I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Giuseppe e i suoi fratelli (Gen 37-50)
di Bruna Costacurta



Ho pensato di ripercorrere con voi una storia biblica, che è una storia di famiglia e di una famiglia problematica, in conflitto. E' la storia della famiglia di Giuseppe e la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, dove il problema che si pone è, innanzitutto, un problema di fratellanza. Conoscete la storia. Giacobbe, il padre di questi dodici fratelli, ha un amore di preferenza per Giuseppe. Non si sa bene perché, nel senso che in genere si dà la spiegazione che Giuseppe era nato nella sua vecchiaia. Però lo stesso vale anche per Beniamino, il fratello di Giuseppe, tutti e due i figli della moglie amata da Giacobbe, Rachele.

Dunque: Giacobbe ama Giuseppe con un amore di preferenza. Fondamentalmente senza motivo, perché sempre l'amore di preferenza è senza motivo. L'amore di preferenza dipende dal fatto che una persona ama un'altra più di tutte. Perché? Perché di sì! E' il problema che c'è alla base della scelta di Israele. Perché mai Dio ha scelto Israele e l'ha preferito rispetto a tutti gli altri popoli? Perché era il più grande? No! Perché era il migliore? No! Perché allora? Perché di sì! Perché ha scelto quello!
Le preferenze non hanno spiegazioni, però ci sono e nelle famiglie spesso è presente questo problema. Nelle famiglie, quando ci sono dei fratelli, inevitabilmente ci sono delle situazioni di differenza tra questi fratelli, che poi possono essere lette da ciascuno di questi fratelli come situazioni di preferenze di amore da parte dei genitori.

Se volete questo è anche il problema di Caino e di Abele. Anche quella è una famiglia, la famiglia dell'origine e anche quella è una famiglia segnata dalla tragedia, proprio a motivo di una preferenza non accettata. Lì la preferenza era quella di Dio nei confronti di Abele, che Caino non accetta. E anche quella era una preferenza non motivata. Non c'è nessun motivo che il testo dà per giustificare il fatto che Abele appaia come preferito da Dio rispetto a Caino. Non è vero che Caino era più cattivo di Abele, almeno fino all'omicidio. Sì, si vede poi che questo c'era, ma non che facesse sacrifici peggiori di quelli di Abele, non che avesse fatto cose particolari… C'è che l'amore di preferenza, come ogni amore, è gratuito e l'amore di preferenza non vuol dire che non si ami anche l'altro, ma vuol semplicemente dire che si amano le persone in modo diverso. Ora, chi non è capace di accettare questa diversità, legge la diversità come preferenza ingiusta nei confronti dell'altro. E questo vuol dire mancata accettazione dell'altro come diverso, quindi mancata accettazione del fratello, ma soprattutto perché c'è alla base una mancata accettazione del padre come padre, nel senso che Caino odia Abele, perché non è capace di accettare il modo con cui Dio lo ama; non solo il modo con cui ama Abele, ma anche il modo con cui ama Caino stesso. Se Caino fosse stato felice e contento del modo con cui Dio lo amava, non avrebbe avuto nessun problema nel fatto che anche Abele fosse amato in un modo diverso, che sembra persino migliore, ma questo non crea problemi. Se io sono contento di come mi ama Dio, poi non mi fa problema se Dio ama un altro in un altro modo, se quell'altro riesce meglio di me. Io sono contento di come sono, perché sono il risultato dell'amore di Dio. Quando dunque comincia la gelosia, l'invidia, la rivalità tra fratelli, c'è sì un problema di fratelli, ma c'è fondamentalmente un problema di padre e di accettazione del suo amore.

Allora, per Caino e Abele, il padre di riferimento era Dio, qui, per questi fratelli della storia di Giuseppe, il padre di riferimento è invece il padre carnale, Giacobbe, che ama in un modo particolare Giuseppe. Il testo – in questo senso – è molto raffinato anche da un punto di vista psicologico. Queste sono situazioni che si ritrovano continuamente nelle nostre famiglie. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza con suo padre Isacco… Il padre preferiva Esaù e Giacobbe era invece il preferito dalla madre, Rebecca. Giacobbe aveva avuto problemi di preferenza e adesso, come avviene spesso inconsciamente, li riproduce nella sua famiglia con i suoi figli. Così si pone questa situazione di una figliolanza mal vissuta, che è quindi anche una fratellanza mal vissuta.

Ricordate la storia: Giuseppe, amato dal padre, riceve in dono la tunica particolare. C'è tutta una serie di segni che dicono che lui è il preferito e lui, non si sa bene se, ingenuamente o meno, sembra non tentare di diminuire le tensioni, ma anzi addirittura le provoca, andandosene in giro a raccontare i suoi sogni, soprattutto quello dei covoni che si inchinano e quindi dei fratelli che dovrebbero rendergli omaggio. E allora, già questo era il preferito del padre, poi va in giro a dire che i fratelli dovranno omaggiarlo! Di per sé non è che questo aiuti molto le relazioni fraterne. Tanto non aiuta le relazioni fraterne, che i fratelli smettono definitivamente di essere fratelli di Giuseppe. Per cui Giuseppe viene inviato dal padre dove stavano i fratelli, che appunto non sono più fratelli, non lo salutano neppure e loro, invece di accoglierlo come fratello mandato dal padre, decidono di ucciderlo. Un po' perché non ne possono più - e quindi l'omicidio come manifestazione del rifiuto e della rabbia - un po' anche probabilmente per cercare di sfuggire a quest'ombra che incombe su di loro e cioè il rischio che i sogni di Giuseppe si avverino. C'è dunque una volontà di morte che è rifiuto dell'amore del padre e tentativo di mettersi in qualche modo in salvo. Vi ricordate che Ruben e Giuda intervengono. Non vogliono che il fratello sia ucciso e dicono: buttiamolo nella cisterna! Non è un granché come soluzione, però è un modo per tenerlo vivo e per prendere tempo, se non che passa la carovana e Giuseppe viene venduto. La vendita è una specie di trasposizione simbolica dell'omicidio. In realtà Giuseppe in questo modo è stato eliminato e quindi per i fratelli lui è definitivamente morto.

A questo punto c'è un'annotazione interessante che fa il testo: dopo averlo gettato nella cisterna, dopo aver compiuto un fatto veramente agghiacciante – questi che sono dei fratelli – si mettono a mangiare. Questo è un bel modo con cui il testo sottolinea l'assoluta crudeltà di questi fratelli e anche l'esasperazione radicale a cui ormai erano arrivati, per cui questi si mettono a mangiare tranquillamente. Ma questo crea anche un gioco perché loro lo gettano nella cisterna e mangiano e poi quando non ci sarà proprio più niente da mangiare, essi dovranno andare in Egitto e lì se lo ritroveranno davanti, vivo, senza saperlo, loro che pensavano in questo modo di essersene liberati per sempre. C'è dunque il cibo che fa da filo conduttore.
Non bisogna dimenticarsi che, quando Giacobbe, il padre di questi fratelli, aveva ingannato il fratello e il padre, anche lui aveva ingannato il padre con una questione di cibo, portandogli la cacciagione che il padre amava. Siamo davanti ad una famiglia divisa ed in realtà come famiglia è distrutta.
Nelle nostre famiglie non ci sono tanto figli e fratelli gettati nelle cisterne, però di famiglie distrutte ce ne sono tante e questa storia di Giuseppe può diventare una specie di paradigma, da assumere non nella sua materialità, ma per il senso che rivela. Qui noi siamo davanti ad una famiglia che non ha più nessun punto di coesione, perché la situazione è quella di fratelli che hanno la loro unità tutta basata solo sulla complicità in un delitto e, dall'altra parte, c'è un padre ingannato e disperato. Dunque, la famiglia non c'è più! C'è un padre che non è più capace di essere tale e che viene in qualche modo ridotto all'impotenza dai suoi stessi figli e questi figli che rifiutano il padre e non sono più fratelli, perché sono fratelli, solo perché complici. E la complicità non è fraternità.

E allora: ecco che si dipana tutta la nostra storia. Tra l'altro la notizia della morte di Giuseppe al padre viene data mandando la tunica di Giuseppe intrisa di sangue, così che lui pensi che Giuseppe è stato divorato da una belva feroce. Ed è significativo ancora una volta tutto il gioco, perché prendono del sangue di capretto per ingannare il padre e Giacobbe per ingannare suo padre Isacco aveva ugualmente usato il capretto. C'è questa specie di cicli che ritornano e che ritroviamo nella nostra storia e nelle nostre famiglie di uomini, proprio perché ciò che i padri hanno vissuto, poi comunque, in qualche modo, tendono a riprodurlo con i figli e questa è una dimensione che bisogna tenere d'occhio.
Giuseppe viene dunque venduto e portato in Egitto. Sappiamo lì di varie vicende; ci sono ancora di mezzo i sogni e proprio per l'interpretazione dei sogni Giuseppe diventa secondo solo a Faraone nel paese d'Egitto per tutta la nota faccenda del grano messo da parte che poi serve per il tempo della carestia. Carestia che tocca anche il paese di Canaan, cosicché a un certo punto Giacobbe deve inviare i suoi figli in Egitto a cercare il grano e li invia, però, tenendosi con sè Beniamino. Lui è l'unico altro figlio di Rachele, la moglie amata da Giacobbe… Giacobbe ha già perso Giuseppe, è chiaro che non vuole perdere anche Beniamino e se lo tiene a casa, perché è il più piccolo, e così gli altri fratelli partono. Arrivano in Egitto, si incontrano con Giuseppe, si inchinano davanti a lui e – questo è significativo – i sogni cominciano ad avverarsi - ma loro non lo sanno, perché loro non riescono a riconoscere Giuseppe. Ormai è passato del tempo, lui si è “egizianizzato”. Ma, soprattutto, l'impossibilità di Giuseppe di riconoscere i fratelli è simbolicamente l'impossibilità per questi fratelli di accettarlo come fratello. Essi lo hanno voluto morto e per loro è morto e quindi, quando se lo ritrovano davanti vivo, non riescono a riconoscerlo.

Ciò è simbolicamente molto significativo. Giuseppe decide di recuperare questi fratelli lui, che è ancora fratello, mentre loro non sono più fratelli di lui. E così decide di aiutare i suoi fratelli a ridiventare tali. E comincia allora il cammino di presa di coscienza che Giuseppe fa fare loro e che comincia con il mettere i fratelli in una situazione di difficoltà; non tanto per vendicarsi e per ripagarli con la loro stessa moneta, ma perché è necessario che il cammino di peccato che questi fratelli hanno percorso sia ripercorso a ritroso, sia recuperato e per trasformare il male in bene bisogna passare inevitabilmente attraverso la sofferenza. Allora Giuseppe crea una situazione di difficoltà e di sofferenza per i suoi fratelli, non per vendetta, ma per amore, perché vuole che i suoi fratelli facciano un cammino di conversione.

Così li accusa di essere spie ed essi davanti a questa accusa sono costretti a rivelarsi e a dire chi sono. Sono pieni di paura, perché sono davanti ad uomo straniero, che non conoscono, che parla una lingua diversa dalla loro, potente. Sanno che la vita è nelle sue mani e si sentono improvvisamente dire: voi siete spie! Come fare a dimostrare che non è vero? E allora dicono chi sono, dicendo più di quello che dovrebbero dire. Dicono: noi siamo figli di un solo padre; eravamo dodici, adesso un fratello non c'è più, l'altro è rimasto con il padre… No! Noi non siamo spie! Giuseppe li sta accusando di essere spie e loro dicono di non esserlo! Non siamo spie, perché siamo figli di un solo uomo! Non si vede bene perché mai l'essere figli di un solo uomo sia in contraddizione con il fatto di essere spie. Loro probabilmente stanno cercando di portare la cosa su un piano familiare; perché dunque sono accusati su un piano nazionale? Però il loro parlare non è pertinente e soprattutto che c'entra il fatto che un fratello non c'è più e che c'entra il fatto che l'altro fratello è rimasto in Canaan? Perché mai questo dovrebbe essere una prova della loro onestà? La loro risposta non è pertinente nei confronti dell'accusa di Giuseppe, ma è perfettamente pertinente, invece, nella misura in cui si capisce che, quando uno si porta dietro il peso del peccato, quando poi si trova in difficoltà e ha paura, in qualche modo cerca di confessarlo, in qualche modo il peccato ritorna su, in qualche modo si rivela, anche se uno non vuole. E questi cominciano a rivelare che un fratello non c'è più! Giuseppe coglie la palla al balzo e, prima li sconcerta, mettendoli in prigione, lasciandoli lì nel loro brodo per tre giorni, poi, operando un cambiamento di decisione, che li sconcerta ancora di più. Infatti prima aveva detto: uno di voi andrà a prendere l'altro fratello e voi rimanete qui. Poi li lascia in prigione e poi dice ancora: andate via tutti, uno solo di voi rimane qui! Essi capiscono sempre di meno e sempre più vivono il fatto di essere in balia di questo che, oltretutto, sembra uno che cambia idea continuamente, mezzo matto. Vai a capire questo cosa fa! Dunque cresce l'angoscia nei fratelli, questo sentirsi in balia di Giuseppe; uno allora viene tenuto e tutti gli altri vengono inviati ad andare a prendere Beniamino per portarlo da Giuseppe, con questo discorso che va nella linea dei fratelli, ma che è appunto del tutto non pertinente e che è quello di Giuseppe che dice: se voi mi riportate qui il fratello che avete lasciato in Canaan, io saprò che voi non siete spie. Giuseppe va nella linea tracciata dai fratelli, dove il fatto delle spie è molto chiaramente solo un modo perché questi si rendano conto. E loro si rendono conto. Perché loro a questo punto sanno di essere completamente in mano di questo potentissimo sconosciuto. “E allora si dissero l'un l'altro: certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato, per questo ci è venuta addosso questa angoscia!” Il sangue del fratello pesa addosso e quello che sta avvenendo viene da loro percepito come una punizione, perché l'angoscia che stanno provando adesso ricorda loro l'angoscia di Giuseppe. E questo essere completamente in balia di questo qui ricorda quell'essere totalmente in balia di Giuseppe, gettato in fondo alla cisterna e poi addirittura venduto come se fosse un oggetto.

Giuseppe sta cominciando a ottenere i primi risultati, perché sta cominciando a far emergere la coscienza della colpa in questi suoi fratelli e contemporaneamente si prende cura di loro, perché gli dà il grano e consente quindi a loro di tornare in patria e di dare vita alle loro famiglie e quindi al padre Giacobbe. Allora: questi ritornano, ritornano da Giacobbe. Vi ricordate che c'è la strana scena, ripetuta due volte, di loro che aprono il sacco e trovano dentro il denaro. Così si spaventano ancora di più, perché quello là, mezzo matto, gli aveva detto: voi siete spie! Adesso avrà l'occasione per dire: voi siete anche ladri! Infatti si ritrovano con il denaro, come se avessero portato via il grano senza pagare. Non capiscono e hanno paura! Comunque tornano da Giacobbe e adesso in qualche modo loro si ritrovano nella stessa situazione dei tempi di Giuseppe, perché ancora una volta tornano dal padre e ancora una volta c'è un fratello in meno. A quei tempi c'era in meno Giuseppe e hanno detto: un leone lo ha sbranato! Adesso non c'è Simeone e se l'è sbranato un altro leone, cioè il potente, folle d'Egitto. Tornano senza uno e questo tornare senza uno, a motivo di quell'altro uno che è lì adesso, condiziona tutto. Perché loro tornano dicendo: se vogliamo riavere Simeone, dobbiamo tornare lì con Beniamino. E Giacobbe, davanti a questa prospettiva dice: no! Io Beniamino non lo lascio andare; anzi ancora di più! Giacobbe dice: voi mi avete privato dei figli. Lo dice solo perché è angosciato, addolorato e amareggiato, ma sta dicendo la verità senza saperlo! Voi mi avete privato dei figli, Giuseppe non c'è più! Simeone non c'è più e Beniamino me lo volete prendere! No! Perché tutto questo ricade su di me! Allora c'è Ruben che dice: mi faccio garante e lui dice: no! Il mio figlio non verrà laggiù con voi, perché suo fratello è morto ed egli è rimasto solo! Se gli capitasse una disgrazia, voi fareste scendere la mia canizie negli inferi! Allora: vedete che cosa è riuscito a fare Giuseppe! Giuseppe, che è vivo, sta guidando il gioco, perché è lui che ha tenuto lì Simeone, è lui che ha chiesto che gli riportino Beniamino! E' lui, dunque, che tira le file del gioco, perché è vivo, ma in realtà sta condizionando tutto, perché è creduto morto. Giacobbe non vuole mandare Beniamino, perché è convinto che Giuseppe sia morto e allora, avendo perso Giuseppe, non vuole perdere anche l'unico altro figlio di Rachele. Se Giacobbe sapesse che Giuseppe è vivo potrebbe mandare Beniamino, ma invece, siccome lui sa che Giuseppe è morto, allora non manda Beniamino; ma se non manda Beniamino, allora non riesce neanche a riprendere Simeone. Questo fatto che Giuseppe è morto impedisce la liberazione di Simeone, ma tutto questo sta avvenendo perché in realtà lui è vivo e sta facendo questo suo gioco. Allora, questo essere contemporaneamente vivo e morto di Giuseppe è ciò che condiziona tutto quanto e, d'altra parte, questo suo essere contemporaneamente vivo e morto è determinato dal fatto che i fratelli hanno commesso il loro peccato e non lo hanno confessato. Giuseppe è contemporaneamente vivo e morto, perché i fratelli hanno mentito, dicendo che è morto! Non hanno saputo confessare il fatto di averlo venduto e allora questo peccato non confessato dei fratelli, adesso fa' sì che Giuseppe sia contemporaneamente vivo e morto e che di fatto tutta la storia venga bloccata.

