Vita nello Spirito

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Domenica, 03 Novembre 2024 10:19

Anatomia della tristezza (Arnaldo Pangrazzi)

«La vita non è che una lunga perdita di tutto ciò che si ama. Ci lasciamo dietro una scia di dolori» (V. Hugo).

La precarietà dei legami e l'inevitabilità dei distacchi genera tristezza e la presenza accentuata di questa emozione tende a riflettersi sul corpo, abbassando le difese immunitarie – con il rischio di contrarre malattie – e spegnendo l'energia vitale, come confermano le seguenti espressioni: «Ho il cuore spezzato»; «Vedo tutto nero»; «Ho il cuore in gola»; «Non sto più in piedi».

La postura stessa di chi è triste annuncia prostrazione: corpo ricurvo, fronte corrugata, sguardo spento, voce tenue o lamentosa, respiro corto, lacrime o singhiozzi, dolori muscolari, lentezza dei movimenti. Una tristezza temporanea o passeggera è benefica e si lenisce facendo un bel pianto, confidandosi con qualcuno, ritirandosi dalla scena, facendo ricorso ad attività fisiche e/o tuffandosi nel lavoro.

Il problema si pone quando l'emozione si cristallizza e sfocia nella depressione, richiedendo psicoterapia o farmaci. Con frequenza, la persona triste è succube di sensi di colpa e palesa sbalzi di umore, atteggiamenti passivi, difficoltà sociali e relazionali, incomunicabilità e demotivazione.

La sensazione di essere inadeguato e/o incompreso si ripercuote sulla salute anche con sintomi quali: affanno respiratorio, mancanza di appetito, insonnia, diminuzione della temperatura corporea e aumento di sensibilità al freddo.

Percorsi positivi

La tristezza, in sé, non è né positiva né negativa, dipende da come è gestita: può contribuire a vivere le relazioni in maniera più profonda o sfociare in comportamenti problematici.

Esaminiamo, innanzitutto, i benefici di questa emozione, riconoscendo che il suo primo frutto è la compassione. La vocazione di molti buoni samaritani (medici, infermieri, psicologi, sacerdoti, volontari...) nasce, spesso, all'ombra della tristezza che si prova dinanzi al patire degli altri e dal bisogno di alleviarla attraverso il proprio intervento.

Un secondo frutto della tristezza è il dono dell'introspezione. Chi è triste si guarda dentro, ricorda il passato e riflette su come districarsi dalla prigione dei suoi umori.

Un terzo frutto della tristezza è il bisogno di condivisione. Quando si prova un dispiacere o ci si sente soli, si avverte il bisogno di contattare una persona amica per lenire il peso di queste emozioni.

I gruppi di auto mutuo aiuto hanno lo scopo di promuovere la condivisione e la guarigione delle persone ferite.

Un quarto frutto della tristezza è il bisogno di intimità. Inizialmente, quando si è addolorati o mortificati, si è portati a distanziarsi dal coniuge, amico o collega. Dopo un tempo di ritiro, il magone della solitudine spinge a riallacciare i rapporti, cicatrizzare le ferite e sperimentare di nuovo la vicinanza. Questo obiettivo si raggiunge con l'umiltà, lasciando cadere l'orgoglio e perdonandosi a vicenda.

Un quinto frutto della tristezza è la creatività. Molte persone trasformano la tristezza in espressioni creative, quali scrivere poesie, dipingere, comporre musica, ideare cose artistiche. Creatività intesa come capacità di generare "cose nuove" sublimando il proprio cordoglio.

Percorsi problematici

I modi controproducenti di gestire la tristezza riguardano:

L'isolamento e l'incomunicabilità: questi comportamenti possono disturbare i rapporti, acutizzare il travaglio, consumare preziose energie mentali e psichiche.

L'abbandono al pessimismo o al vittimismo: i soggetti filtrano gli eventi e le relazioni in un'ottica di catastrofismo e insoddisfazione cronica.

La tendenza a rifugiarsi nel sogno e nella fantasia, per compensare la noia o le presenze percepite banali o non rispondenti alle proprie attese.

L'inclinazione alla depressione dinanzi ai disappunti di un'esistenza orfana di speranza.

Il rischio che il crescente disagio interiore si trasformi in problemi mentali e psichici che richiedono l'assistenza sanitaria.

Un'energia umanizzante

Illudersi di eliminare la tristezza è come pretendere di eliminare la notte dal giorno. Goethe affermava che: «Se non hai mai mangiato con le lacrime agli occhi, non conosci il sapore della vita».

La tristezza ha molto a che fare con la vita, l'amore, gli eventi incresciosi, le delusioni nel rapporto con Dio, gli altri e se stessi. Dove c'è amore c'è dolore e il dolore purificato si trasforma in accresciuta capacità di amare.

Essere umani vuol dire offrire ospitalità a questo sentimento che serve a renderci più compassionevoli e sensibili alle vulnerabilità proprie e del mondo circostante.

 

Arnaldo Pangrazzi

 

(tratto da Missione Salute, n. 6/2021, pag. 64)

 

Le esperienze religiose e spirituali più profonde sono accomunate dalla consapevolezza che il divino si manifesta in maniera sfuggente e resta irriducibile a qualsiasi tentativo di circoscriverlo nelle categorie del pensiero umano. Le fasi iniziali di ogni religione si giocano intorno al binomio rivelazione-nascondimento: il rivelarsi di Dio è sempre ri-velarsi, nascondersi nuovamente allo sguardo. Ci sono religioni che restano, del tutto o in parte, segrete; persone costrette a professare la propria fede nell’ombra o a scegliere tra l’abiura e il martirio; credenti che, nella ricerca dell’Assoluto, scelgono di abbracciare una vita nascosta, lontana dal mondo. Tracciando un percorso tra le religioni orientali, i testi biblici e il cristianesimo, il volume indaga le diverse declinazioni della spiritualità del nascondimento. In particolare, l’esempio di Jean Claude Colin, fondatore dei Padri Maristi, svela la fecondità attuale della vita nascosta, che non significa rifugiarsi nella solitudine e rifiutare l’azione, ma vivere la propria condizione, qualunque essa sia, in piena consapevolezza e abbandono fiducioso alla volontà di Dio.

Autore: Faustino Ferrari

Titolo: Il nascondimento nell'esperienza religiosa

Editrice: Morcelliana (Brescia)

anno: 2024

pagine: 368

prezzo: € 29,00

 

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EUCARISTIA E UNIONE CON CRISTO

E’ con tutto il «realismo» possibile che noi dobbiamo comprendere le parole di Gesù al momento dell’istituzione dell’Eucaristia: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo» (Mt 26,26). Ilsoggetto «Questo» (il pane) si identifica con l’attributo «il mio corpo» (la persona di Gesù). Se crediamo che Gesù è il Figlio di Dio, di quel Dio che non può e non vuole ingannare né ingannarsi, è necessario concludere che il pane e il vino consacrati sono il Cristo realmente presente. La fede della Chiesa è sempre costante e unanime su questo punto.

L’Eucaristia è soprattutto sacramento della presenza, poiché essa è sacramento della Pasqua e della salvezza che, è Cristo stesso in persona. È per questo che i nostri primi fratelli cristiani parlavano della «mensa del Signore», della «cena del Signore» (1 Cor 10,21; 11,20). Colui che aveva mangiato con gli Apostoli si rendeva presente a essi e presiedeva la «cena». Il racconto dei discepoli di Emmaus è una testimonianza chiara di questa realtà: Gesù si manifesta loro nello spezzare il pane. Ancora oggi Gesù ci dice: «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui e lui con me» (Ap 3,20).

Noi celebrando l’Eucaristia rendiamo attuali le apparizioni del Risorto; tali «apparizioni» sono il compimento della sua Parola: «Ritornerò a voi» (Gv 14,18-22). E soprattutto noi crediamo che Lui ritorni come «venne» il primo giorno della settimana, e «venne» la seconda volta il primo giorno della settimana seguente (Gv 20, 19,26).

È soprattutto e fondamentalmente nel corso dell’Eucaristia che ognuno di noi entra in comunione reale con Gesù Cristo morto e risorto per noi. Ogni volta che noi celebriamo l’Eucaristia il Signore si rende presente a noi in diversi e molteplici modi.

- Prima di tutto, per mezzo della comunità stessa riunita nel suo Nome e raccolta e «rivolta» a Lui. Quando il Cristo risorto appare in mezzo ai suoi discepoli chiusi in casa per paura dei Giudei, noi possiamo credere che Egli non veniva da fuori ma dall’interno dell’unico cuore che li riuniva, (cioè era in «mezzo a loro»).

- Il Cristo si rende pure presente quando viene proclamata la Parola del Vangelo. È per questo, che all’invito del diacono: Parola del Signore, noi rispondiamo: Gloria a Te Signore Gesù!

- Il Cristo si rende presente soprattutto nel pane e nel vino consacrato: Lui stesso (il medesimo Cristo), nascosto sotto le specie del pane e del vino allo scopo di essere mangiato e bevuto. La Sua stessa persona divina fattasi uomo nella storia e nella cultura umana, crocifissa e risorta e splendente della gloria divina, si rende presente a noi per mangiare noi lasciandosi Lui stesso mangiare.

- Noi lo consumiamo per essere trasformati (convertiti) nel suo stesso corpo, noi l’assimiliamo per essere da Lui assimilati.

- Tutte queste forme di presenza rendono sempre presente Colui che è sempre presente, il Presente!

La nostra vita contemplativa può essere compresa in questa chiave di ricerca-incontro. Gesù si rende presente a noi nell’Eucaristia perché Egli ci cerca e ci incontra, Egli ci invita, a nostra volta, a cercarlo e incontrarlo. La nostra vita orientata alla contemplazione consiste nel cercare la Presenza e renderci ad essa presenti. La vita contemplativa cristiana mi sembra inconcepibile senza l’Eucaristia e senza una profonda partecipazione ad essa.

Lo Sposo e la Sposa

L’Eucaristia è la venuta del Signore in Persona. Il desiderio di questa visita motiva la nostra celebrazione quotidiana dell’Eucaristia. Con lo Spirito e la Sposa noi invochiamo: Maranatha! Vieni Signore Gesù (Ap 22,20). Noi ci riconosciamo Chiesa-Sposa e, desiderando prolungare la presenza e la comunione, noi non esitiamo a conservare dopo la Celebrazione il Pane consacrato. Noi facciamo uso del nostro diritto sul Corpo già glorioso del nostro Sposo e Signore: «Lo Sposo non dispone del suo corpo, bensì la Sposa» (1 Cor 7,4).

Ma quale relazione possiamo stabilire tra l’Eucaristia e l’unione nuziale, riferendoci all’unione di Cristo e la Chiesa?

Molti Padri della Chiesa hanno fatto l’accostamento tra l’Eucaristia e l’unione tra il Cristo e la Chiesa basandosi sul testo agli Efesini 5,22-23. La celebrazione delle nozze tra il Cristo e la Chiesa ha luogo durante il banchetto dell’Eucaristia: qui il Signore Sposo fa sua la Chiesa e la incorpora a Lui come suo corpo e sua carne; ed è per questo: «Egli Li nutre e si prende cura di lei, poiché nessuno ha mai odiato la propria carne,) (Ef 5,29).

La chiesa dal canto suo, come nuova Eva, diviene «carne della sua carne e ossa delle sua ossa». Difatti, nell’Eucaristia, «il Cristo ama la sua Chiesa e si dona ad essa» (Ef 5,25). A questo dono totale di sé fatto dal suo Signore e Sposo corrisponde l’abbandono totale della sua Sposa, la Chiesa.

L’«alleanza nuziale nuova ed eterna», che ogni Eucaristia è, si trasforma per noi nella realtà in ogni nostra consacrazione monastica. Questa alleanza e questa consacrazione avvengono puntualmente nel banchetto di nozze dell’eucaristia e siamo chiamati a rinnovarle in ogni celebrazione della Cena del Signore. Solo così noi possiamo manifestare il Cristo unito alla sua sposa, la Chiesa, con un legame indissolubile. Solo così noi potremo perseverare nella fedeltà dell’amore fino a quando il Signore ritornerà.

