Formazione Religiosa

Martedì, 09 Gennaio 2007 01:33

Gesù Cristo, fine della storia umana (Bruno Secondin)

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A – GESÙ CRISTO,
FINE DELLA STORIA UMANA
di Bruno Secondin

Il redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri delle civiltà, il centro del cosmo e delle aspirazioni dell’umanità (cf. GS 45).

La corsa gloriosa della Parola (2Ts 3,1) dalla creazione all’eschaton ha come centro l’avvento sulla terra di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Il suo messaggio e la sua vicenda hanno segnato gli ultimi due millenni in maniera unica: egli è stato il vero protagonista di progetti e valori, fermenti e speranze collettive, resistenze e utopie religiose.

Ogni epoca storica - non solo quella attuale - si è trovata nella necessità e nel rischioso compito di colmare il divario fra le generazioni e gli strati culturali, a provare ed esperimentare formule «cristologiche» culturalmente nuove o più vicine alle generazioni più giovani. Ma ancor più frequente è stata l’esperienza di un dialogo vitale con le culture periodicamente emergenti o già ricche di grande maturità.

Nel primo caso non è mancato il rischio di ricorrere ad una ortodossia irrigidita o di vedere talora mutilata la rivelazione nelle sue esigenze di autenticità e nella gerarchia dei suoi contenuti vincolanti. Sono le note tendenze al fondamentalismo dogmatico o al riduzionismo per paura della radicalità evangelica. Il compromesso o l’esasperazione della tradizione sono sempre deleteri per la stessa radicalità evangelica.

Nel secondo caso - specie nei momenti di grandi trasformazioni sociali - si è trattato di un cammino in compagnia delle culture, e delle loro trasmigrazioni, per dare e ricevere, riconoscere e seminare, criticare e purificare. Si è così realizzata la possibilità anche per la precedente «sintesi», di uscire dai propri limiti (culturali o linguistici) e trascenderli, per una migliore e più significativa «cattolicità».

I

Dalla memoria la profezia

Dobbiamo ritrovare la creatività apostolica e la potenza profetica dei primi discepoli per affrontare le nuove culture», ha detto Giovanni Paolo II al Pontificio consiglio per la cultura (18 gennaio 1983). Ma è un compito per niente facile.

In effetti le enormi trasmigrazioni culturali cui partecipano le nostre generazioni hanno da un pezzo scompaginato la simbiosi fra Vangelo e cultura, fra linguaggio comune e valori religiosi, fra modelli di comportamento e di riferimento e progetti cristiani. A tal punto che si può veramente parlare di una plasmazione nuova di tutto il sistema di evangelizzazione ereditato. Quei «molteplici rapporti tra messaggio della salvezza e cultura umana» (GS 58) che avevano consentito alle generazioni precedenti di raggiungere una quasi totale omogeneità cristiana, si stanno rivelando oggi difficili. se non addirittura impossibili.

La nuova generazione e la nuova cultura emergente, sono dominate dalla fattualità, dalla libertà creatrice e istintuale, che portano alla crisi di ogni riferimento, alla così detta «identità stabile», per sposare la civiltà della dimenticanza (come dice Heidegger). E il ritardo culturale di tutto il sistema comunicativo ecclesiale conduce all’impotenza crescente nell’evolversi della cultura, e all’incapacità a confessare e testimoniare Gesù Cristo come salvatore della storia e del cosmo, pienezza delle attese di liberazione e di pace fra i nostri contemporanei.

Notiamo:

«Per ciascuna cultura è presente il dinamismo pasquale, della morte e della risurrezione, grazie al quale la chiesa si può arricchire, ma anche tutto il genere umano. Bisogna perciò che nei battezzati si risvegli il senso critico per giudicare i germogli di vita e di morte nascosti nel inondo. Una evangelizzazione che non arrivasse al cuore della cultura sarebbe solamente superficiale e vuota. Infatti una fede che non permeasse la cultura non sarebbe pienamente recepita, né rettamente compresa, né vitalmente assimilata (cf. Giovanni Paolo Il, Al popolo belga, 20 maggio 1985)». (1)

Tradizione e comunicazione

Non si può negare che oggi le possibilità di comunicazione sono enormi: ma non è la mancanza di comunicazione che fa problema, quanto piuttosto il suo processo di elaborazione e i suoi contenuti. In effetti la densità di comunicazione si trasforma - in progressione geometrica - in vera e propria anemia di autenticità personalizzante e comunicativa. Le parole certamente corrono, ma il dialogo è soffocato e ristagna: tutto è trasformato in res quantificabile sulla base degli interessi pan-economici (acquirente, consumatore, numero statistico, mezzo di scambio...).

