I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La vita eterna è un perenne cominciare nell’amore, è l’esperienza di un Dio che è inesauribilmente Colui che inizia ad amare...

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:45

Ietro e la nube divina (Giovanni Giavini)

Una rilettura di un personaggio biblico anomalo
Ietro e la nube divina
di Giovanni Giavini


Dietro alcune immagini bibliche, quali la gloria o la nube, ci possono essere persone concrete che rendono visibile la presenza e l’opera di Dio nel mondo. Un’ipotesi sul suocero di Mosè.

Domanda provocatoria: la nube della presenza di Dio nel cammino dal Sinai alla Terra promessa non era altro che il suocero di Mosè e un suo figlio? Donde mi sorge una domanda che può sembrare addirittura eretica e blasfema? Occorre qualche premessa. Gente come i Testimoni di Geova dicono: «Sta scritto così, quindi è vero così e non si discute». Un minimo di dimestichezza con la Bibbia e con la “Dei verbum” del Vaticano II permette, anzi obbliga, a non essere così semplicisti. E’ necessario infatti tener conto, almeno, dei generi letterari e del cammino redazionale che sta dietro una frase, una pagina, un libro.

Il libro, dell’Esodo, ad esempio, ha alle sue spalle una lunga storia redazionale (forse di 800 anni!), parte da alcuni fatti antichi, riletti in seguito sotto diversi punti di vista e con diversi generi letterari: narrazione storica, tradizioni tribali, varie raccolte di leggi, pagine di chiaro intento epico-celebrativo o/e didattico-catechistico per ebrei bisognosi di nutrimento per la loro fede e per la loro vita. Questo intento vale specialmente per tutta la mirabile struttura del libro, incentrata sull’alleanza al Sinai (cc. 19-24).

Da Ietro alla nube della presenza

A leggere le pagine dell’Esodo sulle piaghe d’Egitto e sul passaggio del Mar dei Giunchi (o Rosso) si dovrebbe dire che l’Egitto era scomparso completamente, tutto annegato nell’acqua! Verità storica o rilettura e amplificazione epica? E il passaggio del mare? Avvenne quasi come lode- scrisse Cècil de Mille nel suo famoso film (un po’ hollywoodiano) “I dieci comandamenti” e in tanta iconografia fantasmagorica? Leggi il salmo 77(76),14-21 e t’accorgi che quella sorprendente e inaspettata liberazione da morte fu favorita da un tenebroso temporale, nubi basse, vento, fuoco di fulmini, pioggia con susseguente pantano micidiale per i carri del divino faraone, terremoto e susseguente maremoto con riemersione di un guado; e il salmo dice che Dio non si vide, benché presente e operante!

Rileggi il racconto di Es 14 sul passaggio in mezzo al mare e scorgi la somiglianza con il Salmo, benché il tono e il genere letterario del racconto, alquanto complesso e non ben coerente in se stesso, siano un po’ diversi; idem rileggendo il cantico, assai poetico e mirabilmente fantasioso di Mosè nel c. 15 (ma nelle quinte stava la... fantasia di Myriam e di un coro di donne esultanti).

Mi piace ricordare anche che le prime persone a scardinare le mire del prepotente faraone non furono né Dio né angeli (almeno direttamente) ma alcune donne: le levatrici, la sorella e la madre di Mosè, la figlia stessa del re, che va a fare un bagno e salva quel bambino; che poi lei fa istruire a corte (cf. At 7,22) e rende edotto con lo studio della storia, della geografia, dell’astronomia, della lingua e della religione egizia (Amenophis IV non aveva già tentato una riforma monoteistica poi fallita? E non c’erano già leggi e scritti sapienziali? E il culto faraonico dei morti? E le immagini in onore di dei e dee e del divino faraone, con la celebrazione epica delle loro imprese?).

Di che cosa e di chi Dio si serve per compiere i suoi disegni? Per caso non s’è servito anche di Ietro? Oltre tutto costui era un sacerdote nel territorio (imprecisabile) di Madian: sacerdote di quale dio? Di un dio di quella regione - come qualche archeologo ritiene -identificato poi con YHWH? Era anche un saggio?

letro il saggio

Certamente così è presentato nell’Esodo questo straniero, chiamato a volte Ietro a volte Reuel. Già egli dimostra saggezza nel disporre il matrimonio della figlia Zippora (o Seffora) con quel bravo e generoso fuoruscito dall’Egitto, diventandone appunto suocero e servendosene per il gregge (Es 2,16ss); saggiamente riconosce la vocazione di Mosè da parte di Dio e lo rimanda in Egitto in pace, sia pure con moglie e figli, da cui però Mosè si distaccherà (4,18ss); sapientemente riconosce, sulla base della storia e sulla fede del genero che, il vero Dio era con Mosè e con Israele,. e Ietro entra in alleanza con loro mediante un bel banchetto (Es 18,1-12); da saggio esperto di vita sociale consiglierà al genero di organizzare la giustizia e l’amministrazione del popolo sulla base di buon senso e di “leggi e decreti di Dio” (18,13-26; leggi e decreti dunque già prima della rivelazione della legge al Sinai, di cui ai cc. 19-24).

Poi Ietro-Reuel viene congedato da Mosè (18,27): davvero? O è una notizia redazionale per dire che da allora la guida di Israele sarà solo (o principalmente) YHWH? Certamente Ietro, da esperto di quei luoghi, avrà parlato dei sentieri, delle oasi, delle sorgenti d’acqua, della manna e delle quaglie, dai nemici da evitare o da combattere… rinfrescando e arricchendo la memoria di quel giovane già istruito alla corte del faraone. E forse, pur congedandosi, quel simpatico vecchio ha lasciato con Mosè un proprio figlio esperto anche lui di quei luoghi?

Con il c. 19 Ietro scompare e riprende il posto di guida la nube infuocata e luminosa della “gloria” di Dio, cioè della sua presenza, che “copre con la sua ombra” la tenda-tabernacolo (40,36-38 letto con la traduzione greca dei famosi “Settanta”: questa gloria segna le tappe per il popolo e lo conduce mirabilmente - almeno sembrerebbe a prima lettura - per le piste, le oasi, le sorgenti e tra le popolazioni già residenti in quei luoghi e a volte nemiche dei nuovi arrivati (la storia si ripete oggi!).

Ma ecco la sorpresa: al c. 10,29-32 del libro dei Numeri leggiamo che Mosè supplica con insistenza e grandi promesse Obab, figlio di Reuel suo suocero, perché non lo abbandoni: «Non ci lasciare, poiché tu conosci i luoghi dove ci accamperemo nel deserto e sarai per noi come gli occhi»! Ma come? Non avevano gli occhi della nube della gloria di YEWH che li guidava costantemente?

La gloria di Dio... e noi

Di qui l’ipotesi che mi spunta nella mente e sulla penna: la famosa nube infuocata e luminosa era certamente simbolo della presenza provvidente ma inafferrabile di Dio per il suo popolo in cammino, inafferrabile appunto come la nebbia e il fuoco, cui spesso si aggiungeva il vento; assieme essi provocano l’uragano, realtà tremenda, turbinosa, sfuggente, ma spesso anche benefica! Quella nube allora - ed ecco l’ipotesi, solo una mia ipotesi -, non era altro che un simbolo letterario, didattico, catechistico di quella presenza e dei vari suoi segni. Tra quei segni si possono e si devono collocare anche le levatrici e la figlia del faraone, gli scribi maestri del bimbo adottato, Mosè stesso e il fratello Aronne, altri-personaggi ed eventi provvidenziali come il passaggio nel mare; ma in particolare proprio Ietro-Reuel e il figlio Obab.