Preghiera e mistica

In virtù della celebrazione eucaristica la Chiesa è una comunità orante. E precisamente parlando dell’eucaristia Paolo dice ai Corinzi: «Quando vi riunite in ekklèsia... » (I Cor 11,18).

Se la preghiera consiste nell’entrare in comunione con Dio, si comprende perché l’Eucaristia favorisce la preghiera. Anzi, possiamo dire che l’eucaristia fu istituita per fare della comunità ecclesiale un corpo orante.

La celebrazione eucaristica raggiunge il suo apice nelle parole del Signore: «Prendete e mangiate, prendete e bevete». Prendere è accogliere, ma non solamente accogliere, è anche essere accolti. La preghiera eucaristica è comunione in un abbandono mutuo di se stessi e nella mutua accoglienza. In tal modo ha compimento la parola del Signore: «Voi in me e Io in voi» (Gv 14,20).

Il Cristo eucaristico è il Cristo glorioso e in piena comunione con il Padre nello Spirito. Questo «mangiare» il Cristo è entrare (comunicare) nel seno della comunione trinitaria. Quando noi preghiamo mangiando e comunicando, noi diveniamo dimora di Dio. Quando chiunque tra noi s’accosta all’Eucaristia con fede amorosa, Gesù gli dice: «Il Padre e Io siamo Uno» (Gv 10,30): «E subito, mediante lo Spirito Santo, l’amore l’assume in Dio, e lui stesso riceve Dio che viene in lui e pone la sua dimora in lui non solo in maniera spirituale, ma anche corporalmente mediante il mistero del corpo e del sangue, santo e vivificante del nostro Signore Gesù Cristo (Guglielmo di S. Thierry, Preghiera meditativa, X 10,8).

È forse troppo dire che la comunione eucaristica è la porta reale per entrare nel mistero ed essere misticamente trasformati? Possiamo affermare che il mistero eucaristico è il luogo privilegiato dell’esperienza mistica? Se il Cristo è un fuoco divorante, non è affatto normale che i nostri cuori ardano nell’oscurità della fede quando il pane che spezziamo viene distribuito e mangiato?

EUCARISTIA E COMUNIONE FRATERNA

La semplice lettura dei testi eucaristici del Nuovo Testamento ci dice chiaramente che l’Eucaristia è il sacramento della comunione con il Cristo e i fratelli, il sacramento della vita comunicata. Essa esprime e produce la comunione solidale con la vita di Gesù e con tutti i credenti che partecipano dell’unico Pane, e allo stesso tempo, ci impegna a condividere la vita.

Se la comunità monastica è soprattutto una comunità di fede, allora l’Eucaristia, sacramento di unità, ha al suo centro una funzione suprema da compiere. Celebrare insieme il sacramento dell’unità ci permette di manifestare l’unità già esistente e di alimentarla perché essa possa crescere fino alla sua pienezza escatologica.

Uniti verso il Signore

In Matteo 18,20 parlando della ricerca e dell’incontro con il signore nella liturgia, l’Evangelista dice: «Là dove due o tre sono riuniti “verso” (eis) il mio Nome, io sono in mezzo a loro».

Avrete notato che coloro che sono riuniti non lo sono semplicemente «nel» ma «verso», e cioè in una ricerca intensa del Nome, vale a dire della Persona. Ciò spiega una volta di più perché nell’assemblea eucaristica, lo Spirito e la Sposa esclamano: Vieni! Maranatha!

Nell’Eucaristia, cerchiamo comunitariamente Gesù Cristo, protesi verso il tempo escatologico, verso il fine ultimo e definitivo. In Essa viviamo il primo comandamento dell’amore verso Dio nel contesto concreto del secondo comandamento dell’amore verso il prossimo, nelle persone dei nostri fratelli e sorelle della comunità.

Il vangelo di Giovanni è pieno di riferimenti all’eucaristia (Cf. soprattutto il c. 6). Ma quando si tratta di parlare dell’istituzione dell’Eucaristia, Giovanni sorvola. Sapete invece cosa fa? Egli mette al suo posto il comandamento nuovo: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 13,34-35)! Per mezzo di questo mutuo amore Gesù ci dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e Io in lui» (Gv 6,56).

Alla fine della sua Regola S. Benedetto ci lascia il suo testamento spirituale: amatevi ardentemente gli uni gli altri. Poi esprime il suo ultimo desiderio: che il Cristo ci conduca tutti insieme alla vita eterna. L’Eucaristia è un vulcano d’amore incandescente che rende possibile l’amore ardente. In ogni celebrazione eucaristica il Signore «ritorna» per farci entrare tutti insieme nella sua vita glorificata ed eterna.

Il Corpo del Kyrios

Nell’Eucaristia Gesù immolato e risorto, cioè il Kyrios, è presente. Perciò Paolo parla della «cena del Kyrios», «del calice del Kyrios» e della mensa del Kyrios. Ora il titolo Kyrios comporta il riferimento alla comunità. Si tratta del Kyrios-Signore dell’universo, del mondo, della Chiesa, della comunità: «Nessuno di noi vive per se stesso, come non muore per se stesso; se viviamo, viviamo per il Kyrios. e se moriamo, torniamo per il Kyrios. Perciò, sia che viviamo sia che moriamo, siamo del Kyrios. Perciò Cristo è morto ed è ritornato in vita per essere il Kyrios dei morti e dei vivi» (Rm 14,7-9).

Quando S. Paolo scrivendo ai Corinzi dice loro: il pane che noi spezziamo è partecipazione e comunione al corpo di Cristo (1 Cor 10, 16-17), si riferisce pure al corpo di Cristo che è la comunità. Per questo poco dopo afferma che l’unità effettiva tra i cristiani tutti è costitutiva della celebrazione; in caso contrario «non è la cena del Signore» (1 Cor 11,21).

Più oltre, in 1 Cor 11,29 leggiamo: «Colui che mangia e beve, mangia e beve la sua condanna se non sa discernere il corpo». Cosa significa, in tale contesto, la parola «corpo»? Possiamo dire che Paolo si riferisce alla Chiesa, senza prescindere dal corpo eucaristico del risorto. Di fatto, è quanto dimostra la struttura stessa di tutto il brano citato; inoltre, già prima l’Apostolo aveva detto: «noi tutti siamo un solo corpo perché partecipiamo a un unico pane» (10,17); e poco dopo afferma: «voi siete il corpo di Cristo» (12,27).

S. Benedetto invita il superiore a recitare a voce alta, due volte al giorno, la preghiera del Signore. In quest’occasione tutti possono rinnovare il loro impegno al perdono reciproco e togliere le spine della separazione (scandalo). Soggiacente vi è il comando del Signore: «quando ti avvicini all’altare per presentare la tua offerta... ». Non senza un certo timore non posso evitare di domandarmi: quando il Signore si fa presente a noi, oltre che essere riuniti ci trova anche uniti? Non ci preoccupiamo forse più della forma esteriore della celebrazione (che deve essere secondo le norme liturgiche) che della sua autenticità (derivante dalla concordia dell’assemblea)?

Comunicare e condividere

La comunità primitiva di Gerusalemme ci ragguaglia sui frutti dello «spezzare il pane nelle case, prendendo cibo e lodando Dio» (At 2, 46-47); e cioè, “i credenti erano un cuor solo e mettevano tutto in comune” (At 2, 44), tutti non erano che un cuor solo e un’anima sola: niente di ciò che apparteneva loro dicevano essere proprio, ma era tutto in comune» (4,32).

Riferendosi a questo testo, l’abate di Ford, Baldovino, dottore dell’Eucaristia e della vita comunitaria, ci offre il frutto della sua vita e della sua meditazione con queste parole: «La carità ha in sé il potere di trasformare in comunione una proprietà personale; non distruggendo una tale proprietà, ma facendola concorrere (convergere) nella comunione, non lede una tale comunione, non mette ostacoli al bene della comunione. La divisione o la proprietà personale che pone ostacolo al bene della comunione, è estranea alla carità»

«I beni spirituali divisi sono ricondotti alla comunione in due modi: prima di tutto quando i detti beni i quali vengono distribuiti a questo o a quello sono posseduti in comune mediante la comunione dell’amore; poi per mezzo dell’amore della comunione, essi sono amati in uno spirito comunitario. La grazia è comune a colui che la possiede e a colui che non ce l’ha. Quando chi la possiede, la comunica all’altro e la possiede così anche per l’altro e colui che non ce l’ha la possiede nell’altro poiché egli lo ama» (Trattato XV, sulla vita cenobitica).

Inoltre, il senso profondo di questo cibo partecipato si comprende solamente quando noi siamo solidali con i membri più poveri e senza alcuna dignità del corpo di Cristo. Infatti, Lui stesso ce lo dice: «Quando dai un banchetto, invita i poveri, gli storpi, gli sciancati, i ciechi; beato sarai quando essi non hanno di che contraccambiarti! Perché ti sarà reso alla risurrezione dei giusti» (Lc 13,13-14).

La nostra povertà evangelica e monastica ci invitano inoltre, alla solidarietà con i poveri e a preferire quegli esseri umani distrutti dalla nostra inumanità. La risposta generosa a questo invito non è opera della carne e del sangue; è un dono del Padre che ci rende compassionevolmente solidali con loro per mezzo del corpo e del Sangue del suo Figlio.

di Dom Bernardo Olivera o.c.s.o.

 

 

Domenica, 25 Agosto 2024 11:15

Un mosaico di distacchi (Arnaldo Pangrazzi)

Il calendario di ogni persona è segnato da una serie di eventi che ne plasmano la filosofia, la storia e il carattere. Momenti lieti e tristi sono il pane del vivere quotidiano. «La felicità è sempre uguale, ma l'infelicità può avere infinite variazioni» (Lev Tolstoj).

Per alcuni, i momenti critici sono rappresentati da eventi gioiosi quali il matrimonio, una gravidanza, la nascita di un figlio, che comunque comportano cambiamenti nello stile di vita. Per altri riguardano una diagnosi infausta, una grave disabilità, l'impossibilità di proseguire gli studi o di trovare un lavoro, la sensazione di insignificanza della propria vita. Per tutti, periodi critici risultano i distacchi da persone amate, soprattutto quando il congiunto era al centro dell'esistenza, e appare difficile ipotizzare un futuro senza di lui/lei.

Perdite dolorose

Il compianto può essere un nonno, il padre o la madre, il coniuge, un fratello o una sorella, il fidanzato o un amico intimo, il figlio/la figlia o un nipote. Ognuna di queste figure rappresenta legami particolari. Generalmente, l'unico distacco che conoscono i bambini nella scuola elementare, i giovani nelle medie o nel liceo, è l'addio al nonno o alla nonna che lascia tracce profonde, essendo il primo contatto con la morte e carico di forti implicazioni affettive.
Una perdita cruciale riguarda la morte dei genitori che rappresentano le proprie radici, le impronte fondamentali che hanno segnato la propria identità biologica e biografica. I genitori, oltre a trasmettere il dono della vita, sono i canali che hanno plasmato l'educazione, la crescita e i valori dei figli.
E importante fare tesoro di queste presenze, essere riconoscenti a Dio per quanto sono stati capaci di donare, insegnare e comunicare, sapendo anche perdonare i loro limiti e le debolezze.
Meno frequente è l'esperienza di perdita di un fratello o di una sorella, ma quando questo accade, spesso a causa di una malattia grave o di un incidente stradale, gli effetti in chi resta sono profondi. Il fratello o la sorella superstite si trovano in un momento storico in cui stanno sbocciando e forgiando la propria identità, e risulta difficile comunicare il proprio scompiglio interiore.
Con frequenza il giovane si chiude in se stesso e spesso manifesta ribellione verso Dio e rifiuto della Chiesa per quanto accaduto.

