni non cristiane: coloro ai quali non è stato ancora annunciato il Vangelo sono in vari modi ordinati al popolo di Dio, e l'appartenenza alle diverse religioni non sembra indifferente agli effetti di questo «ordinamento» (cf. LG 16). Si riconosce che nelle diverse religioni si trovano raggi della verità che illumina ogni uomo (NA 2), semi del Verbo (AG 11); che per disposizione di Dio si trovano in esse cose buone e vere (OT 16): che si trovano elementi di verità, di grazia e di bene non soltanto nei cuori degli uomini, ma anche nei riti e nei costumi dei popoli, anche se tutto dev'essere «sanato, elevato e completato» (AG 9: LG 17). Rimane aperto invece l'interrogativo se le religioni come tali possano avere valore in ordine alla salvezza.

L'enciclica Redemptoris missio, seguendo e sviluppando la linea del concilio Vaticano II ha sottolineato più chiaramente la presenza dello Spirito Santo non soltanto negli uomini di buona volontà presi individualmente, ma anche nella società, nella storia, nei popoli, nelle culture, nelle religioni, sempre con riferimento a Cristo (RM 28-29). Esiste un'azione universale dello Spirito, che non può essere separata né tanto meno confusa con l'azione particolare che lo Spirito svolge nel corpo di Cristo che è la chiesa (ivi).

A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa: tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio ecc. (cf. DA 30-31). Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa (RM 55). Le religioni possono esercitare la funzione di praeparatio evangelica, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo.

Cristo, pienezza della rivelazione

Per quanto riguarda la rivelazione, il documento afferma che solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno. Il dono che Dio fa di se stesso e la sua rivelazione sono due aspetti inseparabili dell'evento di Gesù.

Senza dubbio, è vero che anche nelle altre religioni esistono «semi del Verbo» e «raggi della verità»; ma anche se Dio ha potuto illuminare gli uomini in vari modi, non abbiamo mai la garanzia che queste luci siano rettamente accolte e interpretate in chi le riceve; soltanto in Gesù abbiamo la garanzia della piena accoglienza della volontà del Padre. Lo Spirito ha assistito in modo speciale gli apostoli nella testimonianza di Gesù e nella trasmissione del suo messaggio; dalla predicazione apostolica è sorto il Nuovo Testamento, e anche grazie ad essa la chiesa ha ricevuto l'Antico. L'ispirazione divina, che la chiesa riconosce agli scritti dell'Antico e del Nuovo Testamento, assicura che in essi è stato raccolto tutto soltanto quello che Dio voleva fosse scritto.

Anche se non si può escludere, nei termini indicati, qualche illuminazione divina nella composizione di tali libri, questi non si possono considerare come equivalenti all'Antico Testamento, che costituisce la preparazione immediata alla venuta di Cristo nel mondo.

Dialogo interreligioso

Il dialogo interreligioso non è soltanto un desiderio che nasce dal concilio Vaticano II ed è promosso dall'attuale pontefice: è anche una necessità nella situazione attuale del mondo. Ma come intenderlo? I rappresentanti della teologia pluralista pensano che da parte dei cristiani si debba eliminare ogni pretesa di superiorità e di assolutezza, e ritenere che tutte le religioni abbiano lo stesso valore. Pensano che sia una pretesa di superiorità considerare Gesù come salvatore e mediatore unico per tutti gli uomini.

A loro parere, la rinuncia a tale pretesa è considerata essenziale perché il dialogo possa essere fruttuoso. La differenza basilare tra questa impostazione e quella del magistero sta nella posizione che adottano dinanzi al problema teologico della verità, e al tempo stesso dinanzi alla fede cristiana. L'insegnamento della chiesa sulla teologia delle religioni muove dal centro della verità della fede cristiana. Tiene conto, da una parte, dell'insegnamento paolino della conoscenza naturale di Dio, e insieme esprime la fiducia nell'azione universale dello Spirito. Vede entrambe le linee fondate sulla tradizione teologica; valorizza il vero, il buono e il bello delle religioni a partire dal fondamento della verità della propria fede, ma non attribuisce in generale una stessa validità alla pretesa di verità delle altre religioni. Questo condurrebbe all'indifferenza, cioè a non prendere sul serio la pretesa di verità tanto propria come altrui.