Niente proibisce di pensare anche a qualche evento straordinario di presenza divina (ovvero a qualche “teofania” vera e propria benché sempre da precisare); ma normalmente Dio agì mediante cause seconde, benché i generi letterari cui ricorsero gli antichi narratori e più ancora i più recenti redattori preferirono mettere in diretto risalto la gloria del Dio di Israele, Le cause seconde finirono travolte dall’uragano - letterario, simbolico - della gloria di YHWH, ma non del tutto: qualche segno della loro presenza, secondaria ma pur preziosa, rimase anche nei testi sacri (sopra descritti).

Con quella sottolineatura della gloria divina gli agiografi volevano certamente celebrare - anche epicamente, quindi con un po’ di trionfalismo - il rapporto speciale di elezione e alleanza tra il vero Dio e Israele; volevano anche rimarcare le novità della fede ebraica rispetto a quella egiziana e alle altre, dalle quali essa pure attinse elementi (basti pensare alle somiglianze con la riforma di Amenophis IV, con certe leggi egiziane o dell’antica Mesopotamia, con canti d’amore o con pagine sapienziali o di preghiera di quelle culture, ecc.; ma anche alle novità rispetto al concetto concreto di Dio, al rifiuto dell’idea faraonica del re, allo stretto legame tra culto e vita sociale, all’assenza del culto dei morti, alla relativizzazione del tempio a favore di quello del cuore di ognuno, ecc.).

Nello stesso tempo gli agiografi ebrei istruivano e lanciavano messaggi molto forti alla loro gente spesso priva di memoria, e la tenevano aperta e vigilante nell’attesa della nuova “gloria” di Dio, della sua futura presenza: quella che avrebbe coperto con la sua gloria” il grembo di una povera vergine di Nazaret, e più ancora quella che avrebbe posto ‘la sua tenda” in una “carne” fragile e crocifissa come quella dell’ebreo Figlio unigenito di Dio (cf. Lc 1,35; Gv 1,14).

Salvando sempre le debite analogie, genitori, insegnanti (di religione innanzitutto), pastori d’anime, educatori di ogni genere non appaiono anch’essi come un segno portatore della gloria di Dio? Come il vecchio e simpatico saggio suocero di Mosè o come suo figlio Obab: guide per un cammino.

(da Settimana, settembre 2006)

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:33

Lasciarsi trovare dal Padre (Henri J.M. Nouwen)

Non sarebbe bello, non sarebbe meraviglioso “aumentare”
la gioia del Padre lasciandomi trovare e riportare a casa da Lui?

Mercoledì, 20 Dicembre 2006 00:27

Senza preghiera la fede muore (a cura di A. D.)

Spesso anche nella Chiesa si è posto l’accento sulle cose da fare anziché sulla persona di Cristo, trasformando la fede in etica anziché in mistica.

Martedì, 05 Dicembre 2006 01:18

Hussar, profeta del dialogo (Giuseppe Caffulli)

Hussar, profeta del dialogo
di Giuseppe Caffulli *

Nevé Shalom è un pugno di case linde adagiato sul cocuzzolo di una collina, in mezzo agli ulivi e ai campi tra Gerusalemme e Tel Aviv. L’8 febbraio all’Oasi della pace (questo il significato del doppio nome in ebraico e in arabo: Nevé Shalom/Wahat al-Salam) non è un giorno qualsiasi. È il giorno in cui si fa memoria della morte di padre Bruno Hussar, il fondatore. Quello di quest’anno è un anniversario ancora più sentito, perché ricorre il decennale. E nella Dumia, il Santuario del Silenzio, la cupola bianca dove gli uomini di tutte le religioni possono pregare Dio, gli abitanti di questo singolare condominio solidale ricorderanno il mandato spirituale lasciato da quel frate domenicano ebreo definito dal cardinale Carlo Maria Martini «un profeta di riconciliazione e pace in Israele».

Ma chi è stato Bruno Hussar, e quale è oggi la sua eredità?

Nato in Egitto nel 1911 da padre ungherese e madre francese, entrambi ebrei non praticanti, frequentò al Cairo il liceo italiano. All’età di 18 anni si trasferì in Francia, conseguendo a Parigi la laurea in ingegneria. Nel dicembre del 1945 entrò nell’ordine dei domenicani, diventando sacerdote nel 1950. Poi la svolta decisiva: i superiori gli affidarono il compito di aprire a Gerusalemme un centro di studi sull’ebraismo (dal cui tronco nascerà la Casa di sant’Isaia, laboratorio ante litteram del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo). In quel periodo si va sempre più precisando in Hussar una certezza profonda: l’appartenenza a Israele pur nella nuova identità cristiana.

Oggi i tempi sono mutati e si guarda con simpatia al dialogo tra ebraismo e cristianesimo. In Israele esiste una comunità cattolica di lingua ebraica che si propone come «ponte» (non senza difficoltà e incomprensioni) tra mondo ebraico e mondo cristiano. Ma a quei tempi le cose erano differenti. Negli ambienti cristiani, scrive Hussar nel libro autobiografico Quando la nube si alzava..., gli ebrei erano ancora perfidi, ladri e bugiardi.

Gli anni del Concilio portano grazie a Dio una ventata di novità. Hussar affianca il cardinale Agostino Bea nell’elaborazione del «testo ebraico», divenuto poi il quarto paragrafo della Dichiarazione Nostra Aetate sull’atteggiamento della Chiesa verso le religioni non cristiane. Il placet a quel testo, il 20 ottobre 1965, non fu né facile né scontato da parte dei Padri conciliari. Il contributo di Hussar all’approvazione del documento fu tale che due settimane dopo ricevette la cittadinanza d’Israele che aveva atteso per anni.

Nel turbolento Medio Oriente scoppiava pochi anni dopo il sanguinoso conflitto dei Sei Giorni (1967), che aumentava ancora di più la distanza tra mondo arabo e mondo israeliano.

Come segno concreto di pace e di riconciliazione tra i due popoli che si fronteggiano come nemici in Terra Santa, padre Bruno comincia a coltivare il sogno di Nevé Shalom, un villaggio nel quale ebrei e arabi palestinesi possano vivere in pace e amicizia. A partire dal 1974 l’Oasi della pace comincia a prendere forma.

«Il suo principale merito - commenta Bruno Segre, presidente dell’Associazione Amici di Nevé Shalom - è quello di essere diventato motore di un importantissimo mutamento di mentalità. Gli intoppi sul cammino non mancano, ma il villaggio resiste come modello di convivenza ragionevole e secolarizzata fra persone che si identificano con tradizioni religiose, culture, nazionalità diverse e conflittuali».

E dell’eredità spirituale di padre Hussar, che cosa resta? La risposta va cercata certamente a Nevé Shalom, simbolo di una pace possibile, ma ancora di più in un rimando costante a Dio e alla preghiera, nella consapevolezza che i costruttori di pace devono chiedere con insistenza il dono dell’ascolto e della comprensione. Anche nei tempi bui (e Dio solo sa quando finiranno i tempi bui per la martoriata Terra Santa), padre Bruno ha insegnato ai suoi figli a restare saldi, come sentinelle che scrutano l’aurora. A dieci anni dalla morte, accanto alla bianca Dumia, padre Bruno veglia ancora sulla sua utopia diventata realtà. In una riflessione sul processo di pace nel Vicino Oriente, dopo gli accordi di Oslo del 1994, annotava: «Gli estremisti dei due campi fanno già di tutto per frustrare gli sforzi verso la pace. La nostra esperienza ci ha insegnato che non bisogna rinunciare a sperare».

* Direttore della rivista Terrasanta

Venerdì, 01 Dicembre 2006 21:49

29. I Sacramenti

Un settore essenziale della liturgia è la celebrazione dei sette sacramenti. Proprio in questo ambito la teologia negli ultimi decenni ha messo in luce nuovi aspetti e posto accenti nuovi.

Ecco, io sono con voi tutti i giorni,
fino alla fine del mondo (Mt 28,20)
di Sr. Germana Strola O.C.S.O.