La perdita del "presente"

Più frequenti invece sono i lutti legati alla vedovanza: in qualche modo si piange per la perdita del presente, perché con il coniuge si trascorreva il tempo, si prendevano le decisioni, si condividevano gli affetti, i conflitti e le sfide. Molti vedovi, dopo aver trascorso la loro esperienza terrena con il coniuge, si sentono smarriti nell'organizzazione del tempo e dei riti sociali.
La lacerazione per la perdita di un figlio/a, talvolta di un nipote, rappresenta il distacco più doloroso, perché rappresentavano la proiezione nel proprio domani e con essi viene meno il proprio futuro. Di solito sono i figli a seppellire i genitori ed è drammatico quando questa legge biologica si inverte, e il genitore si trova a dover seppellire la creatura a cui ha dato la vita.
Questa tragedia è un capitolo così carico di emozioni che merita una riflessione a parte nel prossimo numero.
Infine, una nota particolare merita la perdita di un bimbo nel periodo di gravidanza.
È un cordoglio generalmente non riconosciuto dalla società, in quanto non c'è stato un funerale, è mancato un riconoscimento pubblico di questa vita, mancano rituali di addio, per cui il dolore resta irrisolto.
La famiglia ferita dal lutto perinatale è spesso priva di sostegno sociale ed ecclesiale e sperimenta un periodo di vuoto e di smarrimento.
I vicini minimizzano la perdita, suggerendo alla coppia di provare ad avere subito un altro figlio e a dimenticare quanto accaduto.
La madre, in particolare, può colpevolizzarsi e sperimentare un senso di fallimento, vivere l'ansia che l'esperienza possa ripetersi, avvertire una profonda solitudine che si traduce, spesso, in depressione.

Ogni lutto ha diverse implicazioni

Ognuna delle perdite sopra menzionate ha le sue implicazioni: un prezzo mentale, fatto di considerazioni e domande; un prezzo emotivo, caratterizzato da sentimenti critici, che albergano nel cuore dei superstiti: un prezzo sociale, espresso da comportamenti, rituali e condotte che manifestano le diverse conseguenze di un distacco doloroso nella storia dei familiari.

Arnaldo Pangrazzi

(tratto da Missione Salute, n. 2/2018, pag. 64)

 

«Siamo infatti opera sua,
creati in Cristo Gesù per le opere buone,
che Dio ha preparato perché in esse
camminassimo» (Ef 2,10)

Nel cap. IV della sua Regola, Benedetto offre una lunga lista di "strumenti delle buone opere", o "strumenti dell'arte spirituale" 1, che toccano quegli ambiti nei quali il monaco è chiamato ad impegnarsi nel suo quotidiano cammino di conformazione al Cristo.

A motivare e illuminare l'utilizzo degli "strumenti delle buone opere" che Benedetto via via elencherà, è il duplice comandamento dell' amore esplicitamente rievocato all'inizio del capitolo: «In primo luogo: Amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze", poi amare il prossimo come se stesso»2.

In queste parole del Signore, che compendiano tutto il Vangelo, è racchiusa l! essenza del "buon operare". Infatti, poiché l'amore è la natura stessa di Dio (cf. IGv 4,8.16), esso è anche ciò che meglio di qualsiasi altra cosa qualifica la ricerca di Lui e del suo Regno, ricerca che ha come suo riscontro concreto l'attuazione delle buone opere (cf. Gc 2,14ss)3. Questa motivazione, basata sul duplice comandamento dell' amore, è anche la conferma che le "buone opere" non sono semplicemente il risultato degli sforzi umani, ma soprattutto il frutto della grazia divina, il dono dell' amore che lo Spirito «ha riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) e che illumina ogni aspetto della nostra vita. Nel cammino di conformazione a Cristo - agli occhi d Benedetto - tutto è dunque avvolto dall' amore, alla luce de quale trova senso anche l'assunzione degli "strumenti delle buone opere" che il monaco è chiamato a declinare generosa mente nel suo quotidiano cammino.

È emblematico, in proposito, il fatto che Benedetto abbia introdotto il duplice comandamento dell'amore con l' avverbio "imprimis" (anzitutto/in primo luogo), mentre gli strumenti veri e propri sono preceduti dall'avverbio "deinde" (quindi/qui innanzi). Con ciò Benedetto vuol far risaltare che al cuore della vita monastica, e quindi al centro della sequela di Cristo vi è l'amore per Dio e per i fratelli. Gli "strumenti" che ne declineranno poi la forma nella trama concreta di ogni giorno non ne sono che un commento, un'applicazione o una conseguenza. È l'amore, infatti, a rendere possibile l'attuazione delle "buone opere" e a dare loro il tono, il calore e la forza della verità, anche se non bisogna dimenticare che lo stesso duplice comandamento dell' amore a Dio e ai fratelli è, a sua volta, reso possibile dall'iniziativa benevola di Dio che ci viene incontro con il suo Amore, come scrive san Basilio: «Poiché, dunque, abbiamo ricevuto il comandamento di amare Dio, abbiamo insita in noi fin dal primo momento in cui siamo stati plasmati, la capaciti di amare»4.

NIENT' ALTRO CHE CRISTIANI NEL SOLCO DEI COMANDAMENTI

È dunque sullo sfondo luminoso del duplice comandamento dell' amore che Benedetto apre l'elenco degli "strumenti delle buone opere" riproponendo alla lettera cinque comandamenti tratti dalle "Dieci parole" o "Dieci comandamenti" consegnati da Dio a Mosè, sul Sinai: Non uccidere; Non commettere adulterio; Non rubare; Non nutrire desideri illeciti; Non dire falsa testimonianza5.

Si tratta di comandamenti che mantengono la loro basilare importanza anche per la fede cristiana e che, ancora una volta, richiamano la necessità di innervare nelle relazioni interpersonali la centralità dell' amore, inteso come adempimento della legge. Lo dirà bene anche l'apostolo Paolo in quei versetti della Lettera ai Romani dai quali, forse, lo stesso Benedetto ha tratto ispirazione per la collocazione dei comandamenti subito dopo il duplice comandamento dell' amore:

«Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell'amore vicendevole; perché chi ama l'altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8-10).

È importante rilevare che l'inserzione di questi cinque comandamenti all'inizio .della lista degli "strumenti delle buone opere", attesta chiaramente come Benedetto considerasse il movimento monastico come parte integrante dell'unica Chiesa di Cristo, e non ad essa parallelo o addirittura contrapposto. Indicando ai suoi monaci quei precetti che stanno a fondamento della fede biblico-cristiana, egli li richiama al senso ultimo della vocazione monastica, che altro non è se non una vocazione cristiana presa e vissuta sul serio, ossia una chiamata a vivere radicalmente il Vangelo di Gesù, il Vangelo dell'amore. In altre parole, Benedetto ci tiene a chiarire che il monaco non è per nulla uno specialista della fede cristiana, un detentore di una vocazione speciale e più o meno eccezionale, ma un cristiano tout court o, come è stato scritto «un devoto laico, che si limita a scegliere i mezzi più radicali perché il suo cristianesimo sia integrale»6. Al riguardo, il cardinale benedettino Basil Hume così scriveva:

«A rigore, la vita del monaco non è organizzata in vista di un particolare lavoro o servizio nella Chiesa. Il suo scopo principale è di cercare Dio e questo egli assume come compito per tutta la vita. In un certo senso, questo compito non è diverso da quello di ogni cristiano, anzi di ogni per- sona. La vita monastica è semplicemente un modo di vivere la vita cristiana, e il monaco la vive in una comunità. Il valore di un monastero all'interno della Chiesa è principalmente il fatto che esso esiste. È un centro spirituale che deve rendere testimonianza delle cose di Dio e attrarre a sé (...). Ma i principi che guidano il monaco nella sua ricerca di Dio e i valori evangelici che egli si sforza di fare suoi sono egualmente rilevanti sia per i cristiani che per i non- cristiani» 7.

E ancora:

«Noi non consideriamo noi stessi come detentori di una missione o una funzione particolare nella Chiesa. Non ci proponiamo di cambiare il corso della storia. Da un punto di vista umano siamo lì quasi per caso. E fortunatamente continuiamo ad "essere semplicemente lì [we go on "just being there"]»8.

Non ci si stupirà allora se Benedetto abbia proposto anche ai monaci alcuni precetti tratti dai Dieci comandamenti e che, di primo acchito, potrebbero sembrare fuori posto in una regola monastica redatta allo scopo di aiutare a vivere al meglio la propria appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa. Se lo fa, è perché Benedetto è convinto che anche i monaci, come tutti i cristiani, debbono trarre ispirazione per la loro ricerca di Dio da quei fondamenti generali della vita cristiana che sono, appunto, i "dieci comandamenti".

Non uccidere9

Avendo vissuto sulla sua pelle l'esperienza amara di Vicovaro - ossia il tentativo perverso messo in atto da parte dei monaci di avvelenarlo10 -, la decisione di Benedetto di conservare nella lista degli "strumenti delle buone opere" l'ingiunzione a "non uccidere", sembra soprattutto dettata dalla sua conoscenza del cuore umano. Egli sa che anche il monaco potrebbe allontanarsi dalla via inizialmente intrapresa con ardore e abbrutirsi interiormente ed esteriormente fino ad arrivare a infierire contro i proprio fratello.

Sullo sfondo biblico-cristiano il "non uccidere" si fonda sul rispetto della dignità di ogni persona umana in quanto creata a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27). Tale rispetto conosce poi una declinazione multiforme che mira sempre a salvaguardare l'integrità spirituale e psico-fisica dell'altro. Infatti, oltre che fisicamente, si può uccidere l'altro anche verbalmente. Gesù stesso ha detto: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio» (Mt 5,21-22). Ogni mancanza di rispetto per l'altro, e ogni parola (o silenzio) che veicoli un disprezzo nei suoi confronti, tramite la maldicenza, la calunnia o l'omertà, è un attentato alla sacralità e alla preziosità della sua vita, dono dell'unico Creatore. È possibile uccidere il nostro prossimo anche spiritualmente, ad esempio rompendo ogni forma di dialogo e di amicizia con lui, togliendogli la fiducia, la comprensione, l'amore, e facendogli percepire tutta la disistima e l'astio che si provano nei suoi confronti. Quante relazioni, segnate magari da ferite ch potevano essere guarite dalla generosità e dalla lungimiranza dell'amore, sono deperite a causa dell' ostentato rifiuto a concedere spazio alla gioia del perdono, della riconciliazione, della comunione!

Si può, inoltre, attentare all'integrità dell'altro anche attraverso lo scandalo, che è «l'atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male»11, come quando, non facendo bene il proprio dovere, si provoca nei più deboli la tentazione di fare altrettanto. Lo scandalo acquista poi maggiore gravità quanto maggiore è l'autorità morale di coloro che lo causano o la debolezza di coloro che lo subiscono. A tal proposito Gesù ha parole molto dure contro chi scandalizza i "piccoli" coloro cioè che sono più deboli e più facilmente suggestionabili: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli (...), sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt 18,6). Lo scandalo, infine, oltre che da persone singole, «può essere procurato anche dalla legge o dalle istituzioni, dalla moda o dall'opinione pubblica»12, così come «chi usa i poteri di cui dispone in modo tale da spingere ad agire male, si rende colpevole di scandalo e responsabile del male che, direttamente o indirettamente, ha favorito»13.

In una prospettiva olistica, la sacralità e la preziosità della vita vengono rispettate non solo non attentando all'incolumità psico-fisica e spirituale dell'altro, ma anche attraverso una giusta attenzione alla dimensione corporea, purché non si scada in «una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo»14.