In tale regime non è per nulla agevole parlare e pensare la propria fede in termini acculturati.

Se la parola fa esistere l’uomo e lo qualifica socialmente, ma poi tale parola diventa monopolio operativo di pochi e passività di molti, anche la Parola di vita rischia di affogare nel marasma del verbalismo ubiquitario. Oppure verrà asservita a progettualità che si fondano sulla dominanza degli uni sugli altri, anche se in forme religiose.

Il molteplice caos che imperversa a livello di evidenze etiche, di appartenenze sociali, di valori guida, esige non solo di resistere alla mercificazione del Logos, operata sulla base delle emozioni effimere o di sensazioni magico-taumaturgiche. Ma postula anche una riscrittura dell’intera sintassi dell’evangelizzazione secondo condizioni culturali nuove.

La babele dei linguaggi che caratterizza la nostra stagione, non consente l’uso innocente del linguaggio tradizionale: perché spesso si tratta di codici culturali obsoleti o ipostatizzati in altri contesti sociali, oggi scomparsi. Piuttosto esige una decodificazione del nostro bagaglio culturale di evangelizzazione, per distinguervi i dinamismi vitali e i rivestimenti caduchi, per cogliere la Parola e discernere la sua presenza fra le parole.

La legge “incarnatoria”

L’incontro con la cultura e le culture può essere una grande sfida, ma di fatto è anche una grande promessa per la fede cristiana, e oltre tutto corrisponde ad un’esperienza più volte vissuta dalla comunità del Signore. Sappiamo bene che la rivelazione divina ha una «struttura incarnatoria». La Bibbia stessa ne dà esempio dalla prima pagina fino all’ultima: dal racconto della creazione all’immaginario apocalittico, troviamo attestata la presenza ed evidente l’osmosi con le culture antiche della Mesopotamia, dei babilonesi, degli egiziani, e poi dei greci e infine dei romani.

Quando il Verbo si è fatto carne ha assunto le forme della cultura ebraica del suo tempo: che era essa stessa frutto di stratificazioni diverse nel tempo e nei valori.

Poi il messaggio evangelico, annunciato in lingua e mentalità ebraico-aramaica, è stato trascritto (e reinterpretato) in greco e progressivamente ha assunto modelli latini, siriaci, bizantini, ecc. Infine prendendo forma attraverso le successive ondate biologiche ed etniche, ha attraversato le culture occidentali impregnandole profondamente, ma anche ricevendone strumenti per una esplicitazione eccellente.

Dice Gaudium et spes:

«La chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli. Ma allo stesso tempo, inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo. la chiesa non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, è in grado di entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la chiesa stessa quanto le varie culture».

Oggi tenta di esprimersi nelle lingue e negli elementi vitali delle culture di tutti i popoli. Il compito grandioso e creativo del prossimo millennio sarà il processo di penetrazione evangelica nelle culture dell’Africa e dell’Asia. Di fatto è appena all’inizio, ma già si intuiscono sviluppi fecondi!

Negli ultimi anni abbiamo visto esplodere, dentro il quadro collaudato della cultura umanistica dell’occidente, una cultura materiale ed efficientistica - la così detta cultura delle mani - che sgretola l’antica sintesi e porta ad un enorme pluralismo ideologico e culturale mai incontrato nel passato. E questo comporta una nuova stagione di annuncio e maturazione del Vangelo.

Noi sappiamo bene che la pluralità delle culture non è una maledizione, perché anch’essa è frutto della crescita dell’umanità (nonostante i limiti reali). La pluralità riflette la ricchezza senza misura della verità: e il disegno di Dio è riconciliare in Cristo la molteplicità delle cose (cf. Ef.10; Col 1,20).