Beniamino non parte, Simeone rimane laggiù, loro rimangono lì e aspettano di morire, perché, quando poi il grano finisce, non resta che morire. Solo che poi, davanti alla morte, l'istinto di sopravvivenza prende il sopravvento e poiché finisce il grano Giacobbe cede e manda Beniamino. Questi devono necessariamente tornare in Egitto per prendere altro grano. I fratelli si rimettono in marcia e ritornano in Egitto; hanno il problema di quel denaro nei sacchi, si ingraziano il vice di Giuseppe. Questi li rassicura, ma loro non capiscono cosa sta succedendo, non sanno se credere o non credere a queste rassicurazioni, poi però vengono invitati al banchetto. Quindi prima sono lì che pensano: chissà adesso questi che cosa ci fanno per questa faccenda del denaro! Poi invece vengono invitati al banchetto e quindi cominciano a pensare che tutto sommato è vero; le parole che gli hanno detto sono vere, non devono temere nulla! Lì, nel banchetto, però cominciano a succedere cose strane: viene data una porzione doppia a Beniamino. Perché? Che cosa sta succedendo? Questi poi parlano un'altra lingua; quindi non riescono a capire cosa succede. Il pazzo là dovrebbe restituire Simeone, però dà la doppia razione a Beniamino. Che cosa sta succedendo? Si volesse tenere Beniamino! E l'angoscia cresce, finché vengono rimandati, partono… gran sospiro di sollievo! Non c'è più da avere paura e nel momento in cui la tensione si abbassa, nel momento in cui non sono più sulla difensiva, in cui si è più vulnerabili, Giuseppe dà l'ultima mazzata! Perché? Mentre loro sono tranquilli, perché finalmente è andata, e sono nel viaggio di ritorno, li fa inseguire, bloccare da quello stesso suo vice che li aveva rassicurati e che adesso invece è diventato una belva. E quindi ancora una volta questo sconcerta i fratelli, e vengono accusati di aver rubato la coppa di Giuseppe, che non è una coppa qualsiasi, ma che è la coppa attraverso cui Giuseppe fa le divinazioni e interpreta i sogni. I fratelli si sanno innocenti di questa colpa, come si sapevano innocenti del fatto di essere spie. Dunque, ancora una volta dicono: non è vero! E allora: aprite pure i sacchi e se trovate la coppa, chi ha la coppa sarà nostro prigioniero! Loro sono tranquilli, tanto non hanno commesso questa colpa. Ne hanno commessa un'altra molto peggiore, ma quella tanto non la sa nessuno! E allora: aprite pure i sacchi! Aprono i sacchi e la coppa viene trovata nel sacco di Beniamino e quindi ora Beniamino deve essere tenuto in ostaggio; ora è Beniamino quello che deve morire.

Davanti a questo i fratelli finalmente non sono più complici, ma diventano solidali e davanti alla prospettiva che Beniamino debba pagare, loro dicono: allora no! Paghiamo tutti insieme! La complicità è diventata solidarietà! Ora i fratelli sono ritornati ad essere fratelli, pronti a pagare insieme. Con una frase molto significativa che dice Giuda: che diremo al mio signore, come parlare, come giustificarci? Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi. Ed eccoci schiavi del mio signore noi e colui che è stato trovato in possesso della coppa. Dio ha scoperto la colpa dei tuoi servi, solo che la colpa di cui lui sta parlando non è quella della coppa, è quella di aver venduto il fratello, ma Giuda pensa che tanto colui a cui sta dicendo questa frase non possa saper nulla di quello che è avvenuto, lui non sa che quello è Giuseppe! E lui parla a Giuseppe di quello che hanno fatto a Giuseppe, convinto che tanto Giuseppe non possa capire e che Giuseppe avrebbe interpretato come la colpa della coppa. E invece Giuseppe capisce ed era lì che li voleva portare. E allora Giuseppe interviene e offre la libertà a tutti in cambio di Beniamino. A questo punto Giuda di nuovo interviene raccontando tutta la storia, gli incontri precedenti, di come loro avevano convinto il padre a lasciare Beniamino, del fatto che lui si era fatto garante, perché Beniamino potesse partire e dice Giuda: e adesso, se noi torniamo senza nostro fratello, per nostro padre è la fine, perché nostro padre ama Beniamino più di tutti. E c'è la frase: l'amore del padre per Beniamino è troppo grande, la vita dell'uno è legata alla vita dell'altro. Questo Giuda non lo può dire di se stesso e infatti può dire tranquillamente: tieni me, ma rimanda Beniamino! Perché, se Beniamino non torna, nostro padre muore. Se invece non torno io, nostro padre continua a vivere. Dunque, Giuda sta dicendo: Beniamino è amato più di me! Beniamino è amato più di tutti noi fratelli messi insieme. Ebbene, proprio a motivo di questo, Giuda dice: prendi me! Allora, l'amore del padre che, ai tempi di Giuseppe, era stata proprio la causa della decisione di uccidere Giuseppe, l'amore del padre, che era stato il motivo per quella decisione, adesso quello stesso amore di preferenza diventa invece il motivo per offrire la propria vita. L'amore di preferenza del padre era stato il motivo per uccidere, adesso diventa il motivo per consegnare la propria vita e morire al posto del fratello amato. Non si tratta più di uccidere il fratello amato dal padre, ma di morire al suo posto. E proprio a motivo del fatto che il padre lo ama di più!

La gelosia è completamente riassorbita ed è diventata amore fraterno ed è diventata anche amore filiale, perché è l'amore fraterno nei confronti di Beniamino, ma è soprattutto l'amore filiale nei confronti del padre. Giuda, per amore del padre, accetta di morire e per amore di un padre che ama Beniamino più di tutti gli altri; accetta di morire per amore di un padre che ama un altro più di lui.

Questo è il vero amore filiale; questa è la vera accoglienza del Padre e questo è anche il vero amore fraterno. E questo è, per i fratelli di Giuseppe, il compimento del cammino che Giuseppe voleva far fare loro. Voleva farli ritornare ad essere fratelli, perché voleva che tornassero ad essere figli ed ora questo è avvenuto. Il peccato è stato completamente riassorbito, perché quello che era motivo di peccato, adesso è diventato motivo dell'amore più grande, che è dare la vita per gli amici. La conversione ora è totale. Chi ha ucciso è diventato invece capace di morire per gli altri. Il peccato è stato completamente riassorbito e allora adesso Giuseppe può anche manifestarsi. Giuseppe si manifesta, i fratelli possono finalmente riconoscerlo, perché avendo finalmente riconosciuto il padre si possono anche riconoscere come fratelli e questo ricrea la famiglia. Ma questo è possibile solo perché Giuseppe ha perdonato! Non c'era cammino possibile per i fratelli, per convertirsi e non c'era cammino possibile perché la famiglia potesse ritornare ad essere tale, se non perché c'è stato qualcuno che ha subito l'ingiustizia, la violenza, qualcuno che è stato vittima e che invece di rispondere al male con il male, ha risposto al male con il bene, ha perdonato. Ed è solo su questo perdono di Giuseppe che si basa tutta la storia. Poiché Giuseppe ha perdonato, ha potuto aiutare i fratelli a fare il cammino della figliolanza e della fratellanza. E poiché Giuseppe ha perdonato, la famiglia è tornata ad essere famiglia.

E questo è paradigmatico, dove paradigma vuol dire che non è la materialità che è significativa, ma il senso che il testo rivela. Il senso che il testo rivela e che è significativo per le nostre famiglie è che, perché le famiglie siano tali, perché possano restare unite e perché possano eventualmente ricomporsi dopo la frattura, bisogna che ci sia qualcuno che perdona! Bisogna che ci sia qualcuno che rinuncia alle proprie rivendicazioni per far prevalere il bene dell'altro e il bene comune. Bisogna che ci sia qualcuno che cede, ma non per debolezza, quanto perché portatore di una forza più grande. Bisogna che il più forte, quello cioè che è capace di amare di più, perché quella è la vera forza, accetti di cedere. Il più forte accetti di difendere la debolezza, accetti di perdonare, di rinunciare anche ai propri diritti per salvaguardare invece il bene comune.

Questo è vero delle famiglie, ma questo è vero anche di quella grande famiglia che è la chiesa. E allora adesso, quando si è capito questo, i fratelli ridiventano fratelli, ridiventano figli e compare allora, a questo punto, il vero protagonista che è Dio. Dio che, da Giuseppe, viene proclamato come colui che si inserisce nella storia degli uomini per cambiarla. Dio come Colui che trasforma la storia di morte in storia di vita. “Dio che è Colui che mi ha mandato qui prima di voi, perché io potessi farvi vivere e se voi avevate pensato il male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire al bene per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso!” Il Dio della vita che entra dentro la storia di morte degli uomini per trasformarla. Ma questo è possibile perché il perdono di Dio si incarna nel perdono di un uomo. Dio può perdonare perché Giuseppe ha perdonato. Allora, cambiano le prospettive: il male è cambiato in bene e i sogni di Giuseppe si avverano, ma non come pensavano i fratelli. Perché effettivamente i fratelli si prostrano davanti a Giuseppe, ma non è per l'umiliazione, quanto perché l'hanno ritrovato. E il sole, cioè il padre, non si prostra. Il padre, Giacobbe, invece abbraccia Giuseppe. Ecco il compimento dei sogni di Giuseppe; il compimento dei sogni non è la prostrazione, ma è che finalmente Giuseppe entra nel suo ruolo di figlio e, da fratello, consente anche ai fratelli di entrare pienamente nella loro verità di fratelli e di figli capaci di lasciarsi amare come il padre vuole amare e come Dio vuole amarci.

Così la famiglia si ricompone e Dio può rivelarsi e può farsi presente dentro questa famiglia e può allora veramente ricolmarla del suo amore, che si incarna poi nell'amore del Padre, nell'amore dei fratelli, facendo definitivamente trionfare la vita, perché la vita – quella vera – è possibile solo quando è una vita perdonata.

Mercoledì, 18 Ottobre 2006 02:35

Lezione Quinta. Il deserto

Lezione Quinta
IL DESERTO

 

La tappa di vita di Israele che va dall’uscita dall’Egitto fino all’occupazione della terra promessa non è solo un passaggio intermedio tra due grandi eventi.

L’esperienza del deserto costituisce una tappa significativa della storia salvifica, sulla quale la riflessione religiosa d’Israele è tornata con frequenza, trovandovi aspetti molto vari e l’emblema di situazioni storiche delle epoche successive.

Atti 1,14: una comunità orante
in attesa dello Spirito (terza parte)
di Alberto Valentini


Unanimi e perseveranti in preghiera con Maria, la Madre di Gesù (cf. At 1,14)




1. Nota introduttiva

1.1. Ambientazione del testo;
1.2. Confronto con i sommari 2,42-47; 4,32-35; 5,12-16;
1.3. La preghiera in Luca.

2. La preghiera in At 1,14

2.1. Preghiera unanime;
2.2. Preghiera perseverante.

3. La prima comunità

3.1. Gli Apostoli;
3.2. Le donne;
3.3. Maria, la madre di Gesù;

4. Conclusione breve


3. La prima comunita’

Finora si è parlato della comunità, della sua spirituale coesione e costanza nella preghiera. Indubbiamente At 1,14 sottolinea l'unità dei primi credenti, ma evidenzia - più che altri sommari - l’articolazione della medesima. Il nostro testo, così breve, è il sommario più esplicito circa la composizione della comunità postpasquale. E' un punto di riferimento prezioso per la Chiesa di ogni tempo, che vi può ritrovare le coordinate fondamentali della sua unità e della sua molteplice configurazione. In questo autorevole e programmatico testo, incentrato sugli apostoli, ma aperto ad altre presenze e ai diversi doni dello Spirito, le comunità cristiane potranno sempre ricercare l'armonia e l'equilibrio tra la missione apostolica e i diversi ministeri e carismi di cui lo Spirito dota incessantemente i credenti. Vi potranno riscoprire, con sensibilità e in forme nuove, il compito della donna al servizio del vangelo e, in particolare, quello di Maria, la madre di Gesù.

Va ricordato che siamo di fronte a un testo redazionale, nel quale le intenzioni dell’autore si esprimono in maniera più diretta ed esplicita. Ogni elemento, per conseguenza, dev’essere valutato con grande attenzione. (71) A questo punto ci sembra importante considerare i diversi personaggi che compongono la comunità apostolica, la "cellula germinale" della Chiesa neotestamentaria.

3.1. Gli apostoli

Nell'opera lucana, com'è noto, il gruppo dei Dodici viene identificato con gli apostoli, (72) i quali sono ritenuti a titolo speciale, in certo senso esclusivo, testimoni di Cristo. (73) Negli Atti, essi sono i personaggi principali, garanti della continuità tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. (74)

"Essi 'non sono i primi d' una serie'; essi formano 'un gruppo a parte', svolgente una funzione fondatrice e normativa, insostituibile e non reiterabile. Sulla loro testimonianza la Chiesa è stata fondata una volta per tutte e in questa testimonianza essa trova la norma definitiva della sua fede e della sua unità". (75)

L'identità dei Dodici è caratterizzata da quattro note fondamentali: (76)

- Anzitutto essi sono i testimoni della risurrezione di Gesù (At 1,22): (77) questo è l'oggetto specifico del ministero degli apostoli, dato che a loro - e non a tutto il popolo - Gesù si è manifestato dopo la sua risurrezione (cf 10,40-41; 13,30-31); ad essi "si mostrò vivo, dopo la sua passione, con molte prove convincenti, apparendo (optanómenos) loro durante quaranta giorni" (At 1,3). (78)

- Per essere testimoni si richiede di aver fatto parte del gruppo apostolico per tutto il tempo del ministero di Gesù, cominciando dal suo battesimo fino al giorno in cui fu assunto in cielo (At 1,21-22). L'apostolo deve garantire la continuità tra il Gesù storico e il Signore della gloria, tra Gesù e la "chiesa" radunata nel suo nome.

- Gli apostoli sono coloro che il Signore si è scelto per mezzo dello Spirito santo (At 1,2). Si diventa tali non per una decisione personale, ma per una scelta del Signore. Ciò appare con evidenza nella chiamata dei Dodici secondo la tradizione sinottica (Mc 3,13-19; Mt 10,1-4; Lc 6,12-16), e in occasione dell'elezione di Mattia (At 1,24): in quella circostanza, la comunità prega e getta la sorte per conoscere chi sia colui che il Signore ha scelto.

- Si è costituiti apostoli per la forza dello Spirito. Questa nota non risulta dal racconto dell'elezione di Mattia, ma appare dal contesto in cui il racconto è collocato: tra la promessa dello Spirito fatta agli apostoli (At 1,4-5.8) e la sua effusione nel giorno di Pentecoste (At 2,1-4). E' lo Spirito che abilita a compiere la missione di testimonianza al Risorto.

L'oggetto specifico della testimonianza apostolica è dunque la risurrezione (At 1,22) di Gesù, e più ampiamente l'intero evento pasquale, secondo le Scritture, come viene dichiarato in conclusione al vangelo lucano e riaffermato all'inizio e nel corso degli Atti. In Lc 24,46-47 Gesù precisa i contenuti e l'ambito della missione degli apostoli: "Così sta scritto: il Cristo doveva patire e risorgere dai morti il terzo giorno, e nel suo nome doveva essere predicata a tutte le genti la conversione per il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme". (79) Nel v. 48, Gesù affida loro l'incarico ufficiale: "Voi sarete testimoni di queste cose". La missione, però inizierà soltanto dopo, quando si compirà la promessa del Padre e saranno rivestiti di potenza dall'alto (cf v. 49).

Secondo il testo evangelico, le parole di Gesù, pur avendo di mira gli apostoli, sono pronunciate davanti agli Undici e a "quelli che erano con loro" (Lc 24,33; cf 24,9). La narrazione degli Atti è più precisa: il Risorto si rivolge agli "apostoli che egli per mezzo dello Spirito santo si era scelti" (At 1,2); sono essi, in maniera esplicita e diretta, i destinatari delle istruzioni e delle apparizioni del Signore Gesù: essi devono rendergli testimonianza, e per questo riceveranno lo Spirito (cf 1,8). Nell'attesa, sono riuniti in preghiera nella stanza superiore della casa.

