I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La libertà, un frutto acerbo
di Antonio Bonora




La Bibbia non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita attraversata dal dolore e di vincerlo.

Il male/dolore nell’Antico Testamento non è tanto una imperfezione o un limite della creazione, ma è una conseguenza di una libera scelta umana.

Il dolore, la malattia sono l’esperienza umana del male; il male, d’altro canto, non è una “cosa” che semplicemente accade o sta davanti all’uomo, ma è l’emergenza di uno scarto o un ostacolo che si frappone tra l’originario desiderio di vivere e la sua realizzazione. E dunque solo a partire dalla dimensione dell’uomo come libertà, cioè come desiderio di vivere, che può essere pensato sensatamente il tema del male.

Il male/dolore diventa allora scandalo, problema, interrogativo sul senso stesso dell’esistenza. Non si tratta soltanto di chiedersi come superare, vincere o eliminare il male/dolore, ma piuttosto come passare dal non-senso al senso del vivere umano. Ma poiché il male/dolore non è una “cosa” o un ‘oggetto”, il problema del senso non riguarda il male/dolore in sé, bensì la relazione dell’uomo con il senso della sua vita, cioè con Dio. Non si tratta, dunque, di ”spiegare” il male/dolore, ancor meno di giustificarne la sensatezza, ma di trovare un senso per l’uomo che è aggredito e torturato dal male/dolore. Non si tratta di “capire” il male/dolore, ma di comprendere che senso ha l’esistenza umana attraversata e contrassegnata dal male/dolore.

Tentiamo quindi, con timore e tremore, di interrogare la parola di Dio su questo tema tanto grave e imbarazzante. Non andiamo alla ricerca di un farmaco che elimini il male/dolore dalla faccia della terra né speriamo di trovare una formula che bandisca il male/dolore, ma desideriamo scoprire un senso che ci aiuti a integrare e, nello stesso tempo, a esorcizzare il male/dolore nella nostra vita. Il cristiano dovrebbe caratterizzarsi per quel che Paolo chiama il «discernimento degli spiriti» (1Cor 12,10) o la capacità di «discernimento del bene e del male» (Eb 5,14). Il male/dolore comincia ad essere superato, non incute più angoscia quando il credente ne discerne il volto e non si lascia soggiogare dalla paura che rende schiavi. Togliere la maschera al male/dolore, guardarlo in faccia è già il primo passo per esorcizzarlo ritrovando non il vuoto, ma la figura vivente del Dio crocifisso.

Il male non possiede una propria realtà in senso vero. Anche la Bibbia professa, da un capo all’altro, la fede in Dio che chiama all’esistenza e conserva in vita ogni cosa come essenzialmente buona. Già dalla prima pagina biblica si canta la bellezza/bontà del creato su cui Dio stesso emette un giudizio: «E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono/bello» (Gen 1,31). La finitudine e creaturalità non è identificabile come male. La realtà è creata buona da Dio. E al culmine della sua libera attività creatrice, Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27), come essere capace di apertura e di incontro con lui. Il senso della creazione si realizza soltanto quando appare l’uomo, libertà dialogante con Dio; altrimenti creare sarebbe un puro produrre, un fare qualcosa che serva da mezzo per un fine. L’uomo invece è creato per se stesso, per essere partner di Dio. Il comandamento di Dio (Gen 2,16-17), posto insieme con la creazione dell’uomo, fa capire che solo nella prospettiva dialogica dell’alleanza si attua il senso del mondo, precisamente attraverso l’uomo. L’essere-creato raggiunge perciò il suo senso nella dimensione della libertà umana: è perciò un essere Storico, aperto al dialogo con Dio ma anche dischiuso alla possibilità del male, cioè del rifiuto e della chiusura a Dio e ai fratelli.

Il racconto della caduta (Gen 3) illustra plasticamente come il male/dolore non sia derivato dall’azione creatrice di Dio, ma sia emanazione di una libertà creata. Il male, dolore non è una imperfezione o un limite della creazione, ma è conseguenza di una libera scelta umana.

In Dio non c’è la vita e la morte, il bene e il male, il si e il no, ma soltanto la vita, il bene, il sì. Soltanto Dio è veramente buono: «Gli disse Gesù: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, all’infuori di uno solo: Dio» (Mc 10,18). E nella sua bontà Dio dà «cose buone a quanti gliene fanno richiesta» (cfr. Mt 7,11). Egli è la luce che riscalda e fa vivere (cfr. Sap 7,27-30).

La fede di Giobbe

Non è, dunque, possibile parlare del male se non in modo indiretto, poiché propriamente soltanto il bene è comprensibile e, alla fine riconducibile al Creatore. Il male è assurdità, insensatezza, contraddizione. Potremo parlare del male come della “periferia” della realtà, che è bontà creata e salvezza. Stando alla Bibbia non dobbiamo perciò disgiungere il discorso sul male/dolore dalla rivelazione della bontà di Dio che vuole salvarci dal male/dolore per la vita eterna. Giobbe non è un trattato teorico sul problema del dolore e del male, ma è il dramma di un uomo in conflitto col suo Dio e immerso nel dolore.

Giobbe è un giusto che soffre ogni forma di dolore, fisico e spirituale. Il dolore lo isola in una crudele solitudine; anche Dio sembra averlo abbandonato e l’abbandono di Dio è ciò che lo fa soffrire di più. Le domande più angoscianti fluiscono dal cuore di Giobbe: perché Dio, giusto e buono, non interviene a favore del giusto sofferente? Perché Dio si comporta come nemico dell’uomo? Dov’è mai la santità di Dio, dal momento che egli sembra trattare innocenti e malvagi alla stessa maniera? Alla fine, la riuscita positiva del piano di Dio dimostra che anche la prova, per quanto oscura e dolorosa, era compresa in un piano d’amore divino. Giobbe vive la prova nella fede nuda: «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore» (1,21). La fede di Giobbe è un atto di abbandono fiducioso, filiale e obbediente, nelle mani di Dio: prefigurazione di Gesù Cristo e preludio alla fede cristiana dei martiri.

Il tunnel del dolore


L’amore di Dio per l’uomo non è onnipotenza che impedisce il dolore, ma è libertà che “dona” e “toglie” senza abbandonare mai e, alla fine, “ridà”. Nel gioco delle due libertà, divina e umana, il dolore è il prezzo dell’amore, la condizione nella quale l’uomo matura la sua libera dedizione a un Dio buono dentro un mondo limitato e sconvolto dall’Avversario. La vittoria sul male/dolore è un atto finale d’amore libero di Dio, cui corrisponde un libero affidarsi dell’uomo al datore di ogni bene. Tutta la parte dei dialoghi di Giobbe con gli amici ha affrontato il male/dolore come un problema da risolvere in sede teoretica. Nella sua risposta (cc. 38-41) Dio lascia da parte i pressanti interrogativi affluiti sulle labbra di Giobbe. Egli prende per mano il suo servo Giobbe e gli fa percorrere il meraviglioso giardino dell’universo, ove si dispiegano armoniosamente la sua potenza e la sua sapienza, la sua fantasia e la sua delicata bontà. Dai misteri quotidiani della creazione Giobbe impara a riconoscere il suo posto, i suoi limiti, la sua ignoranza e la via per vivere felice. E impara che il senso della sofferenza è il mistero stesso di Dio, non si trova perciò in una soluzione dottrinale astratta né in una risposta emotiva o consolatoria.

Alla fine Giobbe non ha una definizione del male/dolore da proporre né una rigorosa argomentazione teorica da far valere, ma l’esperienza di un incontro personale con Dio: «Ora i miei occhi ti vedono» (42,5). L’alternativa che Giobbe pone, di fronte al male/dolore, è questa: o tutto è assurdo, compreso Dio, oppure tutto ha un senso nel mistero di un Dio buono, compreso il male/dolore. Giunto al termine della sua avventura spirituale, Giobbe comprende che il mondo è tanto cattivo e pieno di male che non può non esserci un Dio buono!

Il dramma sacro di Giobbe non risolve definitivamente, sul piano teorico, il problema del dolore, che resta una questione aperta. Ma questo libro biblico ci insegna che il problema del male/dolore è legato alla questione su Dio. E Giobbe, alla fine, si arrende non al male/dolore, ma a Dio. Proprio questa “resa” a Dio lo abilita a “resistere” ostinatamente al male/dolore.

Il male/dolore è mistero, anzi, spesso appare un enigma irrisolvibile e inintelligibile. Appare assurdità pura. L’Antico Testamento ha lottato intellettualmente per tentare di capire qualcosa del mistero del male/dolore: la teoria della retribuzione (i giusti sono felici, i malvagi sono infelici), la concezione del valore pedagogico del dolore, la protesta radicale contro il dolore innocente e contro l’immagine di un Dio che arbitrariamente e crudelmente è causa di male/dolore, la rassegnazione quasi fatalistica, la rinuncia ad ogni schema razionale e l’affidamento di sé al Dio nascosto, l’idea di un soffrire in rappresentanza e al servizio di altri, il dolore come solidarietà sono tutti modi con i quali l’AT ha affrontato lo scoglio resistente del male/dolore. Il credente ammette che Dio persegue progetti di salvezza anche attraverso il tunnel del dolore.

L’AT, dunque, non offre una teoria unitaria, sistematica, sul male/ dolore, ma una serie di tentativi di trovare un senso alla vita pure nel dolore e di vincere il male/dolore. Mai si rinuncia a vincere il dolore per la speranza nell’aldilà; mai ci si consegna senza resistenza al dolore fatale; mai ci si abbandona a un destino assurdo. La lotta contro il male/dolore è espressione sia del desiderio inestinguibile di vivere sia del rifiuto di qualsiasi giustificazione del male/dolore. Tutti i grandi eroi della storia del popolo israelitico hanno subito dolori, delusioni, persecuzioni, insuccessi, ma hanno sempre imitato il patriarca Giacobbe che ha lottato con Dio. Giacobbe esce cambiato e sofferente dalla lotta con Dio, ma ha vinto guadagnando il senso della sua vita.

La legge di Dio

Quali sono i fondamenti biblici della legge morale?

