Prima di tutto vorrei condividere con voi un episodio del mio passato, vissuto nella Chiesa Ortodossa Russa, della quale faccio parte come presbitero. Dico subito: davanti alla sfida della pace penso che questa Chiesa si trova attualmente in una grave crisi spirituale. Come dice il Salmo: “di pace essi parlano ai loro vicini, mentre malizia c’è nel loro cuore” (28,3). Adesso non parlano nemmeno. La Teologia della pace esiste ancora, ma la pace non c’è. Per cominciare propongo la mia testimonianza.
Quando ero giovane, la parola “pace” faceva parte del discorso indispensabile della Chiesa ortodossa Russa, nella quale sono stato battezzato nel lontano 1971. Questa Chiesa mi ha spalancato le porte della fede cristiana. Ho avuto la sfortuna di venire in un mondo che era costretto, la mia famiglia inclusa, quasi condannato, all’ateismo di Stato, ma io ho avuto anche la fortuna di trovare la fede nell’età adulta, con una scelta cosciente. Poi ho riflettuto tutta la vita su questa svolta, chiedendomi : perché il Signore mi ha mandato un invito improvviso a questo banchetto? E sono diventato sacerdote proprio per non lasciarlo mai più.
La Chiesa ortodossa nell’Unione Sovietica, come tutti sanno, esisteva su di un territorio ideologico dove era incluso tutto ciò che esisteva e dal quale nessuno poteva uscire. Se tu occupaviun posto più che modesto nella gerarchia sociale, potevi almeno tacere. La Chiesa, come ogni struttura religiosa giuridicamente legale, era sempre sospettata e non aveva questo diritto. In quel tempo, parlo degli anni brezneviani, la memoria delle persecuzioni subite, sanguinarie sotto Stalin, oppure senza effusione di sangue, ma con la chiusura massiccia dei luoghi di culto sotto Kruscev, era ancora molto viva e dolorosa nella Chiesa. Dagli anni venti del secolo scorso il suo organismo ha imparato la scienza dell’adattamento, del conformismo, senza frontiere. Peggio ancora: la Chiesa si è inserita con comodità in questa posizione declassata e degradata. L’ha anche amata, in un certo senso, perché il conformismo era pieno di privilegi per le persone importanti, per i vescovi, i metropoliti. Uno dei privilegi era il permesso di uscire dal mondo ermeticamente chiuso, invalicabile per i cittadini semplici, ed andare all’estero, in Occidente in primo luogo. Certo, non per turismo personale, ma per parteciparealle varie conferenze teologiche con i colleghi occidentali. Per fare la teologia della pace prima di tutto.
Cosa dicevano questi teologi alle conferenze internazionali? Oltreai problemi degli addetti ai lavori, due motivi emergevano ed erano sempre presenti negli incontri all’estero e che andavano benissimo anche insieme ai discorsi più sublimi. Il primo: nell’Unione Sovietica non c’erano mai e non potevano neanche esserci una qualche persecuzione della fede cristiana (o di un’altra religione) per mano del regime poiché la sua Costituzione garantiva la libertà di coscienza per tutti i suoi cittadini. Qualunque chiacchiera su questo argomento non era altro che propaganda antisovietica e non poteva nemmeno essere discusso. Un altro motivo, più permanente ed insistente,durante i colloqui di quel tenore, era la lotta per la pace. Se con i diritti dei credenti non tutto era chiaro per gli interlocutori occidentali, con la lotta per la pace le cose procedevano più liscie e nel reciproco compiacimento.