Il divorzio o la rottura fra Vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca (cf. Ef 20), ma la soluzione non è quella di voltarsi indietro e rimpiangere l’antico connubio o risuscitare l’antica «cristianità». Piuttosto, come suggerisce Puebla:

«Fare attenzione verso dove si dirige il movimento generale della cultura, più che guardare al retaggio del passato; guardare alle espressioni attualmente in vigore, più che a quelle puramente folkloriche» (n.398)

Solo così è possibile individuare le nuove «sintesi» che stanno emergendo, vivendole da protagonisti e non da distratti spettatori («la vita non è uno sport da spettatori») e fermentarle con l’annuncio di Cristo. Il termine nuovo dell’evangelizzazione è l’incu!turazione: tutti ne parlano e significa appunto l’esperienza di compagnia e crescita insieme alle culture, dal loro interno, orientandole e arricchendole. Questa trasformazione delle culture è un’esigenza intrinseca e necessaria del principio teologico secondo cui Cristo è l’unico Salvatore e senza di lui nulla può salvarsi.

Dice la Evangelii nuntiandi:

«Raggiungere e trasformare, con la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero. le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno di salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo: occorre evangelizzare - non in una maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo» (nn. 19-20).

Tutto l’umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, dalla sua azione liberatrice, dalla sua pienezza ultima, e trovare in lui dignità e consistenza, per virtù della vita vera che comunica il Verbo di vita.

Rimane sempre valido nell’ordine pastorale il principio formulato già da sant’Ireneo: «Ciò che non viene assunto non viene neppure redento». Gesù è la via al Padre, e tutta l’umanità deve passare per la strada della sua carne gloriosa, per essere un unico e cosmico «Amen!» con lui al Padre.

Karl Rahner, nella sua vecchiaia - facendosi carico di certe nuove esigenze molto diffuse - ha detto circa l’annuncio cristologico:

«La chiesa deve mantenere, difendere e proclamare il suo dogma cristologico (e naturalmente lo farà). Tuttavia penso anche che questo annuncio dovrebbe avvenire in modo da giungere più facilmente di quanto non sia oggi. Infatti l’annuncio effettivo ha, non come tesi esplicita ma come “ambiente”, una tonalità di carattere monofisita e questo causa le difficoltà della fede in Gesù Cristo che non dovrebbero esistere».

E aggiunge ancora:

«La mia opinione è questa: che qualora fosse predicata in maniera più viva e naturale la vera semplice autonoma sperimentabile umanità di Cristo, in forza della quale - come professa la chiesa - egli è consostanziale con noi; e qualora nella predicazione non si facesse di Gesù, sia pure non intenzionalmente ma di fatto, un Dio nella livrea di uomo; qualora... si proclamasse con più chiarezza, vivacità e convinzione il dogma di Calcedonia della permanente distinzione di divinità e umanità nella persona concreta di Gesù; qualora.., si presentasse, ad esempio, senza complessi, Gesù come un ebreo del suo tempo, quell’ebreo che egli era: qualora si tenesse in conto più apertamente, almeno entro determinate circostanze, anche di uno sviluppo personale di Gesù nonostante il fatto di trovarsi costantemente in unità col Logos: ecco io penso che allora la proclamazione del dogma permanente della chiesa, per quanto riguarda la cristologia, potrebbe diventare più facile... Forse vi sono teologi che, presi da un grandioso entusiasmo per la loro fede, si sentono superiori a questi problemi; ma io non vorrei far parte di essi, bensì sforzarmi di evitare costantemente, per quanto è possibile, questi malintesi o difficoltà inerenti alle affermazioni di fede, perché la fede cristiana non sia resa per la gente più pesante di quanto necessario, perché questo peso sia il peso della fede e non il peso che, hanno aggiunto alla fede teologi pigri e antiquati». (2)


1) Le propositiones, si trovano pubblicate integralmente in varie riviste. Noi citiamo dalla rivista «Regno-documenti» 32(1987), 21, pp. 700-709. Nello stesso fascicolo si trovano anche altri testi importanti del sinodo dei laici. Una raccolta organica dei documenti SYNODE ÈVÊQUES 1987, Les laïcs dans l’Église et dans le monde. Leur vocation et leur mission ans après Vatican II, Centurion-Cerf, Paris 1987. 2) Regno-documenti 26 (1981), II pp. 364-372.

2) Regno-documenti 26 (1981) II pp. 364-372.