(estratti)
di Paul Beauchamp

Paul Beauchamp, gesuita, è autore di un'opera esegetica senza confronti: D’une montagne à l’autre. La loi de Dieu. Andando felicemente al di là del semplice resoconto storico-critico dei testi, l’opera sollecita tutte le dimensioni umane e culturali in gioco nella Bibbia, con l'intento di trascinare il lettore «fino al fondo delle Scritture», quando vivere si confonde col credere e il comprendere. In questo libro, Paul Beauchamp riprende l’insegnamento della «Legge di Dio», da Mosè sul Sinai sino alla bassa collina di Galilea del Discorso della Montagna. Siamo invitati a rileggere il Decalogo alla luce delle stesse Scritture. Come distinguere il bene dal male? Come vivere insieme? Non è possibile nessuna morale senza memoria narrativa, quella dei peccati, del male commesso, delle ingiustizie, ma anche della speranza che la Legge stessa fa emergere di una mancanza sempre riproposta. In questa mancanza, inerente a ogni legge morale, Paul Beauchamp rivaluta la portata detta lettura che dei «dieci comandamenti» fa Gesù.


Gesù toglie dai propri comandamenti le clausole, pur provenienti dalla Torà, che temperano o ritardano il compimento del Decalogo e lo interpreta sulla base di esigenza che la sua lettera non farebbe supporre. Ai suoi occhi, gli inizi del male sono passibili delle stesse pene che la loro estrema conclusione, ed egli propone gesti così sproporzionati che si espone al rimprovero di proporre un'utopia, anzi un'utopia così eccessiva che rischia di non far neppure iniziare il cammino. Non dimentichiamolo: chiunque parla si assume un rischio. Rischio di essere preso alla lettera quando non dovrebbe, di vedere le sue parole stravolte, sfigurate dalle tendenze meno buone di coloro che le ascoltano, incamerate dallo spirito già ribelle alla maniera in cui gli uccelli si impadroniscono dei semi appena seminati (Mc 4,4.15). Gesù non sfugge a questo rischio. La parola di Gesù, come avviene, del resto, di ogni parola, non fa che affidarci allo Spirito.

Dove rifugiarsi davanti alle sue parole? Non abbiamo rifugi da proporre. Ma raccogliamo grazie a questi versetti di Matteo un raggio di luce: indipendentemente dalla fatica che fa inevitabilmente lo storico a ricostruire le parole di Gesù attraverso gli scritti evangelici che è impossibile immaginare che la violenza che si esprime in un tale discorso sia imputabile a qualcun altro che a Gesù stesso. L’acquisizione di questa conoscenza non è priva di costi. Detto questo, si possono ravvisare parecchie risposte. Conosciamo il rifiuto puro e semplice, fondato sia su una diagnosi di mancanza di realismo, sia sul timore di un sovvertimento o del fanatismo. Critica indubbiamente più grave: i richiami di Gesù perverrebbero ad una dismisura che orgogliosamente non terrebbe conto dei limiti umani.

Precetti, o «consigli»?

Si può anche tentare di minimizzare la pressione dei precetti. Riconosciamo almeno che si dovrebbe smettere di qualificare come «consigli» questi comandamenti di Gesù. San Paolo, sì, dà un «consiglio» (I Cor 7,25) che porta al volontario celibato. Egli lo distingue formalmente da un ordine del Signore (cf 7,10), perché non vi sono su questo punto nè ordini… e neppure consigli del Signore da trasmettere. Altrove Gesù valorizza la condizione degli «eunuchi a causa del Regno dei cieli» (Mt 19,12). Questa condizione si fonda su un richiamo, ed anche su un «dono» personale, e non su un suggerimento rivolto a tutti. Bisogna sottolineare che il Discorso della Montagna non lascia alcuno spazio a questo indirizzo. Non ne lascia neppure all'effettivo abbandono di tutti i beni a favore dei poveri, invito che va distinto da un'esigenza universale. Al contrario, Matteo 5 si rivolge ad ogni discepolo ed è accolto anche dalla cerchia più vasta della folla. In conclusione si tratta del destino di questa folla. Le solenni parole che concludono il Discorso e valgono per la totalità del suo contenuto non lasciano spazio ad alcun dubbio: costruire altrove che su queste parole significa esporsi ad una «grande rovina» quando verrà la prova. Ciò che viene dettato allo scopo di evitare di perire in una catastrofe tutt'altro che ipotetica, non potrebbe essere chiamato un consiglio. Si tratta al contrario di condizioni sine qua non per il compimento del Decalogo. Chi non vuole andare oltre, non porterà mai a termine.

Il celibato definitivo, l'abbandono di ogni proprietà (a favore non della comunità - che ne diverrebbe ricca - ma dei poveri) sono indirizzi che la tradizione della Chiesa ha chiamato «consigli», perché sono aperti, per chiamata e dono di Dio, soltanto ad individui che, se formano tra di loro un gruppo, non vi entrano che per libera scelta. Bisogna cogliere che, nel Discorso della Montagna, è in gioco ben altro. Le sue prescrizioni non formano un programma opzionale proposto alla generosità di individui distinti da una particolare vocazione. Esse si rivolgono ad un popolo.

In realtà, l'istanza che qui si esprime parla allo stesso livello di quella che enunciava la Torà. La modestia delle circostanze - una «montagna» sotto i cieli temperati della Galilea, una folla attirata da un profeta e che fa circolo attorno a qualche discepolo - non basta a far dimenticare il contesto del Sinai, che riuniva un popolo, perché questo quadro sinaitico, se è soltanto suggerito nello scenario, è pienamente nelle parole pronunciate da Gesù. Certamente l'intero Israele non è riunito attorno alla piccola montagna, ma soltanto il «sale della terra», cioè poca cosa, ma colui che parla prende le distanze dalle autorità riconosciute del popolo, per poco aggressivo che sia, il momento, il suo discorso. I suoi precetti non sono delle semplici garanzie supplementari per ottenere il Regno: «Non entrerete» (5,20) egli dice, se non le metterete in pratica.

Cosa più profonda è che mettere in discussione il regime matrimoniale e il regime penale, è colpire la società là dove essa si trova. Gesù non propone una migrazione interna, come quella degli Esseni di Qumrân, o, più vicino a noi, quella dei Mormoni. Egli presuppone al loro posto il Tempio e il suo altare, il sinedrio e gli altri tribunali (5,22-25.40). Gerusalemme rimane «la città del gran Re» (v. 35), i suoi discepoli sono supposti esservi a casa propria. Non si tratta di un modo di vivere considerato superiore ad altri, ma del «Regno dei Cieli». L'espressione «Io sono venuto» (5,17) non può significare altro che l'apertura di un momento decisivo della storia «Non può rimanere nascosta la città collocata sul monte»: se questa città, invece di assumere il ruolo di un semplice paragone, era la città che la legge di Gesù si apprestava a reggere, e che splenderà davanti a tutti i popoli come annunciavano i profeti, allora sarebbero confermati gli altri indizi. È un'intera società che deve vivere secondo la legge di Gesù, è ad essa che egli pensa «vedendo le folle» (5,1); sono queste stesse folle che, già attratte verso la parola per aver veduto quello che egli aveva operato presso i malati (4,23-25) ed ora «vivamente colpite dal suo insegnamento» (5,28), lo «seguono» (8,1).

Come vivere

(...) Il lettore del Discorso della Montagna, portato inconsciamente dal vocabolario e dalle immagini, si accorge subito di respirare all'aria aperta, davanti al ciclo, la terra, la montagna, in mezzo alla pioggia, ai torrenti, ai venti che si scatenano, oppure sotto il sole che «splende per i buoni e per i malvagi». Il tratto stilistico che maggiormente colpisce in questo testo è senza dubbio la sua capacità di richiamare tutto ciò che tocca il corpo, i corpi fisici, il corpo sociale, così come il mondo in cui questo corpo vive. Parla di erbe che crescono spontaneamente, cardi e rovi, ma anche di uva e di fichi. Parla degli animali, che appartengono a tutte le specie: temuti come il serpente e il lupo, disprezzati come i cani e i porci, poco augurabili come la tignola o il verme, apprezzati come il pesce, l'agnello, l'uccello.

Non siamo sempre in campagna: una città è visibile di lontano perché s'innalza sulla montagna, è Gerusalemme, «città del Gran Re». Il santuario, le sinagoghe, il tribunale, il sinedrio: ecco le principali istituzioni. Lungo le strade e agli incroci, i grandi personaggi ostentano la loro preghiera, gli amici si salutano tra di loro, li si riconosce da questo. I debitori insolventi sono portati in prigione dalle guardie, ci si scambiano ingiurie: «idiota», «rinnegato». Nella città, la gente cammina sul terreno così com'è, con i suoi rifiuti, come per esempio il sale inutilizzabile. Nella casa c'è il mobile su cui brilla la lampada. La camera è segreta, con le sue tende tirate. Il granaio contiene ciò che l'uomo ha ammassato dopo aver raccolto ciò che aveva seminato. Il suo tesoro è al riparo: denaro, stoffe preziose ma deperibili. Il fumo si alza dal forno dove bruciano le erbe. Il padre dà ai suoi figli del pane. È l’universo del «pane quotidiano».

L’occhio: esso è la lampada del corpo, perché la lampada mostra la strada a chi cammina. È occhio destro o sinistro, sano o no, e può essere una lampada senza luce. Il «capello» basta per parlare all'uomo della sua dipendenza. L'aspetto di chi digiuna è tetro, a meno che si lavi e si profumi, perché vi sono due categorie di digiunatori come vi sono l'uno e l'altro occhio, l'una e l'altra mano, l'una e l'altra guancia. Vedere, è vedere con il corpo e con lo spirito, e in ciò sta la differenza.

