I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

La Bibbia giustifica la pena capitale?
di Gianfranco Ravasi

Ricordo che tempo fa uno dei lettori dei miei scritti sui giornali a cui collaboro mi aveva tempestato di lettere, convinto di avere una giustificazione per la condanna alla pena di morte a causa del fatto che essa appare a più riprese all’interno dell’Antico Testamento.

Preparai, dunque, una risposta che pubblicai su Famiglia Cristiana: naturalmente, essendo necessario un discorso articolato di taglio interpretativo, non mi fu possibile esaurire la questione sottesa a quelle pagine. A questo punto quel lettore cambiò registro e si orientò su un passo evangelico specifico, abbandonando quindi il terreno anticotestamentario e rivolgendosi un Nuovo Testa,mento che dovrebbe essere all’insegna della legge dell’amore.

Proprio per questo si riesce a comprendere che una corretta ermeneutica non vale solo per le Sacre Scritture ebraiche, ma anche per l’orizzonte cristiano che noi consideriamo sgombro da equivoci interpretativi: in realtà i rischi del letteralismo nella lettura della Bibbia possono essere in agguato in ogni pagina.

Il lettore, infatti, faceva riferimento a un detto (tecnicamente un lòghion) di Cristo che riflette lo stile orientale e che ha forti segni di autenticità storica. Egli sospettava che dietro la frase di Gesù: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono sarebbe meglio per lui che gli passassero al collo una mola d’asino e lo buttassero in mare», presente nei vangeli di Marco (9,42), Matteo (18,6) e Luca (17,2), si celasse un invito ad applicare «la pena di morte anche per i non assassini».

In realtà, come da tempo si insegna, ogni linguaggio adotta alcuni canoni di comunicazione (i cosiddetti “generi letterari”) che richiedono di essere interpretati per cogliere ciò che essi realmente vogliono dire, così da evitare equivoci o fraintendimenti.

Ora è ben noto che Gesù - come tutta la Bibbia - usa un linguaggio simbolico legato alla cultura semitica del suo tempo: esso ha formule espressive, immagini, simboli differenti dai nostri e quindi da comprendere e interpretare.

Nel passo in questione egli sta parlando non tanto dei bambini (in greco paidìon) - a cui pure si fa riferimento nel contesto, assunti però come emblemi della fiducia pura e serena - ma dei “piccoli” (io greco mikròs), una categoria non anagrafica ma esistenziale. Infatti si dice esplicitamente: «I piccoli che credono». Di scena sono quasi certamente coloro che sono deboli nella fede, piccoli nel credere e che devono ancora crescere (non si tratta, dunque, della pur esecrabile e infame vergogna della pedofilia).

È facile che, con superficialità o cattiveria, un fratello che si sente più sicuro nella sua fede possa far cadere questi “piccoli”: si usa infatti la parola “scandalo”, che in greco letteralmente indica la pietra o la trappola che fa inciampare la selvaggina nella caccia. Anche san Paolo, scrivendo la prima lettera ai Corinzi (8,7-13) e la lettera ai Romani (14,1-15,4), affronta questo problema suggerendo carità e pazienza: «Accogliete fra di voi chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni» (Rm 14,1). Cristo, contro coloro che invece mettono consapevolmente in crisi il fratello, “piccolo” nella fede, pronunzia una sorta di maledizione, esprimendola con un’immagine colorita e veemente desunta dal mondo in cui egli viveva e dalle sue consuetudini.

Si tratta del cosiddetto katapontismòs, ossia dell’esecuzione dei colpevoli per annegamento. Essa era praticata dai romani: l’imperatore Augusto aveva fatto annegare il precettore e i servi di suo figlio Gaio, stando almeno allo storico romano Svetonio; mentre un altro storico, l’ebreo Giuseppe Flavio (I secolo d.C.), menzionava il caso dei galilei ribelli che avevano annegato nel lago di Tiberiade alcuni sostenitori di Erode.

Gesù, che ha insegnato l’amore e il perdono dei nemici, non può certo suggerire una simile macabra esecuzione capitale o il suicidio. Egli, però, non si astiene dal denunciare il male e ricorre a quell’immagine per indicare la gravità della colpa di chi scandalizza il fratello dalla fede fragile. E’ un modo simbolico vigoroso, tipico del linguaggio orientale che ama le tinte forti e le passioni accese, per ricordare il severo giudizio divino su un atto considerato come grave.

L’idea di legare al collo la pesante macina con un foro destinata a contenere la barra che l’asino avrebbe fatto ruotare - un oggetto noto anche dai reperti archeologici - diventa così un segno della condanna grave che incombe sullo “scandalizzatore”. Anzi, come scrive un esegeta, Simon Légasse, «la terribile sorte dell’annegato con la mola al collo è poca cosa in confronto a ciò che attende nel giudizio ultimo dì Dio colui che h provocato lo scandalo».

(da Vita Pastorale, novembre 2006)

Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico
Un decalogo per il dialogo
di Brunetto Salvarani


Tre indicazioni - 2° ottobre 2006, ultimo venerdì di Ramadam 1427, quinta giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico - per un unico giorno del calendario. Esemplari, per cogliere la lettura plurale con cui il processo di moltiplicazione di sguardi religiosi con cui, anche nel nostro paese, si legge la realtà: ma anche per evidenziare il bisogno di più dialogo (e non di meno dialogo, come strillano di regola le gazzette che contano) per affrontare con speranze di successo la sempre più difficile situazione in atto. Semmai. di un dialogo più qualificato, consapevole e popolare, su cui le chiese cristiane italiane - così come le comunità musulmane - investano e in cui credano, come l’unico linguaggio credibile per dire Dio nell’oggi della storia.

E’ una volta di più, la linea del Vaticano II con la dichiarazione Nostra aetate, della pedagogia dei gesti così cara a Giovanni Paolo II, della Charta oecumenica stilata nel 2001 a Strasburgo, ma anche delle prime dichiarazioni di Benedetto XVI, non appena eletto al soglio di Pietro lo scorso anno, e ancora alle comunità islamiche di Colonia, ai margini della Giornata mondiale della gioventù, la scorsa estate. Poi, venne Ratisbona, con i ben noti fraintendimenti più o meno cercati, su cui ormai è già stato detto tutto. In ogni caso, segnale vistoso della complessità estrema delle relazioni interreligiose, in una stagione di identità troppo spesso esibite, urlate e violente; nonché, una volta di più, cercando di volgere in positivo la cosa, occasione di purificazione per un colloquio (quello cristianoislamico, in particolare) che è ancora bambino e troppo influenzato dal surriscaldatissimo clima planetario.

La convivenza come “sfida”

In tale contesto, appare quasi miracoloso che l’esperienza della Giornata ecumenica del dialogo, nata all’indomani dell’11 settembre 2001 con un appello firmato da un gruppo qualificato di cristiane e cristiani di diverse confessioni e impostasi con la forza del passaparola, senza finanziamenti e senza amplificazioni mediatiche, sia giunta al termine del suo primo lustro in buona salute.(1) Tra le molte manifestazioni previste un po’ in tutta Italia, cito almeno quella di Roma, che si svolgerà presso la grande moschea e culminerà in una tavola rotonda dal titolo La sfida della convivenza e il dialogo tra le fedi. Vi parteciperanno Abdellah Redouane, segretario del Centro islamico culturale d’Italia, il vescovo Vincenzo Paglia, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo, la pastora Maria Bonafede, moderatore della Tavola valdese. mons. Piero Coda, presidente dei teologi italiani, Paolo Naso, direttore della rivista Confronti. e il ministro per la solidarietà sociale, On. Paolo Ferrero.

Se la Giornata ecumenica ha saputo attraversare indenne questi anni complicati e faticosi, e questi ultimi mesi addirittura affannati, densi di slogan beceri e di contrapposizioni frontali, è perché, in fondo, al dialogo non esiste alternativa. Il problema, piuttosto, riguarda, da un lato, la sua praticabilità, in un contesto di reiterate e penose strumentalizzazioni, di ascolto reciproco sostanzialmente nullo e di reciproche scomuniche quotidiane; e, dall’altro, i suoi contenuti, quelli di una parola che rischia il depotenziamento a causa del suo abuso e della sua banalizzazione.