La teologia delle religioni che troviamo nei documenti ufficiali muove dal centro della fede. Quanto al modo di procedere delle teologie pluraliste, e a prescindere dalle diverse opinioni e dai continui cambiamenti che avvengono in esse, si può affermare che, in fondo, hanno una strategia «ecumenica» del dialogo, si preoccupano cioè di una rinnovata unità con le diverse religioni. Questa unità però si può costruire soltanto eliminando aspetti della propria autocomprensione: si vuole ottenere l'unità togliendo valore alle differenze, che sono considerate come una minaccia; si pensa almeno che devono essere eliminate come particolarità o come riduzioni proprie di una cultura specifica. Ne deriva che la teologia pluralista, come strategia di dialogo tra le religioni, non solo non si giustifica di fronte alla pretesa di verità della propria religione, ma annulla insieme la pretesa di verità dell'altra parte.

Annuncio della verità che è Cristo

Al contrario, una teologia cristiana delle religioni dev'essere in grado di esporre teologicamente gli elementi comuni e le differenze tra la propria fede e le convinzioni dei diversi gruppi religiosi. Il concilio colloca tale compito in una tensione: da una parte contempla l'unità del genere umano, fondata su un'origine comune (NA 1) e, per questo motivo, ancorata sulla teologia della creazione, «la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni» (NA 2); d'altra parte, però, la stessa chiesa insiste sulla necessità dell'annuncio della verità che è Cristo stesso: «Essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è "via, verità e vita" (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor 5,18-19)» (NA 2).

Secondo la commissione teologica due sono le indicazioni da tenere presenti:

1. una teologia differenziata delle religioni, che si basa sulla propria pretesa di verità, è la base di qualunque dialogo serio e il presupposto necessario per comprendere la diversità delle posizioni e i loro mezzi culturali di espressione;

2. la contestualità letteraria o socioculturale ecc. sono mezzi importanti di comprensione, a volte unici, di testi e di situazioni, costituiscono un possibile luogo di verità, ma non si identificano con la verità stessa. Con questo si indicano il significato e i limiti della contestualità culturale.

Il dialogo interreligioso tratta delle «coincidenze e convergenze» con le altre religioni con cautela e rispetto. A proposito delle «differenze», si deve tener conto che queste non devono annullare le coincidenze e gli elementi di convergenza, e inoltre che il dialogo su tali differenze deve ispirarsi alla propria dottrina e all'etica corrispondente; in altre parole, la forma del dialogo non può invalidare il contenuto della propria fede e della propria etica.

In conclusione, il cristiano di oggi deve imparare a vivere, nel rispetto per le diverse religioni, una forma di comunione che ha il suo fondamento nell'amore di Dio per gli uomini e che si fonda sul suo rispetto per la libertà dell'uomo. Ma questo rispetto verso l'«alterità» delle diverse religioni è a sua volta condizionato dalla propria pretesa di verità. L'interesse per la verità dell'altro condivide con l'amore il presupposto strutturale della stima di se stesso. La base di ogni comunicazione, anche del dialogo tra le religioni è il riconoscimento dell'esigenza di verità. La fede cristiana però ha una propria struttura di verità: le religioni parlano «del» Santo, «di» Dio, «su» di lui, «in sua vece» o «nel suo nome»; soltanto nella religione cristiana è Dio stesso che parla all'uomo con la sua Parola. Solamente questo modo di parlare dà all'uomo la possibilità di essere persona in senso proprio, insieme alla comunione con Dio e con tutti gli uomini.

Il Dio in tre persone è il cuore di questa fede: soltanto la fede cristiana vive del Dio uno e trino; dal fondo della sua cultura è sorta la differenziazione sociale che caratterizza la modernità

Questa è la base solida, secondo la commissione, su cui poter impostare seriamente il rapporto con le religioni e di intendere il dialogo che non potrà mai essere disgiunto dall'annuncio.