Che l'effetto del testo, a chi si lasci penetrare senza pregiudizi da ciò che le parole dicono ai cinque sensi del corpo, sia di tale respiro non si deve spiegare esclusivamente con l'ipotesi di condizioni di vita, che sono rimaste o diventate poco tormentate, della comunità di Matteo, destinataria di questo vangelo. Tuttavia questa interpretazione completa un'altra lettura, che vede piuttosto in questo testo la commemorazione di una tappa della vita di Gesù: là c’è il suo primissimo discorso che è preceduto, in fatto di parola pubblica, da una sola frase («Da allora Gesù cominciò a medicare e a dire: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”»: Mt 4,17)! Questa prima tappa, nel dispositivo di Matteo, non conosce ancora i confronti. Essa offre al desiderio degli uomini un progetto di vita, ma l'orizzonte di un mortale corpo a corpo con le forze del male rimane ancora invisibile. Compiere, è compiere sino alla fine. Ma questa «fine» rimane fuori campo. C'è stato un tempo in cui Gesù parlava così. L'inserimento del Discorso nel racconto obbliga a non perdere di vista questa dimensione. Torneremo su questo: l'analisi delle fasi della storia di una vita lascia ancora uno spazio libero per la croce. La prospettiva mantiene la croce in un avvenire indefinito. Fu così, per qualche tempo, nella vita di Gesù e dei suoi. Questa considerazione dà tutta la sua forza alla svolta intrapresa con il cammino verso Gerusalemme. Gesù non affronta l'avversario prima del tempo, e questo tempo gli è fissato dal Padre, in maniera tale che gli è percepibile nelle pulsazioni del suo stesso ritmo.

La considerazione del Gesù storico, se gli dà un potente rilievo, non esaurisce l'effetto del messaggio. Dopotutto il compimento non dà verità alla morte stessa che alla condizione di avere prima attraversato la vita. Nella comunità toccata dal Vangelo, come nelle nostre, non tutti certo morranno «a causa di Gesù», ma tutti dovranno vivere secondo quello che lui ha detto, e, se lo fanno e muoiono in tanta pace come i patriarchi, si dovrà proprio parlare di pienezza. Il nostro testo non glorifica né il martirio di Gesù né quello dei suoi.

Legge perfetta di libertà

In conclusione, ciò che in modo pressante invita a interpretare il Discorso della Montagna come una legge per un popolo, viene da più lontano che il ragionamento e la sapienza dell'esegesi. È la considerazione della storia umana. L'umanità può sì sopravvivere a metà del pendio nel suo richiamo verso la giustizia, e persino non può dire diversamente ma essa ridiscende se vi si ferma, e ridiscende verso la morte. Per pressanti che siano i precetti di Gesù, essa può sempre non ascoltarli. Ma tantomeno essa può chiudere le orecchie al grido di allarme sempre più chiaro che le invia il suo stesso pericolo di morte. La nostra umanità sa che cosa è avvenuto della violenza delle età primordiali e del primo diluvio, quello di Noè. Ella sa di essere tra la vita e la morte (ef Dt 30). Come l’esperienza di una morte universale dell’umanità precedeva l’insistenza stessa di Israele, così l'idea del rimedio non è offerta oggi soltanto a coloro che credono nel Dio della Bibbia. L'umanità sa che a proposito di guerre e di pace deve cambiare le sue leggi se vuole sopravvivere. In una misura non trascurabile, essa lo fa. Ma possono bastare le leggi?

Se i precetti di Gesù non sono consigli, sono delle leggi? Se fossero leggi come le altre, questo significherebbe che invece di essere incise sulla pietra le sole dieci parole del decalogo, le parole di Gesù sarebbero incise anch'esse sulla stessa pietra, ma inserite tra le righe delle due tavole.

Così il contenuto, l'enunciato sarebbe cambiato, ma non il veicolo, non la modalità, non l’enunciazione. È un fatto che molti intendono così la legge di Gesù. Quando essa non porta ad un rifiuto immediato, questa lettura nel senso materiale toglie tutte le forze necessarie per portarla a compimento. Le conseguenze possono essere ancora più perverse, e più mortali.

Già Geremia annunciava una nuova alleanza, nuova proprio in questo, cioè che le sue leggi non sarebbero scritte stilla pietra (Ger 31,33). Non voleva dire che esse sarebbero ormai scritte sulla carta, ma «al centro» dei destinatari nel loro profondo. Per questo motivo grandi dottori, come sant'Agostino e san Tommaso, hanno insegnato che i precetti del Discorso della Montagna valevano «per la disposizione di spirito». Essi non dettano i gesti che descrivono, ma pongono l'obbligo di andare, in caso di necessità, lontano come essi suggeriscono, senza conformarvisi materialmente. È una risposta di buon senso. Gesù stesso, che ha adempiuto la totalità della propria legge nella Passione, non ha fatto vedere nei suoi gesti la realizzazione letterale di ciò che aveva insegnato: colpito su una guancia, non ha teso l'altra guancia, ma ha domandato «perché mi percuoti?» (Gv 18,23). (...)

Senza coercizione esterna

I cristiani sono portati a lamentarsi! Essi hanno il diritto di gemere, non soltanto per l'evidente difficoltà di mettere in pratica ciò che Gesù vuole, ma della difficoltà, perfino, di comprenderlo. «Entrate per la porta stretta», dice Gesù (Mt 7,13), l'altra conduce alla perdizione. Ma non avendo nessuno mai trovato difficoltà particolari ad attraversare una porta stretta, non sarebbe per questo motivo che Gesù aggiunge: «pochi la trovano»? «Trovare» il passaggio, a tutti è potuto capitare di sperimentarne la difficoltà. Tale sarebbe dunque il problema, ed è questo al momento di cui occupiamo. Un'altra parola serve, secondo il nostro parere, allo stesso scopo.

Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi (7,6).

La Sapienza o i proverbi sono spesso paragonati a metalli preziosi (Prv 8,11; 20,15), e l'accostamento di un oggetto prezioso con un grugno di un porco associato alle immondizie è una incongruità ancora più grande in questo contesto letterario: «un anello d'oro al naso di un porco, tale è la donna bella ma priva di senno» (Prv 11,22). La migliore applicazione di Mt 7,6 varrà per le parole stesse del Discorso della Montagna, indicato qui come l'insegnamento che non si può sprecare, che non bisogna ostentare senza la protezione del pudore e di una relazione autentica, come parola che non può circolare a qualunque condizione: gli abusi sono fin troppo prevedibili. Esse possono servire a a rafforzare l’uomo, senza vantaggio per lui, la sua disperazione davanti alla legge. Ma vi è di peggio.

Il peggio è di ottenerne l’osservanza attraverso la costrizione. Quanto stupore hanno suscitato il grande spirito di sacrificio, gli oblii di sé collettivi suscitati, nel XX secolo come mai prima, dalle ideologie imposte a delle società per mezzo della forza e della paura, con efficacia ancora maggiore quando questa forza aveva saputo rendersi invisibile! La povertà, la castità, l'obbedienza hanno potuto sembrare praticate insieme e nello stesso momento da delle masse, per alcuni anni. Nelle fasi di attuazione della loro utopia, queste società offrivano, e prima di tutto a se stesse, la messa in scena di un «siate perfetti» anche sul terreno di queste virtù, al prezzo di un coraggio e di un eroismo che, quando non tentavano i cristiani, li inducevano per lo meno ad interrogarsi su se stessi. Ma come si sarebbe potuto applicare «che la tua mano sinistra ignori ciò che fa la tua destra» (6,3) in una organizzazione predisposta al contrario di questo precetto? La cosa più grave è proprio che la costruzione imposta in vista della dimostrazione pubblica delle virtù conduce inevitabilmente a fingerle. «Che alla tua destra come alla tua sinistra, il tuo prossimo possa sapere tutto di te!».

L'allarme è dato già nel Nuovo Testamento, e non è originariamente rivolto alla società civile, ma alla società celestiale. Una scena degli Atti degli apostoli è stata, riteniamo, scritta apposta per sottolineare come il legame della coercizione e della menzogna è svelato e denunciato in modo diretto e dall'alto, da questo stesso Spirito che è donato a Pentecoste. Era, per la prima comunità, il momento dell'utopia, realizzata prima di tutto attraverso la condivisione dei beni. «Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, …quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli, e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35). Ma due sposi, di nome Anania e Saffira, non depongono tutto il denaro della vendita, avendo messo da parte il resto e dissimulando questa sottrazione. Pietro designa allora in tutta chiarezza lo spazio in cui avrebbe dovuto agire lo Spirito. Questo luogo è la libertà: «prima di venderlo, non era forse tua proprietà e, anche venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione?» (5,4). La necessità di spossessarsi per condividere non era scritta sulla pietra, come lo era la legge del Sinai. I due disgraziati si credevano condannati da un'istanza immaginaria: il loro sentimento di colpevolezza confuso con lo sguardo altrui. Cercando la giustizia attraverso questa via, Anania si sentirà dire: «Tu hai mentito allo Spirito Santo» (v. 33). L'uomo allora è fulminato insieme alla moglie, cosa che ci permette di collocare il racconto nel suo posto preciso, cioè in simmetria con la legge della prima alleanza. Chi la trasgrediva moriva; chi la trasgrediva nei grandi momenti della sua fondazione poteva morire senza l'intervento degli uomini, colpito dal cielo. Le Spirito conduce fino ad un estremo che l'antica legge non formulava, anche se era, in fondo, l'anima. Ma questo estremo non può essere raggiunto che nella libertà, a tal punto che l'ostacolo alla libertà corrompe la legge di Cristo alla stia radice. Questa corruzione è sanzionata come lo era sul Sinai, poiché la Pentecoste, la venuta della legge nuova nello Spirito, è un nuovo Sinai.

Detto questo, l'aneddoto sconvolgente degli Atti resta un «racconto delle origini» con i limiti di questo genere, in cui tutto è fortemente organizzato intorno ad un solo asse didattico, cosa che oggi ci porta una luce indispensabile.