Uno degli aspetti essenziali dell’Eucaristia è costituito dal permanere della presenza di Cristo in mezzo a noi, sotto le specie del pane e del vino: da qui deriva il grande fascino, e la somma venerazione della chiesa. I due ultimi documenti sull’Eucaristia di Giovanni Paolo II ritornano a più riprese su questa dimensione del mistero eucaristico: l’Eucaristia, presenza salvifica di Gesù alla comunità dei fedeli, è quanto di più prezioso la chiesa possa avere nel suo cammino nella storia (EdE § 9). E ancora: con tutta la tradizione della chiesa, noi crediamo che, sotto le specie eucaristiche, è realmente presente Gesù. L’Eucaristia è mistero di presenza, per mezzo del quale si realizza in modo sommo la promessa di Gesù di restare con noi fino alla fine del mondo (MND § 16, passim).

Alla luce di questo dimorare di Gesù, per mezzo del Santissimo Sacramento, in mezzo a noi, si potrebbero rileggere alcune pagine della Scrittura per cercare di risalire alle prime manifestazioni e quindi alle radici di questa tenace volontà di comunione di Dio con gli uomini, evidenziando come in essa raggiungano il loro compimento alcune dinamiche constanti e fondamentali della rivelazione.

La Sapienza

All’inizio della Bibbia, il gesto creatore (Gen 1-2) descrive l’iniziativa originaria di Dio che suscita l’esistenza di tutte le cose, e al loro vertice l’uomo, come propria immagine e somiglianza (come suo figlio, si potrebbe dire, secondo Gen 5,3). I libri sapienziali, meditando sulla creazione, vedono a questo inizio primordiale del dono di Dio la mediazione della Sapienza (Pr 8,22-31; cf 3,19-20; Sir 24), presente accanto a Lui prima che esistesse qualsiasi altra opera delle sue mani, come architetto, come artefice (Pr 8,30). Il carattere avvincente e misterioso della Sapienza personificata, induce a intuire già nell’AT una specie di rigonfiamenti interno – secondo quanto ha scritto P. Beauchamp – nell’assoluto monoteismo ebraico; ma al di là della questione propriamente esegetico-teologica sollevata dall’immagine e dalla lettera del testo, interessa qui focalizzare l’attenzione sul v. 31: la mia gioia è stare con i figli dell’uomo (come traduce incisivamente la Vulgata: deliciae meae esse cum filiis hominum). La Sapienza media la relazione di Dio con gli uomini, e gode di permanere con loro (cf. Sir 24,11; Bar 3,38-4,1).

Come è noto, il NT riprende la concezione veterotestamentaria della Sapienza per introdurre al mistero del Verbo di Dio nei testi di Gv 1,1.3.14 e Col 1,15-20 e per contemplarne la centralità nel piano della salvezza. Fermiamo tuttavia la nostra attenzione su un solo aspetto di questa dinamica: la volontà di comunione di Dio che essa implica. Non si tratta infatti di una dimensione insolita o innovatrice che viene così messa in luce: il Dio della rivelazione ebraico cristiana viene identificato, fin dalle prime pagine della Genesi, attraverso la relazione interpersonale che instaura con il suo popolo ( il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri Padri) che va costituendo, chiamandone i capostipiti di là dal fiume Eufrate (Gs 24,2; Dt 26,4), e liberandolo dalla schiavitù con la sua mano potente e il braccio teso (Sal 136,2: Ger 32,21; Ez 20,33,34).

La relazione di appartenenza reciproca che egli instaura con la sua tenace volontà di comunione è illustrata dalla frequenza delle cosiddette formule di alleanza [Io sono (sarò) il vostro Dio e voi siete (sarete) il mio popolo (miei): Es 6,7; Lv 26,12; Dt 7,6, ecc.]. Il Signore è un Dio vicino (Dt 7,4; cf. 30,14; Ger 23,23), che abita in mezzo ai suoi (Dt 6,15; 7,21; Ez 37,26-27) e ripete sono, sarò con te dovunque andrai, ai singoli e al popolo, soprattutto nei momenti di prova (cf. Gen 26,24; 28,15; Es 3,12; Dt 2,7; 31,6.8.13; Gs 1,5.9; Gdc 6,12.16 ecc.). E’ questo uno degli aspetti che caratterizzano il Dio della Bibbia, in confronto alle forme di religiosità dell’Antico Medio Oriente o altre fedi anche monoteistiche: non è solo l’annuncio e la memoria della irruzione del Dio Trascendente nella storia, ma la sottolineatura della presenza, dell’accompagnamento, dell’esser con – nelle migrazioni, nei pericoli della guerra e delle traversie dell’esistenza, nelle difficoltà e nelle angosce del vivere - che Egli manifesta nei confronti di coloro che si è scelto.

Questa dinamica che attraversa tutto l’Antico Testamento trova il suo culmine, e insieme un compimento addirittura inimmaginabile, secondo la concezione ebraica nel mistero dell’Incarnazione. E il Verbo divenne carne e mise la tenda in noi, recita letteralmente il testo greco di Gv 1,14, sulla scia di Sir 24,8 ( fissa la tenda in Giacobbe e in Israele prendi possesso della tua eredità; cf. v. 11). L’essere con diventa essere in .

In altri termini, l’incarnazione del Verbo in cui culmina il dono di Dio agli uomini, non è fine a se stessa né costituisce un evento isolato, chiuso e delimitato nella persona di Cristo. L’idea-forza che soggiace all’annuncio evangelico è che l’incarnazione continua il suo effetto e la sua dinamica nei credenti. La finalità della rivelazione del Verbo è, a partire dall’origine, trascinare, coinvolgere in Lui tutti uomini nella relazione con il Padre (Gv 1, il18), perché essi siano il luogo della sua presenza.

È questo il mistero tenuto nascosto dai primordi del tempo e rivelato da Dio ai suoi santi, secondo le parole di San Paolo: Cristo in voi, speranza della gloria (col 1,26). San Giovanni, nei discorsi dell’ultima cena, sviluppa il tema in varie modulazioni e secondo differenti prospettive, ripetendo l’invito: Rimanete in me (gv 15, 4.5.6.7.9.10; cf. 14, 20) perché Gesù vuole introdurre i suoi nella mirabile immanenza reciproca che egli vive con il Padre (17, 21.23. 24 -26).

Il banchetto della Sapienza

Ma ritorniamo alla dimensione più specificamente eucaristica in questo mistero, riprendendo alcuni testi veterotestamentari che l’annunciano, la prefigurano e la preparano. La prospettiva di gratuità ed apertura universale del dono di Dio appare esplicitamente come invito a un banchetto nel convito che la Sapienza personificata offre ai poveri di Spirito in Pr 9, 1-6 (cf. Sir 24,19-21) lo stesso invito, rivolto agli esuli in Babilonia, ritorna in Is 55,1-2 come figura di riconciliazione, per la partecipazione ai beni della nuova alleanza. In dimensione escatologica (cf. Is 25,6), la stessa immagine viene utilizzata per i tempi messianici, rappresentati come la celebrazione di un convito comunionale di Dio con gli uomini. Questo complesso simbolico si pone in continuità con la gioia festiva dei sacrifici di comunione che esprimevano sacramentalmente la partecipazione allo stesso principio vitale - l’alimento del sacrificio - da parte di Dio e dei credenti presenti alla celebrazione liturgica (Es 24,10-11; Dt 16,13-15; 1 Sam 9,13: Ne 8,10-12).

Nel Nuovo Testamento, il tema viene ripreso e approfondito nelle rappresentazioni evangeliche del festino di nozze del proprio Figlio a cui il Padre invita tutti gli uomini (Mt 8,11; 26,29; 22,2-10; Lc 14,15-24; Ap 19,9; ecc.). Modulano la stessa raffigurazione simbolica, pur, sviluppandone alcune risonanze particolari, anche i racconti sinottici delle moltiplicazione dei pani e dei pesci (mc 6,30-44; 8,1-9; Mt 14,13-21; 15,32-39). Il significato propriamente eucaristico di questi segni viene ampliato teologicamente in Gv 6, nel discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao sul Pane di Vita (Gv 6,22-58). Qui l’immagine della convivialità di Dio con noi si dilata e si approfondisce attraverso il tema del pane del cielo che Dio dà, in continuità con il dono della manna nel deserto (Es 16; Sap 16,20-29; Sal 78,24-25; 105,40; ecc.).

