Se c’è qualcosa di cui il mondo attuale appare orfano è la speranza. Nell’Occidente «sazio e disperato» serpeggia una diffusa stanchezza, un pragmatismo cinico che si sposa all’edonismo del carpe diem, una rassegnazione all’esistente che appare l’esito di ideali appassiti. In molte altre parti del mondo, segnate dalla guerra, da fame, malattie, ingiustizie sociali che scavano abissi tra la popolazione, la speranza appare un lusso impossibile, un sogno irrealizzabile.
Eppure... al cristiano tocca il dono e la responsabilità di essere segno della Speranza, entrata nel mondo grazie all’irruzione di un Dio imprevedibile, che ha scelto di farsi uomo, nella debolezza e nella precarietà, morire in croce, per poi vincere la morte con la forza della resurrezione.
Le pagine che seguono sono state pensate come uno strumento per preparare un appuntamento ecclesiale come quello di Verona che, al netto dell’inevitabile retorica, in qualche modo dovrebbe segnare il cammino del decennio. Nelle nostre intenzioni vogliono essere un contributo per le comunità cristiane e per i singoli, nel segno dell’esperienza condivisa e della riflessione. Soprattutto hanno l’ambizione di portare almeno un’eco della voce e del calore dei popoli e delle Chiese del Sud del mondo. Il peggior risultato di Verona sarebbe una Chiesa autoreferenziale, che fa sosta per verificarsi, come per un «tagliando» in qualche modo obbligato e subito. Senza, però, avere il coraggio di mettersi in discussione, di ascoltarsi e ascoltare il respiro del mondo e della missione.
(g.f.)
(da Mondo e Missione, ottobre 2006)
La speranza cristiana? Si fonda sul Crocefisso risorto
Le radici piantate sul Golgota
di Luciano Manicardi
Presentiamo ampi stralci della relazione tenuta da Luciano Manicardi all’assemblea diocesana missionaria, tenutasi a Milano il 13 maggio sul tema.
È quasi d’obbligo oggi, quando si parla di speranza, iniziare dicendo che si assiste a un’eclisse della speranza. Anche la traccia di riflessione in preparazione al convegno di Verona, proprio agli inizi (n. 1), dice che «non è cosa facile oggi la speranza. Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa».
Il nostro tempo oggi non è sotto il segno della speranza, ma sotto quello della tristezza (cfr M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004). È come se il futuro avesse cambiato di segno e non suscitasse più l’idea di una promessa che ci sta davanti, ma ingenerasse in noi sentimenti di paura, di incertezza, di sfiducia. Insomma, il futuro oggi è sentito come minaccia piuttosto che come promessa; allora nascono angoscia, ripiegamento su di sé e sfiducia piuttosto che progettualità e slancio in avanti. La fiducia insita nel mito messianico secolarizzato, che ha dominato la cultura occidentale, ormai è venuta meno: oggi è sostituita dalla vittoria del mito autoreferenziale di Narciso. Ma a Narciso sono impossibili l’attesa e la speranza, mentre gli è congeniale l’autodistruttività.
Se pensiamo all’individualismo dominante, all’utilitarismo che soffoca la solidarietà, che conduce ad avere relazioni contrattuali e competitive piuttosto che gratuite, o all’economicismo come unico valore diffuso dalla società neoliberista, all’estinzione del desiderio in una società che fa l’apologia delle voglie, ecco… tutto questo crea tristezza e spegne la speranza. Il cambiamento di segno del futuro, da promessa a minaccia, ricrea un tipo antropologico nuovo, con poco spirito di iniziativa, di progettualità, piuttosto rinchiuso su di sé, demotivato, indeciso, diffidente, timoroso, con poco autostima.
La speranza poi ha una dimensione collettiva, comunitaria, nasce e vive in un contesto relazionale. Una società da cui scompare o si offusca l’orizzonte della speranza vede crescere fenomeni di violenza, di nichilismo, spinte distruttive oppure rassegnazione, omologazione, indifferenza.
Pochi anni fa abbiamo esultato per l’insorgere di grandi speranze; crollava un muro fra le due Germanie, ma la speranza sorta non ha avuto tempo di divenire storia, sono sorti tanti altri muri di separazione (e non solo simbolici, ma anche di cemento): muri del particolarismo etnico-razziale, confessionale, religioso. Oggi la speranza ha poco tempo, le speranze sono a breve termine, non riescono a diventare storia. Tutto questo rientra in quella fluidità che Zygmunt Baumann coglie oggi come cifra dell’inafferrabile modernità che stiamo vivendo.