Lo schematismo non impedisce al racconto di lasciar trasparire i limiti della situazione. Possiamo domandarci perché la comunità adottò un principio di proprietà collettiva che non si fonda su alcun insegnamento del fondatore, nè quando questa pratica fu abbandonata. Il gruppo non l'abbandonò forse dopo aver preso consapevolezza della fragilità del suo fondamento? Non l'abbandonò dopo aver preso consapevolezza dei suoi effetti, scoperto il legame della pressione sociale con la menzogna? Sarebbe doloroso che questo passo degli Atti non fosse interpretato che a titolo di incitamento alla virtù della generosità. Tuttavia, volontariamente o no, lo storico Luca lascia filtrare qualche chiarimento. Già vedere tutto questo denaro «ai piedi degli apostoli» si fonda fortemente sull'immagine di un potere. Più precisa è l'informazione fornita sul primo uomo che rispose a questo impulso: «Giuseppe, detto dagli apostoli Barnaba... era un levita» (4,36). Essendo dato che della tribù di Levi era scritto: «solo alla tribù di Levi egli non diede eredità» (Gs 13,14; cf 14,3s) e: «il Signore, Dio di Israele, é la loro eredità» (Gs 13,33), il fatto che uno dei suoi membri dia il segnale della rinuncia individuale e della proprietà collettiva non è forse fortuito: i Leviti potevano considerarsi come chiamati ad essere segno, anche attraverso la loro situazione economica, del legame dell'«intero Israele». Se questo era il caso, ne conseguirebbe che questo tentativo di condivisione (senza futuro per ciò che concerne la Chiesa come tale) sarebbe più vicino ad una forma ispirata ad un giudaismo marginale, anteriore al Vangelo, che non all'insegnamento diretto di Gesù. La discesa dello Spirito, che diede alle comunità il potere di innovare, non poteva togliere loro la possibilità di tornare sui propri passi. È commovente pensare ai loro tentennamenti, alla loro ricerca.

Le posizioni di san Paolo in materia di mutua assistenza economica confermano la lezione dell'episodio di Anania e Saffira, e mostrano che la comunità di Corinto vive già sulla base di altri principi rispetto a quella di Gerusalemme: non la messa in comune di tutti i beni, ma «la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza» (2 Cor 8,14). Anche questo non è ottenuto sotto coercizione: «Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza perché Dio ama chi dona con gioia» (9,7s).

Conclusione... o transizione

Lo stile dei precetti di Gesù ha come conseguenza di impedire al soggetto della legge di iscrivere la propria osservanza nell'immagine proiettata da se stesso. Così il taglione espone come su uno schermo l'illusione visiva di una giustizia per equivalenza, mentre questa equivalenza, questa giustizia, non possono esistere che su questo schermo, nell'immaginario. Nelle parole «occhio per occhio, dente per dente», citate da Gesù, tutto si esprime a livello di immagine: il volto, immagine di Dio, il volto con gli occhi, con i denti. Volto al quale si rivolge l'odio che offende: «Io non posso più vederlo»... Volto su cui la giustizia crede di potersi soddisfare: che il suo occhio perduto rifletta, per il mio, il rifiuto che è nel mio sguardo! E molte volte, tracciando di noi stessi un'immagine che non raggiungiamo, la legge non ci mette nella tentazione di odiare noi stessi invece di odiare il male? Il nostro io ideale odia il nostro io reale. Noi siamo così cacciati, esclusi da questo centro, da questo inizio in cui Gesù ci insegna a vedere l'ingresso dentro di noi dell'opera divina. Nessun’altra perfezione ha senso, se non quella che ci colloca al posto giusto, come figli: questo significa «perfetti come il Padre vostro». Perfetti, di essere figli. Ma fuori da questo centro, da questo inizio che è la nostra identità perché esso è la nostra origine, la nostra resistenza, incapace di riconoscersi, si trasforma in menzogna, e usa la legge per accusare colui che, proprio come noi, non è all'altezza delle sue attese: essa usa la legge per accusare il fratello. Noi potremmo fare una glossa di quanto detto illustrando alcune parole della lettera di Giacomo. Ciò che egli chiama «la legge perfetta della libertà» (Gc 1,24) non acquista senso che per condurre a delle azioni. Chi evita di agire «...somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio» (Gc 1,23). Ecco quest'uomo duplicato di fronte alla sua immagine, estraneo a se stesso per non aver trovato attraverso «la legge perfetta della libertà» il punto da cui questa libertà nasce. Una conseguenza insopprimibile del suo sdoppiamento è ciò che la rende accusatore. È radicalmente impossibile che egli sfugga a se stesso senza volgersi contro il vicino. Per quanto egli ammiri la legge nella quale si rispecchia, e senza che la sua cattiva coscienza lo guarisca, si potrà dire di lui con Giacomo: «Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge» (Gc 4,11).

Colui che sparla del fratello è anche colui che lo disprezza nel suo cuore perché lo vede lontano dal mettere in pratica i precetti di Gesù. L'eremita Antonio (il sant'Antonio delle celebri «tentazioni») ci ha lasciato a proposito di questo versetto una lezione più profonda della sua leggenda…

Dei fratelli si recarono presso l'abate Antonio e gli dissero: Dicci una parola, come essere salvi? Il vecchio disse loro: Voi ascoltate la Scrittura? È bene che lo facciate. Essi ripeterono: Ma noi vogliamo sentirla da te, Padre! Allora il vecchio disse loro: Il Vangelo dice: se qualcuno ti colpisce sulla guancia destra, porgigli anche l'altra. Essi dissero: Non possiamo fare questo. Il vecchio disse loro: Se non potete porgere l'altra guancia, accettate almeno che vi si colpisca su una guancia. Non possiamo nemmeno questo. Se voi non potete nemmeno questo, non restituite il male che avete ricevuto. Ed essi dissero: Non possiamo nemmeno questo. Allora il vecchio disse al suo discepolo: Prepare loro una piccola pappa di farina, perché sono malati. Se non potete questo e non volete nemmeno quello, io che cosa posso fare per voi? Voi avete bisogno di preghiere. (J.C. Guy, Parole des Anciens. Apophtegmes des P.P. du désert, Ed. du Seuil).

Antonio introduce così lo spirito di Gesù nella lettera di Matteo, imitando il suo movimento graduale per rovesciarlo verso il basso. Da parte sua, la lettera di Giacomo, benché risparmiando in modo sorprendente reminiscenze o evocazioni della persona di Gesù, costituisce un documento prezioso, perché è uno dei più vicini, nel Nuovo Testamento, all'ambiente di Matteo, al punto di fornirci alcune chiavi per meglio comprendere il Discorso della Montagna. La «legge perfetta» è la legge compiuta, cioè condotta a questo estremo che solo Gesù può farci raggiungere. Né Giacomo né Matteo ricorrono allo Spirito per darvi principio. Né l'uno nè l'altro costruiscono il loro progetto attorno al tema di una legge divenuta interiore. Per l’uno come per l'altro la legge richiede atti fisici, condizione perché «essi vedano le vostre opere buone...» (Mt 5,16). E ancora, né l'uno nè l'altro presentano la pratica della legge come il risultato di un dono gratuito di Dio. Sta all'uomo trovare in sé il punto d'origine della giustizia. Ad altri testimoni di Gesù, ad altri testi, anche in Matteo (11,25-27; 19,26), sarà dato di sviluppare le conseguenze: il punto di origine della giustizia è colui in cui la giustizia ci viene dall'esterno, e a titolo di dono. La discrezione di Matteo, in questa materia, è impressionante: solo un 'analisi particolareggiata della struttura (della struttura scritta) del Discorso permette di scoprire che il «Padre nostro» ne occupa esattamente il centro. Nel cuore dell'insegnamento di Gesù si fa sentire la chiamata rivolta ai figli perché domandino al Padre di «vivere sulla terra» il suo insegnamento. Che l'uomo ne sia capace con le sue sole forze resta un problema, ma non dobbiamo trattarne qui.

L’originalità delle parole di Gesù rimane insostituibile. Le sue parole rivestono di immagini azioni paradossali, come il servirsi di una mano prima per tagliare l'altra e poi per gettarla lontano. È così reso sensibile che la giustizia non è fatta per rimanere nel cuore, ma per diffondersi instancabilmente al di fuori. La forza degli imperativi rende impossibile confonderli con suggerimenti facoltativi; il surrealismo delle situazioni aumenta in noi il desiderio di inventare senza limite. Allo stesso tempo obbligazione e libertà, «legge della libertà», dice Giacomo. No, Gesù non ci dice chi noi dobbiamo salutare o non salutare per strada, né che cosa fare se uno ci schiaffeggia. Le sue iperboli sono, molto più di quanto si potrebbe credere, vicino al linguaggio di quei rabbini dallo spirito libero, e bisogna essere grossolani per non coglierla.

L'episodio di Anania e di Saffira, per il fatto che si colloca nel tempo e nel luogo stesso in cui è donato lo Spirito, cioè nel tempo di Pentecoste, non ci permette di chiudere gli occhi sulle nuvole cariche di tempesta che la piccola montagna di Galilea inevitabilmente attirerà. Impossibile dimenticare il rischio di essere esclusi dal Regno, l'orizzonte della geenna del fuoco, l'alternativa di perdizione o di vita. Coloro che trasmettono, come possono, le richieste di Gesù, si vedono rimproverare talora di attenuarle per timidezza, talora di non renderle più praticabili. Dimenticano, si dice loro in quest'ultimo caso, che Gesù ha detto: «Il mio carico è leggero» (Mt 11,30)? Ma ciò che si dimentica sin dal principio, è il carico schiacciante che, in ogni modo, l'umanità deve portare soltanto per vivere, poiché per vivere le è necessario vivere insieme. La legge è percepita come durezza. Ma ciò che le colpe dell'uomo infliggono all'uomo non è durezza, è orrore. Ed esso aumenta, e nello stesso tempo si rende più visibile sotto i nostri occhi. Chiamiamo follia ciò che Gesù ci domanda. Ma l’umanità non sarà salvata dalla sua follia se non da un'altra follia. Già ai tempi di Gesù, era troppo tardi perché l'umanità interpretasse il decalogo attraverso dei compromessi.