Ma per il momento essi sono soltanto Undici; il loro numero è incompleto e dev’essere reintegrato: è necessario che uno prenda il posto lasciato vuoto da Giuda. Collocando l'episodio dell'elezione di Mattia tra l'ascensione e la Pentecoste, Luca fa intendere di attribuire un' importanza particolare (deì oùn...) alla ricostituzione del gruppo dei Dodici, anche se in seguito il nome di Mattia non ricorre più nel libro degli Atti e i Dodici sono menzionati solo in At 6,2. Possiamo chiederci perché Luca insista sul mumero dodici, riferito agli apostoli-testimoni, e perché gli prema che il numero sia ricomposto prima della Pentecoste. Alla prima domanda si può certo rispondere che i Dodici sono in rapporto con le dodici tribù d'Israele, ma tale ovvia spiegazione esige chiarificazioni ed approfondimenti. La relazione con le dodici tribù infatti può essere intesa in diversi modi: con riferimento al popolo ebraico in prospettiva escatologica, secondo Mt 19,28 (Lc 22,30), (80) oppure soteriologica, nel senso che la salvezza è destinata inizialmente a Israele; con riferimento alla Chiesa, vedendo nei Dodici i rappresentanti del nuovo Israele. (81)

Qualunque senso si voglia dare alla ricostituzione dei Dodici, essa deve avvenire prima di Pentecoste. Ma qual è il motivo di tale necessità? La risposta può essere la seguente: quando lo Spirito sarà effuso su ogni carne, il popolo di Dio - rappresentato dai Dodici - dovrà essere al completo davanti al Signore, come un tempo, ai piedi del monte, nel giorno dell'alleanza (cf Es 24,3-4; Dt 5,22). (82) Esso riceve in tal modo lo Spirito e viene costituito testimone di Cristo davanti a tutti i popoli, rappresentati potenzialmente dai Giudei della diaspora, convenuti a Gerusalemme da ogni nazione che è sotto il cielo (At 2,5). "Per questo inizio dell'attività di testimoni - che deve aver luogo necessariamente a Gerusalemme - bisogna che il numero dodici sia completo; dopo la morte di Giacomo (At 12,2) non ci sarà più bisogno di completare il numero". (83)

Secondo la visione lucana, dunque, gli apostoli occupano una posizione unica nella Chiesa del Nuovo Testamento, in particolare nella comunità di Gerusalemme. Tale centralità emerge con evidenza in At 1,14, considerato in se stesso e alla luce del contesto. Il soggetto esplicito del nostro breve sommario sono gli Undici ("tutti costoro"), collocati all’inizio della frase, in posizione privilegiata e dominante. Gli altri personaggi si aggiungono ad essi, condividendone la situazione e l'esperienza spirituale. Nel verso precedente gli Undici sono stati elencati ad uno ad uno, per nome; (84) con loro Gesù si era intrattenuto per quaranta giorni dopo la sua risurrezione; ad essi aveva promesso la potenza dello Spirito per la missione di testimonianza; di fronte a loro era stato assunto in cielo, avvolto nella nube della gloria divina.

Nel primo sommario di At 1,14, gli apostoli - il cui compito è la testimonianza - sono presentati come uomini dalla preghiera assidua e concorde, per garantire la quale, in seguito (cf At 6,2-4), affideranno ai diaconi il servizio delle mense. Una scena, per certi versi parallela, è quella di 4,24-31, nella quale gli apostoli sono nuovamente in preghiera unanime, implorando di poter annunciare con tutta franchezza la parola di Dio. Ed anche in quel caso si ha un'effusione dello Spirito che li restituisce al loro ministero di testimonianza.

La comunità apostolica manifesta fin dall'inizio una grande unità, ma al tempo stesso una significativa molteplicità e varietà di presenze: gli apostoli sono persone di comunione che associano altri alla loro vita e al loro ministero. Della comunità primitiva fanno parte, senza distinzioni di sorta - da sempre riscontrabili nella vita e nella pietà giudaica - delle donne.

3.2. Alcune donne

La presenza di donne, introdotte senza articolo definito e pertanto in maniera piuttosto generica in At 1,14, pone dei problemi. Chi sono in realtà tali persone, qual è il loro compito, quale il significato della loro presenza nella comunità delle origini? Qualcuno, influenzato dalla loro posizione nella frase, subito dopo gli Undici, e dalla variante del codice D - che aggiunge "e i figli" - ha pensato possa trattarsi delle mogli degli Apostoli. Ma spiegazioni di questo genere appaiono fragili. (85) Il numero indeterminato di donne richiama piuttosto le discepole di Galilea - menzionate dal solo Luca in 8,2s -, le donne ricordate nella storia della passione e le prime testimoni della risurrezione (23,49.55s; 24,10.22-24). La presenza tra gli apostoli di queste persone, che avevano seguito Gesù fino alla sua Pasqua, sono un segno ulteriore di quella continuità che Luca si preoccupa di stabilire tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. La comunità primitiva segue anche in questo l'esempio del Maestro, il quale aveva riservato un posto e compiti particolari alle donne nel servizio al vangelo. Esse, insieme con gli apostoli, sono chiamate a rendere testimonianza al Signore Gesù. Lo Spirito, che fra non molto discenderà su tutti i membri della piccola comunità, radunata nella stanza al piano superiore, non farà alcuna distinzione tra uomini e donne, a differenza di quanto avveniva in rapporto alla Torah. (86) Come spiegherà Pietro, si verifica ormai ciò che era stato annunciato dal profeta Gioele: "Negli ultimi giorni, dice il Signore, / effonderò il mio Spirito su ogni carne / e profeteranno i vostri figli e le vostre figlie..." (At 2,17). L'appartenenza a Cristo, suggellata dal dono dello Spirito, fa cadere ogni discriminazione e realizza il progetto di umanità nuova formulato da Paolo: "non c'è più giudeo né greco, schiavo o libero, uomo o donna: tutti voi infatti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). In At 1,14 l'unità si realizza nella preghiera e nella vita di comunione in attesa dello Spirito. C'è già la premessa per una condivisione più ampia, in particolare per la partecipazione delle donne, a vari titoli, al servizio del vangelo, come ripetutamente verrà segnalato nel libro degli Atti. (87)

3.3. Maria, la madre di Gesù (88)

Nel vangelo di Luca, Maria occupa un posto di rilievo, ma la sua posizione è singolare, quasi stralciata dalle altre figure femminili. Perché, ci si domanda, non viene annoverata tra di loro, eventualmente in prima fila, lei che in Luca è benedetta più di tutte le donne? Come mai, inoltre, nei racconti dell'infanzia di Luca ella è in primo piano accanto a Gesù e poi nel vangelo quasi scompare: non viene nominata con le altre donne al seguito di Gesù, non è ricordata nella passione, né tra le testimoni del Risorto? E, analogamente, perché viene presentata in questo primo importante sommario degli Atti - e in maniera singolare, come non avviene per le altre anonime donne - mentre in seguito non sarà più ricordata? Sono interrogativi che lasciano perplessi e inducono non di rado a posizioni contrastanti: ad un'esaltazione perfino eccessiva della madre di Gesù oppure, al contrario, a trascurarla adducendo come motivo la pretesa laconicità della Scrittura.

Certo, non è un caso che Luca parli di Maria nei racconti dell'infanzia e all'inizio degli Atti. I primi capitoli delle due opere di Luca, possono essere considerati rispettivamente come vangelo dell'infanzia di Cristo e della Chiesa. (89) Essi appaiono diversi dalle parti che seguono: sono testi marcatamente teologici, che anticipano agli inizi della vita di Gesù e della Chiesa - con linguaggio di fede esplicita - quanto solo al termine del vangelo e degli Atti si può dire effettivamente realizzato. Si tratta dunque di una riflessione dopo gli eventi, alla luce di Pasqua e sotto l'influsso dello Spirito. Il fatto che la figura di Maria sia in particolare evidenza in questi testi e sottaciuta altrove, significa che la riflessione su di lei è avvenuta lentamente, in maniera progressiva e non uniforme nelle diverse comunità neotestamentarie. In primo luogo, la fede apostolica e l'annuncio kerigmatico si sono concentrati sul mistero pasquale di morte e risurrezione (cf 1Cor 15,3-4); in tale fase, ovviamente, non si parla di Maria, almeno in maniera esplicita. In un secondo tempo, la riflessione si estende al periodo della vita pubblica che va, secondo la testimonianza di At 2,21-22, dal battesimo di Giovanni fino all'Ascensione; in questo periodo, Maria compare o viene nominata, ma occasionalmente (cf Mc 3,31-34; 6,3). Solo in seguito, a proposito della nascita e dell'infanzia di Gesù, la figura e il ruolo della madre sono messi in chiara luce. Questa è un'epoca più tardiva, nella quale la riflessione cristologica si è fatta più ampia e articolata, ed ha convogliato tradizioni ed esperienze ecclesiali diverse; anche la figura di Maria acquista allora densità teologica: ella è la madre del Messia, discendente davidico e Figlio dell’Altissimo (Lc 1,32); concepisce per opera dello Spirito santo (1,35), viene salutata quale madre del Signore (1,43), è benedetta per il frutto del suo grembo e proclamata beata per la sua fede (1,42.45). E' la serva esaltata dall'Onnipotente, colei che tutte le generazioni faranno oggetto di un macarismo senza fine (1,48-49).

Maria rivela una personalità non solo individuale, ma anche “corporativa”, (90) che ingloba in sé, in modo misterioso ma efficace, il popolo dell’alleanza - come già Abramo - a motivo della sua fede ed obbedienza. E’ la figlia di Sion, (91) salutata all’annunciazione con le voci dei profeti (cf Sof 3,14-15; Zc 2,14; 9,9) e che a sua volta canta la splendida salvezza di Dio (cf Lc 1,46-55). Possiamo dire che la sua immagine, senza nulla perdere della sua concretezza e individualità, è plasmata da Luca - e ancor più dalla tradizione giovannea - con categorie teologiche e simboliche.

Ella comunque si stacca dagli altri personaggi e si colloca in un ambito a sé. Questo potrebbe spiegare il fatto che Luca, in un testo conciso ed essenziale come il nostro - che introduce le donne in maniera generica e solo in conclusione ricorda i fratelli di Gesù - trovi il modo di citare Maria col proprio nome e col titolo peculiare di “madre di Gesù”. Si tratta di una presentazione così esplicita che non può essere fortuita, tanto più che si trova in un sommario, in cui ogni particolare ha il suo peso. (92) Non siamo di fronte a una semplice informazione storiografica, che sarebbe fuori luogo in quel contesto, ma ad un'annotazione che rivela indubbia valenza teologica e spirituale. L'autore intende mettere in luce la continuità tra il Gesù storico, nato per opera dello Spirito con la collaborazione di Maria e la nascita della Chiesa per opera del medesimo Spirito, con la presenza di Maria qualificata come madre di Gesù, (93) "primogenito tra molti fratelli" (Rm 8,29). Ella è madre di Colui che la comunità ha accolto nella fede come il Signore della gloria, di quel Gesù che elevato al cielo invia lo Spirito, e al quale bisogna rendere testimonianza fino agli estremi confini della terra.

In seguito, Maria non sarà più nominata, ma il capitolo primo degli Atti è programmatico per tutto il libro e per la vita della Chiesa. Alla luce di questo primo sommario, siamo invitati a contemplare Maria nella comunità dei credenti di ogni tempo. Ella è presente come madre di Gesù dovunque ci siano testimoni del Risorto, in qualunque luogo donne e uomini si radunino, insieme con gli apostoli, in attesa dello Spirito del Signore.

3.4. I fratelli di lui (94)

In contrasto col giudizio negativo, ma ingiustificato, espresso da Charlier nei confronti dei “fratelli” di Gesù, (95) sembra invece "che in seno a questo gruppo, proveniente dalla Galilea, si sviluppasse una forma di cristianesimo molto legato alle tradizioni giudaiche". (96) Per questo motivo Luca sarebbe interessato a mostrarne la presenza a Gerusalemme, insieme con altri discepoli, attorno agli apostoli.

Alla luce, dunque, della situazione della Chiesa di Gerusalemme e in fedeltà al suo assunto di presentare in chiave positiva ed esemplare la comunità delle origini, Luca ha inserito in At 1,14 questo tratto significativo circa i parenti di Gesù.

4. Conclusione breve

At 1,14, pur nella sua laconicità, è un testo di notevole importanza. Certamente viene arricchito e precisato dai sommari successivi, ma contiene già in sé elementi che lo qualificano e caratterizzano nettamente. Esso si segnala per la sua posizione e per i contenuti.

Grazie alla sua collocazione, At 1,14 ha il pregio di essere il primo dei sommari, inserito nella pagina introduttiva degli Atti. Se ogni sommario astrae in qualche misura dagli episodi contingenti e - interrompendo per un istante la narrazione - si sofferma su caratteristiche ed atteggiamenti qualificanti la comunità, ciò è vero in particolare per questo primo brano, che intende presentarci l'immagine della Chiesa ai suoi albori, nella sua identità originaria.

La prima pagina degli Atti, lo ribadiamo, anticipa in qualche misura il messaggio e lo svolgimento del libro; d'altra parte, riprende l'ultimo capitolo del vangelo lucano, vale a dire la sua conclusione.

E' emblematico il fatto che l'ultimo versetto del vangelo (Lc 24,53) - il quale costituisce praticamente un sommario - e il primo quadro di gruppo degli Atti (1,14) ritraggano gli apostoli in preghiera: nel primo caso, nel tempio, (100) nel secondo, radunati nella stanza superiore della casa.

A Luca preme sottolineare la preghiera, più ancora mostrare la comunità in preghiera. Questo motivo è ripreso con insistenza negli Atti, a partire dal sommario successivo (2,42.46s); è riscontrabile nell'esperienza dei vari personaggi, e viene affermato - per quanto concerne gli apostoli - in maniera solenne e inequivocabile: "Noi ci dedicheremo con assiduità alla preghiera (te proseuchè... proskarterésomen)" (At 6,4). (101)

Luca è stato colpito dalla preghiera di Gesù, dal suo dialogo costante con il Padre. Gli apostoli presentano il medesimo atteggiamento: prima di ogni altra cosa, essi sono una comunità in preghiera. Nella Pentecoste, in cui ricevono il battesimo per mezzo dello Spirito (cf At 1,5) e l'investitura ufficiale per la missione di testimonianza (cf At 1,8), essi rivivono l'esperienza del Maestro: come Gesù (baptisthéntos kaì proseuchoménou) (Lc 3,21), essi vengono battezzati, mentre sono in orazione (cf At 1,14).

Gli Undici formano dunque una comunità in preghiera, ma non sono soli, come non erano soli a Gerusalemme, dopo la risurrezione di Gesù (cf Lc 24,33). Evidentemente essi occupano una posizione di privilegio nella comunità delle origini, ma con loro ci sono altre persone che ne condividono in misura e forme diverse i doni e il ministero. Questi personaggi non sono stati nominati antecedentemente, in quel che concerneva il compito apostolico di testimoni ufficiali del Risorto, ma vengono presentati qui - con la loro particolare fisionomia - nella "chiesa" in preghiera, della quale fanno parte insieme con gli apostoli.

I sommari seguenti e lo sviluppo del libro degli Atti riveleranno altri importanti aspetti della vita dei credenti, ma in questo primo brano, concernente la comunità apostolica - cellula germinale della Chiesa del Nuovo Testamento - a Luca premeva sottolineare la preghiera, meglio, mostrare la comunità in unanime, perseverante preghiera. Si tratta, ovviamente, di una testimonianza fondamentale con la quale, in ogni tempo, la Chiesa è chiamata a confrontarsi.

(fine)


Note

(71) Gli autori rilevano giustamente la grande differenza tra l’accuratezza del testo di At 1,13-14, nel presentare gli apostoli, le donne, Maria la madre di Gesù e i fratelli di lui, e la genericità del v. 15b, che si limita ad affermare, come per inciso: “la moltitudine di coloro che erano riuniti era di circa 120 persone".

(72) Il concetto di apostolo, riservato ad essi, appare già in Lc 6,13, al momento dell'elezione: "...ne scelse dodici, che chiamò anche apostoli", precisazione assente in Mc 3,14. Questa identificazione è affermata con coerenza da Luca: cf Lc 9,1.10; 17,5; 22,14 (diverso da Mc 14,17); 24,10; At 1,2.26; 2,37.42.43; 4,33.35.36.37; 5,12.18.29.40; 6,6; 8,1.14.18; 9,27; 11,1. Quando nel gruppo non vengono inclusi, rispettivamente, Giuda o Pietro (Lc 24,9.33; At 1,26; 2,14), si parla degli "Undici".