Cosa dicono gli altri

Riportiamo in forma molto schematica alcune idee sulla figura di Gesù presenti in altre grandi religioni: l'ebraismo, l'islam e l'induismo

Gesù per gli ebrei

Per gli ebrei di oggi, come per quelli di ieri, Gesù costituisce un segno di contraddizione. «O Gesù, figlio d'Israele, che Israele rinnega, e non può ignorare», scriveva Edmond Fleg (1874-1963). Ciò che caratterizza il giudaismo tradizionale è semplicemente la volontà d'ignorare Gesù. A. Mandel, in un articolo intitolato «Un ebreo di nome Gesù», afferma che il giudaismo «non si definisce in rapporto a Gesù, nè in convergenza, né in divergenza. Non se ne interessa affatto». A dire il vero, nel corso di questo XX secolo ci sono stati dei tentativi di recuperare Gesù. Per esempio, Martin Buber (1878-1965) ha voluto riconoscere in lui un fratello. Leggiamo nei suoi scritti: «Fin dall'infanzia ho sentito Gesù come un mio grande fratello. Sono più che mai sicuro che a lui spetta un posto importante nella storia della fede d'Israele, e che questo posto non può essere circoscritto entro nessuna categoria abituale...».

Ma questo appellativo di fratello non trova unanimità di consensi. Per alcuni, Gesù rimarrà per sempre un estraneo. «Nessun scrittore, afferma Emmanuel Levinas, parlando di Gesù, ha saputo comunicarcene il fascino. Neppure tu, caro e venerato Edmond Fleg. Non basta chiamare Gesù Yechu o Rabbi per avvicinarlo a noi. Per noi, che siamo senza odio, non ha amicizia. Resta lontano. E sulle sue labbra non riconosciamo più i nostri versetti».

Dopo la tragedia di Auschwitz in seno al mondo ebraico si sono manifestate altre tendenze, per esempio, quella che vede in lui un martire, simbolo del destino del popolo ebraico. «Gesù che soffre e muore in croce in mezzo agli schemi, si chiede Schalom Ben Corin (nato nel 1913), non è forse un simbolo per tutto il suo popolo che, flagellato fino al sangue, pende sempre sulla croce dell'odio verso il giudaismo?». Sempre secondo Ben Chorin, Gesù è anche il simbolo della condizione umana, è «l'uomo, come te, come me; l'uomo esemplare nella sua piccolezza». Un altro scrittore, Pinchas Lapide (nato nel 1922), osserva che dopo Auschwitz, «Gesù è come un uomo ideale, un compagno di umanità, un compagno nel giudaismo, un israelita». In questo senso egli è veramente «luce delle nazioni».

Ma la maggioranza degli ebrei oggi continua a contestargli questo posto. Anche coloro che si sentono più vicini a lui, non lo riconoscono come il Cristo. In una parola, un fossato divide ancor oggi ebrei e cristiani, secondo una celebre frase di Ben Chorin: «La fede di Gesù ci riunisce, la fede in Gesù ci separa».

Gesù per l'islam

Il Corano riprende diversi tratti del Vangelo per caratterizzare Gesù. Il nome più comune con cui è designato è quello di figlio di Maria o di profeta inviato da Dio a Israele. Per quanto egli sia vicino a Dio, per l'islam Gesù non è nè suo «figlio» nè il Verbo di Dio. Il Corano denuncia tutto ciò che potrebbe costituire un attentato al monoteismo più rigido e assoluto. Gesù quindi è una creatura, come Adamo, creato dalla polvere: Dio gli disse: «Sii! ed egli fu». I cristiani quindi avrebbero deformato il vangelo. Leggiamo: «O gente del libro! Non superate la misura della vostra religione; non dite di Dio che la verità. Il messia, Gesù figlio di Maria, non è che un inviato di Dio, la sua Parola lanciata a Maria, uno spirito venuto da Lui. Credete dunque in Dio e nei suoi inviati. Non dite “tre”. Dio è un Dio unico. Gloria a lui! Lungi da lui l'avere avuto un figlio!».