Benché la morale cristiana non ne faccia un valore assoluto, anche il corpo va infatti rispettato, purché, appunto, lo si faccia con quella temperanza che ci dispone ad evitare ogni sorta di eccesso. Perciò, anche se Benedetto esorterà a «sottoporre a disciplina il proprio corpo»15, è importante per l'uomo d'oggi ricercare un rapporto equilibrato e sereno con esso, convinti che il proprio corpo non è né il "frate asino" da bistrattare senza criterio, né l'oggetto di un salutismo esasperato che può facilmente degenerare in idolatria o in... ipocondria.

Il comando di "non uccidere", infine, richiama anche la difesa e la promozione della pace, a tutti i livelli, da quella che siamo chiamati a coltivare nel nostro cuore a quella che deve permeare di sé i rapporti con gli altri e con le cose. Come abbiamo già citato sopra, Gesù attesta che non solo chi uccide, ma chiunque si adira è meritevole di giudizio (cf. Mt 5,22). Perciò il precetto: "Non uccidere!" è anche un pressante invito ad essere uomini di pace, che siano "in pace" con se stessi e costruttori di pace attorno a sé. E ciò ci sarà possibile nella misura in cui volgiamo lo sguardo a Cristo «nostra pace» (Bf 2,14), Colui che ha distrutto «in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,16) con il suo sangue sparso sulla croce.

Non commettere adulterio16

È utile ricordare anche qui le parole pronunciate da Gesù come antitesi alla Legge antica: «Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28).

Per il monaco questo "strumento" è un richiamo a non "adulterare" il proprio cuore, barattando l'intimo abbraccio di Dio con quello degli esseri umani o delle cose. Si tratta essenzialmente di un' esortazione ad amare la castità che il monaco ha liberamente scelto e abbracciato, come Benedetto dirà più avanti con un'espressione pregnante di significato: «Castitatem amare - Amare la castità»17

Inoltre, l'esortazione a "non commettere adulterio" richiama anche a chi ha consacrato la propria vita al Signore che la componente sessuale non cessa di esercitare «un'influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell'unità del suo corpo e della sua anima»18. Di conseguenza occorre vigilare attentamente sui moti e i desideri del proprio cuore, al fine di mantenerlo "indiviso" agli occhi di Dio. Esercizio, questo della vigilanza, che vale per tutti i cristiani indistintamente.

Non rubarel9

Davanti ai monaci, che nulla posseggono di proprio, Benedetto voleva senza dubbio porre in risalto la libertà interiore, ossia la bellezza del non sentirsi schiavi delle cose e dei beni di questo mondo. In tale prospettiva il "non rubare" non consiste solo nel non togliere ad altri ciò che è loro, ma anche e soprattutto nel condividere quel che abbiamo con chi è nel bisogno20. C'è infatti anche un rubare che consiste nella chiusura egoisti- ca del proprio cuore e delle proprie mani di fronte alle necessità dei fratelli, e dunque un "non rubare" che, in positivo, si dispiega e si concretizza nella solidarietà. Ce lo ha insegnato lo stesso Signore Gesù, il quale «da ricco che era, si è fatto povero» per noi, perché noi diventassimo «ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9).

San Giovanni Crisostomo ha, al riguardo, parole molto dure: «Non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri»21. Anche Benedetto mostra grande attenzione e solerzia verso i poveri22 ed esorta a confidare nella Provvidenza e a non aver paura di condividere con gli altri anche quel poco che si possiede. Eloquente, al riguardo, è l'episodio dell' ampolla d'olio, ambientato a Montecassino al tempo di Benedetto, quando una grave carestia imperversava su tutta la regione. Così ce lo racconta Gregorio Magno:

«Nel tempo in cui la carestia affliggeva la Campania, l'Uomo di Dio [Benedetto] aveva dato ai poveri ogni cosa del monastero. Nella dispensa rimaneva solo un pochino di olio in un orciolo di vetro. Arrivò un suddiacono di nome Agapito, che chiese insistentemente un po' d'olio.

L'Uomo di Dio, che aveva stabilito di dare tutto quaggiù per serbarsi tutto in Cielo, comandò di dargli quel poco olio rimasto. Ma il monaco addetto alla dispensa, udito il comando, preferì non obbedire.

L'Uomo di Dio dopo qualche tempo si informò se si fosse eseguito l'ordine. Il monaco rispose di no: se lo avesse dato - disse - non ne sarebbe rimasto affatto per i fratelli. Allora, adirato, Benedetto comandò ad un altro monaco di gettare dalla finestra quel recipiente di vetro con il poco olio rimasto, perché della disobbedienza non rimanesse nulla. L'ordine fu eseguito.

Sotto la finestra si apriva un profondo precipizio, irto di rocce enormi. Dunque, l' orciolo fu lanciato. Ma, pur cadendo sulle rocce, non si ruppe, né l'olio si versò. L'uomo di Dio comandò allora di andarlo a riprendere e, avutolo, lo diede a chi glielo aveva richiesto.

Radunati, poi i fratelli, davanti a tutti rimproverò il monaco disobbediente per la sua mancanza di fede e per il suo orgoglio. Terminato il rimprovero, Benedetto si mise in preghiera assieme ai fratelli. C'era là una giara per l'olio, vuota e con sopra un coperchio. Mentre Benedetto era in preghiera, il coperchio della giara cominciò a sollevarsi per l'olio che, crescendo, aveva superato il bordo del recipiente e aveva cominciato a colare sul pavimento. Appena se ne accorse, il Servo di Dio concluse la preghiera. In quell'istante stesso l'olio smise di scorrere sul pavimento»23.

Non nutrire desideri illeciti24

In sé il termine latino concupiscere (da cui concupiscentia) qui impiegato da Benedetto designa ogni forma veemente di brama o desiderio umano25. Infatti, già l'apostolo Paolo utilizzava il termine greco corrispondente (epithumìa) per indicare l'opposizione della "carne" allo "spirito": «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne (epithumia-concupiscentia); la carne infatti ha desideri contrari (epithumèi-concupiscit) allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda (...) Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri (epi-thumiais-concupiscentiis ») (Gal 5,16-17.24).

L'apostolo ed evangelista Giovanni, dal canto suo, distingue tre tipi di desiderio smodato o concupiscenza che, anche per il veggente di Patmos, ha una radice mondana: «Tutto quello che è nel mondo - la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) della carne, la concupiscenza (epithumia-concupiscentia) degli occhi e la superbia della vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza (epithumia-concupiscentia); ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno» (1Gv 2,16-17).

Nell'esortare i suoi monaci a non nutrire desideri illeciti, Benedetto allude alla lotta o combattimento spirituale che è parte integrante della vita monastica e cristiana in generale. Si tratta, infatti, di quella tensione di fondo che vede contrapposte le esigenze dello Spirito e quelle della carne, la docile sottomissione all'azione salvifica del primo (azione che ci porta alla libertà dei figli di Dio) e la resistenza opposta dalla seconda. Non c'è altra via: la lotta contro la concupiscenza in tutte le sue forme passa attraverso la purificazione del cuore, condizione grazie alla quale è possibile scorgere la presenza di Dio nella propria vita: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

Non dire falsa testimonianza26

Nelle sue relazioni con gli altri, il cristiano è esortato a non falsare la verità né con le parole né con le azioni. Il farlo significherebbe rifiutare un cammino di rettitudine morale, nel quale deve inserirsi chiunque voglia seguire Gesù, «via, verità e vita» (Gv 14,6). Nella Lettera agli Efesini leggiamo: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perchè siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,23-25).

La menzogna, che - come scrive sant' Agostino - consiste «nel dire il falso con l'intenzione di ingannare»27, era stata stigmatizzata da Gesù come un'azione diabolica: «Voi (...) avete per padre il diavolo (...) non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).

Ovviamente «la gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime. Se la menzogna, in sé, non costituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità»28.

Le offese alla verità vanno dalla falsa testimonianza resa pubblicamente (la quale diventa spergiuro se fatta sotto giuramento) al disprezzo della reputazione altrui; dal giudizio temerario29 (un giudizio, cioè, che, senza un sufficiente fondamento, attribuisce al prossimo una colpa morale) alla maldicenza (=il rivelare i difetti o le mancanze altrui a terze persone che li ignorano) e alla calunnia (=il nuocere alla reputazione del prossimo con affermazioni non veritiere, che causano erronei giudizi su di lui).

Sono considerate offese alla verità, e quindi da bandire, anche la lusinga e l'adulazione o la compiacenza, che incoraggiano e confermano «altri nella malizia dei loro atti e nella perversità della loro condotta. L'adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l'amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L'adulazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riuscire piacevole, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti»30.

Nel suo significato più profondo la menzogna è una profanazione della parola, la cui funzione è quella di comunicare agli altri la verità. Storpiare intenzionalmente quest'ultima e il contraffarla non solo mina alla radice il significato primo della parola - quello, appunto, di strumento per instaurare una relazione veritiera con il prossimo -, ma impedisce anche a colui col quale si entra in relazione di esercitare il suo diritto di conoscere la verità. Privato di questa conoscenza, infatti, egli è impossibilitato a formulare giudizi e decisioni rispondenti al vero. Con l'affermare cose contrarie alla verità si contravviene dunque sia alla giustizia che alla carità, e si minano le basi delle relazioni interpersonali che dovrebbero essere improntate a onestà e fiducia. Non va dimenticato, infine, che il non dire la verità non riguarda solo il modo sbagliato con cui ci si pone davanti al prossimo, ma chiama in causa anche il rapporto con Dio. Infatti, «ferendo il rapporto dell'uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la relazione fondamenta le dell'uomo e della sua parola con il Signore»31.

Onorare tutti gli uomini32

Benedetto modifica il IV comandamento del Decalogo, quello riguardante l'onore e il rispetto dovuti ai genitori, allargandolo a tutti gli uomini e trasformandolo così in un precetto generale. Il motivo immediato è semplice. Abbandonando il mondo, il monaco - secondo il richiamo del vangelo - lascia anche i propri genitori per servire totalmente il Signore (cf. Mt 4,22; 10,37; 19,19).

Più in profondità, il precetto di onorare tutti gli uomini nasce da quell'unità di fondo che lega gli esseri umani, creati «a immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26-27; 5,1; 9,6). Morendo "per tutti", Cristo ha riespresso nella drammaticità della croce l'amore di Dio per ogni essere umano, e ha riaffermato una volta per tutte che il Padre «non fa preferenza di persone» (Rm 2,11), ma stende il suo sguardo misericordioso su tutti gli uomini, perché «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (lTm 2,4).

È probabile che nell' accogliere questo precetto nella lista degli "strumenti delle buone opere", Benedetto abbia anche alluso alla necessità di evitare con tutte le proprie forze qualsiasi discriminazione nei confronti degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, di coloro cioè che destano poca o nessuna considerazione agli occhi del mondo. In costoro, infatti, risplende maggior- mente il volto di Cristo, come annoterà più avanti: «Soprattutto si abbia cura di accogliere con sollecitudine i poveri e i pellegrini, perché proprio in essi maggiormente si accoglie Cristo; quanto ai ricchi infatti la soggezione stessa che essi incutono impone da sé rispetto»33. Onorare tutti gli uomini significa allora relazionarsi a tutti con la libertà interiore di chi coglie in ogni essere umano il riflesso del volto di Cristo.

Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé34

Questo strumento delle buone opere è il naturale prosieguo di quello precedente, ed è posto alla fine del breve elenco di comandamenti biblici qui riportato. E come se Benedetto desiderasse chiudere il cerchio, iniziato col riferimento al duplice comandamento dell' amore, con un ulteriore rimando a quella fonte dalla quale ogni comandamento trae luce, energia e forza.

«Non fare ad altri ciò che non si vuole venga fatto a sé», implica innanzi tutto la consapevolezza che ciascun essere umano è caratterizzato da "unicità". Si può essere simili, ma non identici. Anche quando due gemelli si assomigliano come due gocce d'acqua, c'è sempre qualche dettaglio che li distingue, a partire dal DNA e dalle impronte digitali, che sono sempre diverse tra l'uno e l'altro. Anche nella struttura psichica e nelle vie dello spirito ogni uomo ha una sua peculiarità. E un unicum!