E' vero che in At 14,4.14 vengono chiamati apostoli anche Paolo e Barnaba; in questi casi - senza parlare di distrazioni dell'autore - bisogna dire che Luca utilizza il termine "apostolo" in un'accezione più ampia. Si noti tuttavia che, secondo testo occidentale, nel v. 14, è assente la qualifica "gli apostoli", che pertanto potrebbe non essere originale.

Si deve però osservare che, in base ai sinottici, non si può sostenere che Gesù, prima di Pasqua, abbia conferito ai Dodici - in forma esclusiva - il titolo di apostoli; ciò, quindi, vale anche per Luca (cf J. Dupont, Le nom d'Apôtres a-t-il été donné aux Douze par Jésus?, Bruges-Louvain 1956, 46s).

La stessa equazione: Dodici=apostoli non è propria di Luca: si trova anche in Ap 21,14. "Essa riflette senza dubbio le idee dell'epoca successiva alla scomparsa dei Dodici e corrisponde naturalmente a una certa tendenza a idealizzarli, tendenza di cui la redazione del terzo vangelo offre più d'un esempio significativo" (J. Dupont, I ministeri della Chiesa nascente, in Id., Nuovi studi, 131-132).

(73) Solo eccezionalmente altri, diversi dai Dodici, vengono qualificati come testimoni: in At 22,15 e 26,16 è detto "testimone" Paolo e in At 22,20 Stefano. Per quanto riguarda Paolo, in particolare, bisogna dire che egli merita questo titolo, dal momento che i Dodici "hanno attuato solo l'inizio del programma che era stato assegnato alla loro attività di testimoni, mentre il resto è stato svolto da Paolo...:egli è testimone come loro, anche se non esattamente allo stesso titolo" (J. Dupont, L'apostolo come intermediario della salvezza, in Id., Nuovi studi, 116). Per Luca "il vangelo non è più anzitutto un escatologico agire di Dio in virtù della risurrezione di Gesù, ma una trasmissione che deve risalire al Gesù terreno, dalla cui completezza e validità dipende tutto. Per lui, dunque, gli apostoli possono essere testimoni della risurrezione soltanto quando sono in grado di garantire anche la trasmissione su tutto l'operato terreno di Gesù (1,21)" (J. Roloff, Apostolat/Verkündigung/Kirche. Ursprung, Inhalt und Funktion des kirchlichen Apostelamtes nach Paulus, Lukas und den Pastoralbriefen, Gütersloh 1965, 36). Il concetto di apostolo, nella visione di Luca, è caratterizzato "dal legame con la vita di Gesù, e dunque dalla sua unicità storica" (H. Conzelmann, Die Mitte der Zeit, Tübingen 51964, 201s, nota 2).

(74) "Questi testimoni sono gli intermediari obbligati tra il Cristo vivo e gli uomini destinati ad aver parte alla salvezza realizzata dalla vita, morte e risurrezione di Gesù" (Ph.-H. Menoud, Jésus et ses témoins. Remarques sur l'unité de l'oeuvre de Luc, in Id., Jésus-Crist et la Foi. Recherches néotestamentaires, Neuchâtel-Paris 1977, 106).

(75) J. Dupont, a.c., 121.

(76) Ivi, 129s.

(77) A puntuale conferma giungono le parole di Pietro - insieme con gli Undici! (2,24) - nel giorno di Pentecoste: "Dio ha risuscitato questo Gesù, e di ciò noi tutti siamo testimoni" (2,32).

(78) Essi hanno mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti (At 10,41; cf Lc 24,30s); lo hanno visto e toccato, constatando che il Risorto ha "carne ed ossa" e non è un fantasma (cf Lc 24,39).

(79) In 24,47 l'ordine della testimonianza è invertito: "...a tutte le genti, cominciando da Gerusalemme"; in At 1,8 viene ristabilita la successione logica e reale, distinguendo anche le tappe della testimonianza apostolica, e cambiando la formula "tutte le genti" con "fino all'estremità della terra", espressione profetica (Is 49,6) ripetuta in At 13,47.

(80) "Quando il Figlio dell'uomo siederà sul suo trono di gloria, siederete anche voi su dodici troni per giudicare le dodici tribù d'Israele" (Mt 19,28).

(81) Cf J. Dupont, Il dodicesimo apostolo (Atti 1,15-26). A proposito d'una spiegazione recente, in Id., Nuovi saggi, 171.

(82) In Es 24,3-4 si parla di "tutto il popolo" e delle "dodici stele per le dodici tribù d'Israele".

(83) G. Schneider, o.c., 316.

(84) All'inizio degli Atti, Luca ripete l'elenco degli apostoli - già presentato nel vangelo (Lc 6,14-16), anche se con differenze nell'ordine dei nomi - non tanto perché, come afferma Haenchen (o.c., 159), il suo secondo libro sarebbe apparso separatamente, ma piuttosto per introdurre ufficialmente i garanti della tradizione su Gesù e i testimoni autorevoli della sua risurrezione.

Circa l'ordine seguito e le trasposizioni nell'elenco degli apostoli, si veda in particolare J.-P. Charlier, L'Evangile de l'enfance de l'Eglise. Commentaire de Actes 1-2, Bruxelles-Paris 1966, 77-81.

(85) Cf J. Dupont, Il dodicesimo apostolo, a.c., 171. L'aggiunta "e i figli" del codice D potrebbe riprendere un motivo presente nella tradizione biblica e giudaica antica. Secondo Dt 29,9-11 tutto il popolo sta davanti al Signore per rinnovare l'alleanza: "tutti gli israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli..." (cf anche Dt 31,11-12); Giuseppe Flavio racconta che “gli israeliti insieme con le mogli e i figli”attendevano con gioia la Torah(Ant. Giud., III, 5.1-2). Mosè, sceso dal monte, radunò tutta l'assemblea: "il popolo con le mogli e i figli, per ascoltare il Signore che avrebbe parlato loro" (ivi, III, 5.4).

A proposito del passaggio del mare, inoltre, il targum e il midrash - rileggendo il salmo 68,25-28 applicato all'evento della liberazione - affermano che gli israeliti proruppero nel canto insieme con le donne e i bambini, anche quelli ancora in seno alle madri.

Questo sfondo potrebbe essere significativo per spiegare l’aggiunta “i figli” - dopo le donne - nel nostro testo. Nella Pentecoste, al momento di ricevere lo Spirito, come un tempo ai piedi del Sinai, tutti senza distinzione, comprese le donne con i loro figli, sarebbero chiamati a ricevere la Legge e a far parte dell'alleanza (cf A. Serra, Dimensioni mariane del mistero pasquale, Milano 1995, 88-91; cf Id., E c'era la madre di Gesù..., 444-447.

(86) Nell' Alleanza nuova, tutti conosceranno il Signore, dal più piccolo al più grande (cf Ger 31,34).

(87) Cf At 12,12; 16,1 (cf 1Tm 1,5; 3,14-17); 16,14-15; 21,9).

(88) Alla figura di Maria riserviamo un’attenzione particolare: sembra che ciò risponda alle intenzioni di Luca. Egli che aveva posto in notevole rilievo la madre di Gesù nei racconti dell'infanzia e poi l'aveva lasciata quasi in ombra nel resto del vangelo, la presenta nuovamente qui in posizione privilegiata, accanto agli apostoli, e in seguito non la nomina più. Ciò può apparire sconcertante. A noi invece sembra che la figura di Maria esca in qualche modo dal contingente per assumere una dimensione teologica e simbolica, che la colloca nel cuore del mistero della salvezza e della comunità ecclesiale, accanto agli apostoli primi testimoni della risurrezione di Gesù.

(89) Cf J.-P. Charlier, o.c., 138-14. Charlier stabilisce un parallelismo piuttosto elaborato, ma in fondo convincente tra At 1,1-2,13 e Lc 1-2. La funzione di questi "racconti dell'infanzia" nei confronti del resto del vangelo e rispettivamente degli Atti, è molto simile. Lc 1-2 rappresenta una specie di microevangelo, una miniatura dove si trovano in abbozzo le grandi linee e i temi maggiori del vangelo, ma in maniera velata e sottile. La stessa cosa si può dire per il "vangelo dell'infanzia della Chiesa". Luca vi ha enunciato, in una cinquantina di frasi, con grande varietà, le coordinate della sua ecclesiologia e le articolazioni principali della sua seconda opera (cf ivi, 139-140).

(90) Cf R. Kugelman, The Hebrew Concept of Corporate Personality and Mary, the Type of the Church, in Pont.Acad.MAr.Intern., Maria in Sacra Scriptura, Romae 1967, 179-184.

(91) Cf Lumen Gentium, 55. S. Lyonnet, ChaireKecharitoméne, (Lc 1,28), Bib 20 (1939)131-141; H. Sahlin, Jungfru Maria, Dottern Sion, in Ny Kyrklig Tidskrift 8 (1949) 102-124; N. Lemmo, Maria "figlia di Sion", a partire da Lc 1,26-29. Bilancio esegetico dal 1939 al 1982, in Marianum 45 (1983) 175-258.

(92) “Ella è reclamata, si direbbe, dal ruolo di primo piano svolto nel vangelo dell’infanzia. Nell’ora in cui nasce la Chiesa...era necessario che Maria fosse citata con il titolo per il quale dev’essere ricordata” (J.-P. Charlier, o.c., 76).

(93) Si osservino i significativi contatti tra Lc 1,35: "Lo Spirito santo verrà su di te / e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra” e

At 1,8: “riceverete potenza dallo Spirito che verrà su di voi”. Tra i due testi così disposti è possibile scorgere anche un’ideale figura chiastica, che rafforza ulteriormente il parallelismo. Non è pertanto da escludere una “intenzionale rispondenza tra le due espressioni” (cf G. Schneider, o.c., 279, nota 37).

Nella presenza di "Maria, la madre di Gesù" a Pentecoste, nel momento in cui - secondo Luca - viene effuso lo Spirito e nasce la Chiesa, si potrebbe scorgere un certo parallelismo con la scena del Calvario di Gv 19,25-27.30 ove "la madre" di Gesù - nell' ora in cui egli "spirò" (v. 30) - fu proclamata madre del discepolo amato. Resta comunque vero che lo spirito "trasmesso" (parédoken) da Gesù, quando "tutto è compiuto" (v. 30) è solo preludio all'effusione dello Spirito da parte del Risorto (Gv 20,22; cf 7,39; 14,26; 16,17.8).

(94) Secondo Mc 6,3 (cf Mt 13,55), i “fratelli” di Gesù sarebbero: Giacomo, Josè, Giuda e Simone. Mc 3,31 e par. citano, insieme con la madre di Gesù, anche “i suoi fratelli”, con l’articolo, ma senza nominarli, appunto come in At 1,14.

(95) Il fatto che essi siano menzionati dopo le donne, insinuerebbe il dubbio - secondo Charlier - che Luca o la Chiesa abbia voluto emarginare, in qualche misura, i parenti del Signore (cf J.-P. Charlier, o.c., 76-77). Ma il testo non sembra autorizzare tali sospetti.

(96) C.M. Martini, Atti degli Apostoli, Roma 51979, 62, nota 14.

(97) Si pensi, in particolare, alla figura di Giacomo, "fratello del Signore" che presiede la stessa comunità (cf At 12,17; 21,18). Si tenga presente inoltre che - fatto non meno significativo - a Giacomo succede Simeone, "cugino del Signore" (cf Eusebio, Stor. Eccl.,IV, 22, 4): "La Chiesa di Gerusalemme annette dunque un'importanza decisiva ai legami del sangue; in assenza del "Signore" è al suo parente più stretto che spetta l'autorità...Ma il punto di vista di Luca è diverso. Egli mira a collegare Giacomo a Pietro. La menzione ch'egli fa del personaggio in 12,17 ha solo lo scopo di preparare il ruolo ch'egli svolgerà nel "concilio" di Gerusalemme" (cf J. Dupont, I ministeri della Chiesa nascente, a.c., 148).

(98) Per l'aspetto edificante del libro degli Atti, cf E. Haenchen, o.c., 114-120.

(99) Cf ivi, 161.

(100) "...ed erano continuamente nel tempio, lodando Dio".

(101) Alla preghiera, il testo aggiunge la diaconia della parola, ribadendo l'elemento tipico del ministero apostolico: rendere testimonianza alla risurrezione del Signore (cf At 1,22).

La religione tende sempre a mettersi al posto di Dio, a far sì che le persone cerchino Dio attraverso di essa. Per questo molti credono che Dio o lo si trova nei culti e nelle cerimonie religiose oppure non lo si trova in nessuna altra parte.

Le riflessioni che qui presento non intendono in alcun modo costituire una critica alla dottrina e alla disciplina ufficiale della Chiesa. E neppure intendono entrare nei problemi della cosiddetta pastolare degli omosessuali: certo la gravità e l’urgenza di questi problemi, insieme al dramma interiore dei soggetti e degli operatori che devono affrontarli, indicano che la ricerca teorica deve essere approfondita.

Il monaco e l'Eucaristia
di P. D. Donato Ogliari osb

Tra le gemme più belle incastonate in quell'edificio spirituale che è la Regola di san Benedetto, vi sono due aforismi pressoché identici che i seguaci del santo Pa­triarca non tardano ad imprimere nella loro mente e a porre come sigillo sul loro cuore. Il primo di questi aforismi raccomanda ai monaci di "non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e il secondo, dopo aver affermato che "primo passo dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio", precisa che "questa è proprio di coloro che ritengono di non avere nulla di più prezioso di Cristo" (RB 5,2).

Se anche san Benedetto non avesse detto altro di Cristo, basterebbero queste due brevi ma dense pennellate a delineare la centralità che egli attribuisce alla persona del Cristo nella vita del monaco. Il Figlio di Dio fatto uomo è, infatti, il cuore della giornata monastica, il suo centro di attrazione e di propulsione. Grazie a Lui, e alla sequela di Lui, s'illumina, prende slancio e si invigorisce quella diuturna ricerca del volto di Dio nella quale si dipana l'esistenza quotidiana del monaco.

È alla luce di questo cristocentrismo, che anche l'Eucaristia (nonostante che san Benedetto la celebrasse coi suoi monaci solo una volta alla settimana, di do­menica) ha finito con l'entrare in maniera decisiva nella trama giornaliera della comunità monastica, incastonandosi all'interno della sua architettura orante, là dove la comunità si radica e si costruisce giorno dopo giorno. L'Eucaristia è dive­nuta così quella "cifra sintetica" nella quale la ricerca di Dio, condotta dal mona­co alla scuola di Cristo e del suo Vangelo, è racchiusa, e nella quale s'inverano simultaneamente lo spatium mysterii e lo spatium caritatis.

Spatium misterii

La presenza reale del Cristo nella celebrazione eucaristica, sia nella Parola proclamata sia, soprattutto, nelle specie eucaristiche - dove tale presenza rag­giunge il massimo grado - diventa il luogo della concentrazione, lo spatium misterii nel quale la ricerca monastica trova il suo quotidiano approdo e la sua ragion d'essere. Nell'Eucaristia il monaco si consegna al Mistero Santo di Dio, resosi pienamente manifesto nella morte e risurrezione di Cristo. Lì, a contatto con tale mistero, il monaco ridice ogni volta daccapo il suo umile "sì", e accondiscende ad essere conformato al disegno di amore del Padre che ha preso forma definitiva nel Mistero pasquale del Cristo suo Figlio.

Ogni volta che partecipa alla mensa eucaristica, il monaco è sospinto a ritrovare nel Cristo il senso della propria esistenza e a trasformarla quotidianamente, sull'esempio di Lui, in un gesto di amore. Nell'Eucaristia, le parole evangeliche "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà (Lc 9,24) acquistano agli occhi del monaco il loro pieno significato. Lì egli ritrova, in maniera sempre nuova, il fulcro della sua vocazione, del suo vivere e del suo bruciare di quella stessa immolazione del Cristo che, offrendosi per la nostra salvezza, spalanca agli uomini gli orizzonti illimitati del cuore com­passionevole di Dio.

Spatium caritatis

monastica, quale memoriale di una vita "persa" agli occhi del mondo, ma "salvata" e trasformata in Colui che vive per sempre, è chiamata a sua volta, e secondo il suo specifico carisma, ad irradiarsi. Il perdersi del monaco in Cristo, il suo essere nascosto con Lui in Dio, non lo rende infatti avulso dalla storia e dalla compagnia degli uomini, ma, al contrario, proprio perché vulnerabile al Mistero di Dio manifestato nel Figlio Gesù, egli è sospinto a divenire un testimone sempre più luminoso e profetico della salvezza e della totalità di senso che egli trova nel Cristo. Ed è proprio alla luce di questa verità, di cui si fa umile servitore, che il monaco è costantemente rinviato a quella forza primigenia contenuta nell'Eucari­stia, e che si traduce nello spatium caritatis.