Parlando della morte di Gesù, il Corano, nonostante alcune difficoltà di interpretazione, sembra negare la realtà della crocifissione. Gesù cioè non sarebbe morto che in apparenza, o, per lo meno, la morte non avrebbe toccato che il suo corpo.

Per l'islam, Gesù quindi è un servo di Dio a cui è stata affidata la missione di annunciare il vangelo. Egli è semplicemente il penultimo dei profeti. L'ultimo è Maometto. L'islam costituirebbe quindi il superamento del cristianesimo, come il cristianesimo era stato il superamento del giudaismo.

Gesù per l'induismo

Gesù è accolto anche nell'induismo, ma è ben lontano dall'essere il Gesù del cristianesimo. Ghandi, per esempio, era affascinato dal Cristo delle beatitudini: «Lo spirito del discorso della montagna, scrive, esercita su di me quasi lo stesso fascino della Bhagavadgita. È questo discorso che sta alla base del mio attaccamento a Gesù». È stato scritto che Gandhi era «cristiano in maniera naturale, più che per ortodossia». Cristo per lui era un modello di non-violenza. Un autore del secolo scorso, Keshu, si chiedeva: «Gesù non è forse asiatico? Sì, e anche i suoi discepoli lo erano. Questo ricordo centuplica il mio amore a Gesù: lo sento con le mie simpatie nazionali». Keshu invita i suoi compatrioti ad accogliere Cristo secondo lo spirito dei libri sacri della loro tradizione. Ma si tratta di un Cristo panteista. Secondo un altro autore, Parekh, Gesù introduce a un rapporto nuovo con Dio. Essere cristiano, a suo avviso, consiste nel condividere con Gesù la sua relazione con Dio: «Per me, scrive, essere indù vuol dire essere vero discepolo di Cristo, ed essere vero discepolo di Cristo vuol dire essere più indù». In una parola, qualunque sia l'immagine di Gesù, nell'induismo, egli non è altro che una via fra le tante per giungere all'Ultimo. È un Cristo «senza legame», ossia senza chiesa, secondo l'espressione del teologo indiano cristiano S.J. Samartha. L'induismo esalta una mistica dell'interiorità a-storica. E ciò costituisce una vera sfida per il cristianesimo, mistero di un Dio impegnato personalmente nella storia.


(da Testimoni, febbraio 1997, n. 3, pp. 23-28)

L'uso che l'Occidente ha fatto, in questi ultimi anni, del tema dei diritti, giustificando pesanti interventi verso Stati deboli e rinunciando a intervenire nei confronti di quelli potenti, è assai pericoloso...

“Se vuoi la pace, prepara la pace”
di Jean Mouttapa *


Un barlume di speranza sembra cominciare a spuntare all'orizzonte del Vicino oriente. Non si osa credervi, tanto gli ultimi due decenni si sono dimostrati disperati… Disperati specialmente a causa dello scarto delirante, mortifero, fra le dichiarazione e gli atti, fra le parole e i fatti. La parola “pace” che era sulla bocca di tutti o quasi è stata macchiata del sangue degli innocenti più che in qualunque altro conflitto. Gli anni che sono succeduti alla stretta di mano di Oslo hanno consacrato questa perversione del linguaggio: dalle due parti si è continuato a porre atti di vera guerra pur invocando un “processo di pace” del tutto privo di senso. La parola, la cui funzione primaria è di disinnescare la violenza degli uomini, non era più altro che la menzogna edulcorata che rivestiva l'orrore. In certi momenti, di fronte all'incuria dei politici, si aveva l'impressione di udire il grido del profeta Geremia che risuonò un tempo su questa stessa terra: “Curano alla leggera la ferita del mio popolo dicendo: 'Pace! Pace!', mentre non c'è pace.