Questa consapevolezza dovrebbe ulteriormente aprirci al rispetto e alla stima di ciascuna persona, tenendo presente le sue possibilità, i suoi limiti, i suoi tempi. Tutto questo Benedetto lo dice ricorrendo a un proverbio che troviamo nell' Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che non piace a te» (Tb 4,15), e che Gesù riprenderà con una formulazione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12; cf. anche Lc 6,31). Nell'uno come nell'altro caso, l'esortazione ci richiama a quel requisito fondamentale che dovrebbe illuminare e fecondare i rapporti interpersonali all'interno di qualsiasi forma di convivenza, sia essa di natura religiosa o sociale, nella quale si è inseriti.

Ab. Donato Ogliari osb

Abate di San Paolo fuori le Mura - Roma

Il testo è il primo capitolo del volume: Per una fede adulta. Alla scuola di san Benedetto, Noci, Edizioni "La Scala", 2010.

 

Note

1 «Instrumenta artis spiritalis» (BENEDETTO, Regola [=RB] 4,75). Per questi "strumenti", Benedetto si basa in gran parte sulla cosiddetta "Ars sancta" della Regola del Maestro (cf. Regola del Maestro 3-6).

2 RB 4,1-2 (cf. Mc 12,30-31).

3 Si veda anche la seguente esortazione: «Cinti dunque i nostri fianchi con la fede e la pratica costante delle buone azioni, procediamo per le sue vie sotto la guida del Vangelo» (RB, Prol. 21).

4 BASILIO DI CESAREA, Regole diffuse l, in L. CREMASCHI (a cura di), Le Regole. Regulae fusius tractatae - Regulae brevius tractatae, Magnano/Bi 1993 p. 79.

5 Cf. Es20,12-17; Dt 5,17-20; cf. Mt 19,18-19.

6 L. BOUYER, La Spiritualità dei Padri [III- VI secolo], Bologna 1986, p. 35.

7 B. HUME, Alla ricerca di Dio, Brescia 1980, pp. 11-12.

8 ID., In Praise of Benedict, Ampleforth 1996, p. 23.

9 «Non occidere» (RB 4,3)

10 GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,3.

11 Catechismo della Chiesa Cattolica (=CCC), n. 2284.

12 CCC, n. 2286.

13 CCC, n. 2287.

14 CCC, n. 2289

15 RB 4,11.

16 «Non adulterari» (RB 4,4).

17 RB 4,64.

18 CCC, n. 2332.

19 «Non facere furtum» (RB 4,5).

20 Il comandamento "non rubare" «prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano, Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo» (CCC, n. 2401).

21 GIOVANNI CRISOSTOMO, In Lazarum 1,6.

22 Più avanti, tra gli "strumenti delle buone opere", si trova anche la seguente ingiunzione: «Ristorare i poveri» (RB 4,14).

23 Cf. GREGORIO MAGNO, Dialoghi II,28-29

24 «Non concupiscere» (RB 4,6).

25 Sulla scia della Parola rivelata e della tradizione cristiana, la Chiesa ha sempre inteso la "concupiscenza" come un moto smodato che si oppone al buon senso e ai dettami della ragione. Conseguenza della disobbedienza del primo peccato, la concupiscenza «ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa un peccato, inclina l'uomo a commettere il peccato» (CCC, n. 2515).

26 «Non falsum testimonium dicere» (RB 4,7).

27 AGOSTINO, De mendacio 4,5

28 CCC, n. 2484.

29 Per evitare il giudizio temerario ciascuno dovrebbe sforzarsi «di interpretare, per quanto possibile, in un senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del suo prossimo" (CCC,n. 2478). Al riguardo sant'Ignazio di Loyola scrive: «Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l'affermazione del prossimo che a condannarla; e se non la possa salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dia; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi" (IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali 22).

30 CCC, n. 2480. Anche la iattanza o millanteria e l'ironia irrispettosa costituiscono, in ultima istanza, un attentato alla verità.

31 CCC, n. 2483.

32 «Honorare omnes homines» (cf. 1Pt 2,17; RB 4,8).

33 RB 53,15.

33 «Et quod sibi quis fieri non vult, alio ne faciat» (RB 4,9)

 

Venerdì, 03 Maggio 2024 11:54

La tristezza (Arnaldo Pangrazzi)

Lo psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung scriveva che: «La parola felicità perderebbe il suo significato se non fosse bilanciata dalla parola tristezza», mentre Charlie Chaplin suggeriva che: «La vera felicità è qualcosa di molto vicino alla tristezza».

La tristezza ricopre un ruolo significativo nell'esistenza personale e nel vissuto sociale. Anche Gesù l'ha provata per la morte dell'amico Lazzaro: «Scoppiò in pianto» (Gv 11,35).
In alcune culture e famiglie, però, questo sentimento non ha ricevuto una buona accoglienza, è considerato un qualcosa di negativo, quasi una manifestazione indesiderabile della persona.
Alcuni adolescenti che provano momenti di sconforto sono stati redarguiti dagli adulti con frasi del tipo: «Non fare la donnicciola»; «Gli uomini non piangono», complicando la percezione e gestione di questo stato d'animo.
Pedagogie dettate dall'ignoranza hanno indotto a ritenere che provare tristezza sia segno di immaturità, debolezza e fragilità, per cui questa energia è rimasta, spesso, orfana di accoglienza o segregata agli arresti domiciliari.

Il "dolore dell'anima"

Lo psicologo tedesco Erich Fromm riteneva che «non si può essere profondamente sensibili in questo mondo senza essere molto spesso tristi».
Ognuno sperimenta tristezza in diversi momenti e per tante ragioni: un giorno piovoso, problemi famigliari, critiche ingiuste, tradimenti affettivi, torti subiti. Si può provare tristezza quando nessuno ti ascolta, o quando non c'è chi si ricordi del tuo compleanno o ti mostri affetto.
Talvolta, questo stato d'animo nasce dal non saper comunicare con gli altri. Alcuni sono in pena per opportunità perdute, quali: fare un viaggio, accettare un'offerta lavorativa, esplorare un legame affettivo. Altri si rattristano per fallimenti scolastici o sportivi, disastri finanziari o affettivi. Spesso, la tristezza viene a galla per notizie riguardanti le vittime di un terremoto, il suicidio di un giovane, la scomparsa di una famiglia per incidente stradale, il congedo dalla vita di anziani senza il conforto dei propri cari.
In sintesi, non si può vivere senza sperimentare momenti o eventi che producono tristezza. San Tommaso la definiva: Il dolore dell'anima.
La famiglia della tristezza abbraccia tante voci, alcune più tenui, altre più intense. Tra le espressioni più tenui si registrano: la malinconia, il dispiacere, lo scoraggiamento, la nostalgia, la noia, il senso di abbandono, lo sconforto, la mestizia, lo struggimento.
Le espressioni più intense includono il senso di vuoto, la prostrazione, la desolazione, l'amarezza, lo strazio, la depressione, la disperazione.
Ovviamente, man mano che si intensifica il sentimento e si trasforma in depressione e/o disperazione diventa più tortuoso il cammino per superarla o mitigarla.
La tristezza è un'emozione che si avverte, in particolare, per la mancanza o perdita di qualcuno e rivela il valore degli attaccamenti e il prezzo inevitabile dei distacchi. A volte, sullo sfondo di questo sentimento predominante si annidano abusi sessuali, una madre depressa, un padre dipendente dall'alcol, litigi di coppia o vissuti di separazione che hanno segnato la biografia dell'individuo.

Il vissuto del cordoglio

In generale, gli eventi luttuosi producono tristezza, solitudine e sconforto; molto dipende dall'intensità del rapporto con il defunto. Non si è tristi perché si è deboli, ma perché l'investimento emotivo produce ferite.
Nel vissuto del cordoglio, ci si sente tristi quando si guarda la sedia vuota o si ascolta il rumore assordante del silenzio. Talvolta, basta udire una canzone amata dal proprio caro per far sgorgare le lacrime, o rivedere i suoi amici, per avvertire un vuoto straziante, o passare accanto ad un luogo da lui frequentato, per sentirsi invasi dalla nostalgia.
L'assenza acutizza la differenza con altri; per questo i genitori che hanno perso un figlio non sopportano di incontrare altre coppie che godono la compagnia dei loro figli, così come una vedova prova disagio nel ritrovarsi con gli amici sposati, o una donna che ha perso la propria creatura in gravidanza evita il contatto con chi ha realizzato il sogno di maternità.
La tristezza è come l'olio che viene versato sulle ferite per elaborare il lutto: permette di ricordare e affermare il legame profondo e, allo stesso tempo, allena a un cruciale viaggio nella solitudine prima di reinvestire le proprie capacità affettive verso altre persone e determinati scopi.

Arnaldo Pangrazzi

(tratto da Missione Salute, n. 5/2021, pag. 64)

 

Il progetto di crescita umana comporta il travaglio di accettare le perdite che segnano la vita. Per qualcuno queste sono diradate nel tempo; per altri il distacco giunge come uno tsunami. Alcuni ritrovano la motivazione per andare avanti, altri si smarriscono poiché sono dotati di insufficiente autostima.

Ognuno di noi ha diversi lutti e sfide da affrontare. L'elaborazione di un distacco e la graduale guarigione del cuore si realizza attraverso quattro possibili percorsi, che hanno molto a che vedere con il carattere del soggetto, il tipo di perdita subita e le risorse disponibili.

Il primo percorso è l'auto aiuto: si fonda sulla capacità della persona di attingere alle proprie risorse mentali, psicologiche e spirituali nel far fronte ad una vita cambiata. Di solito, quanti superano da soli la perdita tendono ad avere un buon livello di fiducia personale, sanno canalizzare bene le proprie energie, possono contare sul sostegno di amici e possiedono adeguate risorse spirituali nel far fronte alle avversità.

Ci si aiuta facendo pace con il passato, interpretando al meglio i ruoli familiari o professionali, facendo leva sui propri doni, praticando attività sportive o artistiche, coltivando il contatto con la natura, comunicando con gli altri, vivendo bene con il silenzio.

Il secondo percorso è il supporto psicologico e professionale. Per qualche persona la perdita è troppo dolorosa, e per affrontarla c'è bisogno di uno psicoterapeuta, uno psicologo o un sacerdote, che aiuti a percorrere i labirinti mentali, emozionali e spirituali turbati dal vuoto prodotto. L'aiuto psicologico e/o spirituale può protrarsi per mesi o per anni, ma intanto consente a chi è in lutto, attraverso il dialogo e il confronto con qualcuno disposto ad ascoltarlo e sostenerlo, di percorrere un graduale cammino di guarigione.

Un terzo percorso riguarda l'aiuto medico e/o farmacologico. L'afflizione generata da un'assenza significativa scombussola l'organismo e la salute fisica e psichica dei superstiti. Alcune morti avvenute per suicidio, omicidio o incidente stradale, risultano cosi strazianti che un congiunto può trascorrere notti insonni, tormentato da domande che lo consumano, o può entrare in depressione. In queste circostanze si rende necessaria una visita medica o psichiatrica, per valutare la situazione e prendere le opportune contromisure: il medico o lo psichiatra suggeriscono l'opportuna dose di ansiolitici, antidepressivi o sonniferi da assumere, per ristabilire l'equilibrio e aiutare il soggetto a riprendere in mano la propria vita.

Un quarto percorso consiste nella partecipazione a gruppi di mutuo aiuto nelle perdite e nei lutti. Questi sono formati da persone che hanno sperimentato la perdita di una persona cara e si incontrano per condividere con altri la propria esperienza. Lo scambio allevia la solitudine, permette di sperimentare nuove forme di appartenenza e contribuisce a far crescere la fiducia in se stessi.