Ecco allora che, opportunamente, il comitato organizzatore, di anno in anno allargatosi fino a comprendere molte riviste e associazioni oltre ai singoli che lanciarono il primo appello, propone stavolta, quale motto, Un decalogo per il dialogo, con l’obiettivo di riempire di contenuti concreti tale cammino, recuperando e facendo proprio il lavoro prezioso di un gruppetto di specialisti impegnati in prima persona, il sociologo Stefano Allievi, il linguista Paolo Branca, il giurista Silvio Ferrari e Mario Scialoja, presidente per l’Italia della Lega musulmana mondiale. (2)

La loro riflessione prende le mosse dalla constatazione secondo cui la presenza di musulmani nella nostra penisola ha ormai raggiunto una tale mossa critica da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, da una parte e dall’altra, con numerose iniziative, conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo ma, proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri paesi europei, appare indispensabile che le istituzioni e i cittadini italiani e non, coinvolti a vario titolo nella questione, trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.


La dimensione politica del dialogo


Per questo, mentre il nostro paese vive un decisivo momento di riformulazione degli equilibri politici e delle sue prospettive di riforma, il documento motiva il richiamo ad alcuni punti che sembrerebbero di cruciale rilevanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni tracciate come pensate esclusivamente per loro, anche se il testo ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica.

La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che ad un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto ad un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende ad enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.

I quattro si dicono consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità li spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune:

Per entrare più nel dettaglio, riprendiamo un paio di punti del decalogo, a partire dal primo, il più esteso e quello, per certi versi, maggiormente strategico, secondo il quale occorrerebbe incoraggiare la collaborazione con le istituzioni ad ogni livello per promuovere una reale partecipazione, dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo sarebbe utile, in particolare, partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto, anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche; e promuovere interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia...) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci.

Importante è altresì il punto sette in cui s’incoraggiano i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa imparziale. Gli esempi delle ultime settimane, ancora una volta, esprimono la centralità di un simile assunto.

La novità più evidente riguarda la dimensione politica del dialogo che non può più restare confinato nelle spesso anguste formulazioni del religioso. Anzi. Questo è il messaggio di fondo, ineludibile: per lavorare nel dialogo con la prospettiva di un confronto sincero quanto fruttuoso, dovremo sempre più usare parole laiche e stili di comportamento laici. Laici e, beninteso, piaccia o no, politici.


Non è lo scontro tra bene e male

Va infatti sottolineato come, attualmente, il dialogo si riveli sovente più aspirazione che realtà: e sarà perciò, per ora, più onesto limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, o, più in generale, di rapporti interreligiosi, o ancora, come fa la teologia più avvertita, di scambi o conversazioni tra religioni. Del resto, in più di un documento vaticano - fra cui la stessa Nostra aetate e l’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI - il termine dialogo traduce il latino colloquium, evocarne una versione maggiormente dimessa e quotidiana: è la dimensione dialogica che si manifesta nelle relazioni sociali tra credenti di differente appartenenza. Infatti, accade spesso, oggi, che la fondante dimensione dialogica sia quella personale, privata, concreta, come quella di fatto sperimentata da quanti hanno a che fare, direttamente e non superficialmente, con immigrati di religioni altre. ad


Papa Ratzinger. lo scorso 25 settembre, nel ricevimento degli ambasciatori dei paesi musulmani e dei membri della Consulta islamica voIuta dal governo italiano, ha detto fra l’altro: «E’ necessario che, fedeli agli insegnamenti delle loro rispettive tradizioni religiose, cristiani e musulmani imparino a lavorare insieme, come già avviene in diverse comuni esperienze, per evitare ogni forma d’intolleranza, e opporsi ad ogni manifestazione di violenza; è altresì doveroso che noi, autorità religiose e responsabili politici, li guidiamo e incoraggiamo ad agire così».
La grande sfida che attende i fautori del dialogo - come ha scritto recentemente Enzo Bianchi (3) – è infatti quella di evitare una lettura delle differenze, anche profonde, come scontro tra il bene e il male, di rifuggire l’identificazione tra un islam astratto e l’incarnazione del male e di rifiutarsi di demonizzare l’altro. Per riuscire in tale impresa, ciascuno deve fare appello alla ragione di cui tutti sono muniti e che, nel suo fecondo intrecciarsi con i dati della rivelazione, ci può ricondurre sulle vie della pace e della fratellanza umana

(da Settimana, 15 ottobre 2006)

Note(1) Per il testo dell’appello, e per i materiali relativi alle scorse edizioni, si può visitare il sito dell’iniziativa: www.ildialogo.org
(2) Il testo in questione è comparso per la prima volta proprio su queste pagine, in Sett., n. 22 (4 giugno 2006), p. 4
(3) Bianchi E., “Il dialogo con l’Islam, un’occasione offerta ai cristiani, in La Stampa (24 settembre 2006).

La sincerità implica il concetto di reciprocità. Quando tra due o più persone si instaura un rapporto (affettivo, di amicizia, di lavoro, di assistenza), l’essere sinceri diventa un imperativo al quale non ci si può sottrarre...

La risurrezione di Cristo,
fonte di ogni nostra speranza
di Vladimir Zelinskij




Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la vostra predicazione « ed è vana la vostra fede», dice san Paolo. Non lascia lo spazio al vago e passeggero “senso religioso” che dice che «Dio è nell’anima» e non importa, se ci sia, cosa faccia fuori. Sembra che l’apostolo voglia sottomettere l’impalpabile “tessuto” del credere alla logica aristotelica che esclude la terza via. Non è la logica a essere in gioco, però. Non si tratta di un evento esterno a noi, di un dogma imposto, di un articolo del Credo che siamo costretti a fare nostro.

Il messaggio di Paolo può essere letto diversamente: ogni esistenza umana porta dentro di sé il suo fuoco segreto, un nucleo nascosto che si chiama speranza. E’ la fede che dà alla speranza la gioia di crescere nella fiducia in Dio che, nato da uomo, morto da uomo, sia anche resuscitato da uomo. La fede nella risurrezione è il linguaggio della speranza inespugnabile e irriflessiva, messa in noi, che ci parla della vita del «mondo che verrà». Se Cristo non fosse risuscitato, ogni speranza sarebbe una fantasia, un inutile slancio d’animo, l’evidenza della decomposizione generale sarebbe più forte di quella voce pazza dentro di noi che grida, come Giobbe: «Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso» (19,27).

La speranza dice che si può gridare senza paura, senza cercare le parole corrette e bilanciate perché la notizia della risurrezione porta la promessa folle in cui “io” trovo me stesso solo nell’incontro con il Risorto. La mia vera personalità si rivela solo nella sua rivelazione. Essa tocca me come grano di sabbia nella terra deserta che un giorno, secondo le Scritture, diventerà di nuovo il giardino dell’Eden, come ossa secche che si ricopriranno dalla carne viva nella profezia di Ezechiele.

La promessa s’accende con la Luce che illumina ogni uomo, con la Parola che entra e s’incarna nel nostro cuore, col Volto che ci guarda negli occhi. Quella promessa è la radice di ogni fede cristiana, ma anche il suo “segno di contraddizione”, perché la speranza può parlare con toni diversi. Nell’Ortodossia il suo modo di esprimersi è piuttosto paradossale: Dio è più vicino a noi di quanto lo siamo noi stessi, ma per raggiungerlo ci manca tutta la vita; il Regno è gratuito, è dato a tutti, ma - come dice Gesù nel Vangelo di Matteo - solo «i violenti se ne impadroniscono» (11,12); la promessa è eredità di ciascuno di noi, ma bisogna combattere per acquistarla nel proprio spirito.

L’attesa troppo sicura, quando la salvezza ti arriva come il premio per essere concepito, non è quella che non delude. Il vero messaggio della risurrezione inizia con la follia e la lotta per quella vita che ci fu promessa e che dobbiamo scoprire con «l’amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori».

Teologia africana
Incisività cercasi
di Bénézét Bujo

Studiare e insegnare teologia – come pure scrivere libri in materia – non è un lusso o un motivo di vanto, ma un ministero ecclesiale. Che va curato, rafforzato e apprezzato.

Teologia come ministero

«Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune» (1 Cor 12, 4-7). In una comunità cristiana ci sono apostoli, profeti, maestri, operatori di miracoli, guaritori, leader…..: sono tutti indispensabili per un armonioso andamento delle cose.

ministero è di governare la chiesa locale. Per fare ciò, ha bisogno di collaboratori. Tra questi figura il teologo, che studia, indaga, analizza, elabora, propone, scrive….. La sua opera va offerta al vescovo, il quale è chiamato ad ascoltare, giudicare, decidere….. Più teologi un vescovo ha, meglio saprà condurre la chiesa locale.