La rappresentazione di Dio che provvede il nutrimento ad ogni creatura è correlativa alla sua potenza creatrice, come illustrano vari testi dell’antico testamento (Sal 104, 13.16.28; ecc.). Sul versante dell’uomo, la simbologia della fame e della sete, che indica l’anelito verso ciò che assicura la sopravvivenza, sono evocate insieme per indicare che la vera vita è data attraverso la Parola di Dio (Dt 8,3; Am 8,11). Il Signore è, quasi per definizione, Colui che sazia (Sal 16,11; 17,15; 22,27; 34,11; 37,19; 63,6; 65,5; 78,25; 90,14) in quanto Egli stesso è la Vita dei suoi (Dt 30,,20: perché Lui è la vita). Il primo principio e l’ultimo compimento del vivere – e quindi del desiderio, in senso realistico e spirituale – è il Dio Vivente, fonte dell’acqua viva (Ger 2,13; Sal 42-43; 63,2; 143,6; cf. Ez 47,1; Gl 4,18; Zc 14,8; ecc.).

Nel NT, le stesse immagini e la stessa terminologia vengono riprese in riferimento a Gesù e allo Spirito che egli dona, nel sacrificio di sé stesso (Gv 4, 14; 7, 37-39); sacramentalmente, ciò avviene in ogni celebrazione della Eucaristia, dove il Pane di Vita eucaristico sazia la nostra fame e la nostra sete (Gv 6, 35; cf Sir 24, 20) infondendo in noi la vita eterna (Gv 6, 33.50. 51). Qui, le figure conviviali ed escatologiche evocate in precedenza trovano un punto di sintesi e si articolano con la dimensione della comunione - immanenza reciproca. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dimora in me e io in lui (Gv 6, 56; 14 20. È in tal modo che Egli, eminentemente, permane in noi. San Paolo descriverà la presenza di Cristo in colui che crede in Lui (Gal 2,19) creando perfino dei nuovi termini nella lingua greca del tempo e moltiplicandoli liberamente, per descrivere l’esistenza cristiana come vita con Lui, per Lui, in Lui (cf Rm 6, 4-8; 8, 16-32; Ef 2, 5-6; 3, 6; Fil 3, 10-11.21; Col 2, 12-13; 3, 1-4; 2 Tim 2,11-12).

La vita, dono nell’incontro comunionale

Le linee evidenziate qui dal principio della creazione, attraverso la mediazione della Sapienza, fino all’Incarnazione e al festino escatologico celebrato nella pienezza dei tempi, illustrano essenzialmente la volontà di comunione che il Dio con noi (Immanuel: Is 7, 14; 8, 8.10; Mt 1,23) persegue nella sua relazione salvifica (cf. Ap 21,3: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà con loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”). Questa dinamica tende alla diffusione/condivisione della vita di Dio, che scaturisce dall’incontro con Lui ( cf. Gv 10, 10: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza).

Vorremmo sottolineare qui come la vita nasce dall’incontro: originariamente, dalla Parola di Dio, che costituisce l’altro di fronte a sé (Gen 1-2) e che il NT, sviluppando Pr 8, vede compiersi nella mediazione di Cristo,per Cristo e in vista di Cristo (Col.1,16). L’apostolo Giovanni, contemplando al vertice della creazione il Verbo di Dio fatto carne, annuncia, in dimensione comunionale, che in Lui era la Vita, e la Vita era la luce degli uomini (Gv 1,4; Gv 1,2: la Vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta… la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi).

La vita viene identificata con la persona stessa di Gesù Cristo, che ci conduce al Padre: Io sono la via, la resurrezione e la vita (Gv11,15). E’ per Lui, secondo la 1 Gv, che noi viviamo: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui (1 Gv 41, 9). Una mediazione non solo metafisica o teologica, ma esistenziale, concreta, sovranamente libera: Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a Chi vuole…. Come il Padre possiede la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di possedere la vita in se stesso (Gv 5, 21.26). Chi crede nel Figlio ha la vita eterna (Gv 3, 35).

L’incontro con Dio da cui scaturisce la vita, si dà quindi per e nella comunione con il Figlio suo (Gv 6, 57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me; cf. Gv 1,1-13). Attraverso di lui, siamo introdotti fin d’ora, per grazia, nell’incontro dell’amore frontale del Padre e del Figlio e dello Spirito, inizio dell’essere.

Il mistero eucaristico, nel già e nel non ancora del nostro pellegrinaggio nel tempo, è la modalità sacramentale in cui tale dinamica continua esplicitamente a coinvolgere tutti e ciascuno; in esso si compie quella immanenza reciproca che costituisce l’essenza, il vertice della esperienza umana e cristiana:Voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi (Gv 14,19-20).

Venerdì, 01 Dicembre 2006 21:14

S. Agostino (Franco Gioannetti)

S. Agostino
di Franco Gioannetti



Vita e opere

La vita e gli scritti di Aurelio Agostino fanno un tutt’uno con la sua eredità spirituale, trasmessaci in tre fonti principali: le Confessioni (l’autobiografia di Agostino, a. 397-401); le Retractationes (la recensione delle sue opere, a. 426-427); la Vita Augustini, con il famoso Indiculum o indice dei suoi scritti (registra 1030 opere), scritto dall’amico e discepolo Possidio, tra il 431-439, utilizzando’ricordi personali e scritti conservati nella biblioteca di Ippona.