Modelli di sostegno

I precursori di questo modello di sostegno comunitario sono i gruppi AA (Alcolisti Anonimi) sorti negli USA più di 70 anni fa la cui metodologia, fondata sulla reciprocità, ha favorito la proliferazione di questo modello di aiuto applicato a un'infinità di crisi, bisogni e fragilità.

Il ventaglio dei gruppi di mutuo aiuto, include gruppi per disabili, separati e divorziati, malati di cancro, tossicodipendenti, dipendenti dal gioco di azzardo, persone depresse, dializzati, vedovi, familiari di suicidati, malati di cuore, genitori che hanno perso i figli, familiari di colpiti da Alzheimer e così via. Ogni gruppo ha la sua identità, i suoi obiettivi, un calendario di incontri e strategie per rispondere ai bisogni dei partecipanti. Questo modello di aiuto si è andato diffondendo nella società e nella Chiesa, in parte anche per colmare il vuoto di servizi o di professionisti disponibili a fornire supporto, dinanzi ai tanti problemi sollevati da vissuti luttuosi.

La persona chiave nell'attivazione, promozione e animazione del gruppo è rappresentata dal facilitatore che è generalmente un professionista (psicologo, psicoterapeuta, medico, sacerdote, educatore, assistente sociale...) sensibile al problema e motivato a creare le condizioni per questa forma gratuita di sostegno reciproco finalizzato alla guarigione.

Arnaldo Pangrazzi

(tratto da Missione Salute, n. 4/2019, pag. 64)

 

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Sabato, 13 Gennaio 2024 11:35

La caduta e la redenzione (Giovanni Vannucci)

Prima che qualunque germe dei campi esistesse sulla terra, prima che l'erba del suolo spuntasse, non facendo il Signore Dio ancora piovere, e non esistendo l'uomo per far salire canali d'acqua ad abbeverare la faccia del suolo, il Signore Dio formò l'uomo dalla polvere del suolo, e soffiò sulle narici un alito di vita. E l'uomo fu anima vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino nell'Eden, verso l’Oriente, e là pose l'uomo che aveva formato. E il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni albero dall'aspetto desiderabile, e buono a mangiarsi, e, nell'interno del giardino, l'albero della vita, e l'albero della conoscenza del bene e del male.

Genesi 2, 5-9

 L'immagine centrale del racconto è il giardino, creato nel mezzo ad una zona chiamata Eden; in assiro la parola “Idinu” che sta alla radice dell'ebraico Eden, significa steppa. L'immagine viene ad essere così strutturata: nella steppa (Eden), nello spazio arido e privo di vita Dio crea la vita, affascinante e buona. In questa oasi colloca l'uomo plasmato dalla terra. L'uomo è creato con un ritmo ascensionale, prima viene formato il corpo fisico dalla materia cosmica, poi viene animato dal soffio divino che lo rende anima vivente. L'uomo non è materia, ma la materia che lo compone nella sua parte fisica, per l'animazione dello Spirito divino, è un'unità vivente. L'uomo non è soltanto un corpo vivente, ma un'anima, resa vivente dal soffio divino.

 ♦ Il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden perché lo servisse e lo custodisse. E il Signore Dio comandò all'uomo: “Da ogni albero del giardino mangerai, ma dall'albero della conoscenza del bene e del male non mangerai, perché nel giorno in cui ne mangerai lentamente morrai

Genesi 2, 16-17

 Evidentemente, il giardino non è una dimensione geografica, ma una dimensione dove l'uomo viveva la pienezza pacificante dell'essere, incontrava Dio e le creature in amichevole dialogo, fatto di attenzione amorosa, di conoscenza rispettosa, di servizio, perché crescessero armoniosamente nella gioia.

Nel giardino l'uomo si trovò posto come su una vertiginosa cima, i cui fianchi erano l'ordine di Dio di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, e la suggestione di una volontà ebbra di autonomia. Obbedendo a Dio, l'uomo sarebbe rimasto nella condizione paradisiaca della comunione totale col visibile e l'invisibile; seguendo la volontà ribelle, sarebbe decaduto da questo stato di non-conflitto, e diventato schiavo della lotta e della separazione.

Il coltivare e il custodire il giardino, erano per l'uomo l'espressione della sua realtà di comunione: con amore umile avrebbe dovuto servire gli esseri creati, prolungando, nell’esistenza sensibile, l'azione creatrice di Dio. Alla sua mente le creature erano segni di realtà sacre, espressione del mistero della manifestazione nell’increata luce divina.

Per questa interiore armonia, l'uomo poteva imporre alle creature il vero nome, quello che pronunciato da Dio, assume in loro una forma visibile.

 ♦ E il Signore Dio formò dal suolo ogni bestia dei campi ed ogni essere alato dei cieli. Li condusse all'uomo, per vedere che nome avrebbe loro imposto, e il nome scelto dall'uomo per ogni singolo vivente sarebbe stato il suo nome. E l'uomo gridò i nomi per le bestie, per gli uccelli dell'aria, per ogni creatura della campagna.

Genesi 2, 20

Funzione sacerdotale questa, di fissare con la conoscenza e la parola, il compito sacro di ogni vivente. Era questa la forma in cui doveva esprimersi il dominio dell’uomo sulla terra. Dominio di conoscenza e di servizio alla vita, di amore e di gioiosa collaborazione all’opera di Dio. Lo sguardo puro dell’uomo, prima della caduta, vedeva la presenza unificatrice di Dio nella pietra e nella pianta, nella notte e nel giorno, nella nascita e nel declino maturo, nell'alba e nel tramonto, nell’uomo e nella donna, nel manifesto e nel non manifesto. Guardava il minerale e la pianta, l'animale e l'uomo, e ne scorgeva il vincolo d'amore che tutto ricomponeva nell'unità. Ed ogni realtà naturale era un segno sacro, un geroglifico che rivelava l'amore e la sapienza creatrice. Tutto gli appariva come un linguaggio divino, un armonioso discorrere che rivelava l'inesprimibile volto di Dio.

L'uomo capiva ed amava, l'amore era via a più perfetta conoscenza, la conoscenza il cammino a più pieno amore.

Vedeva il minerale, la pianta, gli uomini, nella loro forma divisa e nella loro realtà indivisa, e il nome che ad essi imponeva corrispondeva alla loro intima essenza, al loro compito ricevuto come servizio alla creazione.

Sapeva che il più umile fiore, nel breve giro della sua esistenza, accresce per sempre il patrimonio della bellezza di tutto il creato; che la bellezza non è l'utilità funzionale di una cosa ma quel soprappiù aggiunto che rivela la verità dell'incontro dell'uomo col cuore delle cose. La verità delle creature non era nel riscontrarle adeguate agli schemi della ragione meccanica che tutto divide e misura secondo criteri quantitativi, ma nel vederle nel loro aspetto sacramentale, mediante una più profonda intelligenza amorosa. La bontà degli esseri non gli appariva nella loro corrispondenza a categorie utilitarie, ma nel loro inserimento nell'ascendente corrente creatrice.

Questa conoscenza profonda, era il frutto del rispetto dell'albero della conoscenza del bene e del male. L’ordine divino che proibiva la consumazione del frutto, esigeva che l'uomo mantenesse intatta la sua comunione di vita e di servizio coll'universo. Mangiare il frutto, voleva dire l'intromissione delle mani ribelli e violente nell'ordine armonioso del cosmo; il tentativo di diventare loro arbitro, come Dio stesso; la sostituzione della propria volontà ribelle e assetata dall'avventura dell'indipendenza a quella armoniosamente rispettosa dell'intimo tessuto del creato.

Per la coscienza in comunione, non esisteva un universo razionale opposto ad un universo metafisico; una conoscenza oggettivante ed una conoscenza dell'unità del tutto; una ragione logica ed una mente intuitiva; ma per essa c'era Dio, la Parola, lo Spirito e la gioiosa ascesa degli esseri creati. Non esisteva separazione, ma la Parola che portava luce e forma al caos, lo Spirito che vi donava amore e fecondità. Non esistevano le due rive di un fiume, ma un universo in cui fluiva lo Spirito e la Parola, ed il loro passaggio diffondeva vita e gaudio di vita più abbondante.

Ma per l'uomo non fu trovato un aiuto che fosse la sua parte complementare. Allora il Signore Dio fece calare su Adamo uno sbigottimento e si addormentò. Il Signore prese una delle sue costole, e richiuse l'apertura con la carne. E con la costola, il Signore edificò la donna, e la fece venire verso l'uomo. E Adamo disse “Questa volta: osso delle mie ossa, carne della mia carne. Sarà chiamata Isha uoma perché dall'uomo Ish essa fu presa. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre, e alla sua donna aderirà; e saranno una carne”.

Genesi 2, 20-25

Nel primo capitolo, Dio non crea separatamente l'uomo e la donna, ma l'uomo, che, come cellula umana originaria, racchiude in sé l'umanità maschile e l'umanità femminile.

Nel secondo capitolo, la donna viene separata dall'uomo, perché l'unità propria delle cose “nel principio” si attui sul piano dell'esistenza nel tempo.

L’uomo, risvegliandosi dal sonno, davanti alla sua compagna, erompe nel primo canto lirico che nasce dalla gioia di avere scoperta la sua parte integrante che lo libera dalla solitudine e, facendogli raggiungere la pienezza dell'essere, lo aiuta a compiere l'opera di “dominare” tutti gli esseri con il gesto pacificante di chi ha raggiunta la compiuta armonia delle sue forze vitali. L'umano maschile e l'umano femminile sono creati da Dio per attuare nello spazio del visibile e del limitato la perfezione della vita divina. L'armonioso incontro dell'umano maschile e dell'umano femminile, nel pensiero divino, avanti la separazione, era il segno, il geroglifico, della compiutezza della realtà divina.

Ma il serpente era astuto e nudo fra tutte le bestie del campo che il Signore Dio aveva creato.

Genesi 3, 1

Nell'innocenza della terra paradisiaca, si muoveva una potenza ostile, che la Bibbia chiama “il serpente”.

Le sue caratteristiche sono espresse, nella lingua originale, con il vocabolo “arum” che significa “astuto e nudo”.

Il serpente biblico è l'essere nudo, privo della luce propria della coscienza in comunione, ha una sua luce astuta. L'astuzia è la conoscenza che nasce dall'avidità ed è contrapposta alla sapienza. La sapienza vede le creature con occhio non avido, e le conosce nella loro realtà ultima: essenziale ed esistenziale; vede il fenomeno ed il mistero che racchiudono. L'astuzia, invece, guarda le cose con l'avido sguardo del rettile, cerca di capire per carpire. È il prolungamento, sul piano della conoscenza, della volontà di dominio, ed è figlia della vacuità interiore.

La vacuità nasce dalla frattura della comunione con gli esseri, spinge il cuore verso il possesso delle cose esteriori, sconvolgendone l'armonioso ascendere. La scienza si trasforma in conquista per asservire; l'amore, da pienezza interiore, diventa eros, figlio della penuria; e l'uomo stende le mani verso gli esseri, sperando di colmare il suo interiore vuoto. Dio stesso diventa, per l’uomo avido, inquietudine del cuore, non più gioiosa pienezza che sazia ed inebria.

“Quando la coscienza raggiunse il grado dell’intelligenza la sua prima espressione fu quella del serpente astuto. Le elementari manifestazioni della capacità di concepire, distinguere, analizzare furono al servizio della forza espansiva della vita: è il serpente dell'istinto del dominio. Tutta la rabbiosa avidità di questo primo stadio della coscienza analitica, si risvegliò quando apparve lo stadio successivo: quello dell'intelligenza cosmica, che si dischiude disinteressata, e tuttavia viva per una passione divorante, sulla bellezza ed i misteri del cosmo. A questo punto, il primo stadio, il serpente, non ha niente di più stimolante del seminare nel secondo, l'uomo, i germi della confusione. Il serpente è di sangue freddo come un calcolatore, l'uomo è di sangue caldo come l'idealista” (Meyer Sal).