Per noi, cattolici in Italia, va poi messa in conto anche la delusione per tante speranze nate attorno al Concilio Vaticano II. A distanza di quarant’anni, gli entusiasmi vissuti in quella stagione oggi appaiono molto raffreddati, se non congelati; probabilmente c’è stata impazienza, forse non abbiamo calcolato, in preda a un ingenuo ottimismo, che anche la ricezione di un Concilio richiede tempo e lungo periodo: le speranze di un rinnovamento della Chiesa, di una primavera che sembrava a un passo si sono arenate di fronte ai ghiacci di un inverno indesiderato e lungo.
Dobbiamo fare esempi? Possiamo pensare allo stato comatoso dell’ecumenismo; alle difficoltà e agli ostacoli che incontra la ricerca teologica, quando affronta temi come il dialogo con le altre religioni, ma lo smarrimento anche di un senso di sana laicità nel rapporto tra la Chiesa e la polis, tra la Chiesa e la società. Sono solo alcuni elementi di una lista che potrebbe essere più lunga, ma che fanno parte dello smarrimento, della delusione di speranze che erano sorte.
Se a questo aggiungiamo quello che spesso è uno dei grandi motivi di frustrazione negli ambienti cristiani, ovvero l’indifferenza - l’indifferenza con cui si scontrano gli sforzi di evangelizzazione, quasi che le parole della fede ormai suscitino, il più delle volte, una scrollatina di spalle - indubbiamente comprendiamo il senso di amarezza e di disillusione in cui spesso versiamo. Forse dobbiamo confessare di aver ingenuamente fatto nostro quel mito del progresso che denunciavamo come fallace. Forse anche noi abbiamo pensato che il Concilio avrebbe dato il via a un processo inarrestabile di riforma, di rinnovamento, e ora dobbiamo riconoscere che molte di quelle speranze sono morte; forse alcune erano solo illusioni ed è bene che siano morte.
Forse siamo come il popolo di Israele che ha iniziato un cammino di liberazione, ma questo cammino è di deserto, è un cammino molto lungo. Certamente c’è chi rimpiange il prima, la condizione di quando si era in Egitto. Ma forse tutto questo, biblicamente, altro non è che l’inizio, le doglie del parto, è la condizione del cristiano nella storia.
La speranza cristiana e le speranze. Dobbiamo distinguere tra la speranza e le speranze, tra l’affermazione assoluta «io spero» e l’affermazione relativa «io spero che». Dobbiamo distinguere - anche in ambito ecclesiale - tra l’assoluto «io spero», l’essere uomo di speranza, da un lato, e l’avere degli obiettivi, delle speranze al plurale. Il venir meno delle speranze può consentire alla speranza fondamentale di farsi luce. In altri termini, la delusione può essere dunque liberazione da illusioni: uno spogliamento che mette in luce, rende più pura la speranza. La speranza cristiana, nel suo nucleo perenne, non è in balìa di contingenze, non dipende da realizzazioni (nemmeno pastorali), ma è speranza fondata sulla morte e risurrezione di Cristo. Essa ha per oggetto (e anche soggetto che la suscita) il Cristo, il «Cristo nostra speranza». Così inizia la prima lettera di Paolo a Timoteo (1,1). Scrive Bonhoeffer dal carcere (da una situazione senza speranza): «Cristo nostra speranza, questa formula di Paolo, è la forza della nostra vita». La speranza è sempre rivolta a Cristo, a Dio, al Dio vivente, al Dio delle promesse che si sono manifestate in Cristo. In Cristo questa speranza è speranza della risurrezione dei morti (At 23,6), la speranza di fronte alla morte. Se infatti, dice Paolo, sperassimo in Cristo solo in questa vita, saremmo i più miserabili di tutti gli uomini (1 Cor 15,19).
La prima lettera di Pietro mostra chiaramente come l’evento pasquale dia forma e contenuto alla speranza cristiana. Questa è la speranza grande, la speranza donata da Dio ai credenti e, attraverso loro, agli uomini: è la speranza che i cristiani hanno il compito di annunciare e testimoniare al mondo, perché solo essa salva. Essa ha sempre - non solo in certe congiunture - carattere paradossale: sgorga infatti dalla croce e ne porta le stigmate. Come il Crocifisso, il Cristo appeso alla croce è la paradossale rivelazione di Dio, così la fede è il paradossale credere che il Crocifisso, quell’uomo condannato a morte, sia il Salvatore del mondo.
E la carità che cos’è se non il paradossale amare il nemico, e amarlo mentre mi è nemico? Questo amore nasce dalla croce, è l’amore paradossale reso visibile dalla croce. La speranza è il paradossale sperare al cuore stesso della morte, della croce. È significativo che si tratti di una speranza al cuore della morte, una speranza “in desperatione” verrebbe da dire: la speranza cristiana è sempre speranza contro ogni speranza. Sperare l’insperabile. Quell’uomo appeso alla croce, esibito nella sua nudità al disprezzo della gente, è il Salvatore del mondo. Ecco la speranza cristiana. Vi è una contiguità tra speranza e disperazione: anche il Risorto, dice Giovanni, porta i segni della trafittura.