Le grandi dichiarazioni sulla coesistenza pacifica, l'abbiamo visto, non servono a niente. E persino il diritto, se non è sostenuto da una vera educazione alla pace, darà presto la prova della sua impotenza. Tutte le “iniziative di pace” saranno votate al fallimento, tutti i trattati si riveleranno dei gusci vuoti se la cultura non procede: l'insegnamento dell'odio anti-ebraico nelle scuole palestinesi e in una certa stampa araba, il disprezzo nascosto o ostentato in molti discorsi israeliani devono lasciare il posto a una preparazione volontaristica delle popolazioni civili a prospettive di pace. Utopia? Nel caso, sarebbe piuttosto l'idea di poter comporre il conflitto soltanto con i mezzi politico-giuridici a essere irrealistica. Quando la guerra ha preso a tal punto possesso degli spiriti, dei cuori e del linguaggio, la sola politica responsabile è quella di ritornare alla sapienza di Erasmo: “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Speriamo che coloro che hanno in mano le decisioni, al di là dei loro discorsi, si ricordino di quell'umanesimo, che è il solo realismo.

(in Le monde des religions, n. 10, p.19)

* Jean Mouttapa, cristiano impegnato nel dialogo interreligioso, è scrittore e editore. L'ultima opera pubblicata: Un Arabe face à Auschwitz. La mémoire partagée, (Albin Michel, 2004)

Etiopia, laboratorio di tolleranza

di Giuseppe Caffulli

«Credo che l'Etiopia nella sua lunga storia sia stata e sia tuttora un esempio di pacifica coesistenza di genti e culture diverse. Il cristianesimo, l'ebraismo, l'islam ed altri hanno una lunga storia in Etiopia. L'antica tolleranza ha portato alla coesistenza pacifica dei credenti di queste religioni per secoli. Diversamente da altre parti del mondo, percorse da estenuanti scontri civili, abbiamo creato sistemi sociali e culturali che ci hanno permesso di gestire i conflitti che sorgevano da incomprensioni tra confessioni religiose. È una lezione buona, che tutti dobbiamo seguire per poter ostacolare le conseguenze pericolose del fondamentalismo. Anche se dobbiamo essere onesti: la strada della pace non è automaticamente segnata». Abuna Paulos è patriarca della Chiesa ortodossa d'Etiopia, una delle Chiese cristiane di più antica tradizione, calata in un contesto dove il dialogo tra le religioni e le Chiese è una sfida (e una necessità) costante. Ma anche il rischio del fondamentalismo religioso si fa ogni giorno più concreto. In margine alla partecipazione al meeting Uomini e religioni di Milano, ha concesso in esclusiva questa intervista a Mondo e Missione.

Santità, qual'è oggi la situazione della Chiesa ortodossa d'Etiopia?

La nostra Chiesa ha conosciuto svariati problemi nel corso dei secoli. Durante le diverse dominazioni la Chiesa ha sofferto molto, perché è diventata il bersaglio del potere di turno. Oggi viviamo un periodo di sostanziale tranquillità. Il governo attuale ha imboccato la strada della democrazia e questo atteggiamento si riflette positivamente anche nelle relazioni con la Chiesa. Il popolo, durante il regime comunista, ha sopportato - insieme a molte altre vessazioni - anche la proibizione di partecipare alla vita della Chiesa. Ora invece si assiste a un risveglio della frequenza alle celebrazioni e dell'interesse per la religione, specie nei giovani. I nostri monasteri stanno vivendo una stagione felice: sono moltissime le nuove vocazioni. Viviamo un momento di grazia, che spero possa continuare. Mi auguro solo che chi, come me, ha ruoli di responsabilità nella Chiesa, sappia cogliere e dare risposte alle esigenze spirituali dei giovani.

E lo stato delle relazioni con la Chiesa cattolica?

Le relazioni con la Chiesa cattolica e le altre Chiese cristiane presenti in Etiopia sono buone. Non ci sono conflitti tra le nostre Chiese. Lavoriamo insieme per rispondere alle sfide comuni, che sono quelle che un Paese come il nostro propone ogni giorno. Un impegno è quello del bene del nostro popolo.