Ma la lotta con chi? I due mondi usavano un linguaggio quasi comune e tuttavia con un messaggio diverso. “Siete per la pace in tutto il mondo?” - chiedevano gli inviati sovietici agli interlocutori occidentali. “Certo!”. “Siete contro la bomba atomica?”- “Come tutto il mondo”. “Siete contro l’imperialismo occidentale e soprattutto americano?”. “Senza dubbio”. “Siete contro i vostri governi venali al soldo del padrone d’oltreoceano?” “In gran parte sì, siamo decisamente contro”... e così via. Questo era il piatto principale, tutto il resto era, direi, il contorno. Una piena compressione reciproca si stabilisce tra due teologie della pace quando ambedue manifestano una nobile volontà per il trionfo del bene sul male dappertutto. Era assolutamente inopportuno e maleducato parlare in questo contesto dei diritti dei credenti in Oriente e della libertà di coscienza, oppure menzionare l’invasione di un altro paese, come la Cecoslovacchia o l’Afghanistan. Sotto questi discorsi patetici, molto simili ai discorsi cristiani, nella parte ortodossa si poteva leggere il programma chiaramente politico di uno Stato apertamente anticristiano. Le parole, però, spesso coincidevano e sembravano quasi identiche. Lo slogan della pace, anche se solo slogan, era più importante della realtà – assai poco pacifista. Pochi, anzi pochissimi, potevano indovinare che tutte queste belle parole facevano parte di un compito speciale, dato a ciascuno dei partecipanti, i quali dopo ogni riunione avrebbero dovuto scrivere un rapporto segreto alla polizia che aveva dato il permesso di partecipare a questi colloqui, con il resoconto di ogni cosa, inclusi i contatti privati, soprattutto quelli avvenuti fuori aula.
In Russia queste cose non facevano un gran mistero. Tutto ciò che all’interno e fuori del Paese si chiamava “lotta per la pace” ha avuto per noi un suo prezzo, per dire la verità, a buon mercato. Bisogna aggiungere che all’epoca la lotta per la pace andava avanti anche con lo stesso ecumenismo ortodosso. Ma appena è arrivata la libertà, i vecchi amici ecumenici sono rimasti perplessi: perché dopo il crollo del regime è quasi crollato anche l’ecumenismo? Semplice: perché un’attività del genere non era più obbligatoria, la scena internazionale era cambiata. In quel momento la stessa parola “pace”, abusata e compromessa, si è svuotata di qualsiasi contenuto specifico, al pari di un vecchio dettaglio del discorso ideologico. La Chiesa Russa non è più minacciata e non ha più bisogno di giustificare la propria esistenza all’interno di uno Stato che era, confessionalmente e aggressivamente, ateo. Invece il discorso sulle persecuzioni, proibitissimo qualche anno fa, dagli anni ‘90 in poi è diventato non soltanto lecito, ma quasi ufficiale. La parola “pace” piano piano è sparita dallo spazio pubblico. Poi, trent’anni dopo, un’altra svolta inaspettata: lo Stato, più che ortodosso e diventato autoritario, dichiara l’Operazione Speciale contro l’Ucraina. E la parola “pace” ha cambiato rotta. Proprio nel senso orwelliano: la “pace” ormai significa guerra. Ma come? In che modo la lotta per la pace si è trasformata nella benedizione del massacro?
Non si può spiegare tutto solo con l’ubbidienza cieca allo Stato. Questa Operazione Speciale che sostituisce la parola guerra ha una sua dimensione non soltanto ideologica, ma anche psicologica, perfino spirituale. Naturalmente, la Chiesa Russa non dice apertamente: “andate tutti alla guerra, uccidere è una gioia per il cristiano”. Ella chiama il suo gregge alla difesa della patria. Difesa contro chi? Qui troviamo il momento più drammatico, emozionante: l’invenzione del nemico. Il nemico dello Stato nella guerra con l’Ucraina coincide, nel nostro caso, con il nemico ecclesiale. Chi è questo nemico? È lo stesso, il nemico da secoli, raramente anche amico, cioè l’Occidente collettivo – ma con qualche sfumatura in più. Nel caso politico tutto è semplice: l’Occidente è l’aggressore, colui che fa la guerra contro la Russia sulla terra ucraina. Tutto qui. Ma nella prospettiva ecclesiale questa battaglia si riveste dei vestiti teologici, come il sacro dovere della difesa della patria contro l’invasione straniera. La guerra, parola non pronunciabile, è ormai sacra perché l’invasore possiede i tratti apocalittici dell’Anticristo. Anzi, infernali come Satana. Satana: proprio questa parola gira negli ambienti ecclesiali ed esce dalla bocca dello stesso patriarca.