Troppo tardi. La portata del Discorso della Montagna apre soltanto quando la si mette a confronto. Dove crediamo che abbiano potuto scomparire, quando Gesù parla, gli splendori del tuono e dei lampi che, sul Sinai, riempivano Israele di terrore? La storia cambia. Lampi e tuoni sono passati dallo scenario all'interno delle parole dette. La prima legge era accompagnata dalla violenza: «Voi vi avvicinaste e vi portaste ai piedi del monte; il monte ardeva nelle fiamme che si innalzavano in mezzo al cielo; vi erano tenebre, nuvole e oscurità» (Dt 4,11). Dio, che è Uno, non dispone di due fuochi e, per lui, le due montagne sono una sola. Egli non ha ritirato il suo fuoco dalla modesta montagna di Galilea. Ma è per noi che questo fuoco è doppio, benché non possa che bruciarci. Per quanto noi restiamo fuori dalle parole di Gesù, il fuoco delle sue parole ci spaventa e ci può anche distruggere; per quanto, e nella misura in cui noi vi entriamo, il fuoco ci riveli la sua vera natura, il cui nome è pronunciato con tanta discrezione: il fuoco è amore, il fuoco è spirito. Il fuoco è uno, solo noi cambiano. Di violenze non ce ne è che una nell'uomo, pervertito o convertito.

(da Il mondo della Bibbia, 51)

Riflessioni sul progresso
di Pierre Teilhard de Chardin





Oggi è diventato “di moda” schernire o sospettare tutto ciò che assomiglia a una fede nell’avvenire.

Dubbio mortale, se si fa ben attenzione, poiché tende direttamente ad uccidere, assieme al gusto di vivere, la forza viva dell’umanità.

Ben fondati nella storia generale del mondo, quale la paleontologia ce la fa conoscere, per un intervallo di trecento milioni di anni, noi possiamo, senza smarrirci nei sogni, affermare le due seguenti proposizioni:

a) In primo luogo l’Umanità lascia ancora apparire in sé una riserva, un potenziale formidabile di concentrazione, cioè di progresso. Pensiamo all’immensità delle forze, delle idee, delle persone non ancora scoperte o captate o sintetizzate… “Energeticamente” o biologicamente, il gruppo umano è ancora giovanissimo, freschissimo.

b) La Terra è ben lungi dall’aver terminato la propria evoluzione siderale. Possiamo certamente immaginare ogni sorta di catastrofi capaci d’interrompere bruscamente questo splendido sviluppo. Ma da trecento milioni di anni la vita si eleva paradossalmente nell’improbabile. Non è forse questa un’indicazione che essa progredisce sorretta da una qualche complicità delle forze motrici dell’Universo?….

La vera difficoltà posta dall’Uomo non è di sapere se costui rappresenti la sede di un progresso continuo, ma piuttosto di sapere come questo progresso potrà continuare a lungo alla stessa velocità senza che la vita esploda o faccia esplodere la Terra sulla quale è nata. Il nostro mondo moderno si è fatto in meno di diecimila anni; e in duecento anni è cambiato più rapidamente che durante tutti i millenni precedenti.

Il Progresso, se dovrà continuare, non si farà da solo. L’evoluzione, per lo stesso meccanismo delle sue sintesi, si carica sempre più di liberta.

Quali debbono essere, in pratica, le nostre disposizioni rispetto a questa marcia in avanti?

Io ne vedo due che possono essere riassunte in cinque parole: una grande speranza in comune.

a) Una grande speranza, in primo luogo. Essa deve nascere spontaneamente in ogni anima generosa in presenza dell’opera stessa; e rappresenta anche lo slancio essenziale senza il quale nulla potrà farsi. Un gusto appassionato di crescere, di essere, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Via dunque i pusillanimi e gli scettici, i pessimisti e i tristi, gli stanchi e gli immobilismi!

b) In comune. Anche su questo punto, la storia della Vita parla in modo deciso. Una sola direzione fa salire; quella che conduce a una maggiore sintesi e a una maggiore unità per mezzo di una maggiore organizzazione. Via, quindi, anche qui, i puri individualisti, gli egoisti che ritengono di potersi sviluppare escludendo o diminuendo i loro fratelli, individualmente, razionalmente o razzialmente. La Vita porta verso l’unificazione. La nostra speranza sarà operante solo se si esprimerà in una maggiore coesione e in una maggiore solidarietà umana.

L’avvenire della Terra è nelle nostre mani. Che cosa decideremo? Una scienza comune ravvicina soltanto la punta geometrica della intelligenza. Un interesse comune, per quanto appassionato possa essere, non congiunge gli esseri che in modo indiretto, e in un Impersonale spersonalizzante.

Noi non abbiamo bisogno di un testa a testa o di un corpo a corpo, ma di un cuore a cuore.

Il principio generatore della nostra edificazione non deve essere ricercato, in ultima analisi, nella sola contemplazione di una medesima verità, e neppure nel solo desiderio suscitato da un qualche cosa, ma nell’attrazione comune esercitata da un Qualcuno, identico per tutti.


Estratti di una conferenza tenuta a Pechino, all’Ambasciata di Francia il 3 marzo 1941.

N.B. Questo testo si trova in: L’avvenire dell’Uomo, Opere vol. VI, Milano il Saggiatore 1972, pp. 103-130 passim.

Come disciplinare la vita
(esperienza spirituale monastica)

di P. Adriano Dall'Asta OSB


Premessa

Non è facile affrontare in modo esauriente tutta la ricchezza di stimoli provenienti dal tema proposto: "Come disciplinare la vita". Occorrerà quindi necessariamente operare delle scelte tralasciando inevitabilmente qualcosa.

Un altro aspetto da tener presente all'inizio di questa riflessione è la "terminologia": "disciplina", "disciplinare" sono vocaboli che noi moderni usiamo dandone un'accezione generalmente giuridica, normativa, anzi molto spesso ricordano qualcosa di duro e di penoso necessario, d'altra parte, per crescere. Nella vita religiosa (o "vita consacrata") all'interno del Cristianesimo ed in modo particolare nel Cattolicesimo, questa parola è addirittura passata ad indicare una precisa pratica ascetica penitenziale (la flagellazione), e questo praticamente fino al Concilio Vaticano II.

In origine, nel senso latino classico e presso i primi scrittori cristiani (Tertulliano, Cipriano, Agostino...) il termine indicava insegnamento, educazione, modo di vivere, dottrina, usanze, regola di vita, ordine e, di conseguenza anche l'insieme di correzioni e di pene atte a garantire l'attuazione di tutto questo (cfr. latino "Disco" = imparo, da cui "discipulus" = discepolo).

In ambito monastico questo linguaggio si affermò facilmente data la struttura stessa della vita in comune, ma col tempo si accentua l'accezione di "castigo", soprattutto col finire dell'epoca patristica, pur trovandosi autori che usano il termine in senso spirituale o intellettuale (Guglielmo di St. Thierry).

Verso la fine del sec. XIII il termine cessa di arricchirsi e designa solamente la buona condotta.

Per la riflessione sul modo in cui il Monachesimo cristiano può costituire una "disciplina di vita", mi rifarò pertanto allo sfondo biblico e tradizionale dei primi secoli della Chiesa per metterne in luce la dimensione spirituale e morale positiva.

Le parti di questa relazione:

1. Il "Vangelo": norma suprema di vita cristiana e annuncio di libertà.

2. Il Monachesimo cristiano: realizzazione concreta del vangelo..

3. La Regola di S. Benedetto (RB): un modo per "disciplinare la vita".

1. Il "Vangelo", norma suprema di vita cristiana e annuncio di libertà

Il Cristianesimo è racchiuso sostanzialmente in una frase scritta nel Vangelo di S. Marco (1,15): "Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo". VANGELO significa "buona notizia" per l'uomo da parte di Dio. Se è un lieto annuncio significa che Esso contiene una risposta (una Parola) per una situazione in cui c'è l'attesa di una salvezza.

Tutta la narrazione della vita di Gesù Cristo, nei 4 Vangeli (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) e in tutti gli scritti del Nuovo Testamento vuole dimostrare che Gesù stesso è questa "buona notizia" per l'uomo: in Lui Dio, Creatore e Padre dell'umanità, si è definitivamente rivelato, si è fatto conoscere nel suo Amore eterno.

C'è un'altra pagina del Vangelo, di Luca, questa volta (4,16-21), in cui è spiegato in cosa consiste questo lieto annuncio. Gesù si presenta, in mezzo ai suoi compatrioti, come l'inviato del Padre, il Messia (l'Unto = il consacrato), venuto per liberare l'umanità da ogni forma di schiavitù annunciando la Grazia del Signore, cioè la sua Misericordia. Accogliere Gesù Cristo, credere in Lui, nella sua Parola e cambiare per mezzo suo, significa FEDE. La fede fa diventare di conseguenza FIGLI di DIO (Giovanni, 1,12-13), cioè partecipi della stessa Vita di Dio. Ma vivere in questa fede, cioè essere “Cristiani”.. da atto iniziale personale (ascolto, illuminazione) deve continuare attraverso il seguire il Signore Gesù ogni giorno nella vita (Luca 9,23...) sorretti dalla forza della Sua Parola che provoca di conseguenza alla CONVERSIONE, cioè alla disponibilità quotidiana a lasciare il male, l'egoismo che sempre ci accompagna. Da qui il senso della "rinuncia" essa non è solo frutto della volontà di seguire Gesù, ma è soprattutto esigenza di fedeltà all'Amore di Dio (Matteo 6,24). In questo senso bisogna leggere il "DISCORSO DELLA MONTAGNA" (Matteo cc. 5-7). Qui sta la radice dell'esigenza di "disciplinare" la vita in chi segue Gesù. cioè si mette alla sua scuola come discepolo (cfr. Matteo 9,28-30). In realtà, Gesù in tutta la sua esistenza e soprattutto con la sua morte, realizza pienamente l'Alleanza di amore che Dio già nell'Antico Testamento aveva stipulato con il popolo d'Israele, ma le cui esigenze di fedeltà erano state più volte dimenticate (Libro dell'Esodo e soprattutto Deuteronomio 4,6-4,12 e 7,7-12). La vita del Cristiano allora non cresce a causa degli sforzi della volontà umana, non è primariamente un impegno etico, quanto piuttosto rapporto di amore con il Padre mediante l'ascolto della Parola del Figlio Gesù, custodia di questo Patto di Alleanza, risposta ad una chiamata ad entrare in comunione con la Trinità mediante lo Spirito Santo (cfr. Lettera ai Romani c. 8). In questo modo ogni ascesi o disciplina nella vita cristiana è finalizzata alla libertà, prerogativa dei "figli di Dio" (Giovanni 1,12-13 e 8,31-32).