Ci sono esempi di collaborazione con la Chiesa cattolica ormai di lunga data. Ad Arba Minch, nell'estremo sud del Paese (M.M., aprile 1998, pp. 60-61), i padri spiritani si sono messi al servizio della formazione dei diaconi ortodossi... Che giudizio ha di questo esperimento, peraltro discusso anche in casa cattolica?

Sono convinto che le forme di collaborazione bilaterale vadano approfondite e sviluppate tra la nostra Chiesa e quella cattolica. Penso al campo della scuola, dove i cattolici hanno una tradizione e una competenza riconosciuta. Sarebbe davvero una cosa ottima per tutti poter lavorare insieme. Detto questo, a differenza di Arba Minch, non sempre i rapporti corrono su questi binari. Non c'è nessuna forma di antagonismo verso i cattolici in quello che sto dicendo. Pongo la questione da un punto di vista semplicemente cristiano. La Chiesa cattolica è ricca di personalità e risorse, di saggezza e forze spirituali. La critica che faccio è questa: perché utilizzare questa ricchezza in ambito missionario? Perché adoperarla nella logica di includere? La varietà delle confessioni religiose è un patrimonio straordinario. Le differenze delle nostre Chiese di antica tradizione sono semplicemente modalità diverse per esprimere la ricchezza della medesima radice cristiana. Le differenze costituiscono una forma di bellezza, sono come note che insieme formano un accordo. Esiste una unità da ricercare sul piano teologico ed ecclesiologico. Esiste un’altra forma di unità, già visibile, che si evidenzia nell'aiuto fraterno. La competizione, invece del sostegno, non è un atteggiamento cristiano.

Le forme di collaborazione tra le nostre Chiese esistono non solo ad Arba Minch. Ma mi chiedo: perché non lavorare ancora di più insieme? Questo vale anche per le altre Chiese cristiane, che possono fornire il loro apporto di incoraggiamento e sostegno.

In Etiopia esiste una forte componente musulmana...

La comunità musulmana è presente nel Paese da moltissimo tempo. Nel passato non ci sono stati conflitti né con i musulmani né con altre confessioni religiose. L'atteggiamento complessivo della Chiesa ortodossa nei confronti delle altre religioni è sempre stato di tolleranza. Anche i re d'Etiopia hanno sempre avuto un atteggiamento di benevolenza nei confronti dei musulmani. Oggi nel Paese, ma questo è una costante che accomuna diversi contesti, la situazione dell'islam è cambiata rispetto al passato. Ho visto una grande moschea a Roma, del costo di molti milioni di dollari. Ci sono molte moschee in Germania e in Gran Bretagna e in Francia, dove l'islam è la seconda religione. L'islam è cambiato, si sta diffondendo ovunque e sta rivendicando spazi. Bene, il mondo è di tutti. E questo fenomeno di espansione è legittimo. Ma proprio perché il mondo è di tutti dobbiamo cercare di vivere insieme.

L'Etiopia non è l'unico Paese in cui gli islamici stanno portando avanti un'azione nei confronti dei cristiani. Questo avviene anche in Europa, in America. Non dobbiamo preoccuparci del fatto che i musulmani siano in Etiopia, perché sono ormai ovunque. Ciò che preoccupa me personalmente è che gli organismi internazionali, e l'Onu in prima battuta, non perdano l'occasione di proporre delle politiche d'inclusione sociale e di lotta alla povertà capaci di togliere terreno fertile al fondamentalismo e di offrire a tutti delle opportunità di vita, in modo che insieme si possa costruire una convivenza pacifica.


Il Paese è uscito di recente da una sanguinosa guerra con l'Eritrea.

Siamo amareggiati per la guerra scoppiata con l'Eritrea, perché i nostri Paesi hanno radici comuni, siamo un solo Paese, siamo fratelli e sorelle. È stata una sciagura questa guerra. Il popolo ha pregato fortemente per la pace e la fine del conflitto, e così è avvenuto anche in Eritrea. Non credo personalmente che l'Etiopia abbia intrapreso questa guerra per ambizione o espansionismo. Certamente qualcuno ha spinto e incoraggiato. Non so chi. Ma non c'era ragione perché due popoli fratelli si combattessero, Appena poi la guerra è scoppiata, si sono fatte avanti nazioni per controllare e condizionare.

