La Chiesa ortodossa russa e la sfida missionaria
Fedeli alla tradizione, audaci verso il mondo
di Adalberto Mainardi *
Dopo l’esperienza tragica dell’ateismo di Stato, nuove opportunità si aprono per l’annuncio del Vangelo. Ma come testimoniare la comune passione per Cristo senza tradire il cammino verso l’unità?
«La fonte del Vangelo si è gonfiata d’acqua e ha ricoperto la terra, dilagando fino a noi»: all’alba della storia della Rus’ cristiana, Ilarion di Kiev (XI secolo) guarda con stupore alla corsa del Vangelo che giunge al popolo dei «russi», e vede già aprirsi gli «ultimi tempi».
Mille anni dopo, la Federazione russa è la più estesa formazione geopolitica del globo terracqueo, e con i suoi 143 milioni di abitanti forma un composito mosaico di etnie, credi e religioni; dopo la drammatica esperienza dell’ateismo di Stato, la Chiesa ortodossa russa è tornata a essere un punto di riferimento per la ricostruzione morale del Paese. Quali sono oggi le sfide per la Chiesa russa? Quale il linguaggio per annunciare il Vangelo in una società ancora segnata da una transizione incerta, da nuovi conflitti tra culture e religioni? E soprattutto, come le Chiese possono vivere questo annuncio senza contraddire il cammino comune verso l’unità?
Sono tutte domande a cui si è cercata una risposta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (14-20 settembre 2006), organizzato dal Monastero di Bose con il Patriarcato di Costantinopoli, il Patriarcato di Mosca e la partecipazione di autorevoli rappresentanti delle diverse Chiese ortodosse, della Riforma e della Chiesa cattolica. La seconda sessione del Convegno era infatti dedicata alle «Missioni della Chiesa ortodossa russa» negli immensi spazi del Nord e della Siberia, fino alla Cina, al Giappone e all’Alaska. Quello che sembrava un cristianesimo perfettamente inculturato, ma anche chiuso nella sua forma bizantino-slava, si è rivelato capace di un’esperienza attualissima di ascolto della ricerca di Dio che abita ogni uomo e ogni cultura. «Fino a poco tempo fa», osservava Alexander Schmemann, il grande teologo russo emigrato negli Stati Uniti, «in Occidente era opinione diffusa che il movimento missionario fosse passato a fianco del cristianesimo “statico” dell’Est senza esercitare alcun influsso». Un pregiudizio che il convegno di Bose aiuta a superare.
È in epoca moderna che le esplorazioni nel lontano Oriente mettono a contatto la Russia ortodossa con le popolazioni nomadi dell’Asia centrale, della Siberia, fino agli indigeni della Kamcatka (korjaki, itelmeni, cutkci), dell’Alaska. Se l’equazione tra Stato russo e ortodossia (un’ortodossia che Pietro il Grande aveva completamente asservito allo Stato) trasforma spesso la missione cristiana in uno strumento al servizio della colonizzazione, la storia dei santi missionari russi offre un modello alternativo di incontro tra popoli e culture.
L’archimandrita Spiridone, missionario in Siberia all’inizio del Novecento, avvertiva acutamente l’inconciliabilità tra l’annuncio del Vangelo ai poveri e una predicazione che spesso finiva per essere un momento della russificazione. Nel suo diario annotava la risposta di un Lama: «Se i cristiani credessero e vivessero così come il Cristo ha insegnato, non sarebbe più necessario che predicassero, perché la realtà è più forte delle parole». È inevitabile che gli evangelizzatori siano anche portatori di una determinata cultura; ma l’Evangelo - che è Gesù Cristo - trascende ogni inculturazione, rimane un’istanza di purificazione e rinnovamento in ogni cultura, la apre all’incontro con l’altro.
È proprio questa trascendenza del Vangelo, questa rinnovata apertura delle tradizioni alla novità dell’annuncio cristiano, che ritroviamo nell’esperienza missionaria dei monaci, i primi evangelizzatori delle terre russe: nel XIV secolo Stefano di Perm’ inventa un alfabeto, traduce la Bibbia e la liturgia per le popolazioni zyriane del Nord; tra XVIII e XIX secolo, l’eremita German incarna l’ideale di Cristo tra gli indiani aleuti dell’Alaska; l’archimandrita Makarij (Glucharev) traduce la Bibbia in lingua altaica per le tribù dell’Altaj e contemporaneamente (per la prima volta!) in russo… Il metropolita Innokentij Veniaminov traduce il Padre nostro per gli indiani di Unalaska chiedendo «il nostro pesce quotidiano». Senza utilizzare il termine, i santi missionari russi praticano un’inculturazione del Vangelo capace di diventare dialogo tra le culture, seme di una nuova creazione.
Ma qual è il valore per l’oggi di questa esperienza? Per la Chiesa ortodossa russa la risposta a questo interrogativo sta nella difficile ricerca di un equilibrio tra fedeltà alla tradizione e audacia evangelica di fronte alle nuove sfide.
In una società civile ideologicamente disorientata, disillusa dall’Occidente e a volte attratta dal ritorno del mito autoritario, l’ortodossia rappresenta in Russia un ideale positivo per la ricostruzione di un’identità nazionale e culturale. Se tuttavia la percentuale di quanti si dichiarano ortodossi tocca il 70-80 per cento, analisi sociologiche più dettagliate mostrano che solo il 10 per cento crede alla resurrezione dei morti, e un numero ancora inferiore frequenta regolarmente la chiesa (2 per cento).