Aurelio Agostino nasce nel 354 a Tagaste (l’odierna Souk-Ahkras in Algeria), nella Numidia dell’Africa proconsolare, dal padre Patrizio, di professione “curiale” (esattore delle tasse) e di religione pagana, e dalla cristiana Monica (m. 387). Egli espleta il suo curriculum scolastico prima a Tagaste poi nella vicina Madauros, quindi per la retorica a Cartagine. Trascorre in Italia cinque anni (384-388) che gli cambiano la vita. A Roma lo aveva preceduto l’amico Alipio. Nella ex capitale dell’Impero egli inizia ad insegnare retorica continuando a frequentare i manichei ai quali si è legato a Cartagine. Questi ultimi, insieme al prefetto di Roma, Simmaco, lo aiutano ad ottenere l’insegnamento di retorica a Milano (cf Ibid. 5, 13, 23), ove Agostino da un orientamento diverso alla sua vita. Difatti, conosce il suo definitivo disincanto dal manicheismo già iniziato a Roma, il superamento dello scetticismo nella ricerca; la conversione al cristianesimo della Chiesa cattolica, maturata nel semestre trascorso a Cassiciacum nella villa di Verecondo. Adducendo motivi di salute, il giovane retore abbandona l’insegnamento. Fa ancora ritorno a Milano ma solo per iscriversi, con il nome di Agostino, tra i battezzandi della successiva Pasqua e per ricevere il battesimo dal vescovo Ambrogio (veglia Pasquale del 24 aprile del 387). Subito dopo ritorna in Africa, fermandosi un anno ad Ostia in attesa di potersi imbarcare. In quel frattempo muore sua madre Monica. È l’anno 388 ed Agostino all’età di 33 anni, ritorna a Tagaste dove soggiornerà sino al 391. La egli vive con alcuni amici e il figlio Adeodato la sua prima esperienza cristiana a guisa di filosofo cristiano che poi si verrà configurando in quella di monaco, dedicandosi allo studio delle Sacre Scritture ed inserendosi più attivamente nella realtà della Chiesa africana. Nel 391 Agostino viene chiamato dal vescovo d’Ippona, Valerio, a svolgere colà la mansione di presbitero. La nuova situazione incide profondamente nel suo dialogo con la vita, facendo maturare in lui soprattutto la stima per i valori cristiani della gente comune. Agostino è poi vescovo per ben 35 anni: ausiliare tra il 395-396, data della sua ordinazione e dal 397 (data di morte del vescovo Valerio) a pieno titolo. Egli lascia allora il suo monastero di laici, “ i servi di Dio”, che ha fatto costruire ad Ippona e, per potere disporre di una maggiore ospitalità soprattutto a favore di vescovi di passaggio per Ippona, si porta nell’episcopio che trasforma in una monastero di chierici. Agli anni dopo il 396 appartiene la maggior attività di Agostino sia come vescovo che come scrittore. A tale periodo appartengono tra l’altro le sue famose Confessioni. Gli altri scritti di Agostino,divisi per lo più in tre blocchi principali, furono legati a tre fattori principali:alla sua conversione (in particolare i Dialoghi di Cassiciacum e le Confessioni); al ministero svolto in seguito alla sua elezione a presbitero e vescovo della Chiesa d’Ippona strettamente congiunto a quello della sua predicazione (Tractatus in Ioannem, Enarrationes in psalmun o in psalmos, Sermones) – oltre cinquecento – a particolari questioni da lui approfondite. Tra le opere relative a queste ultime ricordiamo le principali. Il De Trinitate in cui Agostino propone la categoria delle relazioni per parlare del mistero trinitario; la proprietà personale dello Spirito Santo come “amore”, peso, dono, comunione, a differenza del Verbo che è immagine; il rapporto tra il ministero trinitario e la vita di grazia, basato sull’essere dell’uomo formato a immagine e somiglianza trinitaria, in particolare nella sua dimensione spirituale. Egli sintetizza tale rapporto in alcune trilogie diventate patrimonio comune, quali “mens-notitia-amor”, “memoria-intelligentia-voluntas”, ecc. Il De civitate Dei verte sulla storia temporale ed eterna dell’umanità (le due città). “Due amori – egli scrive – danno origine a due città: la città terrena il cui amore di sé giunge sino al disprezzo di Dio; la città celeste il cui amore di Dio giunge sino al disprezzo di sé”. Il De doctrina christiana tratta della chiave di lettura delle Sacre Scritture, che è costituita dall’amore di Dio e del prossimo.



Eredità spirituale

Porre in Agostino il problema della sua spiritualità significa voler cogliere il filtro unificante dei suoi scritti come del suo vissuto cristiano. Risulta, pertanto, difficile isolare in lui alcuni aspetti spirituali, chiedendosi ad esempio se il vescovo d’Ippona sia stato mistico o meno, ecc. Da parte nostra, percorrendo i suoi scritti e la sua attività in ordine storico-genetico, tenteremo di cogliere alcune coordinate che costituiscono il tessuto spirituale della sua letteratura che, allo stesso tempo, risulta una delle principali chiavi di lettura della sua opera. In lui vanno distinte, in ordine cronologico, almeno due fasi concernenti la sua spiritualità: 1. dalla conversione all’ordinazione presbiteriale (386-391); 2. dall’elezione episcopale alla morte (397-430). I cinque anni di Agostino presbitero (391-395-396) possono considerarsi di transizione tra i due periodi.

1. Fase dalla conversione al presbiterato. Le attività dell’anima. Negli anni 386-391, Agostino matura due coordinate unificanti: la prima, circa il primato di Dio; la seconda, circa l’autorità della Chiesa cattolica che è degna di fede su quanto essa afferma (Dio, Cristo, i Vangeli, ecc.). In tale ottica egli scrive ad esempio il De moribus ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum. Nel dialogo con il mondo della cultura di allora e con le contrapposizioni manichee tra fede e ragione, Agostino propone la pari considerazione delle due strade possibili di ricerca della verità:l’auctoritas e la ratio. Quanto al primato di Dio, esso costituisce l’incessante ricerca e passione di Agostino durante l’intero arco della sua esistenza. Dal punto di vista metodologico, egli ipotizza la spiritualità del dialogo quale metodo per cercare Dio. In tale contesto scrive i suoi famosi Dialoghi (Contra academicos, sulla possibilità della ricerca della verità; De beata vita, sull’oggetto dei desideri dell’uomo, che è Dio quale suo sommo bene, quindi felicità; De ordine, sul senso della storia umana e la cultura della libertà che essa è chiamata a promuovere). Vuole poi sperimentare i tentativi teorici e ascetici neoplatonici per raggiungere Dio. Ciò coincide con l’abbandono, in un primo momento, del metodo dialogico nella ricerca di Dio, per affidarsi alle forze dell’individuo. I Soliloqui registrano in tal senso un suo duplice tentativo di ricerca di Dio: tramite la virtù (il primo libro) che lo porta ad uno scoraggiamento totale, tanto da volerne abbandonare la ricerca e tramite l’intervento della ragione che lo incoraggia a tentare di cercare ancora (il secondo libro). Questi due tentativi falliti di cercare Dio conducono Agostino a rinunce più profonde per cercarlo ancora, per poter forse raggiungere il momento estatico con Dio. Egli rinuncia prima alla carriera professionale (cursus honorum), quindi al matrimonio facendo una scelta celibataria. Sposa infatti la continenza, come avevano fatto alcuni soldati che si erano ritirati dalla corte imperiale, come egli riferisce nell’ottavo libro delle Confessioni. Quel rapimento estatico tanto sognato e inseguito non costituisce, tuttavia, l’ago della sua spiritualità, anche se egli nelle Confessioni (9, 10, 23-26) narra di un momento estatico avuto ad Ostia insieme a sua madre. Egli compone, nel 391, il De vera religione e, parlando della rinascita interiore e del progresso spirituale, lo descrive ancora secondo lo schema settenario dell’attività dell’anima, benché questa volta faccia riferimento allo schema classico delle sette età dell’uomo. L’infanzia, la seconda età, la puerizia, la terza età, la gioventù (iuventus), la quarta età è la crescita adulta dell’uomo interiore che supera le difficoltà, la quinta età è lo stadio della pace e della serenità dello spirito, la sesta età è l’oblio della vita temporale, vivendo ad immagine e somiglianza di Dio; la settima età è la vita fuori del tempo e di ogni età, quella della felicità eterna. L’estasi di Agostino ad Ostia va collocata verosimilmente nella sesta età (cf Conf. 9, 10, 24). Dopo la morte della madre, Agostino ritorna alla casa paterna dedicandosi con gli amici all’otium filosofico della ricerca di Dio, in una solitudine che sa di monachesimo. Ama quel genere di vita, vi coinvolge altri amici e, nella paura di venirne distolto – racconta lui stesso - si astiene dal visitare città prive di vescovi. Dentro lo schema delle attività dell’anima che vuole ascendere a Dio, Agostino programma a Tagaste la vita dell’otium sanctum dal 388 in poi. La lettera a Nebridio ne costituisce, per così dire la teorizzazione. Ivi delinea la necessità per il saggio di vivere lontano dal mondo , esercitandosi nella virtù per rendersi simile a Dio, una situazione da lui resa con l’espressione deificari in otio. Agostino esplicita tale attività nel rendere a Dio un culto interiore dotato di “securitas” e di “tranquillitas”, descrivendolo come una donazione di Dio nei penetrali della mente “ (Ep. 10,3).