Ricordo che il governo dell'Etiopia ha sempre chiesto una soluzione pacifica del conflitto. Nessuno ha voluto ascoltare. Il costo di vite è stato enorme da entrambe le parti. L'eventualità della guerra tra i due Paesi non sembra ancora risolta. E per questo chi ha responsabilità deve parlare molto chiaramente, per spazzare il campo da ogni possibilità di scontro armato. Noi condanniamo fermamente la guerra, ma non possiamo negare la possibilità di difesa.

Per secoli la Chiesa etiope è stata legata alla sede di Alessandria. Come sono oggi i rapporti?

L'Etiopia ha ricevuto il Vangelo nel 34 d.C. Le comunità che si erano formate erano però povere di mezzi e di risorse umane. Allora il re mandò degli ambasciatori ad Alessandria, che era la Chiesa più vicina, per avere aiuto. Chiese di ottenere istruzioni circa la vita delle comunità cristiane e la consacrazione di un vescovo. Cosa che avvenne per mano dell'allora patriarca Atanasio il Grande. In seguito la Chiesa d'Alessandria non permise che ci fosse nessun vescovo che non fosse egiziano. Così è stato per secoli. Siamo stati sempre trattati come una Chiesa bambina e abbiamo sempre avuto vescovi stranieri. Solo cinquant'anni fa abbiamo potuto consacrare un patriarca etiope e vedere riconosciuta la nostra tradizione di Chiesa autocefala. E questo è stato possibile anche grazie al nostro imperatore (Haile Selassie, l'ultimo negus - ndr). Ora noi vogliamo vivere in pace, come Chiese sorelle. Sento dire spesso che in Egitto sono contrariati e non desiderano cooperare. A dire il vero non lo hanno mai fatto. Innumerevoli volte abbiamo patito la fame e la siccità in Etiopia, e da quella che si riteneva la nostra Chiesa madre non abbiamo mai avuto nessun aiuto. Ripeto: agli inizi della nostra storia cristiana, siamo stati noi a chiedere un aiuto ad Alessandria; poi abbiamo avuto la pazienza di aspettare secoli. Infine abbiamo ottenuto legalmente il diritto di proclamarci Chiesa indipendente. Non vogliono esserci amici? Mi dispiace, ed è una cosa triste da un punto di vista cristiano. Credo che comunque sia una diatriba che riguarda le alte gerarchie della Chiesa. Sono stato al Cairo e a Gerusalemme. Il popolo mi ha sempre accolto con deferenza e simpatia.

Esiste oggi una forte diaspora dei cristiani etiopi all'estero. Come assicurare loro assistenza pastorale?

Fin dall'occupazione italiana nel Paese è iniziata una forte diaspora. Ora ci sono circa 40 milioni di cristiani ortodossi etiopi nel Paese, cinque milioni all'estero, in tutti i Paesi del mondo. In Italia esiste una numerosa comunità. Ma mentre anni fa la diaspora era iniziata sull'onda di questioni politiche, oggi le motivazioni sono essenzialmente di ordine economico. La ricerca di condizioni di vita migliori porta a scegliere l'emigrazione. Molti comunque decidono poi di ritornare e costituiscono oggi una risorsa per la ricostruzione del Paese. Uno dei nostri maggiori problemi oggi è quello dell'assistenza pastorale ai nostri fedeli fuori dal Paese. Abbiamo parrocchie e diocesi in diversi Paesi del mondo, in Europa, America del Nord e del Sud. Ovunque ci siano fedeli cerchiamo di inviare un sacerdote. Abbiamo Chiese anche in diversi Paesi musulmani, dove andiamo in pace per assistere i nostri fedeli. Si tratta di zone dove non siamo mai stati presenti, anche se l'attività pastorale è limitata alla sfera dell'amministrazione dei sacramenti e alle celebrazioni. È un grande impegno, perché siamo una Chiesa povera e non abbiamo grandi possibilità finanziarie.