II

Gesù Cristo al Centro

«Non c’è vera evangelizzazione se il Nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati. La storia della chiesa, a partire dal discorso di Pietro la mattina della pentecoste, si mescola e si confonde con questo annuncio» (EN, n. 21).

Non c’è dubbio che l’annuncio di Gesù, salvezza dell’uomo e rivelazione suprema di Dio, e la ricerca di forme e vie per vivere esperienzialmente questa verità dominano tutti i secoli della storia della chiesa, anche la storia dell’umanità dei due millenni dell’era cristiana. Oggi si può affermare che non c’è persona nel mondo civile che non abbia qualche nozione o informazione su Gesù di Nazaret, questo personaggio davvero unico nella storia.

Senza Gesù non vi sarebbe il cristianesimo, e senza il cristianesimo l’occidente e il mondo intero mancherebbero di una componente unica della loro storia. Non solo la vita spirituale, ma anche l’arte, la cultura, la stessa vita politica, tutta la tradizione sociale sono state toccate intimamente dal messaggio di Gesù e dalla presenza dei suoi messaggeri con le loro organizzazioni. Basta pensare a ciò che sono state e sono tuttora per l’occidente e per le culture che da esso hanno preso forma, la dialettica stato-chiesa, fede-cultura, religione-umanismi, e la missione universale del cristianesimo. Per non dire dei grandi temi del pensiero e dell’etica: come fede e ragione, libertà e destino, peccato e salvezza, natura e grazia, vita presente e vita futura. Ai quali si deve aggiungere la ricerca sul significato della storia e della vita umana. In occidente e in buona parte del mondo, molto rimanda a Gesù di Nazaret e alla sua chiesa: dall’arte alla letteratura, dalla geografia all’identità nazionale, dalle istituzioni ai linguaggi, dai progetti alle tragedie collettive.

La grandezza dell’uomo Gesù

Da lui l’uomo, in qualunque individuo si voglia esprimere, è stato esaltato ai vertici dei valori. Da lui il singolo è stato abilitato a rivendicare la propria dignità e libertà di coscienza di fronte a ogni genere di potere autocratico e di costrizione sociale. Per questo la persona di Gesù ha sempre goduto di una riverenza incondizionata: e nulla lascia presagire che diminuirà nelle generazioni che ancora verranno.

Gesù è stato oggetto di amore e di venerazione, ma anche di avversione radicale durante la vita come pochi altri uomini; ma nessuno come lui ha contato dopo di sé tanti che l’hanno seguito fino a morire per restargli fedeli.

Studiosi e critici di ogni tendenza hanno tentato negli ultimi due secoli di intaccarne la sincerità e la consistenza, ma la loro ricerca sulla testimonianza, per quanto frammentata. è servita ad illuminare ancor meglio la figura storica di Gesù, che emerge nella sua unicità. Anzi essa appare irriducibile, sotto qualunque aspetto, alle stesse realizzazioni che si appellano a lui. Si potrebbe quasi dire che in verità ogni generazione scopre «tratti ispirativi» nuovi di Gesù, lasciandone altri alle generazioni che verranno.

I suoi rapporti con gli uomini e le donne, con i ricchi e i poveri, con i potenti e con i deboli, con chi soffre e con chi è nella gioia, con chi patisce ingiustizia e con chi invece la compie. sono diventati delle categorie emblematiche universali della perfezione morale stessa.

Soltanto figure come Mosè, Budda, Maometto, Confucio, variamente controllabili dagli storici. possono parzialmente essergli avvicinate. Ma per quanto si sa , nessuno ha osato dire ciò che invece Gesù ha detto con insistenza e sconcertando non pochi: di essere il Figlio di Dio.

Nessuno ha avuto una storia pari alla sua. La sua persona e il suo messaggio hanno influenzato e influenzano le stesse grandi religioni del mondo.

In particolare sono le sue parole che non hanno eguali. Si è potuto affermare che in Gesù la parola ha raggiunto il massimo della sua intensità e capacità espressiva. Si pensi al discorso della montagna o alle parabole del Regno. Forse anche per questo i discepoli l’hanno salutato come il Logos, la parola divina diventata carne per comunicarsi agli uomini.