Temi teologici

Il ministero di teologo va oggi compiuto nel contesto africano del 21° secolo. Un contesto che ha molte dimensioni, tuttora profondamente permeate dalla cultura africana. E superficiale affermare che la mentalità tradizionale è stata spazzata via della modernità. Essa, invece, dà forma al modo di pensare, sentire e agire delle nostri genti. Basti pensare alla diffusa credenza nella stregoneria, all’importanza data ai riti di guarigione, alle diverse concezioni del matrimonio….. Il nostro compito di teologi è quello di ascoltare la nostra gente per scoprirne l”anima” africana.

L’attenzione non dovrà perdersi nell’esame di particolarismi etnici, ma concentrarsi sulla ricerca del vero centro dell’universo simbolico africano, che è comune a molti gruppi. Così, potremmo diventare sempre più consapevoli del modo in cui i vari popoli dell’Africa nera possono dare vita a un dialogo culturale. E’ mia convinzione che il dialogo tra le diverse culture africane risulterebbe più facile di quello tra esse e quelle non africane. Un esempio: invece di presentare all’africano Adamo come antenato, per poi presentare Cristo come “secondo Adamo”, è più sensato sviscerare il concetto africano di antenato per poi “inculturarvi” la fede in Cristo “Proto-antenato”.

Anche il dialogo ecumenico tra le varie denominazioni cristiane risulterebbe più fecondo, se fosse più radicato nella cultura africana. La venerazione degli antenati è un ottimo punto di partenza per una comprensione del mistero della comunione dei santi accettabile anche dai protestanti. E il ruolo riservato a Maria, in quanto Madre di Dio, sarebbe più comprensibile, se visto sullo sfondo dell’importanza attribuita alla madre, “sorgente di vita”, nelle culture africane.

Linguaggi teologici

Se vogliamo che la teologia fatta in Africa diventi veramente africana, dobbiamo cominciare a insegnarla e scriverla nelle nostre lingue, usando concetti e simbologie locali. Le accezioni africane di “padre”, “madre”, “fratello-sorella”, “figlio-figlia”….., non sono quelle occidentali. Quando noi parliamo di “famiglia”, intendiamo una realtà che difficilmente europei e nordamericani capirebbero. Un esempio: l’attuale codice di diritto canonico ammette matrimoni tra due persone imparentate (fino a un dato livello) che le culture africane considerano autentiche unioni incestuose.

Anche il linguaggio riguardante la povertà va rivisto. Per la mentalità africana, povera è soprattutto la persona che “non-è-con” l’altro o gli altri, priva, cioè, di relazioni. In molte lingue nostre non esiste il verbo “avere”, ma soltanto l’”essere con” (kuwa na, kuzala na, kü na…,dove na sta per “con”). Tutto ciò che ci circonda non è lì per essere da noi posseduto, ma per invitarci a creare sempre nuove relazioni. Il possesso individualistico è totalmente fuori posto.

Il linguaggio va ricreato anche a livello di liturgia, omiletica, preghiere... In tutto ciò, è indispensabile che i vari modi di espressione siano liberi di offrire i propri contributi. A questo fine, è auspicabile che nelle facoltà africane di teologia si creino dipartimenti di linguistica. Non possiamo più farne a meno, se vogliamo dare ascolto all’appello lanciatoci da Paolo VI nel lontano 1969, a Kampala: «Africani, voi potete e dovete avere un cristianesimo africano».

(da Nigrizia, febbraio 2006)

Martedì, 09 Gennaio 2007 02:00

Alia mondo eblas (Marcelo Barros)

Alia mondo eblas
di Marcelo Barros

Significa “un altro mondo è possibile” in esperanto. Questa lingua ausiliaria internazionale si presenta come un fattore che può facilitare una comunicazione meno “mercantilizzata” e come fondamento di uguaglianza tra i popoli

Nel giugno scorso si è ricordato il 30° anniversario del massacro di Soweto. Nel 1976 studenti neri della nota township di Johannesburg scesero nelle strade per protestare contro l’apartheid. Quella manifestazione di migliaia di giovani fu dispersa dalle forze dell’ordine, intervenute con tale brutalità da causare uno dei più sanguinosi massacri di civili del secolo scorso. Quel dramma e quella vergogna del Sudafrica razzista sarebbero poi stati divulgati, con forza ed emozione, in tutto il mondo dal film Cry Freedom (“Grido di libertà” - 1987), di Richard Attemborough. Indimenticabile la straziante sequenza finale, che rievoca il massacro.

È importante notare che una delle principali ragioni che spinsero quegli studenti a invadere le vie della township fu l’imposizione dell’afrikaans come lingua obbligatoria nelle scuole. Gli oppressori - di ogni tempo e di ogni sorta - sanno bene che il miglior modo per garantirsi il controllo socio-economico di un paese è quello d’imporre la propria cultura e la propria lingua ai popoli soggiogati che lo abitano.

In questi mesi sono in programma molti incontri e seminari - a livello locale, nazionale e regionale - in vista del Forum sociale mondiale che si terrà in Kenya, nel gennaio 2007. Ebbene, in molti di questi colloqui e convegni appare la presenza di un gruppo di studio il cui scopo è quello di affrontare la sfida di una “lingua comune” che possa essere fattore d’integrazione dei popoli, e non d’imposizione di una cultura sull’altra.

Nel corso della storia, un popolo forte ha sempre imposto la sua lingua a quello più debole. Il greco, esportato da Alessandro Magno fino all’Estremo Oriente, portò alla nascita dell’ellenismo. Più tardi, durante l’era romana, il latino divenne la lingua parlata da coloro che non desideravano essere considerati barbari. Fino alla fine del 18° secolo, in Brasile si parlava la cosiddetta lingua geral (tupiguarani); poi il portoghese fu imposto come unica lingua consentita nel paese. La stessa cosa avvenne nell’America spagnola, dove l’imposizione della lingua europea portò alla sparizione di migliaia di lingue, impoverendo, così, il mondo intero. Una sorte più o meno uguale è toccata a popoli regionali europei: catalani, galiziani, baschi, fiamminghi, irlandesi…..

Gli “imperi” odierni non possono più impedire alle persone di parlare la propria lingua natia, ma non desistono dal voler imporre all’intera umanità l’inglese come lingua delle assemblee internazionali e delle comunicazioni.

L’esperanto è una lingua ausiliaria internazionale che venne sviluppata tra il 1872 ed il 1887 dall’oculista Ludwik Lejzer Zamenhof a Varsavia. Da subito, cerca di proporsi al mondo intero come lingua comune a tutti i popoli, senza appartenere a nessuno di essi. Agli inizi, l’iniziativa sembra più uno sfizio di alcuni gruppuscoli eccentrici.

Un secolo dopo, però, ed esattamente nel 1985, l’Unesco passa una risoluzione in cui si raccomanda a tutti gli stati membri di sostenere le commemorazioni centenarie della creazione di questo nuovo mezzo di comunicazione e di incentivarne l’apprendimento. Non si tratta di sostituire idiomi locali o nazionali. Al contrario, chi lotta per la giustizia e la pace mira a che ogni popolo torni a valorizzare la propria identità culturale e la propria lingua. Costatando però che in un mondo trasformato in “mercato globale” l’inglese si sta sempre più imponendo come fattore di “macdonaldizzazione” del pianeta, è urgente che la società civile, che mira a un ordine sociale più giusto, diventi sempre più consapevole della necessità di una lingua internazionale che parta dall’uguaglianza di tutti i popoli e sia accessibile e agli eruditi e alle persone appartenenti a culture ancora orali.

La struttura dell’esperanto lo fa collocare nel gruppo delle lingue indoeuropee (in quanto al lessico), ma la sua morfologia; prevalentemente agglutinante, lo porta ai margini di questo gruppo, avvicinandola a lingue come l’ungherese o il giapponese e lo rende veramente “universale”. Coloro che lo parlano sono sparsi in 120 paesi nel mondo, principalmente in Europa e Cina. Oggi i siti in Internet che s’interessano all’esperanto sono moltissimi.