Santità, più volte ha denunciato la pratica del proselitismo, specie da parte dei gruppi protestanti...

Specialmente negli anni segnati da profonde difficoltà economiche e dai periodi di siccità e carestia, questo aspetto si è reso evidente. In quei frangenti la generosità dei cristiani all'estero si è manifestata con la raccolta e l'invio di aiuti. Per distribuirli sono stati inviati in Etiopia dei rappresentanti che li hanno usati in modo diverso, cioè per attrarre i fedeli nelle proprie comunità. Questa non è l'attitudine dei cristiani. È stato fatto spavaldamente, sfacciatamente. Sappiamo che gli aiuti non provengono dalla persona che li distribuisce direttamente, ma dalla generosa solidarietà di comunità di varie parti del mondo. Ma quei loro rappresentanti si sono comportati in modo egoistico, come gente che vuol essere vincente, la più forte, maggioranza. Credo che solo il cuore semplice e onesto, l'atteggiamento cristiano, è l'unico che risolverà un certo tipo di problemi. Purtroppo questo atteggiamento aggressivo continuerà, non c'è più timidezza (pudore), non c'è più paura. Penso che la gente sia libera di scegliere in cosa credere, ma questo comportamento non è ammissibile... Non è possibile fare leva sulla povertà per condizionare le scelte di fede.

Durante l'occupazione italiana in Etiopia, nel 1937, ci fu la pagina nera di Debre Libanos. Qui il generale Graziani fece sparare su centinaia di monaci e diaconi indifesi. Crede che l'Italia debba chiedere perdono per quell'eccidio?

La richiesta di perdono è un passo importante, una soluzione. Chi si pente merita il perdono. Chiedere scusa è un gesto di comprensione, di coraggio, di forza, non di umiliazione; il segnale di una volontà di costruire permanenti relazioni di pace. L'Italia oggi è in grado di aiutare l'Etiopia nella sua fase di ricostruzione e rinascita. Credo che i fatti di Debre Libanos debbano certamente essere inquadrati nella loro fase storica, quella della colonizzazione dell'Africa. Ma riconoscere il proprio errore potrebbe essere un segno di grandezza di cui andare fieri.

La Chiesa ortodossa etiope è tra i membri fondatori del Consiglio mondiale delle Chiese. Lei è ottimista o pessimista circa il cammino verso l'unità dei cristiani?

La meta dell'unità visibile non è ancora raggiunta. Dobbiamo chiederci tutti insieme perché non siamo riusciti a raggiungere l'obiettivo originale dell'ecumenismo. Da parte mia, credo che abbiamo fallito perché il nostro legame con Dio è stato troppo debole. Indebolendosi questo legame con Dio, si è ridotto anche il nostro amore gli uni per gli altri. La parola stessa di nostro Signore - «ama il prossimo tuo come te stesso» - è disattesa ed è stata sostituita dall'amore per sé. Quando ciascuno pensa a sé, come si può raggiungere l'unità? Questa è la ragione per cui assistiamo ad una tendenza a tradirsi tra Chiese Cristiane, ad un atteggiamento di superiorità, alla tendenza del proselitismo. Sono questi inciampi che ci impediscono di camminare verso la cooperazione fraterna e l'unità delle Chiese.

(Tratto da Mondo e Missione, gennaio 2005, pp. 28-32)

Il sacramento dell'Eucaristia racchiude in sé la totalità del dono che il Padre ha fatto di sé agli uomini, nella persona del suo Figlio Gesù Cristo: tutto il piano delta salvezza si concentra come in una sintesi vitale nel Pane spezzato e nel Sangue sparso, in cui si ratifica la nuova ed eterna alleanza.

Martedì, 29 Agosto 2006 23:55

I poveri nella Bibbia (Jean-Paul Guetny)

I poveri occupano un posto importante nella Bibbia, dal profeta Amos a Matteo: Dio ha per essi uno sguardo particolare. Egli ha con loro una relazione privilegiata. E, secondo san Paolo, bisogna scoprire in essi l’immagine di Cristo che si è fatto povero.

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