Secondo l’arcivescovo Ioann, presidente del Dipartimento missionario del Patriarcato di Mosca e presente al convegno di Bose, uno dei compiti primari della missione è non solo «il lavoro missionario con coloro che cercano Dio, ma anche con coloro che, pur essendo già battezzati, non hanno ricevuto un adeguato insegnamento sui fondamenti della fede e della vita cristiana». Nel mondo contemporaneo, ha proseguito l’arcivescovo, «dove i processi di globalizzazione, la frammentazione sociale, le turbolente migrazioni di massa sono accompagnati dalla pressione della violenza, dell’estremismo e delle tensioni etniche e confessionali, la testimonianza e l’annuncio della riconciliazione è divenuto uno dei fondamenti cruciali della missione ortodossa». È perciò essenziale saper attingere dal Vangelo la creatività necessaria a una nuova inculturazione.
In questo senso è sintomatico che l’identificazione tra ciò che è russo e ciò che è ortodosso, oggi volentieri propagandata dai mass media in Russia, provoca simmetricamente il rigetto dell’ortodossia nelle popolazioni non russe delle Repubbliche centroasiatiche o siberiane, che dopo l’ateismo sovietico ritornano al paganesimo (o all’islam) quale elemento fondante della cultura autoctona.
Questo quadro aiuta anche a comprendere meglio le tensioni sorte tra Chiesa ortodossa russa e Chiesa cattolica sul tema dell’evangelizzazione. La graduale ripresa dell’attività pastorale della Chiesa cattolica in Russia negli anni Novanta ha infatti coinciso paradossalmente con un raffreddamento delle relazioni con la Chiesa ortodossa. Il Patriarcato di Mosca in più occasioni si è ufficialmente lamentato che gruppi cattolici, nel contesto di un rinnovato impegno nell’evangelizzazione, agissero in modo poco rispettoso verso la millenaria tradizione ortodossa russa, fino a forme di proselitismo che contraddicevano l’ecclesiologia di «Chiese sorelle» proclamata dal Concilio Vaticano II. Il Patriarcato si è sovente richiamato alle direttive della commissione pontificia Pro Russia (1992), che chiede ai cattolici «una reale sollecitudine verso i loro fratelli ortodossi» per «preparare con loro l’unità voluta da Cristo». Concretamente, questa sollecitudine avrebbe dovuto tradursi in un costante coordinamento di ogni iniziativa caritativa e missionaria con i vescovi ortodossi locali. «L’attività della Chiesa cattolica in territori profondamente segnati dalla presenza della tradizione ortodossa» deve infatti esercitarsi «secondo modalità sostanzialmente diverse da quelle della missione ad gentes».
Occorre inoltre tener presente il fenomeno delle sètte straniere (Moon, Aum Shinri-kyo, Sri Chinmoy, Scientology e altre ancora), presenti in modo massiccio in Russia dai primi anni Novanta. Questa situazione fluida e spesso confusa ha condotto nel 1997 - per la pressione di nazionalisti e comunisti - a una nuova legge «sulla libertà di coscienza», che di fatto impedisce l’attività missionaria degli stranieri e priva di riconoscimento giuridico le associazioni religiose esistenti da meno di quindici anni. Se le conseguenze più restrittive della legge, spesso in contrasto con la Costituzione, sarebbero state sostanzialmente ridimensionate dai decreti attuativi, l’idea stessa di una «testimonianza comune» dei cristiani era però compromessa. Presso gli ortodossi riprendevano forza gli antichi pregiudizi anticattolici, mentre autorevoli esponenti della Chiesa cattolica ritenevano del tutto incompatibili evangelizzazione ed ecumenismo.
Le relazioni tra le due Chiese si sono ulteriormente raffreddate quando Giovanni Paolo II, nel gennaio 2002, ha eretto in diocesi le Amministrazioni apostoliche nella Federazione russa, con sede a Mosca, Saratov, Novosibirsk e Irkutsk, in un contesto ecumenico deteriorato dalle irrisolte tensioni tra greco-cattolici e ortodossi in Ucraina. Nel 2004, dopo la visita del cardinal Walter Kasper al patriarca di Mosca Alessio II, è stata istituita una commissione mista cattolico-ortodossa per valutare i singoli episodi che potessero essere interpretati come proselitismo di una Chiesa nei confronti dell’altra.
Non sembrano esserci soluzioni immediate o a basso prezzo a questa dolorosa incomprensione. L’unica via per un rinnovato incontro nella carità e nella verità è quella di una comune conversione al Vangelo. Solo allora sarà possibile anche una missione non soltanto spoglia di ogni spirito di proselitismo, ma anche di quella competizione che non è evangelica, perché umilia e non riconosce la qualità ecclesiale di una Chiesa sorella.
«Oggi ci troviamo a uno spartiacque, all’inizio di una nuova epoca», ha detto a Bose padre Georgij Kocetkov, rettore dell’Istituto ortodosso cristiano San Filaret di Mosca: occorre «saper rinnovare ogni cosa, lasciare che il Signore faccia ogni cosa nuova (Ap 21,5)». Proprio in questo senso il metropolita Anthony (Bloom), recentemente scomparso, parlava di missione: «Dobbiamo riscoprire il nostro essere missione in modo nuovo: non dobbiamo metterci nella condizione di insegnare agli altri uomini, ma noi stessi dobbiamo diventare altri, diventare uomini nuovi. Così che la gente, guardando a noi, cominci a interrogarsi, a chiederci conto della speranza che vede in noi». Se i cristiani cominceranno a mettere in pratica il Vangelo gli uni verso gli altri - prima di ogni antagonismo reciproco - il Vangelo stesso susciterà la novità capace di attrarre ogni uomo, ogni cultura.
* monaco di Bose
(da Mondo e Missione, Gennaio 2007)