Vi è un singolare episodio nella vita di Benedetto, quando questi era ancora giovane eremita nascosto agli occhi del mondo, che illustra molto bene la ricerca di Dio, che ha il suo fulcro nel Cristo pasquale e non può non avere, come suo naturale sbocco, l'attenzione e l'amore ai fratelli. Narra dunque il biografo di Benedetto:

e sedettero. Dopo aver parlato di varie cose spirituali, il sacerdote esclamò: 'Orsù, mangiamo! Oggi è Pasqua'. L'uomo di Dio rispose: 'Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!'. Infatti, vivendo lontano dalla gente, il santo non sapeva che proprio quel giorno fosse la solennità di Pa­squa. Il sacerdote riprese: 'Oggi è davvero la Pasqua di risurrezione del Signore. Non ti è permesso perciò fare digiuno. E io sono stato mandato proprio per que­sto, perché prendiamo insieme i doni dell'Onnipotente'. Così, benedicendo Dio, presero cibo insieme" (Gregorio Magno, Dialoghi II, 1).

Benedetto, sprofondato e assorto nelle cose di Dio, si era reso conto che era Pasqua soltanto alla vista del sacerdote che lo aveva a lungo cercato e finalmente trovato. E come se la sua coscienza si fosse, per così dire, risvegliata di fronte al Cristo presente in quel fratello che gli aveva fatto visita e che ora gli stava accan­to: "Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!", esclama Benedetto.

L’Eucaristia è proprio quello spatium caritatis che segna quotidianamente i passi del monaco. In questo "spazio" egli si immerge ogni giorno non solo per "gu­stare e vedere quanto è buono il Signore" (cf Sal 33,9), ma anche per ritrovare la forza e la gioia di farsi carico del fratello, capace di scorgere, al di là dell'epidermi­de, i doni a cui egli è portatore e che, ultimamente, provengono dal Signore.

non possia­mo accostare chi ci sta accanto mantenendo le nostre prevenzioni e i nostri pre­giudizi nei suoi confronti. Per cogliere la presenza del Risorto in ogni fratello occorre affidarsi alla novità dello Spirito che rende i nostri occhi capace di scor­gere l'inedito al di là di ciò che diamo per scontato.

Chiarificazione e obiezione

meglio, sulleorme del Cristo, l'oblazione di sé, quale inveramento della ricerca di Dio. Nell'Eucaristia, infatti, la sequela Christi è chiamata a trovare un riscontro nella traduzione concreta di quella consegna che Gesù ha lasciato ai suoi nell'Ul­tima Cena: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34), consegna che toglie il diritto di cittadinanza ad ogni egoistica inerzia e ad ogni forma di autosufficienza.

Lì, nell'Eucaristia, l'immolazione libera e obbediente del Figlio al disegno salvifico del Padre diventa la cattedra quotidiana dalla quale il monaco attinge quotidianamente la forza necessaria per spezzare la propria vita, insieme con Gesù, nell'umile e gratuito servizio dei fratelli, sorretto dalla gioia e dalla luce dello Spirito.

(Da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005)

Appunti sull'ecclesiologia del Vaticano II
di Erio Castellucci

Dire «ecclesiologia del Vatica­no II» è dire, semplicemente «Vaticano II»: come è noto, infat­ti, l'ultimo concilio ecumenico ha scelto un unico grande tema di fon­do, sul quale ha modulato tutte le sue note: la Chiesa. Ma trattare della Chiesa non ha voluto dire, per i padri e i periti conciliari, fermarsi a un'autocontemplazione compia­ciuta, bensì individuare le sorgen­ti della sua vita e attività, precisar­ne modalità, relazioni, fini.

Le quattro Costituzioni conci­liari costituiscono i grandi punti cardinali che orientano il cammino della Chiesa: la Sacrosantum con­cilium ne approfondisce la dimen­sione liturgica ed eucaristica; la Dei Verbum mette in rilievo la centra­lità della Parola di Dio (Scrittura e Tradizione); e la Gaudium et spes articola il rapporto con il mondo nelle svariate e complesse dinami­che in esso implicate, all'insegna dell'unico grande criterio della condivisione e della carità. Queste tre costituzioni articolano così i tre grandi pilastri sui quali l'edificio ecclesiali si regge e cresce: la Li­turgia, la Parola e la Carità.

La Lumen gentium, in questo quadro, emerge come la «magna charta» del Vaticano Il, e in quanto tale ne raccoglie ed esprime tut­ti gli elementi ecclesiologici es­senziali. Se in essa convergono lo­gicamente le altre tre costituzioni conciliari, da essa si diramano i de­creti e le dichiarazioni: i decreti Unitatis redintegratio sull'ecume­nismo e Orientalium Ecclesiarum sulle Chiese orientali cattoliche so­no quasi l'espansione di LG 15, co­sì come la dichiarazione Nostra ae­tate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane lo è di LG 16; il decreto Ad gentes sull'attività missionaria della Chiesa riprende e approfondisce il tema già abbozza­to in LG 17; il decreto Christus Do­minus sull'ufficio pastorale dei ve­scovi articola e traduce gran parte del terzo capitolo di LG (18-27); i decreti Presbyterorum ordinis sul ministero e la vita dei presbiteri e Optatam totius sulla formazione sa­cerdotale approfondiscono la teo­logia e spiritualità dei presbiteri, an­che in chiave formativa, concen­trata in LG 28; il decreto Apostoli­cam actuositatem sull'apostolato dei laici è quasi una traduzione ope­rativa del quarto capitolo di LG (30-38), così come il decreto Perfectae caritatis sul rinnovamento della vi­ta religiosa del sesto (43-47). I tre documenti non compresi in questa ramificazione mettono in luce altri aspetti della vita ecclesiale non direttamente tematizzati da LG: l'im­portanza dei mezzi di comunica­zione sociale per l'annuncio del Vangelo (decreto Inter mirifica), la natura e gli scopi dell'educazione cristiana nel mondo attuale (di­chiarazione Gravissimum educa­tionis) e la libertà religiosa in rap­porto alla missione ecclesiale (dichiarazione Dignitatis humanae).

La molteplicità e complessità dei documenti rende impensabile offrire un quadro anche solo ap­prossimativo dell'ecclesiologia del Vaticano II in poche pagine. Indichiamo piuttosto alcune idee-gui­da di LG - quasi degli slogan bre­vemente commentati - di cui oggi appare particolarmente urgente il recupero: anche perché in buona parte disattesi. Data l'indole del presente contributo e lo spazio a di­sposizione non riportiamo indica­zioni bibliografiche, con l'ecce­zione dell'ultimo «manuale» di ec­clesiologia in lingua italiana, dove si potrà reperire una bibliografia pressoché completa in merito al no­stro argomento. (1)

1. La Chiesa non è semplice­mente società e Corpo mistico di Cristo, ma anche e primariamente sacramento e mistero tri­nitario. Nel primo capitolo di LG (1-8) sono poste le basi teologiche per l'inserimento della Chiesa nel­la storia salvifica, cioè per una ecclesiologia misterica.

La cosiddetta concezione «so­cietaria» e visibilista di Chiesa, ac­centuata dalla reazione dei contro­riformisti nei confronti dell'«invi­sibilismo» protestante e arricchita nell'Ottocento dal motivo della «societas perfecta, inaegualis, hie­rarchica», in polemica contro le in­gerenze degli stati verso la Chiesa, venne ridimensionata e fu integra­ta già dalla Mystici Corporis di Pio XII (1943) nella concezione teolo­gicamente più profonda della Chie­sa come «corpo mistico di Cristo», dove ritornava in primo piano la presenza attuale e vivificante del Signore nella Chiesa. Il Vaticano II operò, a sua volta, un altro ridimen­sionamento e un'ulteriore integrazione, estendendo le radici teolo­giche della Chiesa all'intera storia della salvezza. La Chiesa, per il concilio, non è solo una società (cf. quanto resta di questa ecclesiolo­gia, riveduta e corretta, soprattutto in LG 8, 9 e 14) e neppure sempli­cemente il corpo mistico di Cristo (cf. l'assunzione di questa imma­gine in LG 7): è, più ampiamente, opera trinitaria (cf. LG 2-4).

Da questo squarcio di orizzon­ti derivano alcune importanti im­plicazioni. Il Vaticano Il, prima di tutto, ha evitato di legare a tal pun­to l'origine della Chiesa alla vo­lontà esplicita di Gesù prima della Pasqua, da farne un elemento de­cisivo di legittimazione ecclesiale. Nell'impostazione precedente di­ventava irrinunciabile la dimostra­zione della «storicità» di certe pa­role di Gesù in ordine alla Chiesa (che sostanzialmente si concentravano nel brano di Mt 16,16-19), per difenderne l'istituzione divina. Il concilio, conoscendo la questione e le innumerevoli dispute svoltesi in merito dall'inizio del XX seco­lo, nell'aggancio cristologico di LG 3 da una parte si attiene ai dati più sicuri della critica storica («Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero») e dall'altra presenta chiaramente il mistero pasquale come punto d'in­nesto «pieno» della Chiesa nel mi­stero di Cristo: l'inizio e la cresci­ta della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che usci­rono dal costato aperto di Gesù crocifisso»...

Ma LG non si ferma a questo primo allargamento di orizzonti e ne opera, come accennato, un se­condo: la Chiesa affonda le sue ra­dici non sul solo mistero cristolo­gico bensì sull'intero mistero trini­tario. La storia teologica della Chie­sa, come illustra LG 2, inizia, in­fatti, nell'atto stesso della creazio­ne dell'universo, continua nella vo­lontà di Dio di radunare gli uomi­ni non singolarmente ma come po­polo e nell'elezione di Israele. Que­sta medesima storia, poi, procede dopo la Pasqua: LG 4, intarsio di citazioni bibliche, ricorda gli innu­merevoli risvolti dell'azione dello Spirito nella vita della Chiesa. Il tutto si può riassumere con le af­fermazioni che la Chiesa «già pre­figurata sino dal principio del mon­do, mirabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'antica alleanza e istituita “negli ultimi tempi", è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli» (LG 2); essa è, come affer­ma Cipriano, «un popolo adunato dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cit. in LG 4).

La coestensione della Chiesa al­la storia salvifica si può esprimere con i concetti di mistero (cf. il ti­tolo dell'intero primo capitolo di LG) e sacramento (cf. LG 1). Il pri­mo concetto fa risaltare le dimen­sioni inimmaginabili della Chiesa, che non è semplice aggregazione umana ma opera trinitaria; il se­condo concetto mette in rilievo la compresenza e coessenzialità nel­la Chiesa di umano e divino (cf. LG 8), trascendente e storico: per cui la Chiesa conciliare non è né un'en­tità spirituale che sorvola la storia né, inversamente, una società uma­na tra le altre. Dal rinnovamento conciliare delle radici teologiche della Chiesa discende dunque la ne­cessità di una vera e propria «con­versione» dai modi più superficia­li (diffusi purtroppo anche tra gli stessi cristiani praticanti) di inten­derne la vita e la missione.

2. La Chiesa non è formata solo dal sacerdozio ministeriale e gerarchico, ma anche e fondamentalmente dal sacerdozio bat­tesimale di tutto il popolo di Dio.

Il Vaticano II, specialmente nel ca­pitolo secondo di LG (9-17), po­ne le basi teologiche per una ec­clesiologia comunionale e, all'in­terno di essa, per una riflessione rinnovata sulla teologia del mini­stero ordinato e del laicato. La ri­duzione «gerarcologica» dell'ec­clesiologia - secondo l'efficace espressione di Y. Congar - che giunge alle soglie del Vaticano Il e bussa alla sua porta, viene radi­calmente corretta ed integrata dal concilio.

La concentrazione dell'idea di «Chiesa» nel clero, e più ancora nell'episcopato, quando non addi­rittura nel solo papato, venne a po­co a poco allentata dai testi conci­liari attraverso il recupero della no­zione di «popolo di Dio» come de­scrizione globale e più adeguata della Chiesa. Si può dire che il po­polo di Dio è il soggetto storico e umano della Chiesa, mentre la Tri­nità ne è il soggetto misterico e di­vino.

La famosissima inversione dei capitoli secondo e terzo di LG per cui ora risulta che la trattazio­ne sul popolo di Dio precede quel­la sulla gerarchia - è fortemente simbolica dell'enorme balzo com­piuto dal Vaticano II. La realtà ec­clesiale di base è quella battesima­le-cresimale-eucaristica, che com­prende tutti i membri del popolo di Dio; questa realtà poi si specifica di diverse direzioni, ruoli e compi­ti, alcuni legati alla natura della Chiesa e altri solo a certi momen­ti della sua storia. Il ministero or­dinato, dentro al popolo di Dio - non sopra accanto - svolge la funzione di richiamare efficace­mente l'origine continua della gra­zia, Cristo risorto nello Spirito, che continua a donarsi attraverso la Pa­rola, i Sacramenti e la Carità. La connotazione «battesimale» dell'ecclesiologia conciliare ha per­messo quindi di collocarvi il sa­cerdozio ordinato nella sua luce più adeguata, che è quella «ministeria­le». Si apre così lo spazio per un'ef­fettiva missione dei laici nella Chiesa e nel mondo, in quanto es­si sono a pieno titolo - in virtù del battesimo e della fede - compo­nenti del popolo di Dio e quindi «soggetti» ecclesiali: e come tali collaboratori e corresponsabili e non semplici esecutori.

Anche questo secondo aspetto è lungi dall'essere assorbito nella co­scienza teorica e pratica dei cri­stiani. Per quanto sia sempre più frequente l'affermazione che la Chiesa è composta da «tutti noi», perdura la convinzione che «la» Chiesa è in realtà concentrata sul­la gerarchia. Sono ancora poco sviluppati - o maldestramente percor­si - i sentieri riaperti dal Vaticano II con la dottrina del «sacerdozio comune», del «senso di fede» e del­la dimensione carismatica di tutto il popolo di Dio (cf. LG 10-12).

3. La missione della Chiesa non è una fase episodica e pas­seggera della sua vita e attività, ma la sua stessa natura. È la base teologica per un'ecclesiologia mis­sionaria che superi le riduzioni ere­ditate nel corso degli ultimi secoli.

Una riduzione, prima di tutto, orizzontale: il discorso sulla mis­sione non veniva condotto avanti teologicamente per l'intera Chiesa, ma solo per alcuni suoi membri, sia nel campo extraecclesiale che in quello intraecclesiale. In campo ex­traecclesiale veniva chiamata missione solo l'opera che alcuni uo­mini conducevano nel mondo non ancora evangelizzato: in tal modo si era creata la mentalità della de­lega, per la quale la missione era demandata ad alcuni, detti appun­to «missionari». In campo intraec­clesiale la missione veniva riser­vata ai preti e ai vescovi. Se inte­sa, infatti, in senso ampio, essa in­dicava l'azione salvifica della Chiesa: questa azione salvifica, però, era ricondotta all'attività sa­cramentale dei sacerdoti nei con­fronti dei fedeli, così che i primi erano considerati i soggetti e i se­condi i destinatari della missione, mentre il rapporto dei laici con le realtà temporali non era ancora considerato parte dell'attività sal­vifica vera e propria della Chiesa. Se intesa invece in senso stretto, la missione indicava l'abilitazione giuridica che veniva data al sacer­dote per esercitare il suo potere di ordine nella comunione ecclesiale (missio canonica racchiusa all'in­terno della potestas iurisdictionis).

La seconda riduzione - pasto­ralmente conseguente ma teologi­camente precedente la prima - si può definire verticale: non si par­la, se non sporadicamente, di Chie­sa per natura missionaria fino al Vaticano II. Il concilio ha posto in­vece la dimensione missionaria al centro stesso della sua ecclesiolo­gia, facendo della missione non più un tema occasionale e periferico, ma una dimensione irrinunciabile dell'ecclesiologia: la Chiesa è es­senzialmente missionaria; la missione è la sua stessa natura e non esiste per altro se non per portare Cristo al mondo. Mentre fino al no­stro secolo si tendeva a dire che la missione è solo un momento della Chiesa - momento che avrà fine quando tutto il mondo sarà cristia­no - il concilio, accogliendo sti­moli dalla teologia precedente, ha precisato che la missione non ces­serà mai, perché appartiene alla na­tura della Chiesa. Prima del conci­lio si trascurava la radice teologi­ca della missione, che è l'opera tri­nitaria: è la missione del Figlio da parte del Padre e la missione dello Spirito da parte del Padre e del Fi­glio a costituire la Chiesa. Proprio in forza della missione trinitaria la Chiesa - tutta la Chiesa - è proiet­tata fuori di sé, verso il mondo. E la grande inquadratura di LG 2-4 e AU 2-4, che culmina nella seguen­te affermazione riassuntiva: «La Chiesa peregrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (AU2).