Non cerchiamo le tracce del senso comune in questa posizione, sia politica, sia teologica; di solito l’ideologia prevale sul sano ragionamento. Ma dal punto di vista ecclesiale con quali “versetti satanici” l’Occidente conduce la guerra contro la Russia? Prima di tutto, si tratta della caduta morale: l’Occidente è accusato della corruzione totale: come modo di vivere, dell’omosessualità onnipresente, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, delle lezioni di educazione sessuale cominciando dalla più tenera età, e così via. Di più. L’Occidente che ha tradito se stesso vuole imporre la sua corruzione anche a noi, puliti e sani, aspira a rubare l’Ucraina dalla sua salute morale. Non è tanto chiaro come queste accuse possano giustificare le bombe che cadano sulla gente pacifica che non è omosessuale, bambini inclusi, ma à la guerre come à la guerre, nella lotta totale contro l’Occidente le vittime non si contano e non hanno i tratti individuali. L’invenzione di qualsiasi nemico va sempre insieme all’invenzione della sua controparte, alla personificazione del bene, anche inventato, nell’incarnazione della patria stessa. Oggi questo bene s’incarna nel “mondo russo”, nel cosiddetto “russkij mir”.
Il “mondo russo” è progettato come il simbolo, la bandiera, la fortezza della moralità, cominciando dall’opposizione della sessualità sana a quella perversa. Da testimone di due mondi, russo e occidentale, potrei affermare che in questo campo non ci sia una grande differenza. Nell’orrore della guerra i soldati occupanti stuprano anche le bambine. Lo slogan “il mondo russo” serve per l’orgoglio nazionale, ma soprattutto per la ricerca della propria identità. Dal punto di vista ecclesiale, espresso da tanti teologi della Chiesa ortodossa, ma al di fuori della Russia, il concetto stesso di “mondo russo” introdotto nel vocabolario spirituale della Chiesa rappresenta una pura eresia. Ma questa eresia non è da ieri. Come non è da ieri è la confusione degli interessi dello Stato con la vita propria della Chiesa. Questo tipo di confusione esiste da tanto tempo; nel 1872 il concilio locale di Costantinopoli ha condannato la confusione di questo genere con il nome di etnofiletismo. La condanna è ancora valida, ma essa, come la libertà di coscienza garantita nella Costituzione, serve piuttosto da decorazione; quasi tutte le Chiese ortodosse sono alquanto ripiegate su se stesse. Tra le innumerevoli ricchezze e virtù della Chiesa ortodossa l’universalismo del messaggio cristiano non occupa il primo posto. La psicosi militarista dopo aver infettato il “russkij mir”, ha rubato i cervelli, danneggiando la fede stessa. Coinvolge la gente semplice nella follia della guerra non soltanto socialmente, ma anche spiritualmente.
Mi ricordo un’immagine quasi commovente che ho trovato sulla pagina FB di un sacerdote ortodosso italiano: una pia vecchietta al momento del voto per lo zar-presidente fa il segno della croce benedicendo l’urna elettorale. Credo che l’autore della fotografia non abbia sospettato che in questo modo lui ci offre un ritratto perfetto della dittatura. Non quella di una tirannia primitiva e violenta, ma quella della padronanza vera e onnipresente che agisce nelle anime. Sotto l’apparenza di una “sancta simplicitas” il televisore-Putin, insieme a tutti i mezzi della comunicazione dei quali egli ha il controllo totale, con le mani del manipolatore-mafioso-Putin vota per il dittatore-Putin. Non a caso il sistema totalitario preferisce chiamarsi democrazia popolare, perché il capo (oppure il partito) unico e il suo popolo fanno in questo tipo di democrazia la stessa cosa. Almeno nel mondo virtuale. Nel mondo reale il padrone non chiede a nessuno il permesso di gettare il proprio popolo nelle fiamme della guerra, ma la guerra si fa sempre nel nome del valore supremo, con un coinvolgimento della sua popolazione non solo sul piano politico (dove la gente non è mai ammessa), ma su quello prima di tutto verbale, dottrinale, appassionato e anche religioso. Proprio l’omogeneità ideologica della società costituisce il nucleo del regime totalitario, sia sovietico, sia attuale, basato sull’identità comune dell’Uno e degli altri. Il “russkij mir” produce oggi questa identità comune.Chi non vuole iscriversi in questa personalità collettiva va defenestrato, emarginato, esiliato, eliminato in un modo o nell’altro.