La conoscenza diventa la virtù dell’anima che, esercitandosi a cercare Dio, si assimila a lui rendendo l’essere pio, “già divino”. Agostino deriva facilmente tale spiritualità dagli Oracoli filosofici di Porfirio, da lui citati nel De civitate DeiContra academicos (2,2,3) e nel De magistero (1,2) il saggio neoplatonico, che cerca Dio e lo prega e, così facendo, lo adora in penetralibus mentis, viene tradotto da Agostino nell’uomo interiore nel quale abita lo Spirito di Dio, Cristo, il maestro interiore. Le espressioni bibliche di “Spirito di Dio, Cristo” nel De vera religioneDe sermone Domini in monte del 393. In esso l’ascensione dell’anima contempla ancora sette gradi, ma si riferisce non più all’attività secondo lo schema neoplatonico o a quello delle sette età dell’uomo esteriore, bensì alle attitudini evangeliche e ai doni dello spirito Santo. Egli inizia dal primo gradino, il timore del Signore o l’umiltà cui seguono l’ascolto della Sacra Scrittura, la conoscenza di sé con la preghiera, la fortezza, l’esercizio della carità, la purificazione del cuore sino al tranquillo possesso della sapienza o della pace. Nella prima fase della spiritualità agostiniana è presente tutto il fascino greco dello spirito, della mente o dell’anima che cerca o contempla Dio e le cose oltre il sensibile, fascino che trova un riscontro esperienziale nelle attività dell’anima del cristiano nella linea del sapiente greco. (19,23). Nel prendono una forma articolata, ma sono adoperate ancora in contesto neoplatonico. Egli scrive infatti: “Non uscire fuori di te, rientra in te stesso, perché la verità abita nell’uomo interiore”. Egli parla della redenzione di Cristo nei seguenti termini”(Il Verbo) si è fatto esteriore nella carne per richiamarci dall’esteriorità all’anteriorità, perché lui solo è il vero maestro interiore, essendo lui stesso la verità”. La visione dell’uomo spirituale e biblico anche riguardo al linguaggio, inizia in Agostino con il

2. Fase 391-430 (dal presbiterato alla morte). La spiritualità dell’amore. Le opere e il passaggio alla seconda fase di maturazione del pensiero spirituale di Agostino sono date dal De vera religione del 391 e dall’Ep. 10 a Nebridio in relazione alle attività dell’anima; dal De sermone Domini in monte e dal De fide et operibus del 393 in relazione allo Spirito Santo, principio della vita spirituale. L’insistenza sulle attività dell’anima, prima in versione neoplatonica e poi in quella cristiana dello Spirito Santo, quale principio che santifica e pacifica l’anima, ha come interlocutori prima i manichei e poi i donatisti. Nella polemica donatista Agostino recupera il dono dello Spirito Santo santificatore non come principio in sé, bensì come dono dell’unico mediatore Gesù Cristo, causa e mediazione di ogni santificazione e di vita spirituale.

Agostino divenuto presbitero nel 391, percepisce la non accorta azione pastorale sacramentale dei donatisti la quale, ancorata ad una insufficiente teologia dello Spirito Santo, ha diviso la Chiesa africana in donatisti e cattolici. Egli inizia d’allora a percepire in modo diverso la Bibbia quale fonte della fede e della spiritualità cristiana. Ne individua il messaggio essenziale e ad esso adegua la sua visione spirituale, che risulta nuova rispetto a quella della prima fase dei suoi scritti (sino al 391). Agostino recepisce la sostanza evangelica della rivelazione biblica come carità di Dio e del prossimo. Essa pertanto va ricercata nella Bibbia quale: rivelazione divina, dono dello Spirito Santo diffuso nel cuore dei credenti, chiave ermeneutica delle Scritture, impegno da vivere in ogni stato di vita anche in monastero, sostanza di ogni progresso spirituale. La spiritualità della ricerca di Dio, come attività progressiva dell’anima, viene quindi ripensata dall’Ipponate come amore (carità) nel triplice ambito dell’esistenza del credente, vale a dire personale, ecclesiale e sociale. Egli articola così la spiritualità personale nell’esercizio costante della carità di Dio e del prossimo (il motivo per cui si entra anche in monastero); la spiritualità ecclesiale come comunione tra i battezzati non solo a livello sacramentale e delle comuni divine Scritture, ma anche a livello di condivisione quotidiana dell’eredità cristiana nel vivere l’unità e la pace della Chiesa. In caso contrario si tratterebbe solo di un’appropriazione di parte, come avviene nel caso di eretici e scismatici, e la mancanza della carità priverebbe di effetto salutare qualsiasi realtà cristiana. Gli stessi monasteri di Agostino vengono impiantati non tanto sugli sforzi ascetici del corpo, quanto sull’ascetica continuativa della dilectio di Dio e del prossimo. Agostino spinge il principio della carità sin nel sociale; è sua, infatti i, l’espressione amor socialis che, nei suoi Sermoni, nel Commento ai Salmi e nella Città di Dio, trova vasta applicazione. Del dono della carità, diffuso nel cuore dallo Spirito Santo, Agostino recepisce un po’ alla volta tutta la sua portata nella vita dell’uomo redento. Essa infatti, essendo nell’uomo principio di ogni bene, lo è anche del suo essere spirituale. L’uomo spirituale tuttavia, è in redenzione continua, lo Spirito Santo, perciò, lo santifica, ma non sino ad eliminare in lui, nel tempo della storia, tutta la carnalità di cui parla l’apostolo Paolo. In tale ottica, Agostino attribuisce, all’inizio dell’esercizio del suo episcopato (397), l’affermazione dell’apostolo lex spiritalis est, ego autem carnalis sum (cf Rm 7,14), non solo all’uomo soggetto alla legge mosaica, ma allo stesso uomo redento dalla grazia di Cristo.

Agostino riflette poi in profondità sulla concezione cristiana dell’uomo spirituale. Egli dedica all’argomento l’opera De perfectione iustitiae hominis nella quale, assieme ad altre opere del medesimo periodo riguardanti il rapporto della grazia con la libertà, esplicita un concetto fondamentale. L’uomo spirituale è l’uomo redento che, tuttavia, resta sempre assoggettato alla legge della concupiscenza. Egli, perciò, dovrà invocare ogni giorno l’aiuto divino e il suo perdono, secondo l’insegnamento della preghiera del Signore che chiede per tutti “rimetti a noi i nostri debiti” (Mt 6, 12). Il dominio assoluto dello spirito sulla carne si avrà solo con la risurrezione, quando il corpo corruttibile si sarà vestito d’immortalità. La vita spirituale ha il suo inizio nel germe di vita divina ricevuta del battesimo; la sua crescita contempla la lotta quotidiana contro ogni concupiscenza, in particolare la superbia, cui vanno contrapposte l’umiltà, la fede, la preghiera, la carità. I peccati commessi per errore, ignoranza e debolezza o imperfezioni che, nel De sermone Domini in monte, sono
considerati peccati della vita presente.

L’uomo spirituale, creando la propria dimensione spirituale in costante riferimento alla carità, si pone al servizio dell’evangelizzazione della Chiesa. In tale ambito di carità evangelizzante, Agostino comprende particolarmente quanti scelgono di vivere nei suoi monasteri (i “ servi di Dio “, gli “spirituali “ a disposizione della missione evangelizzatrice della Chiesa). Parla, infatti, della loro spiritalis dilectio (Regula 6,43), definendoli spiritalis pulchritudinis amatores (Ibid.8,48) dove lo spiritalis non si oppone al materiale, ma connota ciò che nasce dalla carità. Nei Tractatus sul Vangelo di Giovanni (in particolare Tr.98 e 120) Agostino offre una sintesi dell’insieme in relazione al Verbo incarnato, Redentore degli uomini, quale filtro spirituale nel fronteggiare il vissuto quotidiano. Quanto al riferimento a Cristo, il Verbo incarnato è cibo dell’uomo spirituale come di coloro che iniziano a credere, che l’apostolo Paolo qualifica come i “piccoli” (cf In Io. Ev. 98, 6). Nel Tractatus in Io. Ev. 120Agostino, riprendendo l’immagine del Cristo crocifisso, raccoglie sotto la croce tutti i battezzati, i piccoli e gli spirituali, ponendoli in relazione all’intera umanità. Essi, infatti, dopo che, salendo la croce, passano attraverso il costato aperto del Crocifisso, ne ridiscendono unificati divenendo Chiesa, inseriti così nel suo ministero di incoraggiare l’umanità delle generazioni che si susseguono a salire anch’esse la croce perchè, purificandosi nel cuore trafitto del Salvatore, diventino “Chiesa”. Nella Chiesa di Cristo, pertanto, c’è chi arriva prima e chi arriva dopo, ma comune è il servizio da rendere all’umanità costituendo, tra cristiani e non cristiani un unico essenziale rapporto, quello di incoraggiarsi a lasciarsi unificare dall’unico Redetentore dell’umanità, il Signore crocifisso. Nella capacità-dono consiste, per Agostino la vita spirituale con ogni sua possibile crescita. Si diventa spirituali per mezzo della carità, diffusa nel cuore dallo Spirito Santo. Per Agostino conosce Dio e l’uomo, non chi ne fa oggetto di studio, ma chi li ama. Non si può amare ciò che s’ignora del tutto ma, quando si ama ciò che in qualche modo si conosce, grazie a tale amore si riesce a conoscerlo meglio e più in profondità. L’amore, dunque, a una forza unitiva e conoscitiva per assimilazione. La crescita spirituale è quindi relazionato alla carità dalla nascita al suo compimento.