Nell‘Agenda latino-americana 2006, l’esperantista cileno José Antonio Vergara scrive: «Nel processo di costituzione della società civile mondiale come soggetto della costituzione di un ordine planetario più giusto e solidale ed ecologicamente responsabile, l’esperanto si presenta come un fattore che può facilitare una comunicazione meno “mercantilizzata” e come fondamento di uguaglianza tra i popoli. Nei suoi 120 anni di vita, il movimento esperantista ha accumulato una ricca esperienza, facilitando contatti e interscambi culturali, senza soggiogare le persone che parlano altre lingue, in quanto è sempre stato particolarmente legato ai movimenti d’emancipazione, quali quello pacifista, e alle diverse correnti del movimento operaio».

(da Nigrizia, settembre 2006)

Martedì, 09 Gennaio 2007 01:52

Le cose del Padre (Giovanni Vannucci)

Le cose del Padre

di Giovanni Vannucci

Quando pronunciamo la parola «Padre» riferendola al divino, il nostro cuore si riempie di tenerezza, di amore filiale e fiducioso. Dobbiamo chiederci se questa stessa parola avesse, sulle labbra di Gesù, lo stesso significato prevalentemente emotivo che ha per noi.

A – GESÙ CRISTO,
FINE DELLA STORIA UMANA
di Bruno Secondin

Il redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il fine della storia umana, il punto focale dei desideri delle civiltà, il centro del cosmo e delle aspirazioni dell’umanità (cf. GS 45).

La corsa gloriosa della Parola (2Ts 3,1) dalla creazione all’eschaton ha come centro l’avvento sulla terra di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Il suo messaggio e la sua vicenda hanno segnato gli ultimi due millenni in maniera unica: egli è stato il vero protagonista di progetti e valori, fermenti e speranze collettive, resistenze e utopie religiose.

Ogni epoca storica - non solo quella attuale - si è trovata nella necessità e nel rischioso compito di colmare il divario fra le generazioni e gli strati culturali, a provare ed esperimentare formule «cristologiche» culturalmente nuove o più vicine alle generazioni più giovani. Ma ancor più frequente è stata l’esperienza di un dialogo vitale con le culture periodicamente emergenti o già ricche di grande maturità.

Nel primo caso non è mancato il rischio di ricorrere ad una ortodossia irrigidita o di vedere talora mutilata la rivelazione nelle sue esigenze di autenticità e nella gerarchia dei suoi contenuti vincolanti. Sono le note tendenze al fondamentalismo dogmatico o al riduzionismo per paura della radicalità evangelica. Il compromesso o l’esasperazione della tradizione sono sempre deleteri per la stessa radicalità evangelica.

Nel secondo caso - specie nei momenti di grandi trasformazioni sociali - si è trattato di un cammino in compagnia delle culture, e delle loro trasmigrazioni, per dare e ricevere, riconoscere e seminare, criticare e purificare. Si è così realizzata la possibilità anche per la precedente «sintesi», di uscire dai propri limiti (culturali o linguistici) e trascenderli, per una migliore e più significativa «cattolicità».

I

Dalla memoria la profezia

Dobbiamo ritrovare la creatività apostolica e la potenza profetica dei primi discepoli per affrontare le nuove culture», ha detto Giovanni Paolo II al Pontificio consiglio per la cultura (18 gennaio 1983). Ma è un compito per niente facile.

In effetti le enormi trasmigrazioni culturali cui partecipano le nostre generazioni hanno da un pezzo scompaginato la simbiosi fra Vangelo e cultura, fra linguaggio comune e valori religiosi, fra modelli di comportamento e di riferimento e progetti cristiani. A tal punto che si può veramente parlare di una plasmazione nuova di tutto il sistema di evangelizzazione ereditato. Quei «molteplici rapporti tra messaggio della salvezza e cultura umana» (GS 58) che avevano consentito alle generazioni precedenti di raggiungere una quasi totale omogeneità cristiana, si stanno rivelando oggi difficili. se non addirittura impossibili.

La nuova generazione e la nuova cultura emergente, sono dominate dalla fattualità, dalla libertà creatrice e istintuale, che portano alla crisi di ogni riferimento, alla così detta «identità stabile», per sposare la civiltà della dimenticanza (come dice Heidegger). E il ritardo culturale di tutto il sistema comunicativo ecclesiale conduce all’impotenza crescente nell’evolversi della cultura, e all’incapacità a confessare e testimoniare Gesù Cristo come salvatore della storia e del cosmo, pienezza delle attese di liberazione e di pace fra i nostri contemporanei.

Notiamo:

«Per ciascuna cultura è presente il dinamismo pasquale, della morte e della risurrezione, grazie al quale la chiesa si può arricchire, ma anche tutto il genere umano. Bisogna perciò che nei battezzati si risvegli il senso critico per giudicare i germogli di vita e di morte nascosti nel inondo. Una evangelizzazione che non arrivasse al cuore della cultura sarebbe solamente superficiale e vuota. Infatti una fede che non permeasse la cultura non sarebbe pienamente recepita, né rettamente compresa, né vitalmente assimilata (cf. Giovanni Paolo Il, Al popolo belga, 20 maggio 1985)». (1)

Tradizione e comunicazione

Non si può negare che oggi le possibilità di comunicazione sono enormi: ma non è la mancanza di comunicazione che fa problema, quanto piuttosto il suo processo di elaborazione e i suoi contenuti. In effetti la densità di comunicazione si trasforma - in progressione geometrica - in vera e propria anemia di autenticità personalizzante e comunicativa. Le parole certamente corrono, ma il dialogo è soffocato e ristagna: tutto è trasformato in res quantificabile sulla base degli interessi pan-economici (acquirente, consumatore, numero statistico, mezzo di scambio...).

In tale regime non è per nulla agevole parlare e pensare la propria fede in termini acculturati.

Se la parola fa esistere l’uomo e lo qualifica socialmente, ma poi tale parola diventa monopolio operativo di pochi e passività di molti, anche la Parola di vita rischia di affogare nel marasma del verbalismo ubiquitario. Oppure verrà asservita a progettualità che si fondano sulla dominanza degli uni sugli altri, anche se in forme religiose.

Il molteplice caos che imperversa a livello di evidenze etiche, di appartenenze sociali, di valori guida, esige non solo di resistere alla mercificazione del Logos, operata sulla base delle emozioni effimere o di sensazioni magico-taumaturgiche. Ma postula anche una riscrittura dell’intera sintassi dell’evangelizzazione secondo condizioni culturali nuove.

La babele dei linguaggi che caratterizza la nostra stagione, non consente l’uso innocente del linguaggio tradizionale: perché spesso si tratta di codici culturali obsoleti o ipostatizzati in altri contesti sociali, oggi scomparsi. Piuttosto esige una decodificazione del nostro bagaglio culturale di evangelizzazione, per distinguervi i dinamismi vitali e i rivestimenti caduchi, per cogliere la Parola e discernere la sua presenza fra le parole.

La legge “incarnatoria”

L’incontro con la cultura e le culture può essere una grande sfida, ma di fatto è anche una grande promessa per la fede cristiana, e oltre tutto corrisponde ad un’esperienza più volte vissuta dalla comunità del Signore. Sappiamo bene che la rivelazione divina ha una «struttura incarnatoria». La Bibbia stessa ne dà esempio dalla prima pagina fino all’ultima: dal racconto della creazione all’immaginario apocalittico, troviamo attestata la presenza ed evidente l’osmosi con le culture antiche della Mesopotamia, dei babilonesi, degli egiziani, e poi dei greci e infine dei romani.

Quando il Verbo si è fatto carne ha assunto le forme della cultura ebraica del suo tempo: che era essa stessa frutto di stratificazioni diverse nel tempo e nei valori.

Poi il messaggio evangelico, annunciato in lingua e mentalità ebraico-aramaica, è stato trascritto (e reinterpretato) in greco e progressivamente ha assunto modelli latini, siriaci, bizantini, ecc. Infine prendendo forma attraverso le successive ondate biologiche ed etniche, ha attraversato le culture occidentali impregnandole profondamente, ma anche ricevendone strumenti per una esplicitazione eccellente.

Dice Gaudium et spes:

«La chiesa, vivendo nel corso dei secoli in condizioni diverse, si è servita delle differenti culture, per diffondere e spiegare il messaggio cristiano nella sua predicazione a tutte le genti, per studiarlo ed approfondirlo, per meglio esprimerlo nella vita liturgica e nella vita della multiforme comunità dei fedeli. Ma allo stesso tempo, inviata a tutti i popoli di qualsiasi tempo e di qualsiasi luogo. la chiesa non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente. Fedele alla propria tradizione e nello stesso tempo cosciente della sua missione universale, è in grado di entrare in comunione con le diverse forme di cultura; tale comunione arricchisce tanto la chiesa stessa quanto le varie culture».