La missionarietà come dato es­senziale, perché impronta trinitaria e connotazione comune dei battez­zati, non sembra ancora caratteriz­zare le comunità cristiane. Da più parti, anche molto autorevoli, si la­menta ancora, almeno nella Chie­sa italiana, un'eccessiva cura ver­so la conservazione dell'esistente (strutture, tradizioni e usi...) e una scarsa audacia missionaria. Sia Novo millennio ineunte di Giovanni Paolo II che Comunicare il Vange­lo in un mondo che cambia della CEI, invitano ad adottare decisa­mente il paradigma della missione: segno che ancora la coscienza e la prassi ecclesiale sono lontane dall'averlo fatto.

4. La Chiesa non è solo l'uni­versalità del popolo di Dio, ma anche e inseparabilmente la co­munità locale dei fedeli raccolti attorno al vescovo. È la base per una teologia della Chiesa locale che riconosca spessore alla dioce­si e, subordinatamente, alla par­rocchia. Il testo che fece da «pioniere» si trova, notoriamente, in SC 41: «La principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipa­zione piena e attiva di tutto il po­polo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla me­desima preghiera, al medesimo al­tare cui presiede il vescovo, cir­condato dal suo presbiterio e dai ministri». Più volte definito «svol­ta copernicana», questo testo ac­coglie in casa cattolica l'ecclesio­logia eucaristica ignaziano-orien­tale, considerando la Chiesa come realtà sacramentale prima che co­me realtà societaria. In quest'otti­ca, dunque, la «più alta manifesta­zione della Chiesa» non consisterà nell'esercizio del potere primazia­le ai massimi livelli (era questa l'accentuazione del Vaticano I), bensì nella compresenza della ce­lebrazione eucaristica, del popolo di Dio che partecipa attivamente e pienamente, e del ministero nei suoi vari gradi, compresa la pie­nezza episcopale.

La prospettiva è ripresa in LG 26, dove si legge tra l'altro che nel­le comunità eucaristiche locali, «sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del qua­le si raccoglie la Chiesa, una, san­ta, cattolica e apostolica». Ma è so­prattutto LG 23 che, nel contesto della trattazione sulla collegialità episcopale, presenta le affermazio­ni più rilevanti sulla Chiesa locale: parla infatti delle «Chiese partico­lari, formate a immagine della Chiesa universale, nelle quali e a partire dalle quali esiste la sola e unica Chiesa cattolica». Il rappor­to Chiesa particolare/Chiesa uni­versale non è di somma o sottra­zione. Il testo citato delinea piut­tosto tale rapporto in due direzio­ni: dalla Chiesa universale alla Chiesa particolare è di immanen­za: «tutta» la Chiesa è presente «nelle» Chiese particolari, le quali sono «immagine» della Cattoli­ca; dalla Chiesa particolare alla Chiesa universale è di origine: «tutte» le Chiese conducono a forma­re la Chiesa universale, poiché è «a partire dalle» singole Chiese parti­colari che si forma concretamente la Cattolica.

Una Chiesa particolare/locale non è dunque semplicemente una parte di Chiesa, ma è tutta la Chie­sa presente in quel luogo, perché in essa è presente tutto il mistero di Cristo e non solo una sua parte. Con l'aiuto di CD 11, non è diffi­cile individuare gli elementi costi­tutivi della Chiesa particolare: il Vangelo, l'Eucaristia, il vescovo, l'azione dello Spirito Santo. E quindi presente l'intero mistero di Cristo nella Parola di Dio, che ri­suona integralmente in ogni Chie­sa locale; nei sacramenti, special­mente nel ministero pastorale del vescovo, guida di ogni Chiesa lo­cale, e in sommo grado nell'Euca­ristia, celebrata in ogni Chiesa lo­cale; è presente l'intero mistero di Cristo, infine, nello Spirito di ca­rità che si irradia in ogni Chiesa lo­cale, con doni, carismi e ministeri diversi. L'unità della Chiesa, così, deriva dalla presenza integrale dell'unico mistero di Cristo in ogni comunità eucaristica presieduta dal vescovo.

Il Vaticano II, pur senza ap­profondirla, ha così offerto gli spunti per una vera e propria «teologia della Chiesa particolare/lo­cale». È chiaro che non si tratta di contrapporre la dimensione locale a quella universale della Chiesa:

ogni singola comunità presieduta dal vescovo è davvero «Chiesa» so­lo se si trova in comunione con tut­te le altre Chiese nel mondo; co­munione espressa e garantita dalla Chiesa di Roma. Non è più in virtù di un principio solamente giuridi­co che emerge la necessità della co­munione con la sede di Pietro, ma in virtù di un principio anzitutto teologico: non esiste «Chiesa» se non nella comunione universale. Sembra però che oggi, anche da settori autorevoli del cattolicesimo, si ricada ogni tanto e di nuovo in quel modello di assorbimento del locale da parte dell'universale che il Vaticano II in linea di principio aveva superato, mostrando la reci­procità dei due aspetti. E sempre in agguato la tentazione «centralisti­ca», che trascura la ricchezza teo­logica, spirituale e pastorale delle singole Chiese. E prevedibile che il lavoro di riequilibrio fra unità e molteplicità in questa chiave ec­clesiologica continuerà ancora a lungo.

5. La «Chiesa di Cristo» non è semplicemente identica alla «Chiesa cattolica», ma «sussiste in» essa. Esiste quindi un'appar­tenenza non piena ma reale alla Chiesa. È la base teologica per un rinnovato ecumenismo, che ap­prezzi gli elementi ecclesiali pre­senti anche nelle altre comunità cri­stiane. LG 8 rappresenta un vero e proprio «progresso» in campo ecu­menico, laddove afferma: «Questa Chiesa, in questo mondo costitui­ta e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, go­vernata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo orga­nismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di ve­rità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l'unità cattolica». Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica: l'a­dozione dell'espressione «subsistit in», anziché del precedente «est», consente di superare quella stretta identificazione fra Corpo mistico e Chiesa cattolica che si trovava ancora nella Mystici Corporis di Pio XII. L'espressione «subsistit in» fu intenzionalmente sostituita a «est», proprio per superare l'identificazione pura e semplice e permettere il riconoscimento delle caratteristiche ecclesiali di altre co­munità cristiane, salva restando la persistenza indefettibile dell'unica Chiesa di Cristo nella Chiesa cat­tolica (cf. UR 4). Allo stesso sco­po tende, in maniera più esplicita, l'ulteriore precisazione che parec­chi elementi di santificazione e di verità, pur trovandosi fuori della Chiesa cattolica visibile, sono do­ni propri della Chiesa di Cristo, e quindi spingono verso l'unità cat­tolica.

Un'altra importante e famosis­sima affermazione ecumenica si trova in LG 14: «Sono pienamen­te incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo spiri­to di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essi istituiti»... L'attuale plene sostituisce il reapse della Mystici Corporis, aprendo quindi lo spazio a forme di appartenenza reali ma incomplete, quali quella dei fratel­li di altre confessioni cristiane. Questi principi verranno ripresi e applicati in LG 15 e in UR.

La mancata identificazione pu­ra e semplice tra «Chiesa di Cristo» e «Chiesa cattolica» e l'ammissio­ne di un'appartenenza «non piena» ma reale alla Chiesa, unite al prin­cipio della «gerarchia delle verità» formulato in UR 11 («esiste un or­dine o "gerarchia" nelle verità del­la dottrina cattolica, essendo diver­so il loro nesso col fondamento del­la fede cristiana»), hanno favorito grandi passi nel cammino ecume­nico: ne sono testimonianza, tra l'altro, l'enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II (1995) e la Di­chiarazione congiunta sulla giusti­ficazione firmata da cattolici e luterani nel 1999 ad Asburgo; testi il cui contenuto sarebbe stato del tut­to impensabile senza queste gran­di aperture del Vaticano II. La sfi­da, in questo settore, è soprattutto di carattere «esperienziale»: le co­munità cattoliche, provocate dalla presenza e dalla testimonianza di fratelli di altre confessioni cristia­ne, sono invitate a dialogare e te­stimoniare a loro volta la fede cat­tolica; nella persuasione reciproca - quanto diffusa? - che il dialogo non è automaticamente perdita di identità (solo chi non è sereno e persuaso della propria identità ha paura di dialogare) ma stimolo a re­cuperare l'essenziale e distinguer­lo da ciò che è secondario.

6. La Chiesa non è identica al Regno, ma ne è il germe e l'ini­zio (cf. LG 3 e 5): è la base teolo­gica per il riconoscimento di semi del Verbo ed elementi di verità e salvezza anche fuori dei confini della Chiesa visibile, cioè per una nuova impostazione del tema in­terreligioso (cristianesimo e altre grandi religioni) e interculturale (Chiesa e mondo).

Il testo basilare per il rapporto interreligioso è LG 16 dove, rife­rendosi a coloro che non hanno an­cora ricevuto il Vangelo, si affer­ma: «Tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dal­la Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita». Anche LG 17 valuta positivamente l'am­bito non-cristiano: questa volta, però, non solo dal punto di vista delle singole persone ma anche da quello, più impegnativo, delle re­ligioni e delle culture in quanto ta­li: «con la sua attività, essa (=la Chiesa) fa in modo che ogni ger­me di bene (quidquid boni... semi­natum) che si trova nel cuore e nel­la mente degli uomini o nei riti e nelle culture proprie dei popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e perfezionato». NA 2, poi, afferma: «La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Es­sa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quan­tunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e pro­pone, tuttavia non raramente ri­flettono un raggio (radium) di quella Verità che illumina tutti gli uomini».

Vi sono altri riferimenti che an­drebbero menzionati (in AU 3, 9, lì e 18; in US 22 e 92, ecc.): ma già questi sono sufficienti a rile­vare come il Vaticano II abbia impostato una valutazione delle al­tre religioni non più in chiave di sospetto o rifiuto, bensì di acco­glienza, discernimento e valoriz­zazione. Il concilio ragiona preva­lentemente in termini cristologici, ispirandosi soprattutto alla teolo­gia dei semina Verbi di Giustino: il mistero di Cristo, presente pienamente nella Chiesa, è pure presen­te - a diversi livelli - nelle altre tradi­zioni religiose. Giovanni Paolo II, nell'enciclica Redemptoris missio (1990) riprenderà la prospettiva an­che in chiave pneumatologica, in­vitando a valorizzare gli elementi che lo Spirito suscita anche nelle altre religioni (cf. specialmente 28-29). Il concilio non ha precisato i modi di questa presenza né ha esplicitamente trattato il problema del valore salvifico delle religioni non cristiane: si è limitato - e non è comunque poco - a tracciare il solco per la riflessione teologica successiva.

Analogo è il discorso sul rap­porto interculturale, almeno per ciò che attiene ai principi di fondo. Il testo-base è in questo cam­po senza dubbio il capitolo secon­do della parte seconda di US: «La promozione del progresso della cultura» (53-62); qui sono elènca­ti prima di tutto rischi e opportu­nità che il mondo odierno presen­ta all'annuncio del Vangelo, così che i «fatti deplorevoli non scatu­riscono necessariamente dall'o­dierna cultura, né devono indurci nella tentazione di non riconosce­re i suoi valori positivi», i quali vengono addirittura indicati come una praeparatio evangelica (cf. 57). In questo contesto complesso, afferma US 58, la Chiesa da una parte evita di legarsi in modo esclu­sivo e indissolubile a una qualche cultura, ma dall'altra è in grado di entrare in comunione con le più differenti forme; ed è una comu­nione che arricchisce sia la Chie­sa che le culture: il Vaticano lì adotta così uno schema bi-direzionale (si trovava già in US 40 e 44), che permette di fondare un vero e proprio «dialogo» con le culture, cioè un reciproco dare-avere. Il dialogo nulla toglie alla missione, se è vero che - come continua lo stesso paragrafo il vangelo di Cri­sto rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali derivanti dal peccato, purifi­ca ed eleva la moralità dei popoli, feconda dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di cia­scun popolo.

Chi vuole restare fedele all'impostazione del Vaticano II - una tensione dei germi veri e santi, presenti dovunque in differen­te misura, verso il loro compi­mento nel mistero di Cristo - imposta un rapporto con le altre re­ligioni, le altre culture e i loro ap­partenenti in termini di dialogo e annuncio insieme: non solo dialo­go, che si risolverebbe in eserci­zio di pluralismo relativistico; né solo annuncio, che rischierebbe di portare a un neo-colonialismo mis­sionario; dialogo e annuncio si im­plicano e richiedono a vicenda, e l'equilibrio tra i due sembra an­cora piuttosto lontano dalla porta­ta delle nostre comunità cristiane e di tanti singoli battezzati, che sembrano oscillare continuamen­te tra le due forme estreme e più facili del relativismo e dell'inte­gralismo.

«Appunti» si intitolano queste pagine: il paziente lettore constata a questo punto che non si tratta di umiltà fuori posto, ma di una realtà innegabile: il Vaticano II è talmen­te ricco, complesso e... in buona parte inattuato, che solo una lunga consuetudine personale con i suoi testi e un'altrettanto lunga serie di esperienze pastorali potranno ve­ramente «recepirlo».

1) S. DIANICH - S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana Brescia 2002.

I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi





È impossibile parlare di Babilonia in una prospettiva culturale ampia senza rifarsi ai testi biblici. Oltre che in Genesi 11 e nell’Apocalisse di Giovanni, testi a valenza mitica e simbolica, Babilonia appare nella Bibbia in un periodo ben determinato, quello dei profeti Geremia, Ezechiele e del Secondo Isaia, il periodo del Nuovo Impero Babilonese (605-539). Il regno di Giuda, che era in una posizione-cerniera tra la potenza babilonese e l’Egitto, si trovò preso in un’autentica tempesta. Con la caduta di Ninive nel 612, Babilonesi e medi avevano dato il colpo di grazia all’impero assiro. Nel 605, Nabucodonosor inflisse una cocente sconfitta al faraone. Per un certo tempo, Giuda oscilla tra questi due protagonisti, prima di cadere nell’orbita babilonese. La prima deportazione nel 597, poi la caduta di Gerusalemme nel 587 significano l’influenza totale di Babilonia. È in questo contesto che bisogna situare gli interventi profetici.

GEREMIA: LA SOTTOMISSIONE


A partire dal momento in cui gli Egiziani sono sconfitti da Nabucodonosor a Karkemiš, nel 605, il nemico del Nord, di cui Geremia aveva predetto la venuta quale castigo per Giuda, si precisa: sono i Babilonesi. Ma curiosamente, il profeta va a chiedere la sottomissione al re di Babilonia. Come spiegare questa posizione che lo fece considerare un collaborazionista dai suoi compatrioti?

Questa pressi di posizione antinazionalista si manifesterà in circostanze diverse. Prima di tutto la si scopre nel testo di Geremia 27,1-11. Siamo nel 594-593, sotto il regno di Sedecia.


«PROCURATI UN GIOGO E METTILO SUL TUO COLLO»


Il cambiamento del sovrano in Egitto suscita in alcuni vassalli di Nabucodonosor delle speranze di indipendenza. Una riunione di «ribelli» ha luogo a Gerusalemme: Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone rispondono all’appello. È allora che Geremia riceve dal Signore uno strano ordine: procurarsi un giogo, metterselo sul capo e presentarsi così davanti agli inviati dei regni vicini.

Il messaggio è chiaro: il Dio del cielo e della terra ha sottomesso tutti i popoli a Nabucodonosor. Chi si sottomette vivrà. Altrimenti sarà la disfatta e la morte certa. Nel suo oracolo, il profeta attribuisce a Nabucodonosor uno dei titoli più prestigiosi della monarchia in Giuda: egli è il «servo del Signore». Per Geremia, il Dio dell'universo si preoccupa di tutti i popoli e, nel suo disegno, Nabucodonosor ha un posto essenziale. Adesso, gli ha dato ogni potere. Ribellarsi contro di lui equivale a ribellarsi contro il Dio di Israele.

Da quel momento, la posizione del profeta diventerà sempre più delicata. Egli infatti non si accontenta di trasmettere questo messaggio di sottomissione, ma moltiplica i suoi interventi per far «passare» il suo punto di vista. Così, in questo stesso capitolo 27, altri due oracoli riaffermano che bisogna sottomettersi e annunciano la totale rovina se la ribellione si concretizza.


UN MESSAGGIO OSTINATO IN FAVORE DELLA SOTTOMISSIONE


Molto chiaramente, egli si oppone agli altri profeti e ai responsabili del regno: mette in guardia i suoi ascoltatori contro coloro che predicano la ribellione, affronta il profeta Anania che, da parte sua, annuncia la liberazione dal giogo babilonese «entro due anni» (28,3). Scrivendo ai deportati di Babilonia, consiglia loro di prevedere un esilio lungo, di stabilirsi in terra straniera e di non ascoltare coloro che annunciano un rapido ritorno (c. 29).

Dopo la caduta di Gerusalemme e l'attentato contro Godolia, il governatore posto dai Babilonesi in Giuda, Geremia raccomanda ancora a un gruppo di Giudei atterriti dalle conseguenze di questo assassinio di rimanere nel paese e di «non temere il re di Babilonia» (42,10ss).