L’uomo spirituale, modellato su Cristo, porta in sé l’immagine dell’uomo celeste; a lui tuttavia sono necessarie, allo stesso modo che al neofita, la fede, la speranza, il lottare e la preghiera per il perdono quotidiano finché si vive nel corpo. Costituisce pertanto l’uomo spirituale non la scienza, ma la carità, che lo spinge ad uscire dal suo deificari in otio per la missione della Chiesa.

Agostino indica un’articolazione particolare della spiritualità della carità nella trilogia semantica di “cuore-misericordia-amicizia”.

L’espressione antropologica di “cuore”, che allora connotava l’uomo concretamente orientato quanto al suo destino, la esplicita nelle categorie di libertà e di grazia; di misericordia e di amicizia. Il cor è la risultanza base dell’incontro tra il libero arbitrio dell’uomo e la grazia di Dio. Il termine “misericordia” appartiene a sua volta alla famiglia semantica di cor (da urere = bruciare la miseria), e l’oculus cordis diventa la capacità propria dell’uomo spirituale. L’oculus cordis affonda le sue radici nei recessi del cuore, che genera il desiderio, l’anima “del vedere del cuore”. Per l’oculus cordis, d’altra parte, “attingendo Dio”, in proporzione del distendersi del desiderio, diventa importante il come nutrirlo. Agostino, evitando di proposito di far leva sull’ascetica del corpo, soggetta di per sé a troppe ambiguità, insiste sugli auxilia comuni a tutti, vale a dire: le divine Scritture, l’assemblea del popolo di Dio, la celebrazione dei misteri, il santo battesimo, il canto delle lodi di Dio, la predicazione, proponendo ancora una volta la vita spirituale come un bene comune. Se la misericordia è l’atto iniziale necessario per il rapportarsi di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro, l’amicizia ne è il frutto, la conseguenza possibile e inoltre necessaria per vivere la vita umana che è comunicazione interpersonale. Prescindendo dall’amicizia, i rapporti umani verrebbero mediati non dalla realtà delle persone quali esse sono, bensì dall’idea che reciprocamente esse si fanno le une delle altre, cioè a livello di fantasmi, come si esprime Agostino. L’amicizia, infatti, fa sì che i cuori s’incontrino ed appartiene alla categoria dei beni comuni o di tutti. Ogni essere umano, perciò, va educato alla capacità di amicizia e va messo in condizione di poterne usufruire, ponendo Cristo a suo fondamento perché possa essere duratura.

L’Agostino credente intravede che Dio porta in sé il segreto del mistero dell’uomo, che anzi proprio nel suo cor ha la sua dimora. Dio, infatti, con la sua presenza risana il cuore contrito, accoglie come offerta gradita il cuore umile e l’uomo “ritrova quel Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere”. (Sol. 1, 1, 3). In Cristo le due vie, quella di Dio e quella dell’uomo, s’incontrano, perciò lui è la via, la verità e la vita dell’uomo. Agostino chiama pertanto Dio e Cristo col nome di “misericordia”.

“Questa terra ha un padrone”
di Marcelo Barros

Fu il grido di battaglia di Sepé Tiaraja, leader della resistenza guaranì contro l’imperialismo portoghese. Oggi è ripetuto dalle comunità indios latino-americane che lottano per la propria terra e scorgono in “São Sepè” un modello cui ispirarsi.

Per le comunità cristiane e per i gruppi popolari del Brasile, il mese di febbraio 2006 segna il 250° anniversario del martirio di Sepé Tiaraja, un cacicco guaranì che, nel secolo 18°, guidò il popolo indio nella difesa delle proprie terre ancestrali e nella lotta di resistenza contro il Portogallo e la Spagna.

Nella realtà attuale del Brasile, i contadini senza terra, i gruppi indigeni e i movimenti popolari celebrano questa memoria per riappropriarsi di quella stessa ‘”mistica di liberazione” che oggi mobilizza tutta l’America Latina, a partire dal concetto di “rivoluzione bolivariana” (dal generale venezuelano Simòn Bolivar, che nel 1813 liberò il Venezuela dagli spagnoli).

Il significato di ”guaranì” (termine che designa sia la lingua che il popolo) è “guerriero”. Dal 1610 al 1750, i gesuiti riunirono queste popolazioni guerriere in comunità pacifiche e fiorenti (le famose “riduzioni”, fondate presso i guaranì, specialmente tra i fiumi Paranà e Uruguay, e dal 1628 anche tra i tapi, sull’altra riva dell’Uruguay; al loro apogeo, nel 1731, le riduzioni del Paraguay contavano 141mila indios cristiani). I guaranì misero a frutto le proprie energie per edificare case e consolidare tecniche agricole (molto avanzate per quell’epoca). Arrivarono al punto di stampare libri, fondere il bronzo, fabbricare violini e comporre musica.

La cosiddetta “Repubblica dei guaranì” era formata da sette popolazioni del Rio Grande do Sul e da 26 villaggi nel territorio che oggi appartiene all’Argentina e al Paraguay. La pace che regnava nelle riduzioni trovava il suo fondamento nel lavoro comunitario e cooperativo, i cui frutti venivano equamente suddivisi tra gli abitanti. Contrariamente a quanto accadeva nel resto del continente, non c’erano marcate disuguaglianze sociali.

Si trattava, insomma, di un sistema sociale mai praticato prima di allora, ma elogiato prima dagli illuministi francesi (Voltaire, intellettuale francese dall’ingegno caustico e spregiudicato ed estremamente critico nel confronti del clero, ebbe a scrivere: «L’esperienza cristiana delle missioni guaranì rappresenta un vero trionfo dell’umanità») e poi anche da Gandhi, che lo considerava la realizzazione utopica di una società nonviolenta ed equa. (I resti di queste riduzioni sono ancora presenti nella foresta e considerate dall’Unesco patrimonio dell’umanità).

Questa esperienza comunitaria, dai marcati caratteri socialistici, preoccupò non poco gli imperi coloniali. Con la firma del trattato di Madrid del 1750, in base al quale le missioni della riva orientale del fiume Uruguay passarono sotto la giurisdizione portoghese (che si opponeva all’esperimento), cominciò la decadenza delle riduzioni. Subito dopo, gli eserciti coloniali dei due imperi si unirono per espellere oltre 50mila indios dalle riduzioni, obbligandoli ad abbandonare le case, le piantagioni, le chiese e le loro comunità.

José Tiaraju - più conosciuto come Sepé, cioè “Raggio di Luce” -, corregedor (sindaco, potestà, prefetto) della riduzione di São Miguel, democraticamente eletto dagli indios, non accettò le decisioni del trattato di Madrid e si mise a capo della resistenza guaranì, con il noto “grido di battaglia”: «Questa terra ha un padrone».