Colpisce il fatto che il Ventesimo secolo abbia fatto emergere figure di testimoni e di santi che hanno abitato gli inferni storici. Nel secolo scorso è emersa la santità di chi sa abitare gli inferni dell’esistenza umana senza disperare, nutrendo lì una speranza e amando, continuando ad amare nell’orrore di un lager nazista, nel crogiuolo di una malattia estenuante, nella solitudine di un deserto, nella cella di un monastero, in situazioni di povertà, di oppressioni, di ingiustizia. Dietrich Bonhoeffer, Teresina di Lisieux, Charles De Foucauld, Silvano dell’Athos, Oscar Romero (e si potrebbe continuare) hanno vissuto la speranza nella disperazione, hanno vissuto una santità martiriale, testimoniale, che abita gli inferi dell’esistenza e che sa far abitare la grande speranza nella disperazione umana.
Se Cristo è la nostra speranza, per noi sperare è lasciare al Signore l’iniziativa su di noi, sulla nostra vita, non solo sulla vita personale, ma anche su quella comunitaria ed ecclesiale. La Chiesa spera, vive Cristo come sua speranza e testimonia agli altri Cristo come speranza, quando vive la povertà, l’umiltà, la libertà: o queste dimensioni contraddistinguono il «volto ecclesiale», o altrimenti la Chiesa potrà anche parlare di speranza, ma rischierà di farlo in modo retorico. Pensiamo alle condizioni attuali di minoranza e di spogliamento (di cui oggi abbiamo tanti segni nella Chiesa), dall’indifferenza che incontra la parola della fede, dal pluralismo che obbliga a un difficile incontro con persone appartenenti ad altre religioni e che ci rimette in discussione profondamente, da una cultura che a volte avversa il cristianesimo, da una diminuzione numerica all’interno delle Chiese: questo spogliamento è occasione per ritrovare quella povertà, quella piccolezza, quella libertà, quell’umiltà che sono le condizioni grazie a cui la Chiesa è profetica. Una Chiesa può porsi profetica non solamente quando denuncia le ingiustizie, ma se vive della Parola. È annunciando questa promessa che la Chiesa dà speranza: la speranza è che il futuro del mondo è Dio, il Regno. La profezia è allora apertura di futuro, dono di senso, attualizzazione della promessa di Dio. Dietrich Bonhoeffer ha scritto: «Il concetto non biblico di senso è solo una traduzione di ciò che la Bibbia chiama promessa».
Profezia è anche lotta contro gli idoli: vi sono certamente i grandi e perenni idoli che ci affascinano, ma vi sono anche idoli interni alla Chiesa. La profezia si declina allora come combattimento contro le tentazioni che, mentre sfigurano il volto ecclesiale, uccidono anche la capacità della Chiesa di dare speranza. Qui c’è il «caro prezzo della speranza». Poiché la speranza cristiana non coincide affatto con l’ottimismo, ma è sinonimo di responsabilità.
È la prima lettera di Pietro che l’afferma: «Santificate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi chieda ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Chiunque ha il diritto d’interpellare il cristiano sulla sua speranza e questi ha una diaconia, un compito, una responsabilità. La speranza è la sua risposta alla promessa di Dio, è responsabilità nei confronti degli altri uomini. Se non sono i cristiani che innervano il mondo e le relazioni con la speranza che sgorga dalla Pasqua, chi lo farà?
Sarebbe interessante rileggere le tentazioni di Cristo dove si narra come Gesù vinca la suggestione diabolica, sottomettendosi alla Parola di Dio e custodendo la propria umanità: situandosi tra questi due poli, Cristo vince la tentazione e apre la speranza di salvezza a ogni uomo. Sottomissione alla Parola di Dio: Gesù risponde al tentatore sempre citando la Scrittura, custodia della propria umanità e creaturalità; Gesù non esce mai dall’umano, non entra mai nel magico. Gesù sa discernere come tentazione il mutare le pietre in pane: egli non stravolge la natura, non si sottrae alla povertà creaturale dell’uomo, ma resta uomo. Non cede neppure alla seduzione del potere e del possesso, ma resta nella povertà tipica della creatura e custodisce il senso del limite della propria umanità; Gesù non fa del tempio, del religioso, del sacro, lo sgabello della propria affermazione. Non si getta giù per farsi salvare dagli angeli, dando compimento eclatante e miracolistico alla parola della Scrittura.
È importante saper vincere le tentazioni del potere, poiché il potere, sia politico che religioso, è sempre mondano: anche il potere religioso ha gli stessi movimenti del potere mondano, questo vincere le tentazioni avviene grazie all’abitare l’umano nell’obbedienza alla promessa di Dio. Gesù resta sottomesso alla Parola di Dio e, quando sarà sulla croce, mostrerà la piena e definitiva vittoria sulle tentazioni. Dalla croce scaturisce la salvezza e la speranza di salvezza per tutti gli uomini. Dalla croce discende a noi il compito di sperare per tutti e di narrare la speranza a ogni creatura.