Il serpente disse alla donna: Perché Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?”. La donna rispose: Noi mangiamo dei frutti dell'albero del giardino; ma del frutto dell'albero che è dentro al giardino Dio ci ha detto: “Non ne mangiate e non ne toccate, altrimenti morirete"”. Il serpente disse alla donna: - Morire! Voi non morrete! Dio sa che il giorno in cui ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e sarete come Dio, conoscitori del bene e del male”. La donna vide che l'albero era buono per esser mangiato, affascinante a vedersi, concupiscibile per l'intelligenza. Prese del frutto e ne mangiò, lo diede all'uomo che era con lei, e lui mangiò. I loro occhi si aprirono e videro di esser nudi. Allora sentirono il rumore del Signore Dio che veniva nel giardino al soffio del vespero, e si nascosero, l'uomo e la donna, davanti al Signore Dio, nell'interno degli alberi del giardino. E il Signore Dio gridò all'uomo dicendo : Dove sei?E l'uomo rispose: Ho sentito il tuo rumore nel giardino ed ho avuto paura, essendo nudo e mi sono nascosto”. Dio fece per l'uomo e per la donna delle tuniche di pelle e li rivestì... Il Signore Dio espulse l'uomo dal giardino dell’Eden e l’allontanò, pose all’oriente del giardino dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada turbinante per impedire il cammino verso l’albero della vita.

Genesi 3, 1-9,21,24

Il comando divino proibiva all’uomo di stendere le mani sul frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e di mangiarne.

Mangiare, è impossessarsi di una cosa, togliendole il suo specifico essere. Mangiare il frutto della conoscenza significava impossessarsi, per far propria, sradicandola dal suo ordine divino, la conoscenza. Col gesto del mangiare l’uomo veniva a sostituire il suo arbitrio alla volontà divina, a dare un suo ordine all'universo. Il germe dell'avidità del possesso entrava così nel cuore dell'uomo, alterando tutti i suoi rapporti col visibile e con l'invisibile. La sapienza, che nasceva dalla partecipazione attenta, della mente e del cuore, al mistero dell'essere creato, si deformò in accaparramento astuto delle creature, finalizzandole al rendimento, all'interesse, ma dimenticandone la realtà sacra.

La coscienza ribelle non sente più Dio come la Presenza che scende nell'ora della brezza vespertina per conversare con i suoi figli, ma come la Potenza ostile che maledice e condanna davanti alla quale bisogna nascondersi tremebondi. “Perché hai fatto questo, tu sei maledetto… accrescerò le tue sofferenze... la terra produrrà triboli e spine... mangerai col sudore della tua fronte ” (Genesi 3, 13-19).

Il veleno del rettile ha dissacrato lo stato d'innocenza paradisiaca, tutto è divenuto ostile all'uomo. I termini, chiamati alla comunione, si sono trasformati in poli di contraddizione. Invece di comunicare con la terra, gli animali, le piante, gli esseri creati, l'uomo si scopre solo, in mezzo a delle forze ostili. La terra gli è nemica, Dio non lo riconosce più, il tempo segna solo la data del nascere, del patire e del morire, lo spazio accresce la solitudine. L'uomo decade dal campo visivo di Dio, scende nella tenebra non rischiarata dalla luce della Presenza divina, nella sua notte; e Dio gli chiede: “Dove sei?”. Le creature, per la consumazione del frutto della conoscenza del bene e del male, sono diventato geroglifici di cui si è perso la chiave. Tutto il creato è sottoposto alla corruzione ed attende che l'uomo ritrovi la perfetta natura dei figli di Dio (Romani 8, 21).

Le creature si sono irrigidite e fatte ostili, scoprendosi private di quell'amore che doveva guidarle a raggiungere la perfetta fioritura del loro nome sacro.

Il creato non è più un universo sacramentale, segno visibile della Presenza invisibile, ma la dimensione dove si esercitano gli umani desideri di possesso. L'istinto del possesso ha distrutto il vero rapporto con le creature. L'attenzione alle realtà create, spostato il centro naturale del cuore dell'uomo, che era il volere divino, è stimolata solo dall'interesse che possono racchiudere o suscitare; ed esse non vengono più avvicinate con amore per quello che sono, ma per quello che hanno o possono avere. E l'universo e stato dissacrato dall'avidità, dalla sete del possesso e del potere. Prima del peccato, conoscere le creature significava vivere con esse, accoglierle, soffrire, gioire con loro. Dopo, non sono più comprese dall'uomo in se stesse ma in funzione di se stesso. Per questo, l'uomo ora vive nel mondo delle realtà create ignorandone il mistero che le rende reali. La mente separata ha ucciso la capacità di comunione, ha creato la mente, per la quale la bilancia è lo strumento di valore ed ogni cosa ha il suo controvalore, la sua contropartita, e riduce il mistero dell'essere creato a quantità e misura. L'uomo decaduto vede soltanto l'universo quantitativo, tutto misura con occhio avido: il bello, il vero, il sacro, il buono.

 

Il simbolo uomo-donna che “nel principio” costituiva l'immagine visibile dell'Invisibile, fu spezzato dal diabolos, la potenza funesta che separa quello che Dio unisce e torna con infinita pazienza a riunire. Prima del peccato Dio parla sempre all'uomo e alla donna insieme; il serpente, invece, parla alla donna separatamente; dopo il peccato l'uomo non sente la donna come parte della sua carne, ma come separata ed ostile: “La donna che mi hai dato mi ha offerto il frutto ed io ho mangiato” (Genesi 3, 12). Il peccato ha separato e reso ostili quelle parti che Dio aveva creato ed unito come l'immagine della sua pienezza. Esse, insieme, dovevano esprimere il mistero dell'essere; insieme, dovevano essere riconoscibili da Dio; insieme, erano la sorgente del bene e della vita di tutte le creature mediante il servizio prestato insieme. Il peccato ha distrutto la comunione, il reale è ritornato caotico, la cattedrale un mucchio di sassi.

Il peccato è la frantumazione del movimento ascensionale degli esseri, è la divisione, la separazione delle parti che dovevano combaciare in una superiore pienezza di vita e di gioia. La comunione dell'umanità maschile e dell'umanità femminile, non era un gioco di istinti avidi di possesso, ma arricchimento reciproco, gioia feconda, scoperta della luce visibile ai cuori non separati e alle intelligenze non diventate laboratorio del diavolo.

La donna non era oggetto di possesso, ma la compagna con cui l’uomo compiva il suo cammino di ascesa, la persona che gli offriva i doni sacri dell'amore, della misericordia, dell'amore alla vita. L'incontro con la donna, costituiva il risveglio della coscienza personale, dell'uomo la liberazione da tutte le chiusure narcisistiche, la scoperta del proprio io creatore e paterno.

“Nel principio” i due sessi non erano polarità opposte, ma complementari; l’incontro era un reciproco superamento dell'età infantile e l'inizio di un ciclo di ascesa personale nell'amore e nella coscienza. E la pienezza dei due si riversava, in ondate di vita e di gioia, per l'elevazione di tutti gli esseri.

L'avidità ha reso l'uomo chiuso nel suo egoismo, profanato la donna. Da qui discende l'incomprensione e l'ostilità dei due, l'umano maschile guarda con ostilità l'umano femminile. Da creature chiamate a raggiungere la piena fioritura dell'essere nell'amore e nella pienezza dell'immagine di Dio, son divenute solitarie ed ostili, chiuse nell'angoscia, nella noia, nel tedio della vita.

La caduta dell'uomo, ebbe, come conseguenza, l'allontanamento dal suo posto e dalla sua missione di mediare le forze divine agli altri regni della natura. La porzione animale dell'uomo divenne ostile al suo centro, cominciando a far vibrare in senso inverso quelle forze vitali che dovevano trovare armoniosa compostezza nel cuore in comunione. Nacque così una stirpe sconvolta da istinti disordinati e caotici: ferocia, rapacità, crudeltà, gelosia, stupidità, sensualità.

L’uomo, chiuso nel breve spazio del suo piccolo “io”, divenne lontano da Dio, ed essendo Dio la Presenza che tiene in comunione tutto ciò che esiste, fu facile preda della più desolante solitudine. Per questa trasmutazione del suo essere, l'uomo fu espulso dalla terra intatta del giardino, e collocato in quella dell'ostilità e della maledizione. Non perché Dio maledica essendo Amore e Vita, ma perché l’uomo ha scelto la non-comunione e la separazione.

Il giardino era la terra del collegamento dei contrari in Dio, attraverso la coscienza umana: il Visibile era segno e via all’Invisibile, l’Invisibile era la sorgente del fiume e il mare che ne placa l'impetuoso fluire; la carne nasceva dallo Spirito e in esso moriva per ascendere a vita più perfetta.

Il cambiamento è avvenuto nell'essere interiore dell'uomo; l'ostilità e la durezza della natura ne sono la conseguenza; non l'effetto di una maledizione. È il peccato di avidità che crea lo spazio della maledizione. L'uomo ha così vergogna del suo essere deformato, spoglio di saggezza, inaridito nell'amore di se stesso. “Mi sento scoperto, ignudo, ed ho avuto paura” (Genesi 3, 10).

Il tedio della vita, la nausea, la noia dell'esistere, nascono dal ripiegamento, su se stesse, di quelle energie che dovevano guidare l'uomo alla gioia dell'ascesa.

♦ Insieme alle gravi parole che descrivono la condizione dell'uomo, della donna, della terra, nella sfera della maledizione, ve ne sono alcune che aprono il varco alla speranza: “Porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua discendenza e quella della donna; la sua progenie ti triterà la testa, e tu le ferirai il calcagno

(Genesi 3, 15).

L'apparenza sensibile del creato, rimarrà per l'uomo illusione, incanto che stordisce, gorgo che affascina e inghiotte. L'uomo sarà sempre tentato e ferito dall'avere, dalle forze demoniache del possesso e del potere.

Ma in mezzo a tutti gli orrori della storia, il Signore Dio ha continuato il cammino nel cuore umano e il suo passaggio è sempre contrassegnato da più umanità, più amore e più vita. Il suo cammino ha la tenerezza dei procedimenti graduali. Costantemente, pazientemente, ha ricostruito l'uomo integro, nel cuore dell'umanità smarrita; e il frutto dell'amoroso passaggio di Dio è Gesù, il Verbo che ha preso carne nell'intatto giardino del seno di Maria.

In lui l'uomo ha ripreso la sua ascesa, anche se con lenti movimenti geologici; le forze redentrici di Cristo tessono nella terra Comunione e Amore. Esse di nuovo saldano nel cuore umano il cielo e la terra, ne modificano la struttura fisica, estinguono l'uomo animale trasformando la carne in energia radiante dell’amore divino.

E l’uomo ritrova in Cristo la via del ritorno che è negazione del proprio io egoistico, non violenza, non amore di sé, non possesso, non avere, ma amore, offerta di sé nel servizio alla vita attenzione appassionata al mistero dei singoli esseri, incontro con Dio in tutto ciò che vive ed ascende, offerta della mano amica a tutti, cuore aperto e traboccante dei doni di pace e di fiducia.

L'uomo, in Cristo, risorge dalla sua tomba. Ritrova il ritmo originale del suo essere: più coscienza, più amore, più libertà.