I giornali parlano della guerra di Putin, è vero o no? Direi, sì e no nello stesso tempo. Certo, solo lui, capo delle forze armate, ha potuto dare l’ordine per iniziare l’Operazione militare speciale che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto essere breve e trionfante. Tre giorni per prendere Kiev. Tre settimane per schiacciare tutta l’Ucraina. Poi fare il bagno nell’osanna della Russia-vincitrice, come fu dopo la presa della Crimea, e l’umiliazione dell’Occidente che si morderà le mani nel suo rancore impotente. Dopo il restauro graduale dell’impero russo, detto storico, di cui l’Unione Sovietica era solo una tappa provvisoria. Moldova, Georgia, preparatevi! Paesi Baltici, perché no? Se l’Occidente lascia l’Ucraina, lascerà anche la Finlandia che fino al 1918 faceva parte dell’impero russo. L’Europa avrà paura di opporsi alla superpotenza nucleare. Tutti si ricordano la dichiarazione di Putin che la caduta dell’URSS rappresenta la tragedia più grande del XX secolo. Non la Seconda guerra Mondiale con l’Olocausto, non il Gulag. Chi riesce a capovolgere questa tragedia riceverà il gran premio dalla storia.
L’operazione, però, non è andata secondo i progetti iniziali. Essa non è diventata la guerra-lampo, ma un fango di sangue in cui si è trovato tutto il paese. Non soltanto militarmente, ma soprattutto ideologicamente. Nella Federazione Russa attuale non c’è più un’ideologia di Stato di tipo classico (proibita tra l’altro anche dalla Costituzione, ancora eltsiniana) ma c’è un’ideologia in atto, il cui pilastro più importante è la vittoria nel passato. La vittoria sovietica nella Guerra patriotica è festeggiata il 9 maggio ogni anno con una solennità liturgica crescente mentre la partecipazione degli Alleati è sempre più oscurata. Questa festa non fa più accenno alle vittime incalcolabili (nessuno sa la cifra esatta, ma non meno di 30 milioni), ma si basa sempre sulla gloria, sull’eterna invincibilità della Russia. Proprio la vittoria del 1945 è ormai la parte principale di una religione di Stato; tanti bambini nell’età della scuola materna portano con orgoglio l’uniforme militare, mentre mamme sorridenti fanno spesso la gita usando carrozzelle costruite come piccoli carri armati. Nelle strade si possono vedere automobili con sopra l’iscrizione “A Berlino!”. In questo anno nelle tante scuole materne ed elementari sono state introdotte le lezione obbligatorie del patriottismo. Adesso, alla fine del 2024, una decina di conferenze ecclesiali è programmata per festeggiare la gloria degli 80 anni dalla vittoria del 1945. Certo, non tutta la popolazione è tentata da quest’ossessione (di una “vittoria indemoniata”, secondo l’espressione di un sacerdote ortodosso), ma il vento impetuoso che soffia sulle acque russe è così.
Quel vento soffia sulla Chiesa ortodossa perché la guerra in corso ha anche una sua dimensione teologica. Secondo una formula famosa, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Tra questi mezzi il primo posto è occupato dalla demonizzazione del nemico, anche se inventato. Ripeto, non eravamo noi ad aver attaccato il paese vicino, ma l’Occidente l’ha fatto con le mani ucraine. Noi difendiamo la nostra patria dall’aggressione occidentale, ma anche dalla sua corruzione, dalla loro democrazia falsa e ipocrita. Ci difendiamo dai missili che nel futuro, forse, sarebbero stati messi ai nostri confini. Se le nostre bombe cadono sugli ospedali, sui teatri, le chiese ed i sistemi energetici in Ucraina (soprattutto sulle città russofone Kharkiv, Odessa, ma anche Kiev) e se lasciamo le città rase al suolo, lo facciamo, come ho detto, per difendere la Santa Rus’ dall’Anticristo.
Di più: difendiamo gli ucraini stessi dal loro ucrainismo testardo, perché la difesa della patria in un caso si chiama patriottismo, nell’altro nazismo. Come se gli ucraini fossero soltanto dei russi smarriti che vanno puniti per aver ceduto all’appello delle sirene occidentali. Il nome stesso Ucraina è sbagliato, il vero nome suo è Novorossia, la vecchia Russia Nuova che faceva sempre parte di quella vecchia. Tutto questo è stato apertamente scritto e proclamato dal Concilio Mondiale Popolare Russo che non è un organo ecclesiale, ma il cui presidente è il patriarca Kirill in persona. Per chi ha un po’ di chiarezza cartesiana nello spirito, si tratta di una povera leggenda politica che comunque funziona. Le guerre non si fanno con le chiarezze, ma con i miti.