2. Il Monachesimo cristiano: realizzazione concreta del Vangelo

Ogni Monachesimo, all'interno delle diverse religioni, nasce come genere di vita fissato in funzione di uno scopo spirituale, diversamente definito, trascendente l'orizzonte terreno e che viene considerato come necessario per dare unità (o senso) alla propria esistenza. (cfr. Dict. Spir. t. X, "Monachisme").

Nel Cristianesimo la vita monastica nasce accompagnata più o meno dalle medesime caratteristiche antropologiche e spirituali delle altre culture ( cfr. i terapeuti, gli esseni, gli encratiti, manichei ...), così come vi troviamo analoghe esigenze ascetiche (continenza, digiuni, essenzialità di vita, cenobitismo o eremitismo). Tuttavia diciamo subito che se ne distacca quanto alle motivazioni di fondo. A questo riguardo presento solamente qualche fonte monastica (una goccia nell'oceano di questa letteratura) per dimostrare la specificità del Monachesimo cristiano.

- "Quanto a noi, è per amore del Signore e del bene che osserviamo la continenza, santificando in noi il tempio dello Spirito Santo". (Clemente di Alessandria, II secolo).

- "...Non erano ancora passati sei mesi dalla morte dei genitori e, come al solito, andava in chiesa; mentre camminava e meditava fra sé e se, pensava a come gli Apostoli avessero lasciato tutto per seguire il Salvatore come quelli di cui parla negli Atti, venduti i propri beni, portassero il ricavato e lo deponessero ai piedi degli Apostoli perché fosse distribuito a chi ne aveva bisogno... entrò in chiesa e proprio in quel momento veniva letto l'Evangelo e senti il Signore che diceva al ricco: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi tutto quello che possiedi e dallo ai poveri; poi, vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli" (Mt 19,21)... Antonio subito uscì dalla Chiesa, donò alla gente del villaggio i beni che aveva ereditato dai genitori... Entrato di nuovo in chiesa, come senti il Signore che diceva nel Vangelo: "Non preoccupatevi del domani" (Mt 6,34) non potè restare più oltre, ma uscì... si dedicò alla vita ascetica davanti alla sua casa, vigilando su se stesso e sottoponendosi ad una dura disciplina..." (S. Atanasio, Vita di Antonio, IV secolo).

- "Ai suoi discepoli insegnava anzitutto a rinunciare ai propri beni e a se stessi, e a seguire il Salvatore che dà questo insegnamento, perché è così che si porta la croce" (Vita Prima di S. Pacomio, IV secolo).

"I monaci sono persone che non prendono quasi affatto parte alle cose della terra. Ogni loro preoccupazione è di cantare giorno e notte le lodi di Dio. Non possiedono nulla dì quei beni fragili, di cui il principe del mondo si serve per prendersi gioco degli uomini... Dio solo è il termine cui tendono tutti i loro desideri e vi si tengono inseparabilmente uniti a pietra ferma e solida. Conducono una vita nascosta in Gesù Cristo..." (S. Gregorio Naz. Poemata, IV secolo).-"Viviamo (i monaci) disinteressatamente l'amore fraterno; temano Dio nell'amore, amino il loro abate con affetto sincero umile, assolutamente nulla antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna" (RB LXXII, 8-12; VI secolo). Da queste testimonianze tratte dal Monachesimo cristiano dei primi secoli appare evidente la motivazione che spinge uomini e donne ad abbracciare questa forma di vita: è la risposta ad una chiamata che nasce dall'ascolto del Vangelo di Gesù Cristo. Come nell'esperienza di Antonio, "padre dei monaci" l'aver ascoltato con fede il Vangelo nella sua Comunità Cristiana ha provocato in lui la decisione a lasciare tutto per amore del Cristo, così è stato per ogni monaco. Anche se con differenti tradizioni legate alla cultura locale (monachesimo orientale Basiliano e monachesimo occidentale in gran parte benedettino), l'unico Vangelo è stato ed è tutt'ora alla base della decisione di chi entra in un Monastero cristiano. In secondo luogo è necessario ricordare che la forma concreta di questo seguire Gesù Cristo si è servita dello strumento della "Regola". All'inizio del monachesimo ogni carità aveva una sua Regola dettata da un capo "carismatico" e che spesso nasceva dai quesiti che i discepoli ponevano al loro Padre spirituale (cfr. le due Regole di S. Basilio). Spesso queste regole più antiche non intendevano risolvere tutti i problemi pratici della comunità, erano semplicemente un "ri"dire il Vangelo stesso, o tutta la Scrittura, perché si era consapevoli che quella era la vera norma. In questo contesto infine vanno inserite tutte le prescrizioni, le "osservanze" da praticare per formare l'uomo di Dio.

Un'ultima considerazione

Monachesimo cristiano, cosi inteso nei suoi tratti molto generali, non è solo una "disciplina di vita" per chi risponde alla chiamata del Signore per questa via, ma nella Chiesa e tra gli uomini, anche non credenti, possiede una forza simbolica: esso, cioè, è un appello vivente per l'uomo ad unificare la sua esistenza a partire dal proprio cuore, rientrando in se stesso per scoprirvi proprio li la luce di Dio e, di conseguenza, vivere pienamente l'esistenza quotidiana.

3. La Regola di S. Benedetto: un modo per disciplinare la vita

Dopo questo sguardo così veloce sul Monachesimo cristiano, soffermerò ora l'attenzione su una delle sue forme storiche più famose ed affermate in Occidente: la tradizione benedettina.

Conosciamo l'autore di questa Regola dalla sua vita narrata dal Papa S. Gregorio Magno in una delle sue, opere: il Libro dei "Dialoghi" (anni 593-594).

Benedetto nasce a Norcia in Umbria da una famiglia I di origine romana. Mandato a Roma per gli studi, ben presto l'abbandona disgustato e cerca sulle montagne di Subiaco, nella solitudine, per tre anni, un'altra vita.

Qui dà inizio alla sua esperienza monastica raccogliendo attorno a sé i primi discepoli, fondando i primi monasteri. In seguito si trasferisce a Montecassino dove porta a compimento il suo cammino e stende definitivamente la Regola in cui certamente raccoglie il frutto maturo del suo cammino personale e delle esperienze positive e negative accumulate in precedenza. Le date tradizionali della sua nascita e della sua morte sono il 480 e il 547 circa. La Regola inizia la sua decisiva diffusione in Europa dal IX secolo in poi, non solo per gli interventi imperiali, ma soprattutto per il suo equilibrio e discrezione rispetto a tutte le Regole monastiche precedenti e seguenti (cfr. ad esempio la Regola di S. Colombano fondatore di Bobbio). Benedetto raccoglie nella sua Regola il meglio della tradizione monastica precedente: la spiritualità dei Padri del deserto, Cassiano, S.Basilio Magno, S.Leone Magno, la Regola del Maestro… In realtà non inventa nulla di nuovo anche sul piano ascetico e disciplinare, ma organizza la sua comunità in modo completamente personale mettendo in evidenza la sua conoscenza profonda della S. Scrittura, lasciando trasparire spesso la sua personale esperienza spirituale. Non è semplice suddividere la RB secondo uno schema preciso, ma possiamo per comodità suddividerla almeno in tre sezioni.

1. Sezione “dottrinale/spirituale”, Prologo e cc. da 1 a 7;

2. Sezione organizzativa della vita comunitaria. cc. 8-66; 

3. Conclusione: cc. 67-73.

Prologo e cc. 1-7

Il Prologo è la chiave di lettura di tutta la Regola poiché i temi qui presentati sono ripresi in vari modi nei primi 7 capitoli e costituiscono lo sfondo spirituale del resto degli argomenti. "Ascolta o Figlio gli insegnamenti del Maestro...": sono le prime parole che indicano subito la prospettiva con cui disporsi nell'intraprendere la vita monastica secondo S. Benedetto (cfr. la fonte sono i libri "sapienzali" della S. Scrittura e S. Basilio). La conversione è la prima conseguenza di questo atteggiamento; la guida nel cammino è Cristo che chiama in mezzo alla folla il suo operaio, paragonato anche ad un "soldato" che combatte per il suo re, ma è anche un discepolo che entra nella "Scuola del servizio del Signore" il cui insegnamento è il Vangelo e il cui obiettivo è l'Amore, cioè entrare in comunione con il Padre. La prima cosa da chiedere a Dio in questo cammino è che Lui stesso porti a compimento questa "opera" nel sito discepolo.

CC da 1 a 7 seguono i capitoli che presentano i fondamenti spirituali che fanno da struttura in questo "edificio" o "scuola". Cap. I: anzitutto il tipo di monaco, il "cenobita"; Cap. II: poi stabilisce la funzione della guida, "abate" (rappresentante di Cristo); Cap. III: la funzione del dialogo in comunità; Cap. IV: gli strumenti dell'arte spirituale; Capp. V-VI-VII: obbedienza, silenzio e umiltà, le principali "virtù" che Benedetto chiede ai suoi discepoli.

Organizzazione della vita comunitaria (cc. 8-66)

Preghiera e "Lectio Divina' ; i responsabili dei vari servizi e gli aiutanti dell'Abate; "codice penitenziale"; il lavoro, l'uso degli oggetti, la "proprietà privata"; i servizi domestici; alimentazione e abbigliamento; i viaggi; l'ospitalità; accoglienza e formazione degli aspiranti alla vita monastica; la Quaresima; l'ordine nella Comunità.