Il grande cacicco guaranì morì in uno scontro armato con le truppe portoghesi e spagnole: era il 7 febbraio 1756. Dopo altre battaglie, sia politiche che armate, la Compagnia di Gesù fu espulsa dai territori portoghesi (1759) e dalla zona d’influenza spagnola (1767).

Le ultime riduzioni guaranì sopravvissero di poco. Il sogno missionario di una società comunitaria cristiana fu fatto fallire. Ma la gente del sud del Brasile non ha mai dimenticato Sepé Tiaraju: lo ha anzi “canonizzato”, giungendo a dedicargli una città, São Sepé, nel 1876.

La speranza dei movimenti popolari latino-americani odierni è che la memoria del martirio di “São Sepé” torni a riaccendere la mistica-spiritualità della lotta popolare. In Bolivia, un indio aymara è stato eletto presidente. In Venezuela, il popolo sta vivendo l’esperienza di una riforma agraria e di una campagna massiccia di alfabetizzazione degli adulti. In Ecuador, il Coordinamento dei movimenti e delle comunità indigene (Conaie) sta donando agli indios un protagonismo politico che non hanno mai avuto prima. In tutti i paesi del subcontinenre, i popoli indios, come pure le comunità rurali e urbane, si stanno unendo per gridare a tutti che «un altro mondo è possibile» e per ripetere agli imperi di oggi il grido con cui São Sepé affrontava i portoghesi: «Stop! Questa terra ha un padrone!».

(da Nigrizia, febbraio 2006)
Venerdì, 01 Dicembre 2006 20:39

Siate svegli! (Giovanni Vannucci)

Siate svegli!
di Giovanni Vannucci

Gesù disse: «Abbiate gli occhi aperti, siate svegli! La venuta del Figlio dell’Uomo non vi trovi addormentati» (Mc 13, 35).

Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha avuto la sua perfetta manifestazione in Gesù Cristo; il Figlio dell’Uomo viene continuamente, nella silenziosa ascesa di ogni coscienza nella verità e nella grandezza dell’uomo. Ascesa che rivela l’inconsistenza, la presunzione, la mancanza di saggezza di tante nostre limitazioni. Siamo noi cristiani? Per rispondere non guardiamo i registri di battesimo, le idee religiose, le pratiche devote; interroghiamo la nostra ascesa nella verità di figli dell’Uomo e di figli di Dio.

Il sussiego che caratterizza troppo spesso la nostra professione di fede cristiana è un impedimento alla nascita in noi dell’Uomo vero, figlio della terra e del cielo. L’Uomo vero è in cammino, ed è la silenziosa incarnazione della Parola eterna nell’umana coscienza, la non violenta, tenace come la forza della vita, regale presa di possesso degli uomini che le appartengono per quelle qualità che non sono di questo mondo, ma del mondo futuro, del tempo nuovo. «Verranno dall’Oriente e dall’Occidente uomini silenziosi e illuminati, che non appartengono alle ufficiali file dei cristiani, e prenderanno il loro posto».

Gesù è venuto a portare il tempo nuovo, tempo equinoziale per tutta l’umanità. Come l’equinozio separa la stagione, cosi il tempo nuovo portato da Gesù separa la pesantezza della carne dell’uomo dalla santità della sua natura spirituale. Come il gallo del mattino, Egli chiama i dormienti; quelli che si sveglieranno e che sapranno restare svegli, saranno la sua eredità; coloro che terranno chiusi gli occhi, che entreranno dormendo nel tempo nuovo, resteranno eredità della bestia che è in loro.

Egli fu innalzato per essere un segnale alle genti perché il suo grido venisse udito da tutti i dormienti.

Siate svegli! È il segreto della potenza e della vittoria umana. Siamo convinti di essere svegli, in realtà dormiamo un sonno profondo e siamo tormentati da sogni di incubo. Con fili di sogni ci siamo costruiti una rete ove siamo rimasti impigliati, più ci impigliamo e più ci addormentiamo, e più ci addormentiamo, più l’elemento bruto della nostra natura si risveglia. E così, ottusi, indifferenti al bene, incapaci di pensare autonomamente, molti di noi vanno per le strade della vita come mandrie verso l’ammazzatoio; altri, sognando e agitandosi nel sogno, credono di essere svegli, in realtà dormono ancora più profondamente, posseduti più profondamente dal torpore, e questi non sono affatto i poeti, i contemplativi, i dotati d’immaginazione creatrice, sono invece gli attivi, gli zelanti, i costruttori, gli iniziatori di movimenti di massa, i dominatori di popoli, i vari messia bruciati e distrutti dalla mania di agire; quelli che han sempre da fare, gli agitati. Pensano di essere svegli, di sapere quel che fanno, di volere ciò che vogliono, in realtà il sogno è il loro padrone, non essi i padroni del sogno.

Essere svegli significa partecipare con pensiero cosciente e vigile a ogni istante della vita, per avvertire i segni che vengono dall’alto e dal profondo, dalle dottrine stabilite e dalle coscienze viventi che tali dottrine sentono ormai legate a un passato che più non è per l’uomo. C’è il tempo dell’apparizione delle gemme e il tempo della fioritura, il tempo della fruttificazione e quello del ritorno del germe in seno aIla terra, per poi risorgere alla vita. E ogni tempo ha la sua parola e il suo annuncio; quando è l’ora dell’interramento, il rimpianto e la nostalgia dei fiori e dei frutti non hanno più senso, sono sogni dell’uomo che non è sveglio.

Essere svegli è l’atteggiamento richiesto a ogni coscienza lungo le tappe che costeggiano il cammino della Rivelazione, che ascende trascinando con se le anime vigilanti. Per noi, creature umane, il mistero religioso vien celebrato nell’essere svegli; dobbiamo imparare a passare da un risveglio all’altro, se vogliamo vincere la morte. La morte s’inizia a vincere superando il torpore, il sonno, il sogno. Il primo passo è vincere il primo nemico, il corpo, con le sue esigenze di vita comoda e protetta, di ricerca di beni confortevoli e di mura calde e protettrici; il secondo è l’anima con le sue richieste di essere stimata e applaudita, amata e considerata; il terzo è la ragione concreta, quella che da l’illusione della veglia, che identifica le sue conoscenze con la sapienza divina, i suoi piani con i valori divini, le sue ideologie con i pensieri divini. La vittoria sul primo dischiude il pensiero cosciente; quella sul secondo apre il dono del discernimento del proprio personale compito; quella sul terzo ci offre la grandezza dell’umiltà. La consegna evangelica a chiunque lotti per essere sveglio è di gettare allo sbaraglio la propria vita, la propria anima, per possederla.

Lo stato di veglia è la cosciente apertura mentale al mistero divino infinitamente lontano da noi, ma che ci avvolge dentro di sé, ed è in noi più assai che il battito del nostro cuore. Sempre avanti alla sua creazione, che guida alla perfetta fioritura di tutti i germi di vita che instancabilmente vi dissemina.

Essere svegli vuoi dire aver raggiunto l’apertura dell’occhio interiore che scorge il cammino di Dio nel creato e spinge tutto l’essere umano a seguirlo. Nello stato di vigilanza il corpo viene mutato nello spirito; il cuore si spoglia dalla cupidigia di prendere e di ricevere e si dischiude nella qualità divina del dare senza misura, senza tornaconto, senza bramosia di premio; la mente comprende i limiti, le angustie delle proprie visioni e con umiltà si offre alla vastità del pensiero di Dio.

Il tempo nuovo avvolge l’uomo vigilante, e attraverso di lui si rivela Colui che è venuto e che verrà sempre, nelle coscienze che aprono gli occhi al suo eterno ritorno.

(da Giovanni Vannucci, Siate svegli, 1a domenica d’Avvento - Anno B; in Verso la luce, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 11-14).

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