Oggi tenta di esprimersi nelle lingue e negli elementi vitali delle culture di tutti i popoli. Il compito grandioso e creativo del prossimo millennio sarà il processo di penetrazione evangelica nelle culture dell’Africa e dell’Asia. Di fatto è appena all’inizio, ma già si intuiscono sviluppi fecondi!

Negli ultimi anni abbiamo visto esplodere, dentro il quadro collaudato della cultura umanistica dell’occidente, una cultura materiale ed efficientistica - la così detta cultura delle mani - che sgretola l’antica sintesi e porta ad un enorme pluralismo ideologico e culturale mai incontrato nel passato. E questo comporta una nuova stagione di annuncio e maturazione del Vangelo.

Noi sappiamo bene che la pluralità delle culture non è una maledizione, perché anch’essa è frutto della crescita dell’umanità (nonostante i limiti reali). La pluralità riflette la ricchezza senza misura della verità: e il disegno di Dio è riconciliare in Cristo la molteplicità delle cose (cf. Ef.10; Col 1,20).

Il divorzio o la rottura fra Vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca (cf. Ef 20), ma la soluzione non è quella di voltarsi indietro e rimpiangere l’antico connubio o risuscitare l’antica «cristianità». Piuttosto, come suggerisce Puebla:

«Fare attenzione verso dove si dirige il movimento generale della cultura, più che guardare al retaggio del passato; guardare alle espressioni attualmente in vigore, più che a quelle puramente folkloriche» (n.398)

Solo così è possibile individuare le nuove «sintesi» che stanno emergendo, vivendole da protagonisti e non da distratti spettatori («la vita non è uno sport da spettatori») e fermentarle con l’annuncio di Cristo. Il termine nuovo dell’evangelizzazione è l’incu!turazione: tutti ne parlano e significa appunto l’esperienza di compagnia e crescita insieme alle culture, dal loro interno, orientandole e arricchendole. Questa trasformazione delle culture è un’esigenza intrinseca e necessaria del principio teologico secondo cui Cristo è l’unico Salvatore e senza di lui nulla può salvarsi.

Dice la Evangelii nuntiandi:

«Raggiungere e trasformare, con la forza del Vangelo, i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero. le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno di salvezza. Si potrebbe esprimere tutto ciò dicendo: occorre evangelizzare - non in una maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura e le culture dell’uomo» (nn. 19-20).

Tutto l’umano è destinato ad essere penetrato da Cristo, dalla sua azione liberatrice, dalla sua pienezza ultima, e trovare in lui dignità e consistenza, per virtù della vita vera che comunica il Verbo di vita.

Rimane sempre valido nell’ordine pastorale il principio formulato già da sant’Ireneo: «Ciò che non viene assunto non viene neppure redento». Gesù è la via al Padre, e tutta l’umanità deve passare per la strada della sua carne gloriosa, per essere un unico e cosmico «Amen!» con lui al Padre.

Karl Rahner, nella sua vecchiaia - facendosi carico di certe nuove esigenze molto diffuse - ha detto circa l’annuncio cristologico:

«La chiesa deve mantenere, difendere e proclamare il suo dogma cristologico (e naturalmente lo farà). Tuttavia penso anche che questo annuncio dovrebbe avvenire in modo da giungere più facilmente di quanto non sia oggi. Infatti l’annuncio effettivo ha, non come tesi esplicita ma come “ambiente”, una tonalità di carattere monofisita e questo causa le difficoltà della fede in Gesù Cristo che non dovrebbero esistere».

E aggiunge ancora:

«La mia opinione è questa: che qualora fosse predicata in maniera più viva e naturale la vera semplice autonoma sperimentabile umanità di Cristo, in forza della quale - come professa la chiesa - egli è consostanziale con noi; e qualora nella predicazione non si facesse di Gesù, sia pure non intenzionalmente ma di fatto, un Dio nella livrea di uomo; qualora... si proclamasse con più chiarezza, vivacità e convinzione il dogma di Calcedonia della permanente distinzione di divinità e umanità nella persona concreta di Gesù; qualora.., si presentasse, ad esempio, senza complessi, Gesù come un ebreo del suo tempo, quell’ebreo che egli era: qualora si tenesse in conto più apertamente, almeno entro determinate circostanze, anche di uno sviluppo personale di Gesù nonostante il fatto di trovarsi costantemente in unità col Logos: ecco io penso che allora la proclamazione del dogma permanente della chiesa, per quanto riguarda la cristologia, potrebbe diventare più facile... Forse vi sono teologi che, presi da un grandioso entusiasmo per la loro fede, si sentono superiori a questi problemi; ma io non vorrei far parte di essi, bensì sforzarmi di evitare costantemente, per quanto è possibile, questi malintesi o difficoltà inerenti alle affermazioni di fede, perché la fede cristiana non sia resa per la gente più pesante di quanto necessario, perché questo peso sia il peso della fede e non il peso che, hanno aggiunto alla fede teologi pigri e antiquati». (2)


1) Le propositiones, si trovano pubblicate integralmente in varie riviste. Noi citiamo dalla rivista «Regno-documenti» 32(1987), 21, pp. 700-709. Nello stesso fascicolo si trovano anche altri testi importanti del sinodo dei laici. Una raccolta organica dei documenti SYNODE ÈVÊQUES 1987, Les laïcs dans l’Église et dans le monde. Leur vocation et leur mission ans après Vatican II, Centurion-Cerf, Paris 1987. 2) Regno-documenti 26 (1981), II pp. 364-372.

2) Regno-documenti 26 (1981) II pp. 364-372.

II

Gesù Cristo al Centro

«Non c’è vera evangelizzazione se il Nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio, non sono proclamati. La storia della chiesa, a partire dal discorso di Pietro la mattina della pentecoste, si mescola e si confonde con questo annuncio» (EN, n. 21).

Non c’è dubbio che l’annuncio di Gesù, salvezza dell’uomo e rivelazione suprema di Dio, e la ricerca di forme e vie per vivere esperienzialmente questa verità dominano tutti i secoli della storia della chiesa, anche la storia dell’umanità dei due millenni dell’era cristiana. Oggi si può affermare che non c’è persona nel mondo civile che non abbia qualche nozione o informazione su Gesù di Nazaret, questo personaggio davvero unico nella storia.

Senza Gesù non vi sarebbe il cristianesimo, e senza il cristianesimo l’occidente e il mondo intero mancherebbero di una componente unica della loro storia. Non solo la vita spirituale, ma anche l’arte, la cultura, la stessa vita politica, tutta la tradizione sociale sono state toccate intimamente dal messaggio di Gesù e dalla presenza dei suoi messaggeri con le loro organizzazioni. Basta pensare a ciò che sono state e sono tuttora per l’occidente e per le culture che da esso hanno preso forma, la dialettica stato-chiesa, fede-cultura, religione-umanismi, e la missione universale del cristianesimo. Per non dire dei grandi temi del pensiero e dell’etica: come fede e ragione, libertà e destino, peccato e salvezza, natura e grazia, vita presente e vita futura. Ai quali si deve aggiungere la ricerca sul significato della storia e della vita umana. In occidente e in buona parte del mondo, molto rimanda a Gesù di Nazaret e alla sua chiesa: dall’arte alla letteratura, dalla geografia all’identità nazionale, dalle istituzioni ai linguaggi, dai progetti alle tragedie collettive.

La grandezza dell’uomo Gesù

Da lui l’uomo, in qualunque individuo si voglia esprimere, è stato esaltato ai vertici dei valori. Da lui il singolo è stato abilitato a rivendicare la propria dignità e libertà di coscienza di fronte a ogni genere di potere autocratico e di costrizione sociale. Per questo la persona di Gesù ha sempre goduto di una riverenza incondizionata: e nulla lascia presagire che diminuirà nelle generazioni che ancora verranno.

Gesù è stato oggetto di amore e di venerazione, ma anche di avversione radicale durante la vita come pochi altri uomini; ma nessuno come lui ha contato dopo di sé tanti che l’hanno seguito fino a morire per restargli fedeli.