TRADITORE DELLA PATRIA O SEMPLICEMENTE PRAGMATICO


Ma è soprattutto al momento della caduta di Gerusalemme, nel 587, che il profeta appare ai suoi concittadini come un traditore. Durante un'interruzione dell'assedio,Geremia esce dalla città per raggiungere il suo villaggio. Anatot, dove deve sistemare una questione di eredità. Nel momento in cui attraversa la porta, una guardia ferma Geremia e gli dice: «Tu passi ai Caldei!» (37,11ss). Poco più tardi, alcuni ministri chiedono al re la testa del profeta: «Si metta a morte questo uomo perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città»; e, afferratolo, lo gettano in una cisterna (38, 1-6). Dopo averlo liberato, Sedecia lo fa però guardare a vista. In breve, anche se non è stato il solo a prendere questa posizione, Geremia è apparso agli occhi dei Giudei conte il traditore per eccellenza.

La sua posizione era certo ben nota ai Babilonesi, come rivela il loro atteggiamento dopo la caduta di Gerusalemme: lo lasciano libero di circolare e Geremia resta nel paese con coloro che, come Godolia, avevano sostenuto la sottomissione a Nabucodonosor. Sfortunatamente, dopo l'assassinio di Godolia, le cose si metteranno male per lui, e sarà così costretto a fuggire in Egitto, oggetto di ogni critica (43,4-7).

L'atteggiamento di Geremia di fronte a Babilonia può sorprendere. Esso riflette la fedeltà del profeta alla fede d'Israele. Dio, padrone del mondo e della storia, ha un progetto per tutti i popoli: le loro relazioni, spesso tumultuose, devono servire a guidare Israele, il suo popolo eletto, verso il destino che Dio gli prepara. Il suo atteggiamento rivela ancora un’intelligenza politica improntata al pragmatismo, di fronte a un tentativo di ribellione completamente irrealistico.


EVOLUZIONE ULTERIORE DEL LIBRO DI GEREMIA

Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Geremia, squalificando le posizioni dei suoi avversari. Da allora, i suoi oracoli e i suoi interventi politici sono stati accuratamente tenuti in considerazione, come prova della legittimità religiosa della sua parola profetica. Ma nel libro di Geremia non si trovano solo le parole e le prese di posizione del profeta. Il suo libro ha continuato a vivere. I suoi discepoli ed epigoni, sempre messi a confronto con Babilonia, si sono trovati davanti ad altri problemi. Il popolo di Israele - i deportati, come gli altri rimasti nel paese - subì con forza la pressione del dominatore del momento.

L'atteggiamento verso Babilonia cambierà radicalmente. Non è del resto escluso che Geremia stesso abbia previsto un ulteriore castigo di questa grande potenza (cf 27,7: 25,26). Nel grande blocco degli oracoli contro le nazioni (Ger 46-51), gli ultimi due capitoli sono dedicati a questo. Al lamento che Israele rivolge al Signore sul comportamento di Babilonia, il Signore risponde: «Ecco, io difendo la tua causa, compio la tua vendetta» (51,36). L'idea di vendetta implica che Babilonia ha avuto torto in un certo momento: «Ha peccato contro il Signore!». Questo peccato dei popoli contro il Signore è un motivo classico: si tratta dell'orgoglio: «Eccomi a te, o arrogante» (50,31). Babilonia a sua volta dovrà dunque essere punita: «Ripagherò Babilonia di tutto il male che hanno fatto a Sion» (51,24). Così, le sorti di Sion e di Babilonia saranno sempre opposte, ma la loro posizione si ribalta. «Babilonia non è guarita... poiché la sua punizione giunge fino al cielo... il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa: venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore, nostro Dio» (51,9-10).

IL tema del castigo di Babilonia ritorna più volte nei capitoli 50-51. In un primo momento sorprende il contrasto con le posizioni di Geremia. Questo paradosso riflette il radicamento della parola profetica nella realtà storica: gli avvenimenti hanno spostato i ruoli dei protagonisti, ma le due letture della storia partono dalla stessa fede in un Dio che si prende cura del suo popolo attraverso la mediazione degli attori della storia.


EZECHIELE: L’ESILIO E LA SPERANZA


Ezechiele, sacerdote del tempio di Gerusalemme, fa parte degli esiliati della prima deportazione nel 597. Non c'è motivo di mettere in dubbio le notizie del suo libro secondo le quali egli è vissuto in Babilonia, a Tel Abib, presso il fiume Kebar, vicino a Nippur.

Il suo libro contiene un buon numero di date o di allusioni che permettono di situarlo nel tempo. Così, non solamente egli ha atteso e annunciato la caduta di Gerusalemme, ma ha seguito le peripezie della lotta di Nabucodonosor per l'egemonia politica nel Vicino Oriente. Quanto all'ultimo oracolo datato del suo libro, è stato pronunciato il 26 aprile 571 e tratta delle controversie del re babilonese con Tiro e l'Egitto (29, 17-21). Ezechiele ha 52 anni. È sempre a Babilonia. Poi, se ne perdono le tracce.


EGIZIANI E CALDEI DI FRONTE ALLA PROSTITUTA GERUSALEMME


Ezechiele ama gli affreschi storici in cui Giuda e Israele sono gli attori principali. La storia del suo popolo gli appare come una sequenza di infedeltà al Signore, che si manifesta con la ricerca di legami politici e religiosi con le grandi potenze dell'epoca. L'Egitto non appare come «l'amante» più ricercato? Anche gli Assiri sono ricordati, ma il loro potere è scomparso da tempo. Sono dunque i Caldei di Babilonia che si contendono, insieme all'Egitto, la prostituta Gerusalemme. Con questa chiave giuridico-politica il profeta esprime i rapporti tra Giuda e il potere babilonese (Ez 16,29; 23,14-18).


L'INFEDELTÀ Dl GIUDA AL GIURAMENTO DATO


Aldilà dello sfavillio delle immagini più o meno scabrose, il fondo del problema è politico e religioso. Il capitolo 17 di Ezechiele è un modello di questo genere. All'inizio è il simbolo dell'albero piantato dalla grande aquila per mostrare la situazione di vassallaggio di Giuda nei confronti dei Babilonesi dopo la prima deportazione e i tentativi di rivolta del re di Gerusalemme che volge all'Egitto.

Giuda ha prestato, di buono o cattivo grado, un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, facendo Dio testimone e garante della sua fedeltà. I suoi tentativi di ribellione manifestano la sua infedeltà alla parola data al re di Babilonia, ma anche al Signore, suo testimone e garante. Così, è il Signore stesso che è messo allo scoperto. Gli tocca punire l'infedele: «Lo porterò a Babilonia [= il re di Gerusalemme] e là lo giudicherò per l'infedeltà commessa contro di me» (17-20b). Inutile dire clic Nabucodonosor, di fronte all'infedeltà del suo vassallo, ha anche lui voluto dare un castigo!

Questo testo non è datato. Ma si sa che gli inviati dei paesi vicini a Giuda si sono riuniti a Gerusalemme nel 593, per liberarsi dal giogo babilonese. Ora, è proprio nel 593 che Ezechiele pone l'inizio del suo ministero profetico (1,2). È dunque in un momento di grave crisi che il Signore manda il suo profeta per fare un estremo tentativo di evitare la catastrofe.


BABILONIA, STRUMENTO DELLA COLLERA DI YHWH


Ezechiele, biasimando le scelte dei responsabili di Gerusalemme e l'infedeltà di Giuda, giustifica in qualche modo la reazione di Nabucodonosor. Ma la visione del profeta non può ridursi a questo aspetto.

Tutta la prima parte della sua predicazione (fino al momento della caduta di Gerusalemme) è consacrata a denunciare le colpe del suo popolo. I capitoli 8-11 ne sono il quadro più avvincente. L'idolatria è dipinta con una forza e una fantasia sorprendente. Poi, al capitolo 22, è tutta la società gerosolimitana ad essere denunciata per la sua ingiustizia: la città è corrotta, senza prospettive.

Il castigo è inevitabile: «Il Signore disse: Seguitelo attraverso la città e colpite. Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia! (...) Neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere» (9,5ss). Il legame tra il castigo meritato da Giuda e l'azione di guerra di Nabucodonosor diventa ben presto più esplicita: «Nella sua [del re] destra è uscito il responso: Gerusalemme, per far udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra... Perciò dice il Signore: Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, voi resterete presi al laccio» (21,27-29). E più avanti: «I figli di Babilonia e di tutti i Caldei... verranno contro di te (...). Deporteranno i tuoi figli e te tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,23.25).


LA RICOMPENSA DEL RE DI BABILONIA


Che il re di Babilonia sia lo strumento della collera del Signore, o che egli abbia il diritto di punire Giuda per la sua infedeltà, questo a rigore lo si può capire. Ma Ezechiele va oltre. Nel suo ultimo intervento datato, il profeta presenta un oracolo sconcertante. Promette l'Egitto al re di Babilonia: «Per l'impresa compiuta io gli consegno l'Egitto, perché l'ha compiuta per me. Oracolo del Signore» (29,20). Inutile dire che i Giudei deportati hanno dovuto far fatica ad accettare una simile visione delle cose!


LA GLORIA DI DIO HA SEGUITO IL SUO POPOLO IN ESILIO


Ma il Signore non abbandona i deportati. Essendosi manifestata a lui la Gloria di Dio, è a Babilonia che Ezechiele ha saputo di essere stato chiamato al ministero profetico (Ez 1,1-3,15). La Gloria di Dio è a Babilonia: Ezechiele l'ha vista, in una visione grandiosa, lasciare la sua casa, il Tempio di Gerusalemme (8.11), e questo è avvenuto ancora prima che Gerusalemme cadesse, tra le due deportazioni. Coloro che sono rimasti in Giuda sono certi che Dio è con loro, nel suo Tempio, mentre gli esiliati soffrono duramente la loro lontananza dal Signore. Ora, Ezechiele, con le sue visioni come con il racconto della sua vocazione, mostra che è una concezione falsa: «Se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove sono emigrati» (11,16).

Tuttavia, l'orizzonte non si chiude, per il profeta, nel paese della deportazione. Le prospettive di ritorno sono spesso enunciate. Ma soprattutto, a partire dalla caduta di Gerusalemme, tutto cambia. Ezechiele diventerà il cantore della speranza. Con lo stesso vigore con cui aveva annunciato il castigo, predicherà la salvezza per Israele. La vita del popolo è assicurata nella affascinante visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37), il ritorno della Gloria di Dio è annunciato.


UN'IMMAGINE POSITIVA CHE NIENTE INTACCHERÀ


Babilonia ha incontestabilmente un ruolo positivo nel pensiero di Ezechiele: come potenza politica, ma soprattutto come il paese da cui uscirà Israele, in un nuovo ed autentico esodo. Questa visione è così forte che, diversamente che in Geremia, non si trova un oracolo contro Babilonia nel blocco «oracoli contro le nazioni» del libro di Ezechiele. E niente nemmeno nel suo libro che, venendo dalla sua scuola, dai suoi successori, abbia attenuato il ritratto positivo di Babilonia che egli aveva tracciato. Sui questo tema, non ci sono state, da parte dei discepoli, aggiunte o sviluppi in funzione delle nuove circostanze. Questo è tanto più notevole in quanto il libro testimonia molte riletture e aggiunte, che talvolta deformano il testo fino a dare del Profeta un'immagine patologica. Ma l'immagine Positiva di Babilonia rimane intatta.


IL SECONDO ISAIA: L’ANNUNCIO DELLA LIBERAZIONE


Non c'è più praticamente nessuna discussione circa la paternità dei capitoli 40-55 del libro di Isaia comunemente chiamato Secondo Isaia o Deutero-Isaia. Non è il profeta conosciuto sotto questo nome, autore dei capitoli precedenti, che era vissuto nell'VIII secolo. Il Secondo Isaia, anonimo, ha esercitato il suo ministero profetico tra il 550 e il 520. Come dire che è stato il testimone degli ultimi anni dell'impero babilonese e della speranza suscitata in tutto il Vicino Oriente dall'arrivo al potere del persiano Ciro. In tale contesto si deve situare Babilonia nei suoi oracoli.

Gli oracoli su Babilonia sono poco numerosi. Le menzioni esplicite si trovano nella prima parte (40-48) il cui asse essenziale è costituito dall'annuncio della liberazione degli esiliati e del ritorno nel paese. La seconda parte (49-55) tratta principalmente della restaurazione di Gerusalemme.


«COSÌ DICE IL SIGNORE, VOSTRO REDENTORE»


L'annuncio della caduta di Gerusalemme si trova in un breve oracolo in 43, 14-15: «Così dice il Signore, vostro redentore, il Santo di Israele: per amor vostro, l'ho mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutti». Si può accostare a questo testo un altro versetto, anche se Babilonia non vi appare direttamente: «A terra è Bēl (uno dei nomi di Marduk), rovesciato è Nebo... ed essi se ne vanno in schiavitù» (46,1-2). Così il movimento della storia provocherà la caduta di Babilonia: una lieta notizia per gli esiliati!

Questa caduta, i capitoli 40-80 l'annunciavano già: era come instancabile invito alla fede e alla speranza. Non era evidente per i deportati credere che Dio volesse fare ancora qualcosa per loro, che aveva punito così pesantemente. Il Deutero-Isaia si adopererà per convincerli. Da una parte ricorderà le meraviglie che il Signore ha compiuto nel passato a favore di Israele, e in modo particolare l'esodo. Colui che ha fatto, farà. Farà addirittura delle azioni ancora più sorprendenti in favore di Israele, suo servo. Dall'altra, l'argomento cosmologico avrà un ruolo importante: il Creatore dell'universo continua ad agire nella storia. È il Dio di Israele. Egli è il padrone degli avvenimenti, li conduce secondo il suo disegno. E il profeta insiste a più riprese sulla volontà di questo Dio onnipotente.


BABILONIA PUNITA PER IL SUO ORGOGLIO E LA SUA MAGIA


In questo contesto, ancora una volta in modo indiretto, il posto che Ciro assume nel libretto è molto significativo. Il percorso di questo conquistatore fu tanto straordinario quanto folgorante. Geremia aveva, a nome del Signore. chiamato Nabucodonosor «mio servo». Ezechiele aveva annunciato la ricompensa data a questo stesso re pagano dal Signore per i servizi resi. Il Secondo Isaia si volge verso un altro personaggio. Il servo del Signore è ora Ciro, il Persiano. È lui che realizzerà la liberazione del suo popolo.

Il posto che Ciro occupa nel libretto dei Deutero-Isaia è tanto più interessante in quanto i testi del conquistatore attribuiscono le sue vittorie a Marduk, il dio babilonese. La lettura della storia non è univoca.

Il profeta arriverà fino al punto di pronunciare una sorta di lamento su Babilonia vinta. Ma egli non si dilunga sulla sua caduta. Strumento della collera del Signore contro il suo popolo, Babilonia ha superato i limiti della sua missione: la sua mano fu troppo dura e il suo orgoglio smisurato: «Tu pensavi: Sempre io sarò signora, sempre... Eppure dicevi nel tuo cuore: Io e nessuno fuori di me» (14,7-8,10). Fatale errore: ella, la sovrana, lavorerà come una schiava: ella che aveva lasciato tante donne vedove e senza figli, eccola improvvisamente vedova e senza figli.

A questi motivi classici si aggiunge un capo d'accusa poco frequente negli oracoli contro le nazioni. Babilonia è accusata di avere una forte propensione per i sortilegi e la magia, il che aggrava considerevolmente la sua situazione.


«USCITE DA BABILONIA, FUGGITE DAI CALDEI»


Il ruolo di Babilonia nei confronti del popolo del Signore è esaurito. Dopo aver annunciato il castigo che ha meritato per i suoi eccessi, il profeta può cantare il ritorno, l'uscita, l'esodo: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa... per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (43,16-21). E dopo questi preparativi: «Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei, annunziatelo con voce di gioia... Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe» (48,20). Il cammino di Israele è così compiuto.

La politica di Ciro fu generosa e abile. Il suo editto del 538 permette ai Giudei che lo desideravano di ritornare a Gerusalemme. Da quel momento, Babilonia sparisce dall'orizzonte del Secondo Isaia. Gerusalemme ritorna ad essere «la Città della Santità»: «... perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata» (54.1)


DALLA REALTÀ STORICA AL SIMBOLO


I profeti sono gli interpreti del presente alla luce della fede di Israele. Le loro posizioni sono ispirate da un principio teologico di base: Dio è presente nella storia, Egli la guida. Ma l'interpretazione di questa storia richiede un grande discernimento: in caso contrario, questo principio applicato in modo troppo meccanico porrebbe togliere all'uomo le sue responsabilità o far identificare troppo rapidamente ogni avvenimento con l'intervento di Dio. Al contrario, interpreti del presente, Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia sono con discernimento e intelligenza politica. Vedendo in Babilonia lo strumento della collera di Dio contro il suo popolo, vanno contro ogni rigido nazionalismo. Tuttavia, quando le circostanze cambiano, anche le loro posizioni si evolvono: il libro di Geremia è il testimone esemplare di questi contrasti.