Giovanni Vannucci

 

 

Pubblicato in Maestri Contemporanei
Domenica, 15 Agosto 2021 19:13

La contemplazione perduta

La dottrina del peccato originale non è un ingombrante relitto del passato di cui dovremmo liberarci al più presto, come alcuni sostengono. Al contrario, ha molto da insegnare all’uomo contemporaneo, ma bisogna purificarla dagli equivoci e dai fraintendimenti che gravano su di essa. Occorre innanzitutto distinguere tra il dogma, così come è stato ratificato dal Concilio di Trento nel XVI secolo, e il racconto della caduta di Gen 2,4b-3,24. Il racconto in sé è un capolavoro sapienziale che descrive la dinamica del peccato, spiega in modo straordinariamente dettagliato e preciso cosa avviene quando l’uomo cade, ma è stato offuscato e deturpato dal dogma. Paul Ricoeur lo afferma in maniera categorica: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicistica”, del mito di Adamo; essa lo ha fatto cadere nella professione di una storia assurda e in speculazioni pseudo razionali sulla trasmissione quasi biologica d’una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato sperperato» (P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni). L’interpretazione di cui parla Ricoeur imprigiona l’uomo in una condizione paradossale in cui egli è colpevole di tutto – anche di colpe non sue, commesse da ignoti antenati – e non è responsabile di niente: «Dannati senza colpa e redenti senza merito», così Vito Mancuso descrive questa condizione. Un cristianesimo autentico e coerente, al contrario, dovrebbe rendere l’uomo sempre più maturo, adulto e consapevole. È auspicabile che il dogma venga al più presto rivisto e aggiornato, non nella sostanza, certo, ma nella forma, giacché questa – come sostengono Walter Kasper e altri – risente inevitabilmente delle contingenze storiche e culturali in cui è stata espressa.  

 

«CHIUNQUE RIMANE IN LUI NON PECCA» (1GV 3,6)

Il racconto della caduta può essere letto in diversi modi. L’interpretazione classica considera la caduta come ὕβϱις o peccato d’orgoglio: è l’illusione autarchica di vivere nella completa indipendenza da Dio, di diventare arbitri assoluti della propria esistenza. Una seconda interpretazione vede il peccato originale come concupiscenza, cioè come desiderio che non accetta limiti, che vuole tutto e subito. La concupiscenza non riguarda solo la sessualità ma interessa ogni ambito della vita umana; si può cadere nella concupiscenza, per esempio, quando si legge un libro, si scrive un articolo o si parla con un amico e si è presi dalla frenesia di dire tutto, di spiegare ogni cosa. Nella Genesi questa concupiscenza è espressa dal “merismo” bene-male, che rappresenta la totalità del reale: all’uomo non è dato conoscere l’intera realtà, soprattutto se si intende l’espressione nel senso ebraico, come conoscenza unitiva («non conosco uomo»). Notare che la concupiscenza è strettamente legata al problema della scelta: “voglio tutto, prendo tutto” equivale a “non scelgo niente”. 

Una terza chiave di lettura – molto mistica, profondamente spirituale – è quella proposta dall’Anonimo autore de La nube della non conoscenza, straordinario trattato di mistica medievale tuttora considerato tra i migliori nel suo genere. L’Anonimo interpreta la caduta come rottura o cessazione dello stato contemplativo. A suo avviso, l’uomo pecca quando smette di contemplare Dio, secondo quanto leggiamo in 1Gv 3,6: «Chiunque rimane in lui non pecca». Prima del peccato tutti gli impulsi della volontà convergevano su Dio. Il peccato originale sarebbe allora una sorta di distrazione della volontà, in seguito alla quale le energie e le facoltà umane si disperdono in mille rivoli. L’uomo non è più padrone degli impulsi della propria volontà e li vede sistematicamente inclinare verso il male. Ciò si manifesta soprattutto nella straordinaria difficoltà di disciplinare l’immaginazione, in quell’incessante chiacchiericcio mentale contro cui il contemplativo deve strenuamente combattere. 

Ma c’è una conseguenza ben più nefasta della confusione mentale: allontanandosi da Dio, “disobbedendo” a lui, l’essere umano comincia a sprofondare nella follia. Lo si vede nella risposta insensata che la donna dà al serpente quando questo le domanda se è vero che Dio ha proibito di mangiare i frutti di ogni albero del giardino. No, ribatte la donna: possiamo mangiare di tutti gli alberi, tranne di quello che sta in mezzo al giardino, e anzi non dobbiamo neanche toccarlo, altrimenti moriremo (Gen 3,1-3). Ma in mezzo al giardino non c’è l’albero della conoscenza del bene e del male, del quale non è concesso cogliere il frutto, bensì l’albero della vita (Gen 2,9). Irretita dai ragionamenti capziosi del serpente, la donna commette un errore disastroso: scambia di posto i due alberi del giardino. Nella sua mente si insinua così l’idea che Dio sia colui che si oppone alla vita, che impedisce all’uomo di vivere. È il capovolgimento della realtà, il ribaltamento della gerarchia ontologica tipico del peccato: Dio, che è il sommo bene, diventa male, mentre il male appare come bene desiderabile. 

 

L’ERRORE SECOLARE DELLA CRISTIANITÀ

Se quanto dice l’Anonimo ha un senso, allora il peccato originale sarebbe, più che una colpa morale, una mancanza ontologica, una patologia della relazione, cioè l’incapacità di mantenere l’attenzione focalizzata su quel Dio che, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, si presenta come Essere (cfr. Es 3,14; Gv 8,24-58). In effetti un altro grave errore del cristianesimo è l’aver sempre concepito il peccato in termini di trasgressione morale: «Il peccato in realtà esiste nella relazione con Dio e non altrimenti. L’errore secolare della cristianità è stato di concepire il peccato come una colpa morale. […] Il peccato è la rottura con Dio e le conseguenze che ciò comporta», scrive il giurista, sociologo e teologo Jacques Ellul in Anarchia e cristianesimo. Distraendo la volontà dall’Essere, l’uomo si trova frammentato, diviso, alienato da se stesso. Il peccato dissipa, disperde, debilita; la relazione con l’Essere unifica e dà vita. Non a caso Teilhard de Chardin scrive ne Il fenomeno umano: «Già secondo il pensiero greco – anzi secondo ogni pensiero – “essere” ed “essere uno” non è forse la stessa, identica cosa?». 

 

IL TEMPO DEL MITO

Secondo Thomas Merton, il racconto della Genesi afferma che l’Adam è stato creato come contemplativo. La contemplazione è la condizione naturale dell’uomo, e senza di essa non si dà una vita autenticamente umana. Ora la contemplazione – che Merton descrive come «quello stato in cui tutto è tuo ma a una condizione infinitamente importante: che sia tutto dato» - è una situazione meravigliosa ma difficilissima da raggiungere e ancor più da mantenere. Chiunque abbia un minimo di familiarità con la preghiera del silenzio lo sa bene. Basta niente per perdere la pienezza data dalla perfetta contemplazione: un attimo di distrazione, un moto di impazienza o di rabbia, un pensiero impuro, e subito ci si ritrova fuori dal giardino. Ecco perché Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo cristiano, afferma che questa è davvero la condizione di ogni essere umano: «Ma la malinconia è un peccato, è veramente un peccato “instar omnium”, poiché è peccato non volere profondamente, e sentitamente; questo è il padre di tutti i peccati» (S. Kierkegaard, Saper scegliere). L’uomo vive costantemente in esilio dal paradiso terrestre. Per questo non ha molto senso, riguardo al peccato originale, parlare di un prima e di un dopo, di una condizione prelapsaria e di una postlapsaria. Il racconto della caduta è un mito e il tempo del mito è “sempre”.

 

IL MALE DEL MONDO

Negli incontri dell’Associazione Italiana TdC di quest’anno (sezione di Roma), e in particolare in quello di Paolo Trianni sulla spiritualità dell’attraversamento, è risuonata più volte la domanda: “unde malum”, da dove viene il male del mondo, di chi è la colpa? Non si può dare una risposta semplice e univoca perché non c’è “il male” ma ne esistono molti tipi diversi, forse infiniti. Esiste il male naturale, cioè le malattie, gli incidenti, le catastrofi; c’è il male psichico e quello metafisico, il male morale e il male sociale, che il CCC 1869 descrive come “strutture di peccato” che rendono gli uomini complici gli uni degli altri e fanno regnare tra di loro la concupiscenza, la violenza e l'ingiustizia. Lo tsunami che il 26 dicembre 2004 si abbatté su Indonesia, Sri Lanka, Thailandia e India causando oltre 250.000 morti può certamente essere considerato un male, ma è un male molto diverso da quello commesso dal marito che tradisce la moglie, dall’imprenditore che schiavizza i lavoratori o dal folle di Ardea che uccide due fratellini, un pensionato e poi si suicida. Pretendere di spiegare mali così diversi con un’unica causa, il peccato originale, può essere comodo e rassicurante, ma è ingiusto e sbagliato, non è una vera spiegazione. In passato, un certo tipo di cristianesimo vedeva una stretta relazione tra le tante piaghe che affliggono l’umanità, facendo di tutta l’erba un fascio: se l’uomo soffre, si ammala, muore, è perché ha peccato. Oggi non è più possibile sostenere una cosa del genere, come afferma Raimon Panikkar: «La morte è un’invariante umana. Ogni uomo muore, e non certo in conseguenza del peccato. Non c’è nessun peccato originale, e nessuna vendetta di Dio contro il genere umano. Si tratterebbe non di giustizia divina ma di una spaventosa giustizia tribale, diceva Norberto Bobbio» (R. Luise, Raimon Panikkar. Profeta del dopodomani). Una parte considerevole del male che c’è nel mondo non dipende da noi, non è colpa nostra. E men che meno è colpa di Dio, scrive Teilhard de Chardin in Mon Univers (1924): «In sé, in modo immediato, le servitù del Mondo – anzitutto quelle che c’intralciano, ci diminuiscono, ci uccidono – non sono né divine né in alcun modo volute da Dio. Rappresentano la parte d’incompiutezza e di disordine che guasta una creazione non ancora perfettamente unificata. E, in quanto tali, non piacciono a Dio; e Dio, in un primo tempo, lotta con noi (e in noi) contro di esse. Un giorno, Egli ne trionferà. Ma poiché la durata delle nostre esistenze individuali è senza proporzione con la lenta evoluzione del Cristo totale, è inevitabile che non possiamo vedere la vittoria finale, nel corso dei nostri giorni terrestri (…)». 

VERA COLPA O IMPERFEZIONE ORIGINARIA?

Un’altra domanda emerge spesso negli incontri dell’associazione TdC: il peccato originale è veramente un peccato così come lo definiscono i dizionari di teologia, cioè una decisione libera e volontaria contro il volere di Dio? O è dovuto piuttosto a un’imperfezione originaria di cui l’uomo non può essere incolpato più di tanto? Anche qui la risposta non è univoca. Se consideriamo l’ateismo delle nostre società secolarizzate come peccato di ὕβϱις, per esempio, la volontarietà è abbastanza evidente: l’uomo sceglie di non credere, vuole essere ateo, anche se forse non si rende conto delle conseguenze che ciò comporta. Ma nel caso della caduta intesa come rottura dello stato di contemplazione? Si tratta certamente di un peccato secondo il significato etimologico del termine, cioè un mancare il bersaglio, un fallimento esistenziale, dovuto però non a volontà quanto piuttosto a una carenza di volontà, oltreché alla difficoltà della contemplazione. La contemplazione richiede vigilanza, attenzione costante, umiltà, dominio di sé. È un esercizio estremamente impegnativo, totalizzante: possiamo davvero incolpare l’uomo se non sempre riesce nell’impresa? L’uomo è realmente colpevole di questo peccato d’origine o ne è vittima? Pecca perché vuole o perché non sa volere? Per risolvere la “vexata quaestio” sarebbe opportuno separare e tenere distinti colpa e peccato, l’aspetto etico-giuridico da quello più propriamente ontologico ed esistenziale: forse l’uomo non ne ha colpa, ma vive certamente in una condizione fallimentare dalla quale può affrancarsi grazie all’azione redentrice del Cristo. Vale pertanto la pena dedicarsi con tutto l’impegno al «nobile lavoro» di cui parla l’Anonimo, cioè alla contemplazione. Questo ci darà la forza per vincere molti peccati personali e per resistere alle ingiurie delle servitù del mondo di cui parla Teilhard in Mon Univers. In attesa che Dio trionfi definitivamente su di esse.

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Come deve essere, allora, la nostra vita cristiana? Un avvento continuo, una continua attesa dello Sposo che viene.

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