Studiosi e critici di ogni tendenza hanno tentato negli ultimi due secoli di intaccarne la sincerità e la consistenza, ma la loro ricerca sulla testimonianza, per quanto frammentata. è servita ad illuminare ancor meglio la figura storica di Gesù, che emerge nella sua unicità. Anzi essa appare irriducibile, sotto qualunque aspetto, alle stesse realizzazioni che si appellano a lui. Si potrebbe quasi dire che in verità ogni generazione scopre «tratti ispirativi» nuovi di Gesù, lasciandone altri alle generazioni che verranno.

I suoi rapporti con gli uomini e le donne, con i ricchi e i poveri, con i potenti e con i deboli, con chi soffre e con chi è nella gioia, con chi patisce ingiustizia e con chi invece la compie. sono diventati delle categorie emblematiche universali della perfezione morale stessa.

Soltanto figure come Mosè, Budda, Maometto, Confucio, variamente controllabili dagli storici. possono parzialmente essergli avvicinate. Ma per quanto si sa , nessuno ha osato dire ciò che invece Gesù ha detto con insistenza e sconcertando non pochi: di essere il Figlio di Dio.

Nessuno ha avuto una storia pari alla sua. La sua persona e il suo messaggio hanno influenzato e influenzano le stesse grandi religioni del mondo.

In particolare sono le sue parole che non hanno eguali. Si è potuto affermare che in Gesù la parola ha raggiunto il massimo della sua intensità e capacità espressiva. Si pensi al discorso della montagna o alle parabole del Regno. Forse anche per questo i discepoli l’hanno salutato come il Logos, la parola divina diventata carne per comunicarsi agli uomini.

Ma come tutti sappiamo l’annunzio, la relazione vitale. l’esperienza con Gesù non hanno sempre avuto le medesime tonalità e mediazioni. Ogni epoca ha riascoltato la domanda provocatoria: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15), e vi ha dato risposte sempre nuove, sempre legate alla sensibilità culturale, alle prospettive globali dell’esistenza umana e dell’autocoscienza ecclesiale.

Così è stato durante la storia antica e così si verifica ancora oggi. Infatti anche i nostri ultimi decenni segnano chiaramente una dilatazione delle questioni cristologiche a carattere soprattutto globale: e così nascono le nuove cristologie, di cui parleremo brevemente.

E’ tanto vero questo, che qualcuno ha sollevato con violenza la questione, se negli ultimi secoli non si sia verificata un’apoteosi del cristocentrismo che ha sbilanciato la bipolarità secolare teocentrismo/cristocentrismo. Due teologi francesi, J. Milet e C. Duquoc, hanno richiamato l’attenzione su queste punto, il primo, in verità, in maniera piuttosto polemica.

Due secoli di studio

Per quasi 1700 anni la questione storica della cristologia è stata praticamente pacifica. Ma verso la metà del 1700 la pacifica situazione viene interrotta dalla grande discussione sulla storicità di Gesù. Questa è stata certamente una delle cause della iperconcentrazione della riflessione e delle ricerche su Cristo.

Possiamo riassumere brevemente i motivi della discussione sulla storicità in quattro interrogativi:

- Tutti i fatti straordinari narrati dal Vangelo sono razionalmente possibili?

- In caso di risposta affermativa, è possibile, partendo dai racconti evangelici, considerati storici, giungere ad una ricostruzione della vita di Gesù?

- In caso di risposta negativa, è egualmente ricostruibile, attraverso i racconti che sono stati tramandati, l’immagine storica di Gesù?

- Nel caso in cui Gesù storico non fosse raggiungibile, sarebbe ancora possibile essere cristiani?

Il nocciolo della questione trova la sua origine nell’esigenza di razionalità spinta fino al radicalismo, che fu propria del sec. XVIII, detto secolo dei lumi.

Di fatto tutto il problema è sorto non per l’uso indebito di metodi critici alla Scrittura, ma dal rifiuto di accettare il monopolio assoluto della chiesa nei suoi argomenti culturali. E questo ha portato ad aprire perfino il dossier Scrittura e Gesù Cristo: due settori chiave e assolutizzati ipostaticamente. Così Gesù storico diventa un elemento «sovversivo» rispetto alla figura del Gesù ecclesiale: uno strumento di libertà.

Alcuni nomi vanno ricordati: Herman Samuel Reimarus (+ 1768): il suo principio storico è: solo ciò che è razionalmente accettabile può definirsi storico, il resto è «mito». Per lui Gesù era un israelita intento a suscitare un movimento politico-militare contro i romani oppressori; mentre i suoi seguaci, di fronte al fallimento del Maestro, continuarono la sua memoria in senso religioso, predicando che il suo scopo era stato quello di portare agli uomini la salvezza puramente spirituale.

Altro nome è David Friedrich Strauss (+ 1874): secondo lui fu riversata su Gesù - che in fondo non era che un semplice uomo - la ricchezza immaginativa della lunga attesa messianica presente nel popolo ebraico e ispirata agli attributi che le Scritture davano al Messia. Gli rispose, con argomentazioni cattoliche, Johan Baptist Kuhn mostrando la storicità dei testi.

Altro nome da ricordare è Martin Koehler che suggerì di distinguere nel Gesù dei Vangeli i due aspetti: storico/documentaristico (historisch) e storico/vitalistico (geschichtlich). Il primo riguarda il passato ed è comune a qualsiasi altro personaggio storico; il secondo riguarda il presente come risultato dell’influsso derivato dal passato ed è specifico del nostro tema, come lettura di Cristo nella fede. I due aspetti in fondo sono sempre presenti e non ha alcun senso volerli separare, almeno a livello di esperienza cristiana.

Su queste premesse si introducono poi tutti i grandi esegeti e teologi del nostro secolo, a cominciare da Bultmann, caposcuola di tutta una nuova impostazione del discorso su Gesù: sottolineando soprattutto la linea del Gesù della fede.


Martedì, 09 Gennaio 2007 01:12

L'energia umana (Pierre Teilhard de Chardin)

L'energia umana
di Pierre Teilhard de Chardin



L’energia umana si presenta alla nostra osservazione quale termine di un ampio processo in cui è impegnata la massa totale dell’Universo.

In noi, l’evoluzione del Mondo verso lo spirito si fa coscienza. La nostra perfezione, il nostro interesse, la nostra salvezza elementare possono pertanto consistere solamente in un impegno di portare avanti, con tutte le nostre forze, precisamente questa evoluzione. E’ possibile che non comprendi9amo ancora esattamente dove questa ci porti, ma sarebbe assurdo da parte nostra dubitare che non ci conduca verso una qualche fine di supremo valore.

Di conseguenza, per la prima volta da quando la Vita si è svegliata sulla Terra, emerge finalmente nella nostra coscienza umana del sec. XX, il problema fondamentale dell’azione. Non solo, come una volta, per la nostra piccola individualità, la nostra piccola famiglia, la nostra piccola patria, nemmeno solo per la totalità della Terra, ma per la salvezza e la riuscita dello stesso Universo, come dobbiamo, noi uomini di oggi, organizzare nel miglior modo attorno a noi il mantenimento, la distribuzione e il progresso dell’Energia umana?

Il primo obiettivo che debba focalizzare l’attenzione di un tecnico dell’Energia umana è quello di assicurare ai nuclei umani, considerati isolatamente, il loro grado massimale di consistenza e di “efficienza” elementari. Perfezionare gli individui in modo da conferire all’insieme un sommo grado di potenza, ecco ovviamente la marcia da seguire per il successo finale dell’operazione.

Quale che sia la genericità dei suoi metodi, l’organizzazione dell’Energia umana elementare deve culminare, in ciascun elemento, nella costituzione di un massimo di personalità.

Ma oggi che si realizza, sotto i nostri occhi e nella nostra coscienza, la presa in massa dello strato umano, l’Uomo, anche ipotizzandolo ormai stabilizzato nella sua natura individuale, vede aprirsi davanti ai suoi occhi un campo evolutivo nuovo illimitato: quello delle creazioni, delle associazioni, delle rappresentazioni e delle emozioni collettive. Come assegnare limiti agli effetti di espansione, di penetrazione, di diffusione spirituale risultanti da un’organizzazione coerente della moltitudine umana? E’ bello dominare e disciplinare le potenze dell’etere e del mare. Ma che trionfo è questo paragonato alla padronanza globale del pensiero e dell’amore umano? In verità, mai una opportunità più bella si è presentata alle speranze e agli sforzi della Terra.