Ma come tutti sappiamo l’annunzio, la relazione vitale. l’esperienza con Gesù non hanno sempre avuto le medesime tonalità e mediazioni. Ogni epoca ha riascoltato la domanda provocatoria: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15), e vi ha dato risposte sempre nuove, sempre legate alla sensibilità culturale, alle prospettive globali dell’esistenza umana e dell’autocoscienza ecclesiale.

Così è stato durante la storia antica e così si verifica ancora oggi. Infatti anche i nostri ultimi decenni segnano chiaramente una dilatazione delle questioni cristologiche a carattere soprattutto globale: e così nascono le nuove cristologie, di cui parleremo brevemente.

E’ tanto vero questo, che qualcuno ha sollevato con violenza la questione, se negli ultimi secoli non si sia verificata un’apoteosi del cristocentrismo che ha sbilanciato la bipolarità secolare teocentrismo/cristocentrismo. Due teologi francesi, J. Milet e C. Duquoc, hanno richiamato l’attenzione su queste punto, il primo, in verità, in maniera piuttosto polemica.

Due secoli di studio

Per quasi 1700 anni la questione storica della cristologia è stata praticamente pacifica. Ma verso la metà del 1700 la pacifica situazione viene interrotta dalla grande discussione sulla storicità di Gesù. Questa è stata certamente una delle cause della iperconcentrazione della riflessione e delle ricerche su Cristo.

Possiamo riassumere brevemente i motivi della discussione sulla storicità in quattro interrogativi:

- Tutti i fatti straordinari narrati dal Vangelo sono razionalmente possibili?

- In caso di risposta affermativa, è possibile, partendo dai racconti evangelici, considerati storici, giungere ad una ricostruzione della vita di Gesù?

- In caso di risposta negativa, è egualmente ricostruibile, attraverso i racconti che sono stati tramandati, l’immagine storica di Gesù?

- Nel caso in cui Gesù storico non fosse raggiungibile, sarebbe ancora possibile essere cristiani?

Il nocciolo della questione trova la sua origine nell’esigenza di razionalità spinta fino al radicalismo, che fu propria del sec. XVIII, detto secolo dei lumi.

Di fatto tutto il problema è sorto non per l’uso indebito di metodi critici alla Scrittura, ma dal rifiuto di accettare il monopolio assoluto della chiesa nei suoi argomenti culturali. E questo ha portato ad aprire perfino il dossier Scrittura e Gesù Cristo: due settori chiave e assolutizzati ipostaticamente. Così Gesù storico diventa un elemento «sovversivo» rispetto alla figura del Gesù ecclesiale: uno strumento di libertà.

Alcuni nomi vanno ricordati: Herman Samuel Reimarus (+ 1768): il suo principio storico è: solo ciò che è razionalmente accettabile può definirsi storico, il resto è «mito». Per lui Gesù era un israelita intento a suscitare un movimento politico-militare contro i romani oppressori; mentre i suoi seguaci, di fronte al fallimento del Maestro, continuarono la sua memoria in senso religioso, predicando che il suo scopo era stato quello di portare agli uomini la salvezza puramente spirituale.

Altro nome è David Friedrich Strauss (+ 1874): secondo lui fu riversata su Gesù - che in fondo non era che un semplice uomo - la ricchezza immaginativa della lunga attesa messianica presente nel popolo ebraico e ispirata agli attributi che le Scritture davano al Messia. Gli rispose, con argomentazioni cattoliche, Johan Baptist Kuhn mostrando la storicità dei testi.

Altro nome da ricordare è Martin Koehler che suggerì di distinguere nel Gesù dei Vangeli i due aspetti: storico/documentaristico (historisch) e storico/vitalistico (geschichtlich). Il primo riguarda il passato ed è comune a qualsiasi altro personaggio storico; il secondo riguarda il presente come risultato dell’influsso derivato dal passato ed è specifico del nostro tema, come lettura di Cristo nella fede. I due aspetti in fondo sono sempre presenti e non ha alcun senso volerli separare, almeno a livello di esperienza cristiana.

Su queste premesse si introducono poi tutti i grandi esegeti e teologi del nostro secolo, a cominciare da Bultmann, caposcuola di tutta una nuova impostazione del discorso su Gesù: sottolineando soprattutto la linea del Gesù della fede.


Letto 2809 volte Ultima modifica il Mercoledì, 07 Marzo 2007 23:19
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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