Per sperare, occorre saper vedere. E la speranza è munita di un occhio particolare. Per dare speranza occorre discernere gli idoli che ci abitano e dare il nome, anche come Chiesa, agli idoli. Bisogna avere il coraggio di discernere e la forza di combattere.
Si dovrebbe uscire dalla logica del lamento per guardare alla realtà con occhi nuovi, con un altro sguardo. È vero: se guardiamo alle nostre situazioni ecclesiali, a volte può prenderci un senso di stanchezza e di scoramento e tuttavia questo non è un novum. L’episodio evangelico di Marco, dove si parla della prima moltiplicazione dei pani, mostra una situazione ecclesiale che sembra quella di oggi: i discepoli avevano talmente tanto da fare da non aver più tempo nemmeno per mangiare. Già allora la quantità delle cose da fare sopraffaceva gli apostoli e Gesù li invita ad andare in disparte per riposare un po’: è doveroso per il missionario, per il credente, andare in disparte, riposarsi, stare con il Signore, avere una propria interiorità. Ma ecco che Gesù sbarca e trova già la folla che lo aspetta, sicché Gesù accetta di essere contraddetto e, nella compassione, annuncia alle folle la parola e poi dà loro da mangiare. Lì nasce il problema: «Date loro voi stessi da mangiare…»
(Mc 6,37). «Non abbiamo che cinque pani e due pesci. Cosa è questo per tutta questa gente?» (Mc 6,39). Eppure, da quel poco Gesù farà sorgere l’abbondanza.
Per noi, oggi, questo dice che la Chiesa saprà dare testimonianza alla speranza accogliendo la propria fragilità, la propria debolezza, la propria infedeltà. È a partire da lì che siamo chiamati a dare speranza, non a mascherare, a rimuovere, ma a porci nella nostra attuale fragilità, debolezza, forse anche nelle nostre ferite attuali, nel nostro spogliamento attuale e assumerlo, accettando di perdere anche molte cose. E forse molte altre ne dovremo perdere nei prossimi anni, e dovremo accettare questo impoverimento, questa morte di molti sogni, ma custodendo l’umano che è in noi e obbedendo alla Parola e alla promessa di Dio.
Noi dobbiamo imparare questa speranza, liberata dall’impazienza di vedere subito i risultati, non vincolata ai nostri desideri, perché la speranza di cui parliamo non è una speranza qualsiasi o di qualche cosa, ma è un confidare nel Signore e in ciò che Lui vorrà darci e che noi non possiamo vedere né toccare. Questo sperare tende all’invisibile («le cose invisibili sono eterne»). Proust nella sua Recherche, scrive: «Il vero viaggio di scoperta non consiste nell’andare in cerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi».
Ecco l’occhio nuovo della speranza che ci fa vedere l’invisibile, quello che pure si fa avanti nella storia tra le sue contraddizioni e opacità, ma che richiede un occhio allenato, evangelizzato dalla promessa di Dio. Di fronte alle tribolazioni storiche che precederanno la fine, quando accadranno sconvolgimenti quali terremoti, carestie, guerre… (Lc 21,28) Gesù invita a levare il capo, ad alzare gli occhi, perché la liberazione allora sarà vicina. Questa capacità dei cristiani di vedere, nella tragicità della storia, anche la luce che avanza, è la diaconia che il cristiano è chiamato a vivere. Il credente alza gli occhi e vede l’invisibile, vede ciò che si cela nella trama oscura e tragica degli eventi. Allora la speranza diventa ypomoné, perseveranza, capacità di rimanere, anche nelle situazioni difficili (e com’è importante la testimonianza di chi sa vivere una fedeltà nella propria scelta di vita, perché questo dà speranza anche agli altri, a chi viene dietro a lui). Tale perseveranza è la capacità che i cristiani hanno di sottomettersi agli altri, di sostenerli nella prova: la speranza diviene allora forza, pazienza, capacità di resistenza e di sopportazione nel senso più nobile del termine.
Scrive Peguy: «La piccola speranza avanza tra le due sorelle grandi [la fede e la carità] e non si nota neanche». Quasi invisibile, la «piccola» sorella sembra condotta per mano dalle due più grandi, ma col suo cuore di bimba vede ciò che le altre non vedono e trascina con la sua gioia fresca e innocente la fede e l’amore nel mattino di Pasqua. «È lei, quella piccina, che trascina tutto». È la speranza che vede il regno, che vede il Signore veniente, che vede l’invisibile, e che narra questo nell’oggi.
(da Mondo e Missione, ottobre 2006)