Volentieri ci vantiamo di vivere in un secolo di luce e di scienza. Eppure, tutt’al contrario, ci attardiamo ancora in forme rudimentali e infantili di conquista intellettuale. In danaro, in personale, in organizzazione, qual è attualmente la percentuale delle attività terrestri impegnata nell’esplorazione e nella conquista delle zone ancora ignote del mondo?

A tutt’oggi la maggior parte degli uomini capisce la Forza (chiave e simbolo del più-essere) soltanto nella sua forma più primitiva e più brutale: la Guerra.

Ma venga il tempo (e verrà) in cui la massa si renderà conto che i veri successi umani sono quelli riportati sui misteri della Materia e della Vita. Allora suonerà per l’Uomo un’ora decisiva: quella in cui lo Spirito della Scoperta assorbirà la forza viva contenuta nello Spirito della Guerra. Fase capitale della Storia, in cui tutta la potenza delle flotte e delle armate, trasformata, raddoppierà quell’altra potenza che, grazie alla macchina, sarà inoccupata, sicché una marea irresistibile di energia libera salirà verso le zone più progressive della Noosfera. Di questa massa di energia disponibile, una parte importante verrà subito impegnata nell’espansione umana nel mondo materiale. Ma un’altra porzione, quella più preziosa, rifluirà necessariamente sino al livello dell’energia spiritualizzata.

L’energia spiritualizzata è il fior fiore dell’energia cosmica. Rappresenta pertanto la frazione più interessante delle forze umane da organizzare. In quali direzioni principali possiamo ipotizzare che essa cammini e che noi possiamo aiutarla a svilupparsi in seno alle nostre nature individuali? Senz’altro, nel senso di una fioritura decisiva di certe nostre capacità di sempre, assieme all’acquisizione di nuove facoltà o gradi di coscienza.

L’Amore, alla pari del pensiero, è sempre in pieno aumento nella Noosfera. Ogni giorno diventa più flagrante l’eccedenza delle sue crescenti energie sui bisogni sempre minori della propagazione umana. Ciò significa che, nella sua forma pienamente ominizzata, questo Amore tende a svolgere una funzione molto più ampia del semplice richiamo della riproduzione. Verosimilmente, tra l’uomo e la donna, sonnecchia ancora uno specifico e reciproco potere di sensibilizzazione e di fecondazione spirituale che aspira a sprigionarsi in uno slancio irresistibile verso ogni bellezza e ogni verità. Grazie alle illimitate possibilità d’intuizione e di correlazione che reca con sé, oltre un certo grado di sublimazione, l’amore spiritualizzato penetra nell’ignoto.

In tutti i campi, noi cominciamo a vivere abitualmente in presenza e con la preoccupazione del Tutto. Dal punto di vista dell’energia umana, nulla è più capitale dell’apparizione spontanea, ed eventualmente dello sviluppo sistematico, di un siffatto “senso cosmico”. Con esso gli uomini cessano di rappresentare individualità chiuse su di sé, per diventare parti di un Tutto. In essi, pertanto, l’energia spirituale elementare si trova definitivamente pronta ad inserirsi nell’energia totale della Noosfera. Ma non dimenticheremo di porre in luce un punto importante: la perfezione e l’utilità di ogni nucleo di energia umana, rispetto all’insieme, dipendono, in definitiva, da ciò che v’è d’unico e d’incomunicabile nel completamento di ciascuno. Dunque, la cosa che deve preoccupare il tecnico dello Spirito, nel maneggio delle unità umane, è lasciare a queste, nelle trasformazioni che tenta di far loro subire, la possibilità di trovare se stesse e la libertà di differenziarsi sempre di più.

I primi lineamenti di una coscienza comune racchiudono in sé una vivente esigenza di precisarsi e di prolungarsi ulteriormente. Nel campo intellettuale, i progressi della scienza tendono ad edificare una sintesi delle leggi della Materia e della Vita che, in fondo, non è che un atto collettivo di percezione: il mondo visto dalla totalità dell’Umanità in una stessa prospettiva coerente. Nel campo sociale, il mescolamento e la fusione delle razze portano direttamente all’elaborazione di una forma anch’essa comune, non solo di linguaggio ma di moralità e d’ideale.

Considerata nella sua totalità, l’organizzazione dell’energia umana ci orienta e ci sospinge, al di sopra di ogni elemento personale, verso la formazione ultima di un’anima comune.

La convergenza di attività dalla quale nasce l’anima collettiva umana presuppone, come punto di partenza, l’aspirazione comune suscitata da una speranza. Per muovere ed alimentare l’energia umana ci vuole, all’origine, nulla meno dell’attrazione interna verso un oggetto desiderato.

Dato che non vi è né fusione né dissoluzione delle persone elementari, il Centro in cui aspirano a congiungersi deve necessariamente essere distinto da esse, avere cioè la sua propria personalità, la sua realtà autonoma.

Per il suo mantenimento e il suo funzionamento, la Noosfera esige, fisicamente, l’esistenza nell’Universo di un Polo reale di convergenza psichica: Centro differente da tutti gli altri Centri che esso “supercentra” assimilandoli; Persona distinta da tutte le persone che perfeziona unendosele. Il Mondo non funzionerebbe se non esistesse, da qualche parte, oltre noi nel Tempo e nello Spazio, “un punto cosmico” di sintesi totale.

Lo abbiamo testè riconosciuto: con l’Ominizzazione, l’Universo ha raggiunto un livello superiore in cui le sue forze fisicomorali assumono via via la figura di un’affinità fondamentale correlante gli individui fra di loro e al Centro trascendente. In noi e attorno a noi, gli elementi del Mondo senza posa si personalizzano sempre di più, per accessione a un Termine, anch’esso personale, di unificazione: sicché, da quel Termine di confluenza ultima s’irradia, e verso di Lui rifluisce, in definitiva, l’energia essenziale del Mondo, quella che, dopo aver agitato confusamente la massa cosmica, ne emerge per formare la Noosfera.

Quale nome dobbiamo dare a tale sorta d’influsso? Uno solo, l’Amore: forma superiore e principio totalizzatore dell’Energia umana.

Rappresentiamoci un uomo diventato consapevole delle sue relazioni personali con una Persona suprema, alla quale egli è portato ad aggregarsi attraverso l’intero gioco delle attività cosmiche. In un tale soggetto, e a partire da lui, ecco abbozzarsi un processo di unificazione segnato dalle seguenti tappe:

  • totalizzazione di ogni operazione sul piano individuale;
  • totalizzazione dell’individuo rispetto a se stesso;
  • totalizzazione, infine, degli individui nella collettività umana.

Tutto questo “impossibile” si realizza sotto l’influsso dell’Amore. Omega, Colui verso cui tutto converge, è reciprocamente Colui dal quale tutto s’irradia. Non si può situare quale focolaio al vertice dell’Universo senza diffondere, ipso facto, la sua presenza fin nell’intimo del minimo progresso compiuto dall’Evoluzione. Ciò significa che, per colui che ha visto questo, ogni cosa, per quanto umile sia, purché venga situata nella linea del progresso, si scalda s’illumina, si anima e diventa pertanto un oggetto di adesione totale.

Che sotto l’influsso animatore di Omega ogni nostro gesto particolare possa diventare totale, e già una meravigliosa utilizzazione dell’energia umana. Ma ecco che, appena avviata, questa prima trasfigurazione delle nostre attività tende a prolungarsi in un’altra metamorfosi ancor più profonda. Per lo stesso fatto di diventare totali, ciascuna per conto suo, le nostro operazioni sono logicamente portate a totalizzarsi, raccolte tutte quante in un atto unico.

E’ una vera sintesi che l’amore di Omega opera sul fascio raggruppato delle nostre facoltà.

Nel corso superficiale delle nostre esistenze, vedere o pensare, capire o amare, dare o ricevere, crescere o diminuire, vivere o morire, sono cose diverse. Ma cosa diventeranno tutte quelle contrapposizioni non appena, in Omega, la loro diversità si rivelerà quale le modalità infinitamente varie di uno stesso contatto universale? Senza che le loro radici svaniscano affatto, tenderanno a combinarsi in una risultante comune, in cui la loro pluralità, sempre riconoscibile, esploderà in una ineffabile ricchezza. Perché meravigliarci? Non conosciamo, forse, a un minor grado di intensità, un fenomeno analogo nella nostra esperienza? Quando un uomo ama nobilmente una donna, con questa passione vigorosa che esalta l’essere al di sopra di se stesso, la vita di questo uomo, la sua capacità di creare e di sentire, l’intero suo universo, si ritrovano distintamente contenuti e ad un tempo sublimati nell’amore per questa donna. Eppure la donna, per quanto sia necessaria all’uomo per rispecchiargli, rivelargli, comunicargli e “personalizzargli” il Mondo, non è ancora il Centro del Mondo. Se dunque l’amore di un elemento per un altro elemento è potente sino al punto di fondere (senza confonderla) in una impressione unica la moltitudine delle nostre percezioni e delle nostre emozioni, chi sa cosa sarà la vibrazione intima dei nostri esseri nel loro incontro con Omega!