Conclusione: cc. 67-73

Sono molto probabilmente capitoli aggiunti da Benedetto alla fine della sua vita ispirandosi soprattutto a S. Agostino. Qui è esposto l'ideale benedettino della vita cenobitica allo stadio definitivo. Riguardano un'aggiunta sui fratelli che tornano dai viaggi, l'obbedienza impossibile, i rapporti reciproci tra i monaci, il senso vero della Regola. Questa conclusione, in particolare il cap. 73° collegato con il titolo della Regola, riportato da alcuni codici. "Si chiama Regola per il fatto che dirige il comportamento di coloro obbediscono", ci può dare l'idea della. relativizzazione del concetto di "legge" per Benedetto. Egli non la esclude, ma la colloca giustamente all'interno dell'itinerario verso la libertà che consiste nella carità perfetta (vedi la conclusione del cap. VII sull'umiltà: "Saliti, dunque, tutti questi gradini dell'umiltà, il monaco arriverà subito a quell'amore di Dio che, perfetto, scaccia ogni ti-more, e attraverso dì esso comincerà a custodire senza sforzo alcuno, quasi naturalmente e per abitudine, tutto ciò che prima osservava non senza paura, non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo..."

Alcuni esempi di osservanze tratte dalla Regola

Prima sezione:

"Il quinto gradino dell'umiltà consiste nel manifestare all'abate, attraverso un'umile confessione, tutti i pensieri malvagi che sopraggiungono e quanto di male si è commesso nascostamente..." (VII, 44...).

Seconda sezione:

"...appena cominciato il Gloria, tutti si alzino in piedi in segno di onore e di adorazione alla Trinità Santa..." (IX, 7).

Cap. XLIII, il ritardo all'Ufficio divino e alla mensa...

Cap. XXIII, senso della scomunica.

Cap. XXVII, l'Abate, anche per i casi più gravi, abbia cura degli scomunicati, anzi per essi applichi il rimedio più efficace: la preghiera.

Cap. XXXI, il cellerario e il senso delle cose.

Cap. I.VIII, la Professione monastica simbolo di tutta l'esistenza del monaco e del Cristiano.

Conclusione

Leggiamo nel libro III dei "Dialoghi" di S. Gregorio Magno che un eremita viveva vicino al Monastero di Benedetto. Un giorno decise di incatenarsi nella sua grotta, per non poterla lasciare mai più. Lungi dall'ammirare questo gesto, "l'uomo di Dio" inviò uno dei suoi discepoli a portare al solitario questo messaggio: "Se tu sei vero servitore di Dio non ti le-gare con una catena di ferro. Legati con la catena che è Cristo!". Mi sembra che, a questo punto, possiamo riassumere così il modo in cui Benedetto offre la sua "disciplina di vita" non solo ai monaci, ma ad ogni Cristiano e ad ogni uomo.

- Ascolto attento di Dio attraverso la sua Parola mediata dalla Comunità e dall'Abate per vivere costantemente da discepolo (conversione);

- Percorrere la strada della storia personale e comunitaria, nella accoglienza della quotidianità della vita (rapporti umani, lavoro, cose, sofferenze...).

Spiritualità benedettina e cistercense

Veri e falsi religiosi
Testo estratto dal "parabolario"
di Galando di Reigny (1)
a cura di Sr. Giovanna Grazioli o. cist.



Galando di Reigny non è uno scrittore illustre, piuttosto potrebbe essere nominato come una persona di secondo piano nel campo della spiritualità del XII secolo. Secondo le sue due opere, Parabolario e Il piccolo libro dei proverbi, possiamo situare la sua attività scritturale in due diversi monasteri. Inizialmente, era membro d’un gruppo d’eremiti, fondato nel104, nella diocesi Autun (Francia), i cui fondatori erano preti ed uno si chiamava Gerardo. Si sono stabiliti in un luogo chiamato, Fontesme o Fontemoy, che vuoi dire: Fons humidus, fonte umida. Alcuni monaci e anche Gerardo sono morti a causa della loro permanenza in questo luogo malsano. Il successore di Gerardo, Giuliano insieme agli altri monaci chiese di entrare nell’Ordine Cistercensi affiliandosi a Clairvaux. San Bernardo accettò l’incorporazione scegliendo come abate il monaco Étienne de Torcy che trasferì il monastero sulla terra di Reigny, diocesi di Auxerre, nel 1134.

Galando scrive nel prefazio del libro Parabolario, di avere incominciato a scrivere secondo l’ordine dell’abate Giuliano, ma ora vuole continuare il suo scritto come monaco di Clairvaux. La seconda opera di Guglielmo, Il piccolo libro dei proverbi è dedicato a San Bernardo.

I veri e i falsi religiosi (2)

1. Si ascolta talvolta più volentieri ciò che si dice per mezzo di paragoni: per dono di Dio, abbiamo dunque composto la seguente parabola che ha per soggetto i veri e i falsi religiosi

Essendo studente (A) e percorrendo (B) numerose province con lo scopo di istruirmi, arrivai con lo spirito in una città (C) abbellita da edifici numerosi e importanti (D). Dato che la percorrevo con occhio d’ammirazione, vidi due uomini (E) dall’aspetto rispettabile e con una grande personalità. lo mi avvicinai, mi sedetti al loro fianco e ascoltandoli parlare per lungo tempo, appresi dalle loro stesse parole che uno di loro era passato da una grande povertà (F) alla più grande ricchezza; l’altro invece era diventato molto povero da ricco che era (S). Stupefatto, domandai di essere informato circa la salita del primo e la caduta del secondo.

Quello che era giunto alla ricchezza rispose per primo:

«lo ero, disse, un ragazzo (I) povero (H); ora capitò che un uomo di questo paese, nobile e molto ricco (K) esortava la sua giovane figlia (L) a sposarsi, Ella gli rispose in questi termini: “Dato che devo obbedire ai tuoi ordini, padre caro, voglio che tu mi unisca a quel ragazzo povero - è di me che parlava - perchè è di animo dolce e umile (M). Se si tratta di ricchezze, grazie a te lo ricolmerò di beni sovrabbondanti: perché dovrei sopportare, per bramosia di ricchezza, un qualsiasi riccone orgoglioso e vizioso (N) col carattere che non si accorda col mio e che offuscherebbe alla lunga la nostra unione con litigi di coppia?”. Che dire di più? Con l’approvazione di suo padre, questa fanciulla molto illustre mi è stata data in sposa con una grande dote».

2. Prendendo la parola disse l’altro:

«lo, al contrario, sono nato da una nobile stirpe (O); un tempo ero molto ricco (P). Ascolta come sono caduto in povertà. Una giovane donna, una serva, si mise a frequentare la mia casa col pretesto di rendermi dei servizi. Questo servizio che all’inizio ho accettato come necessario, con retta intenzione, si è cambiato poco alla volta nel vizio della carne (Q). Perché dilungarmi? Vinto da un amore degradato, la presi in moglie (R). Subito, il suo padrone (5) mi rivendicò per servo e si mise a saccheggiare, a devastare, a dissipare i miei beni (T) di giorno in giorno. In breve, sono stato ridotto a una indigenza così grande che tutto il mobilio della mia casa, e gli stessi abiti che indosso, ad eccezione del mantello che, era magnifico, ora vale appena un soldo. Così non oso ricevere nessun ospite nella mia casa (V) per paura che veda la mia orrenda indigenza. Se talvolta mi capita dì dover accogliere uno, chiedo in prestito dei piatti, della biancheria e quanto è necessario (X), e davanti all’ospite dico che è tutto mio.

Dopo aver valutato un po’ la situazione dissi;

«Tu non sarai mai libero finché vivrà la tua sposa. Ricordati giorno e notte di domandare a Dio la sua morte. Quando la avrai ottenuta, rendi al suo padrone tutto ciò che hai acquistato con lei, e rinuncia così a lui. Se, anche dopo questa rinuncia, egli osasse rivendicarti o reclamarti, porta la tua causa davanti al giudice (Z), e grazie al suo appoggio potrai dimorare al sicuro».

3. Diciamo ora brevemente dove vogliamo arrivare.

Cominciamo dal principio: è discepolo spirituale chiunque si sforza di conoscere i precetti divini.

Inoltre quando si raffigura nel suo cuore la vita degli uomini religiosi che dimorano in diversi luoghi al fine di imitarli, li ricerca con lo scopo di istruirsi.

Ora, se guardiamo con lo spirito la situazione della Santa Chiesa, entriamo in una specie di città; in essa vediamo degli edifici numerosi e importanti quando riflettiamo sulle differenti categorie di fedeli. Quanto a questi due uomini che si distinguono dal loro aspetto, che brillano similmente ma vivono molto differentemente fra loro, sono due generi di religiosi: i veri e i falsi.

Esteriormente non sembrano differire quasi in nulla, ma interiormente sono così lontani l’uno dall’altro quanto la verità lo è dalla menzogna.

Quell’uomo molto nobile è Dio. Sua figlia, è la saggezza, perché ogni saggezza è dono di Dio. Desiderando sposarsi - cioè generare a Dio dei figli spirituali - essa cerca di unirsi non agli orgogliosi ma alle persone dolci, secondo le parole: «La saggezza proclama sulle piazze: se qualcuno è piccolo, venga a me» (cf. Pr 9,3-4).

A chi è privo di senno essa dice:

Suo marito, prima povero e poi ricco, indica coloro che, rinunciando alla vita del secolo dove erano privati dei veri beni e elevati dal loro matrimonio con la religione pura e la saggezza spirituale, abbondano di ricchezze interiori.

L’altro, al contrario, divenuto miserabile da glorioso che era, che non aveva che un mantello prezioso per coprire la vergogna della sua mendicità, rappresenta coloro che, essendo cresciuti nella miseria di una cattiva volontà dopo aver abbracciato la proposta della vita religiosa, cadono dalla cima della santità, come da una grande ricchezza, in una povertà interiore.

Agli occhi degli uomini, sembrano ancora stare in piedi tanto coprono la malizia del loro aspetto religioso di un tempo, conservato come un abito prezioso; ma agli occhi di Dio sono già caduti, dal momento che hanno abbassato il loro spirito ai desideri della terra, come è scritto: «Cadono ai suoi occhi tutti coloro che scendono nella terra» (Sal 21,30).