Si può capire che sotto un regime dittatoriale la posizione pubblica del capo della confessione più grande del paese non possa essere completamente indipendente. Leggendo i numerosissimi interventi pubblici del patriarca si vede come egli, una persona comunque intelligente, davvero creda alla giusta causa di questo massacro di due popoli, ucraino e russo. Nessun dittatore ha affermato quella recente novità teologica secondo cui i caduti russi di questa guerra siano già liberati da tutti i loro peccati e vadano subito nel Regno dei Cieli. Ciò è molto simile all’assoluzione dei peccati garantita una volta ai crociati. I dittatori non inventano cose del genere. Nello stesso tempo Sua Santità non ha pronunciato nemmeno una parola di compassione nei confronti delle vittime ucraine che rimangono ancora, almeno dal suo punto di vista, nel suo ovile ecclesiale.
La mitologia politica della guerra va avanti e si riveste della teologia. Oggi la Russia si proclama il Katechon (2 Ts. 2,6-7), colui che trattiene (l’ordine divino). La Russia trattiene, si oppone, fa d’ostacolo all’Anticristo collettivo e la Chiesa partecipa per prima in questa battaglia cosmica. Senza nessuna esitazione, a questa battaglia per il Katechon sono mandati anche i criminali comuni. A tutti paesi belligeranti mancano i soldati e la Russia chiede che i carcerati - con qualsiasi crimine sulle spalle - prendano le armi, più uno stipendio oltre le stelle, in cambio di un servizio di sei mesi al fronte, per poi essere liberi. La metà di loro ha già perso la vita. Un’altra metà torna in libertà e uccide di nuovo. È un grande flagello per la società civile quando decine di migliaia di assassini professionisti sono rimessi in libertà senza nessun controllo. Di più: qualsiasi protesta in Russia, anche un semplice “no alla guerra”, pronunciato pubblicamente, può costare qualche anno di galera. Per quale motivo? Per calunnia alle forze armate o addirittura per terrorismo. Ma il fatto più drammatico è che la stessa logica agisce anche nella Chiesa; il patriarca personalmente ha composto la preghiera per la vittoria della mitica “Santa Rus” e l’ha imposta come obbligatoria a tutti i chierici della Chiesa Russa. La devono leggere tutti. Chi si rifiuta è sospeso o anche ridotto allo stato laicale. La maggior parte dei sacerdoti la legge con una buona fede “patriotica”, ma altri - non si sa quanti - col cuore spezzato. Essi sono messi di fronte ad una scelta insopportabile: andare contro la propria coscienza o perdere tutto, rompere con la parrocchia che, a volte, loro stessi hanno costruito, condannando la propria famiglia alla miseria. A tutti i crimini della guerra se ne aggiunge un altro: la confusione totale delle anime, la violenza sulla coscienza, l’asservimento della verità.
La verità da sempre è la prima vittima della guerra, come anche la nostra capacità di compassione, di empatia, di partecipazione al dolore di un altro essere umano si trovano paralizzate. Un’altra vittima è la nostra facoltà di guardare le cose in faccia: un male demografico; le perdite russe sono davvero terribili (spesso i cadaveri dei soldati russi sono abbandonati sui campi di battaglia), una rovina economica imminente, una macchia di sangue sullo stesso nome “Russia” nel mondo. Gli sforzi enormi che la guerra chiede alla Federazione Russa minacciano la sua esistenza stessa come paese unito e multinazionale; bisogna essere ciechi per non accorgersi di questo pericolo.
Immaginiamo: dopo aver sacrificato un milione dei suoi soldati, che ormai non daranno figli, dopo aver provocato un’emigrazione di massa dei migliori specialisti, scienziati, scrittori, dopo aver mandato migliaia e migliaia di giovani che non volevano uccidere in prigione, dopo aver speso mille miliardi di euro per la vittoria militare, dopo aver imposto al paese conquistato un governo fantoccio e la bandiera russa sventolare a Kiev e dappertutto, la Russia finalmente avrà vinto. Con quale guadagno? La conquista di uno spazio completamente rovinato e imbevuto d’odio fino alla gola verso gli invasori che durerà per secoli? Questa guerra non si fa per un guadagno reale, ma per sconfiggere un nemico inventato. La sagoma di questo nemico cresce ogni giorno, chiude la nostra facoltà di riflettere. Una capacità di giudizio sobrio, però, è la virtù più apprezzata nell’Ortodossia.