Quando, progredendo nei nostri cuori l’amore del Tutto, sentiremo allargarsi, al di sopra della divergenza dei nostri sforzi e dei nostri desideri, l’esuberante semplicità di uno slancio nel quale si mescolano e si esaltano, senza perdersi, le innumerevoli sfumature della passione e dell’azione, allora, in seno alla massa costituita dall’Energia umana, saremo vicini, ciascuno alla pienezza della nostra efficienza e della nostra personalità.

Totalizzare senza spersonalizzare. Salvare al tempo stesso l’insieme e gli elementi. Tutti sono d’accordo su questo doppio fine da raggiungere. Ma come i raggruppamenti sociali di oggi situano i valori che essi sono teoricamente concordi nel voler preservare? Sempre considerando la persona come un elemento secondario o transitorio, e ponendo in testa ai programmi il primato della pura totalità. In tutti i sistemi di organizzazione sociale che si affrontano sotto i nostri occhi, va sottinteso che lo stato finale al quale tende la Noosfera è un corpo senz’anima individualizzata, un organismo senza volto, un’Umanità diffusa, un Impersonale.

Ora, questo punto di partenza, una volta accettato, vizia l’intero svolgimento successivo dell’operazione sino a renderla impraticabile. Se l’universo tende finalmente a diventare un qualcosa, come potrebbe mai riservare in sé un posto per un Qualcuno? Se si premette che il vertice dell’Evoluzione umana sia di natura impersonale, gli elementi che lo accettano vedranno inevitabilmente, a dispetto di ogni sforzo contrario, diminuire la loro personalità sotto il suo influsso. Ed è proprio quanto accade. I servi del progresso materiale o delle entità hanno un bel da darsi da fare per emergere nella libertà, sono fatalmente aspirati e assimilati dai determinismi che costruiscono. Sono meccanizzati dai loro propri meccanismi. Allora, per padroneggiare i meccanismi dell’energia umana, resta solo l’uso della forza brutale, forza che, molto logicamente, vorrebbero di nuovo, oggi, farci adorare.

Al di sopra di noi, non già la forza ma l’Amore, e quindi, per incominciare, l’esistenza riconosciuta da un Trascendente che renda possibile un Amore universale.

Cosa accadrebbe il giorno in cui, anziché un’umanità impersonale presentata dalle dottrine sociali moderne alle ambizioni dell’impegno umano, noi riconoscessimo la presenza di un Centro cosciente di convergenza totale? Allora, le individualità coinvolte nella corrente irresistibile della totalizzazione umana si sentirebbero rafforzate dallo stesso moto che le avvicina. Quanto più si raggrupperebbero sotto un Personale, tanto più accrescerebbero la loro stessa personalità. E ciò avrebbe senza sforzo, in base alle proprietà dell’Amore.

Immaginiamo una Terra in cui gli uomini fossero innanzitutto interessati alla realizzazione del loro accesso globale a un Essere appassionatamente desiderato e al quale ognuno riconoscesse, in ciò che vi è di più incomunicabile nel suo prossimo, una vivente partecipazione. In un siffatto mondo, diventerebbe inutile la coercizione per mantenere gli individui nell’ordine più favorevole all’azione, - per orientarli in una libera concorrenza verso le combinazioni migliori, - per far loro accettare le restrizioni ed i sacrifici imposti da una certa selezione umana, - per deciderli, infine, a non sperperare la loro capacità di amare, ma a sublimarla gelosamente in vista della unione finale.

Siamo giunti a un punto decisivo dell’evoluzione umana, in cui l’unica via di uscita si trova nella direzione di una comune passione.

Continuare a porre le nostre speranze in un ordine sociale ottenuto con la violenza equivarrebbe semplicemente per noi ad abbandonare ogni probabilità di portare a compimento lo Spirito della Terra. Ora, espressione di un moto irresistibile ed infallibile come lo stesso Universo, l’energia umana non potrebbe affatto essere ostacolata nel raggiungimento libero del termine naturale della sua evoluzione.

Dunque, a dispetto di ogni inverosimiglianza, ci avviciniamo necessariamente a un’età nuova in cui il mondo rigetterà le sue catene per abbandonarsi al potere delle sue affinità interne.

Dobbiamo credere, sconfinatamene, alla possibilità e alle necessarie conseguenze di un amore universale.

A partire dal Cristo,la teoria e la pratica dell’Amore totale non hanno mai cessato di precisarsi, di trasmettersi e di propagarsi: dimodochè, per effetto dei due millenni di esperienza mistica che ci sorreggono, il contatto che potevamo prendere con il Focolaio personale dell’Universo ha guadagnato in ricchezza esplicita proprio quanto quello che, dopo due millenni di ricerca scientifica, possiamo prendere con le sfere naturali del Mondo. Considerato quale un “phylum” di amore, il cristianesimo è così vivente che, in questo stesso momento, possiamo osservare come, elevandosi ad una coscienza più ferma del suo valore, subisce una straordinaria ascesa.

Un’ulteriore, ultima metamorfosi non sarebbe per caso in corso? La presa di coscienza di Dio nel cuore della Noosfera, il passaggio dei cerchi al loro Centro comune, l’apparizione della Noosfera?

Pechino, 1937

N.B. Questo testo si trova in: L’Energie humaine, Oeuvres vol. 6, Parigi Seuil 1962, pp. 141-200 passim. Tr. it. L’energia umana. Tra scienza e fede, Nuova Pratiche Editrice, Milano 1997.

Martedì, 09 Gennaio 2007 00:44

Il III secolo (Lorenzo Dattrino)

Il III secolodi Lorenzo Dattrino


Mentre in Oriente fiorivano Clemente e Origene, ormai aperti agli influssi dell’ellenismo, in Occidente gli uomini di chiesa, fatte poche eccezioni, sembravano estranei a ogni impegno inteso a conciliare fede cristiana e dottrina greca. Ma c’era di più. Anziché spingersi nei campi rischiosi delle ricerche dottrinalmente ardite per tentare di spiegare i misteri divini, gli occidentali preferivano rimanere docilmente sicuri nell’accettazione delle norme tradizionali dell loro fede. Se poi si vuole penetrare maggiormente in questa divisione, tendente a sottolineare la diversa mentalità tradizionale e dottrinale dell’Oriente e dell’Occidente, emergerà chiaramente l’impossibilità, per gli occidentali, di distinguere, tra i fedeli, le due categorie dei semplici credenti e dei «perfetti»: i primi considerati e, per così dire, catalogati in un grado inferiore, perché cresciuti nella pura accettazione delle verità rivelate, i secondi invece ritenuti ormai elevati in un grado superiore per aver raggiunto la vera «gnosi», il privilegio di una scienza ben più profonda dei misteri divini.

Uno dei fattori più decisivi, atti a spiegare il ritardo di una letteratura tutta propria dell’Occidente, va cercato nel dominio incontrastato esercitato dalla persistenza, anche in Occidente, della lingua greca, particolarmente come lingua di cultura. E questo avvenne certo in campo profano; si pensi che lo stesso Marco Aurelio scrisse in greco i suoi Ricordi, e siamo già negli anni tra i 161 e il 180, ma avvenne anche in campo cristiano. Le opere letterarie scritte in Roma e nell’Occidente fino alla fine del Il secolo furono scritte in lingua greca: così la Lettera di Clemente ai Corinti, il Pastore d’Erma, gli scritti di Giustino e di Ireneo. Il bisogno d’una letteratura in lingua latina cominciò a farsi sentire quando, nell’accresciuto numero dei credenti in Cristo, reclutati anche fuori dell’ambiente giudaico da tutti i ceti sociali, erano ormai troppo numerosi coloro per i quali non era familiare la lingua greca. (1)

Nota

1) Cf. M. Pellegrino, Letteratura latina cristiana, Roma 1985.

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