A partire da questo vissuto storico, Babilonia diventerà a poco a poco il simbolo dell'oppressione che Israele ha subito nella storia. Una serie di oracoli contro Babilonia si troveranno inseriti posteriormente anche nella prima parte del libro di Isaia, integrata in un insieme di «oracoli contro le nazioni» (13-14, 23; 21, 1-10).

Ma è sopratutto nel libro di Daniele che Babilonia diventa, nei racconti come nelle visioni, il simbolo della potenza politica ostile al popolo eletto. Siamo così preparati a comprendere come mai, nell’immaginario cristiano, Babilonia venga ad essere il simbolo del male, come si vede nel libro dell'Apocalisse, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola...

* Professore all’Institut Catholique di Parigi.


(Da Il mondo della Bibbia n. 20)

Le Chiese dell'oriente cristiano
IX. Il Patriarcato di Alessandria
di P. John Nellykullen


Fino al periodo seguente al Concilio di Calcedonia (451 d.C.), i cristiani d’Egitto erano uniti in un singolo patriarcato. La controversia intorno all’insegnamento cristologico di Calcedonia, tuttavia, portò ad una divisione tra la maggioranza che rigettò il Concilio (la Chiesa Copta) e buona parte della minoranza che lo accettò. Il patriarcato greco ortodosso d’Alessandria è nato dal secondo gruppo. È stato calcolato che nel secolo VII vi erano in Egitto 17 o 18 milioni di Copti e circa 200 mila (ufficiali imperiali, soldati, mercanti e altri Greci) di quelli che avevano accettato il Concilio di Calcedonia. In quel tempo ambedue i gruppi usavano l’antica liturgia alessandrina, ma nel Patriarcato greco fu gradualmente sostituito dalla liturgia bizantina, e con il secolo XII il rito alessandrino scomparve.

Nel 642, con la conquista araba e il ritiro dell’armata bizantina, i Greci in Egitto furono perseguitati per il loro legame con l’impero bizantino. La difficile situazione peggiorò nel 1517 con la conquista turca. Il patriarca greco d’Alessandria cominciò a vivere dentro e fuori Costantinopoli e il Patriarcato ecumenico spesso gli affidò degli incarichi.

Solo nel 1846, con l’elezione del patriarca Hierotheos I, i patriarchi risedettero di nuovo ad Alessandria.

Il coinvolgimento del Patriarcato ecumenico nell’amministrazione della Chiesa d’Alessandria cessò nel 1858 con la morte di Hierotheos I.

Il Patriarca Melitios II (1926-1935) formulò le leggi locali del patriarcato e le sottopose al governo egiziano. Con queste leggi il patriarcato si rese indipendente e si giovò della protezione governativa. Melitios fu il primo patriarca ad essere riconosciuto dal decreto reale, poiché in quel tempo l’Egitto non faceva più parte dell’impero ottomano. Melitios inoltre fondò il seminario S. Atanasio, organizzò il tribunale ecclesiastico e stabilì la giurisdizione del patriarcato in Africa, introducendo nel suo titolo “Tutta l’Africa” al posto di “Tutto l’Egitto”.

Nei primi anni del secolo XX una significativa immigrazione di Arabi greci e ortodossi in Egitto e in altre parti d’Africa aumentò i membri del Patriarcato. Nel 1907 il numero dei Greci in Egitto era stimato essere di 192.000 e nel 1997 il numero era sceso a circa 165.000. Oggi il Patriarcato ha la giurisdizione su tutti i fedeli d’Africa greco-ortodossi.

Nel 1930 uno spontaneo movimento d’indigeni africani verso la Chiesa ortodossa cominciò in Uganda sotto la guida dell’anglicano Reuben Spartas. Egli fu ammesso alla piena comunione con il Patriarcato greco ortodosso d’Alessandria nel 1946 e le comunità ortodosse nell’Africa dell’est, fondate sotto la sua guida, sono state organizzate nel 1958 nell’arcidiocesi di Irinoupolis con quartiere generale a Nairobi. Questo gruppo è ora servito dall’aumentato clero indigeno africano, che annovera tre vescovi. Nel 1998 vi erano 80 sacerdoti in Kenia, 22 in Uganda e 11 in Tanzania.

Nel novembre 1994 il Santo Sinodo del Patriarcato ha creato una diocesi separata per l’Uganda e ha eletto il vescovo ausiliare di Irinoupolis per l’Uganda, Teodoro Nagiama, come suo primo metropolita. Questi è stato il primo vescovo nero eletto capo di una diocesi della Chiesa ortodossa.

Il Patriarca Partenios III, che fu in carica dal 1987 fino alla morte nel 1996, è stato energico esponente del movimento ecumenico e uno dei Presidenti del Consiglio Mondiale della Chiese. Il Papa o Patriarca Petros VII, suo successore a 47 anni, alla sua intronizzazione confermò la sua partecipazione al Consiglio Mondiale delle Chiese e al Consiglio Africano delle Chiese. Inoltre s’impegnò a riorganizzare la struttura amministrativa del Patriarcato, a curare la missione nell’Africa nera, a riaprire l’Istituto degli Studi orientali in Alessandria e a far rivivere Analecta, la rivista patriarcale. Egli è morto prematuramente nel 2004 per un incidente aereo.

Il Patriarcato è governato sulla base di una serie di regolamenti, adottati alla fine del secolo XIX. E’ stabilito un sistema sinodale d’amministrazione, in contrasto con il precedente governo del solo Patriarca; il Patriarca è eletto dal clero e dai laici. Il Santo Sinodo, composto da almeno sette metropoliti, deve riunirsi almeno una volta all’anno, ma ordinariamente lo fa ogni sei mesi.

Attraverso gli sforzi dell’arcivescovo Macario III di Cipro, nel 1981 è stato aperto un seminario in Nairobi. Originariamente chiamato Macario, nel 1998 esso è stato rinominato Scuola Patriarcale Ortodossa. In quell’anno (1998) contava 42 studenti provenienti dalle varie parti d’Africa. Vi sono due comunità religiose greche e due composte da elementi di etnia araba. Il Patriarcato conta in tutto circa 200.000 africani neri e 150.000 degli altri, i più d’etnia greca.



Territorio
: Egitto ed altre nazioni africane.

Guida: Papa Theodoros II (nato nel 1954, eletto nel 2004)

Titolo: Papa e Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa.

Membri: 350.000

Sito web: www.greece.org/gopatalex

Le Chiese dell'oriente cristiano
VIII. Il Patriarcato di Costantinopoli
(Patriarcato Ecumenico)
di P. John Nellykullen


La cultura greca era predominante nella regione orientale dell’impero romano durante il tempo iniziale dell’espansione cristiana quando il lavoro missionario di San Paolo portò alla cristianizzazione della cultura greca.

Il processo di adozione del Cristianesimo come religione imperiale, iniziato dall’imperatore Costantino, fu realizzato in pieno da Teodosio alla fine del quarto secolo. Costantino aveva già trasferito la capitale dell’impero a Bisanzio, una città greca, nel 330, chiamandola Costantinopoli, nuova Roma.

La Chiesa di Costantinopoli ha avuto subito grande importanza, grazie allo stato di capitale dell’Impero Romano. Il Concilio di Costantinopoli nel 381 stabilì, nel canone 3, che il vescovo di questa città avrebbe avuto un primato di onore dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli era la nuova Roma. Così Costantinopoli ha avuto la precedenza rispetto agli antichi patriarcati di Alessandria e di Antiochia. Il canone 28 di Concilio di Calcedonia nel 451 ha riconobbe poi l’estensione del territorio del Patriarcato di Costantinopoli e la sua autorità sui vescovi delle diocesi “tra i barbari”, cioè sui luoghi fuori dell’impero Bizantino o non-greci. Il patriarca di Costantinopoli ha presieduto la Chiesa dell’Impero Romano orientale per almeno mille anni e il lavoro missionario di questa Chiesa ha portato la fede Cristiana nel territorio nord dell’impero. Haghia Sophia, la cattedrale di Costantinopoli era il centro della vita religiosa del Cristianesimo nell’Oriente.

Lo scisma tra Roma e Costantinopoli preceduto da un lungo periodo di tensioni più o meno esplicite culminò nel 1054, con la mutua scomunica tra il Patriarca Michele Cerulario ed il legato papale, cardinale Umberto. La quarta crociata ed il saccheggio della città da parte dei Crociati Latini nel 1204 causò la vera divisione anche nella mentalità della gente comune. Dopo lo scisma tra Roma e Costantinopoli questa ebbe il primato sulle Chiese di tradizione bizantina.

Nel 1453 i Turchi (Ottomani) conquistarono Costantinopoli e nonostante diverse restrizioni contro Cristiani, il Patriarca venne nominato etnarca, cioè capo della comunità etnica ortodossa dell’impero e mantenne la sua posizione di “primus inter pares” tra i patriarchi ortodossi. Così mantenne una autorità morale sui patriarcati greci di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Però l’assunzione dell’autorità civile comportò un prezzo molto caro. Quando i Greci insorsero contro i Turchi nel 1821 il Patriarca Gregorio V fu ritenuto responsabile ed impiccato alla porta del patriarcato. Due metropoliti e 12 vescovi furono ugualmente impiccati.

Una Chiesa autocefala greca, distaccata da Costantinopoli, fu fondata nel 1833, dopo la formazione dello stato indipendente greco nel 1832. Dopo la prima guerra mondiale una persecuzione contro i Greci residenti in Istanbul, nuovo nome di Costantinopoli, causò un forte esodo dei greci .

Oggi nel territorio turco vi sono appena 5000 o 6000 greci appartenenti al Patriarcato al quale appartengono anche alcune parti della Grecia (il Monte Athos, la Chiesa quasi-autonoma di Creta, e le isole del Dodecanneso). Al patriarcato apparteneva anche la scuola teologica nell’isola di Halki, presso Istanbul, ma questa fu chiusa dal governo nel 1971.e malgrado i tentativi di riapertura e le mezze promesse da parte del governo la situazione non è ancora stata risolta. Il patriarcato sovrintende anche ad alcuni Istituti Teologici Accademici in Grecia, così pure alla Scuola nel monastero di Giovanni il Teologo nell’isola di Patmos, all’Istituto Patriarcale per gli studi patristici a Tessalonica, ed all’Accademia Ortodossa di Creta. Nel 1993 il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha istituito l’Istituto Ortodosso “Patriarca Atenagora” presso la Graduate Theological Union a Berkeley, California, come Istituto Patriarcale ufficiale. Il patriarcato ha anche un centro ortodosso a Chambésy, Svizzera, preso Ginevra.

La Repubblica Monastica del Monte Athos, sebbene sia in Grecia, è sotto la giurisdizione del Patriarca Ecumenico. La costituzione Greca ammette l’autonomia amministrativa dei monasteri. Questi dopo un periodo di rilevante diminuzione numerica vedono oggi di nuovo un periodo di fioritura di nuove vocazioni

Nel mese di dicembre del 1989 il Patriarcato ha inaugurato il nuovo ufficio centrale amministrativo al Phanar (un quartiere di Istanbul), ricostruendo l’edificio che era stato distrutto dal fuoco nel 1941. …

Il Patriarca Bartolomeo ha dato nuovo vigore al ruolo della sua Chiesa nell'ambito dell'ortodossia ed oltre. Nel marzo 1992 ha convocato i capi di tutte le chiese autocefale ad Istanbul, e nel settembre del 1995 nell’isola di Patmos. Il patriarca ecumenico ha rivolto un discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo nell’aprile del 1994, visitato Papa Giovanni Paolo II nel giugno 1995 ed altre volte successivamente, visitato l’arcivescovo di Canterbury nel dicembre 1995. Nello stesso anno ha partecipato al Concilio Mondiale delle Chiese a Ginevra. Un’ altra iniziativa è stata la ripresa della pubblicazione della rivista patriarcale, Όρθοδοξία, che usciva regolarmente dal 1926 al 1963, in collaborazione con l’Istituto Patriarcale di Tessalonica. Per sua iniziativa un’ufficio patriarcale è stato aperto presso l’ufficio centrale della Comunità Europea in Bruxelles il 10 gennaio 1995.

Purtroppo la situazione della comunità greca e del Patriarcato rimane precaria in Turchia come è evidente per tutta una serie di eventi dolorosi come la profanazione del cimitero greco a Istanbul e l’incendio di una scuola greca. Konrad Raiser, allora segretario generale del Concilio Mondiale delle Chiese ha scritto al primo ministro turco nel novembre del 1993, esprimendo preoccupazione sulla restrizione dei diritti fondamentali della minoranza greca nel paese, ha chiesto al governo turco di proteggere la minoranza greca contro l’intolleranza religiosa, di garantire il suo diritto alla sua cultura ed alla sua lingua, di evitare l’uso della comunità come una pedina da giocare nella dispute internazionali, di mostrare la buona volontà permettendo la riapertura della scuola teologica di Halki. Però i problemi rimangono: nel maggio 1994 tre bombe sono state disattivate prima della esplosione nell’ambito della residenza patriarcale; nel settembre 1996 è stata fatta esplodere una granata nel complesso del patriarcato, fortunatamente senza ferire nessuno; un’altra esplosione di una bomba nel dicembre 1997 ha danneggiato gravemente il complesso. Un diacono è stato ferito. Nel gennaio 1998 una chiesa nella città è stata saccheggiata e incendiata. Il custode è stato ucciso.

Anche in questa circostanza il patriarca Bartolomeo ha rifiutato il suggerimento di trasferire il patriarcato a Tessalonica o in un’altra città greca, perché Istanbul è stata sempre la sede del patriarcato, salvo qualche breve interruzione nel 13mo secolo. Inoltre, rimanere a Istanbul, incrocio di diverse civilizzazione e lingue, permette al patriarcato di stare oltre le concorrenze e le chiusure nazionaliste. Infatti il patriarca ha vigorosamente condannato i nazionalismi eccessivi come detrimento dell’Ortodossia e della pace nel mondo. Per questi motivi il Patriarca crede che la presenza del patriarcato in uno stato laico a maggioranza islamica sia vantaggioso per la Chiesa Ortodossa.

Il Santo Sinodo presieduto dal Patriarca governa la Chiesa patriarcale. Il Sinodo comprende 12 vescovi metropoliti che hanno le loro diocesi in Turchia e recentemente anche fuori di essa malgrado l’opposizione del governo turco. Dopo l’abolizione del Concilio misto nel 1923, non vi è più stata una partecipazione laica all’amministrazione del Patriarcato.

Sia la Chiesa Ortodossa in diaspora, che altre giurisdizione di varie etnie fanno parte del Patriarcato Ecumenico. Arcivescovo Gregorio di Tiatira e della Gran Bretagna risiede in Londra e guida nella sua diocesi 4 monasteri, 100 parrocchie e cappelle in Inghilterra ed una parrocchia a Dublino, Irlanda.

L’Arcivescovo Stylianos presiede ai fedeli Ortodossi greci in Australia. Qui l’arcidiocesi ha 120 parrocchie e 2 comunità monastiche, ha aperto la Scuola Teologica Ortodossa Greca di San Andrea a Sydney nel 1986. L’arcidiocesi è divisa in cinque distretti. Tre vescovi ausiliari, sotto l’autorità dell’arcivescovo, presiedono a tre di questi circoscrizioni. Sia i greci ortodossi della Nuova Zelanda, che in Corea ed in Giappone sono sotto la cura pastorale del Metropolita Dyonosios. La Metropolia di Hong Kong fondata nel 1996, è presieduta dal Metropolita Nikitas che ha giurisdizione sulle comunità greco ortodosse di Cina, Singapore, India, Indonesia e Filippine.

Il Santo Sinodo del Patriarcato Ecumenico ha diviso, nel 1996, l’ Arcidiocesi del Nord e Sud America in quattro metropolie: 1) America (Stati Uniti), 2) Toronto e tutto il Canada, 3) Buenos Aires e Sud America, 4) Panama e America Centrale. L’arcidiocesi greco ortodossa d’America è presieduto dall’ Arcivescovo Spyridon. Negli Stati Uniti ci sono otto diocesi, 570 parrocchie, e 8 comunità monastiche. La Metropolia del Canada ha 76 parrocchie e due monasteri sotto la guida di metropolita Sotirios (…). L’arcidiocesi dell’America amministra la Scuola Teologica greco ortodossa di S. Croce in Brookline, Massachusetts. La Metropolia del Canada ha aperto una Accademia Teologica Greco Ortodossa a Toronto nel 1998.


Territorio: Turchia, Grecia, le due Americhe , Europa Occidentale, Australia.

Guida: Patriarca Bartolomeo I (nato 1940, eletto 1991)

Titolo: Arcivescovo di Costantinopoli/Nuova Roma, Patriarca Ecumenico.

Residenza: Istanbul (Costantinopoli), Turchia.

Membri: 3.500.000

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