Qui sta il punto: l’infezione della fede in Cristo con la follia dell’ideologia statale. La confusione della fede ortodossa con la menzogna e gli orrori del regime. Non si tratta di una semplice collaborazione o obbedienza alle circostanze che non si possono cambiare, ma proprio del danno portato all’Ortodossia stessa, del miscuglio del Vangelo con la macchina della propaganda putiniana, ben ingrassata con i soldi dello Stato e che lavora senza sosta. La trasformazione della fede ortodossa in una sorta di religione civile con la sua Santa Rus’, un concetto immaginato nel XIX secolo, contro il mondo anglosassone, come nemico da sempre e così via?... E per questa religione i soldati russi che tornano a migliaia a casa nelle bare di zinco?
Questa guerra si fa non per i soldi che sono buttati via in quantità enorme, ma per il mito nazionale inserito nella stessa vita religiosa. Per il territorio imperiale che è diventato un vero feticcio nella spiritualità perversa. Per provare al mondo corrotto che siamo i più forti, i più veri, i più perfetti. Ma chiediamo: cosa può fare la teologia della pace di cui abbiamo provato a descrivere il suo passato miserabile e il suo presente ingannevole per tornare alla pace vera in futuro? Cristo disse “Abbiate pace in me” (Gv.16,33). Non abbiate l’orgoglio che la vostra fede sia migliore di quella degli altri, che la vostra patria sia più bella e virtuosa, ma abbiate pace in comunione con Cristo – cosa che la Chiesa ortodossa insegna da sempre. Ma che insegna rivolgendosi ad un quadro strettamente personale, che non esce mai fuori dalla pratica ascetica, dal combattimento invisibile. L’Ortodossia ha tutti i mezzi spirituali per liberarsi dalla gabbia ideologica perché la via d’uscita si trova nel suo patrimonio. Questa via è il pentimento. Ho sentito tanti discorsi e prediche sul pentimento e mi chiedevo sempre: perché la spiritualità adatta per una singola persona non è compatibile con la comunità, con la Chiesa di Cristo nel suo insieme? Perché il pentimento per un singolo e l’orgoglio nazionale per il gregge? Se la Chiesa un giorno trova la strada per passare da una spiritualità isolata di tipo monastico alla spiritualità comune, e condivisa con tanti, essa troverebbe anche una vera teologia della pace con gli altri. Dopo essere usciti dalla gabbia dorata del “mondo russo”, possiamo aprirci anche al mondo creato da Dio che Cristo è venuto a salvare. L’unico vantaggio che possiamo avere in questo disastro è il risveglio d‘una nuova vocazione spirituale che crede nell’uomo e che ha aperto le porte a Cristo non soltanto nella cella dell’anima di un monaco solitario, ma nella solidarietà con l’umanità sofferente.
La “Santa Rus’” del lontano passato è un’icona di un paese che esisteva solo nell’immaginario o nel subconscio collettivo e che si è nascosta sotto il nome del “russkij mir”, oggi è opposta alla fede cristiana e davvero ortodossa. Questo è il compito della teologia della pace che consiste non nelle belle citazioni e buone intenzioni, ma anche nella scoperta del pericolo penetrato nella stessa eredita cristiana. Bisogna saper tracciare una linea di demarcazione proprio spirituale tra il messaggio politico e quello ecclesiale, tra la fedeltà a Cesare e la fedeltà a Dio. Nel “mondo russo” (vi ricordo tra l’altro che un centinaio di popoli di etnie diverse vivono sul territorio della federazione Russa) riconosciamo la faccia del fariseo evangelico, in questa pretesa d’essere portatoridi valori eccezionali nei confronti degli altri popoli. Questa è la nuova versione dell’ideologia della terza Roma del XV secolo. Questa ideologia si riduce ai tre formule; la Prima Roma è caduta per eresia, la seconda Roma, Costantinopoli è caduta sotto gli infedeli, la Terza Roma è rimasta come unica guardiana della vera fede con il suo zar ortodosso e rimarrà per sempre.