4. Essi hanno ammesso all’inizio i piaceri della cupidigia, in quanto necessari, come di una serva; poi si sono disonorati sposandola: consegnandosi così al potere del diavolo, sono spogliati da lui di tutti i loro beni spirituali.

Essi non osano introdurre nessun ospite nella loro casa, poiché evitano con la più grande cura di scoprire la malizia che si nasconde sotto il tetto del loro spirito.

Se capita di farne entrare uno, cercano gli ornamenti degli altri e dicono che appartengono loro: se qualcuno, infatti, indaga sui segreti della loro coscienza. Si vantano subito di possedere delle virtù che non hanno; così dicono proprio ciò che appartiene agli altri.

Non mettono il loro mantello che in presenza di un ospite o per uscire; profondamente viziosi interiormente, «cercano di sembrare giusti davanti agli uomini» (Lc 16,15).

lo ho dato questo consiglio: cercare di ottenere da Dio la morte della sposa cattiva, perché nessuno di loro potrà respingere il giogo del diavolo a meno che l’azione divina non spenga in loro la cupidigia di questo mondo.

Una volta avvenuta la sua morte per un dono di Dio, noi rendiamo in qualche modo al diavolo tutto ciò che abbiamo acquistato nello stesso tempo dalla cupidigia, ossia tutto ciò che il diavolo dà ai suoi servitori.

E così noi rinunciamo a lui. Infatti se la cupidigia di questo mondo è perfettamente morta nel nostro cuore, ben presto abbandoniamo tutti i nostri attaccamenti terreni; ma coloro che sono dominati dal «principe di questo mondo» (Gv 12,31), si impadroniscono immediatamente di ciò che noi rigettiamo. Quanto a noi, rinunciando al diavolo, sfuggiamo al suo dominio.

Se in seguito egli avesse la presunzione di reclamarci di nuovo, portiamo la nostra causa davanti al giudice supremo con la preghiera, «spandiamo la nostra preghiera sotto il suo sguardo ed esponiamogli le nostre tribolazioni» (cf. Sal 142,3) , ed Egli «ci libererà dai nostri nemici» (cf. Sal 135,24), Lui che vive e regna.....

NOTE

A. Alla scuola di Colui che dice: « Voi non avete che un solo Maestro» (Mt 23,8).

B. «Giro attorno al tuo altare e... », ecc. (Sal 26,6).

C. Ossia nella Santa Chiesa.

D. Ossia i diversi ordini della società.

E. Due generi di religiosi.

F. Ossia lo stato secolare.

G. Ossia lo stato religioso.

H. Ossia un secolare.

I. Ossia semplice di cuore e di una natura docile.

K. Ossia Dio.

L. Ossia la Sapienza.

M. Essa ricerca gli umili (cf. Sal 112,6).

N. «La sapienza non entra in un animo mal disposto» ecc. (Sap 14).

O. «Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio...» (1Gv 3,2)

P. Le virtù di Dio.

Q. Talvolta la cupidigia mondana si insinua poco alla volta nel cuore; e mentre la si ammette come necessaria, cambia la necessità in volontà.

R. Sposa dei buoni: la carità. Sposa dei cattivi: la cupidigia.

S. Ossia, «Il principe di questo mondo» (Gv 12,31).

T. I beni spirituali.

V. Egli chiama casa la sua coscienza, a lui ripugna che la vedano.

X. Ossia le virtù.

Y. Egli «cercava di sembrare giusto davanti agli uomini» (cf. Lc 16,15)

Z. Ossia Dio.



1) GALAND DE REIGNY, Porabolaire, a cura di C. Friedlander, Sources Chrétiennes, 378, Paris 1992, Parabola n. 6, pp. 114-125. In Vita Nostra, n. 3 2002, sono state pubblicate le Parabole 3, 7 e 21.

2) La Parabola è inseparabile da questi termini.

In una società che tenta disperatamente di esorcizzare il terrore della morte si fa strada una superficiale riscoperta delle filosofie orientali che ignora come la reincarnazione sia in realtà una “disgrazia”. Molti reincarzionisti finiscono per arruolarsi nelle truppe degli gnostici che negano ogni valore alla fede.

Ormai la stampa le attribuisce il titolo di «yoghi dell'Occidente»; vorrebbe spiegarci come si è interessato allo yoga?

In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E lasciata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. (Mc 4, 35-41)

Giovedì, 08 Febbraio 2007 01:19

Lezione Ottava. La monarchia e il regno

Lezione Ottava

LA MONARCHIA E IL REGNO

 

 

1. Il tema del Regno

a) Novità istituzionale

La monarchia non è un’istituzione dei primordi del popolo di Israele. Non faceva parte delle istituzioni del popolo di Dio nei primi due secoli dopo l’insediamento nella terra promessa.

Mercoledì, 07 Febbraio 2007 02:09

Águas de Oxalà (Marcelo Barros)

Águas de Oxalà
di Marcelo Barros



E’ il nome di una festa, celebrata dai fedeli del Candomblé brasiliano, che si rifà a un antico mito di origine africana, secondo cui la giustizia divina libera la bontà provvidenziale del Creatore, per farla cadere sul mondo come acqua benefica. Una lezione che tutti dovremmo apprendere, per non continuare ad avvelenare questo prezioso elemento, il cui uso è un diritto umano universale.

In Brasile, il mese di settembre termina e quello di ottobre inizia con un ciclo di feste legate alla religione del Candomblé di Bahia. Quest’anno, il caso ha voluto che, proprio a metà di questa serie di celebrazioni, la domenica 1° ottobre, i brasiliani si rechino alle urne per eleggere il presidente della repubblica, i governatori degli stati, i deputati e i senatori, nella triste consapevolezza che questo tradizionale modello politico è ormai logoro e non ha più la forza di promuovere alcun cambiamento sostanziale per una maggior giustizia nella società e per la salvaguardia del creato.

Fin dal giovedì prima, le comunità afro-brasiliane di tradizione yoruba si sveglieranno di buon mattino per dare inizio alla festa delle Àguas de Oxalà (“le acque di Oxala”). Se si volesse cercare -. per quanto indebitamente e inadeguatamente - un corrispondente nella tradizione cristiana, si potrebbe associare questa festa con la Veglia di Pasqua, considerandola una sorta d’inizio di primavera, anche se siamo in una parte del mondo che a stento conosce due stagioni in un anno.

La festa delle Águas de Oxalà ricorda e celebra un antico mito di origine africana, secondo cui la giustizia divina (rappresentata dal potente orixd Xangò) libera la bontà provvidenziale del Creatore (Oxalà, il padre di tutti gli orixà) , per farla cadere sul mondo come acqua benefica.

Oggi più che mai, l’intera umanità ha bisogno di una grande “festa delle acque”. Ogni anno, esperti provenienti da 140 nazioni si riuniscono in Svezia per la Settimana mondiale dell’acqua. Da tempo questi esperti vanno dicendo che la carenza d’acqua sul pianeta Terra sta sempre più aggravandosi. Il vertice di quest’anno, tenutosi dal 20 al 26 agosto scorso, ha sottolineato il fatto che un terzo della popolazione mondiale già sta soffrendo per la mancanza di acqua potabile. Si tratta di una constatazione a dir poco drammatica perché un simile quadro era previsto soltanto per l’anno 2025! Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ogni anno circa 2,2 milioni di persone, per lo più bambini, muoiono per mancanza d’acqua o per ragioni legate ad essa.

Questa crisi, in parte già imputabile alla ineguale distribuzione di fiumi e di laghi sulla superficie terrestre, è resa più grave dal surriscaldamento del globo, dalla devastazione delle foreste e, soprattutto, dall’eccessivo spreco di acqua e dalla cattiva gestione delle risorse idriche. Applicato all’acqua, il termine “risorsa” è del tutto improprio, perché questo elemento non può essere declassato a “mercanzia”. L’acqua, invece, è l’ambiente in cui è apparsa la vita e la componente principale di ogni essere vivente. Con “risorsa idrica” s’intende quella parte di acqua che viene usata per certe attività umane, in particolare per attività economiche. Pertanto, “acqua” è un concetto molto più ampio di quello di “risorsa idrica”, anche se i due sono indissociabili.

Il problema sta nel fatto che, negli ultimi tempi, l’impiego d’acqua come “risorsa” si è tremendamente intensificato rispetto a qualche decennio fa. Oggi, in termini percentuali, l’uso dell’acqua dolce è così ripartito: 70% per l’agricoltura, 20% per l’industria e 10% per il consumo umano. Questo uso intensivo dell’acqua, specie nei settori agricoli e industriali, avviene a un ritmo tanto elevato da superare quello del ciclo naturale della sua rigenerazione. In questo modo, molte sorgenti d’acqua stanno scomparendo, proprio per l’uso sconsiderato che se ne fa. Non solo: si è giunti a interferire mortalmente con lo stesso “ciclo dell’acqua” (conosciuto tecnicamente come ciclo idrologico, cioè la circolazione dell’acqua all’interno dell’idrosfera, con i cambiamenti del suo stato fisico: fase liquida, solida e gassosa), avvelenandola con pesticidi e altri prodotti chimici usati nell’industria. La grave assenza di corrette politiche ecologiche, soprattutto nei paesi poveri, sta portando alla contaminazione di molti sorgenti d’acqua.

La festa delle Águas de Oxalà è celebrata nei quartieri poveri delle periferie urbane, dove l’accesso all’acqua è sempre problematico. In questo senso, la festa rappresenta una “profezia spirituale”, che dice al mondo che la soluzione della crisi idrica non può consistere nella commercializzazione dell’acqua, tanto meno nella sua privatizzazione. Il mio auguro è che in Brasile - come pure nel resto del mondo - tutti gli uomini e le donne si colgano e si comportino come filhas e filhos de santo di Bahia in occasione della processione di Oxalà. AI pari di questi fedeli del candomblé, portiamo ciascuno il nostro recipiente d’acqua, per “metterla in comune” con gli altri. Convinti che questo elemento naturale è un diritto umano universale e che, solo quando è “messo in comune”, esso può essere fonte di vita e di benedizione per tutti gli esseri viventi.

(da Nigrizia, ottobre 2006)

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