Credo che le vie della speranza e della pace vera non sono esaurite ancora. Oltre l’Ortodossia nazionale e cosiddetta patriottica c’è anche l’Ortodossia cristiana che non si esaurisce mai. La Tradizione ortodossa che proviene dai Padri della Chiesa, dai Padri del deserto nasce dalla radice spirituale che istruisce a distinguere il bene e il male dentro noi stessi giudicando noi stessi. In questa scienza del stare davanti al giudizio di Dio l’Ortodossia ha sviluppato una profondità eccezionale ma la sua spiritualità rimane nei muri dei monasteri, nell’intimità di una singola anima. È arrivato il tempo in cui il senso del pentimento dovrebbe uscire fuori, per entrare nel campo sociale confessando i nostri peccati davanti il mondo intero. Questo tipo di pentimento sarebbe perfettamente ortodosso senza consolazioni celeste e metafisiche, senza chiacchere sulla “Santa Rus”, senza nascondersi dietro il “mondo russo”, dietro il Katechon, ecc. “Ho peccato davanti al cielo e davanti a te”, come dice il figlio prodigo, sono diventato il complice dei peccatori coperti del sangue dei fratelli; una vera teologia della pace inizia con la confessione della colpa, una teologia che resta ancora da scoprire.
Le Chiese occidentali hanno un grande esperienza nella confessione della colpa non soltanto personale, ma anche collettiva. Mi ricordo il primo paragrafo della Dichiarazione di Barmen del 1934: “Gesù Cristo, così come ci viene testimoniato nella Sacra Scrittura, è la sola Parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo affidarci in vita e in morte e cui dobbiamo obbedire”. Come manca una fermezza simile alla Chiesa d’oggi! La fermezza del metropolita Filippo di Mosca che cinque secoli fa aveva proclamatoin faccia dell’ortodossissimo Ivan il Terribile - e poi fu da lui ucciso. “Noi cristiani facciamo immolazione senza sangue sull’altare, ma fuori delle nostre chiese è versato dappertutto il sangue cristiano”. Perché un giorno qualcuno di alto rango ecclesiale non potrebbe dire: noi imploriamo il Signore per il perdono dei nostri peccati e perché il nostro esercito, anche se super ortodosso, con la nostra piena benedizione ed i suoi cappellani militari uccide i nostri fratelli in Ucraina con il pretesto ideologico inventato da un altro zar?
Si può ricordare anche la confessione di colpa di Stoccarda dopo la Seconda Guerra Mondiale, come anche numerosissime confessioni simili nella Chiesa cattolica all’epoca di Giovanni Paolo II e così via. Il riconoscimento comune della colpa, anche se le colpe sono diverse, non è la strada giusta per una vera teologia della pace? Anzi, non si tratterebbe soltanto della pace nella prospettiva dell’unità di tutti noi, cristiani colpevoli?
Anche da noi, nel nostro piccolo, nel marzo di 2022, subito dopo l’inizio della guerra, circa 300 sacerdoti della Chiesa Russa hanno firmatouna protesta. Il tono di questa lettera era molto pacifico, ma comunque una trentina di questi sacerdoti ha già subito un contraccolpo da parte della Chiesa ufficiale, con la sospensione a divinis o anche la riduzione allo stato laicale. Certamente, una trentina di sacerdoti sono una minima parte del clero che non è d’accordo con la guerra, ma i firmatari si rendevano conto del pericolo che potevano subire. Senza dubbio, questa la lettera non ha avuto nessun effetto pratico, ma è importante per la coscienza che le parole chiave fossero pronunciate. Ogni voce di protesta ha il suo peso, perché si tratta del futuro della Chiesa. Fuori di internet, parole simili non esistono, naturalmente, nello spazio pubblico all’interno della Russia, ma un giorno la Chiesa potrà ricordarle. Anzi, trovare in queste parole la sorgente della propria rinascita, come dopo il crollo del regime sovietico la Chiesa ha ritrovata nelle testimonianze dei suoi martiri, negati prima, la forza della propria identità.
Vladimir Zelinskij