Che cosa c’è dietro una domanda di morte?
Il signor Welby, sessantunenne, malato di distrofia da quaranta, è attaccato a un respiratore artificiale da alcuni anni. Soffre ed è stanco di vivere. Il 22 settembre scorso ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiedendo che si ponga fine al suo tormento. Il presidente ha incaricato gli organi competenti perché si interessassero del caso. Ma fino ad oggi il problema non è stato risolto. Intanto continua a condurre una vita che giudica disumana. Si sente schiavo di un corpo che non svolge più le sue funzioni, anzi che gliele impedisce. Il respiratore ossigena i suoi polmoni; ma non la sua vita, perché quella non è per lui vita.
E’ diventato un vero segno di contraddizione. Ha diviso medici, psicologi, giuristi, filosofi, politici, opinionisti. Ha diviso anche sé stesso, perché non si capisce se chiede pietà per la propria persona o se si sacrifica per promuovere una legge a favore dell’eutanasia. Certo ha obbligato a ripensare il confine tra eutanasia e accanimento terapeutico. Fino a ieri tutti erano convinti di conoscere la distinzione ed erano d’accordo nel dire no all’accanimento terapeutico. Ma di fronte al caso del signor Welby molti hanno fatto un passo indietro. Sono rientrati nella certezza del principio e continuano a dire “no” all’accanimento terapeutico, ma non sanno se questo caso si configura come tale o è un gesto di eutanasia.
Non è facile dare un giudizio sulle singole situazioni concrete. Intervengono molti fattori che rendono il caso unico e irripetibile e per il quale non è possibile formulare una legge. Sarebbe un contenitore sproporzionato rispetto al caso singolo. La legge si dà ut in pluribus (per i casi in generale), e non si può emanare per un solo caso. Per i casi particolari si ricorre alla virtù della prudenza, che non è più di competenza del legislatore, ma del singolo, il quale deve considerare che le sue decisioni non devono tener conto solo della sua vita, ma anche delle ripercussioni che possono avere sulla vita della comunità.
Tra tante incertezze c’è una cosa certa. Non si può cavalcare l’emozione causata da singoli episodi penosi per intaccare il principio del rispetto della vita, o per aggiungere alla lista dei diritti dell’uomo anche quello di decidere della propria vita e della propria morte. E non si può neppure dire «abbandoniamo i principi ed entriamo nella compassione», perché una compassione che non sia guidata dalla ragione diventa uno strumento pericoloso che si ritorce contro l’uomo che si vuole beneficare.
C’è un’altra riflessione. Mentre il signor Welby chiede di essere aiutato a morire, altri che si trovano nelle sue stesse condizioni chiedono di essere aiutati a continuare a vivere. Così è venuto allo scoperto il signor Cattaneo, che chiede di continuare a vivere perché anche così la vita è bella; lo stesso atteggiamento lo ritroviamo nel signor Lovisolo che accetta la sua condizione e la trova soddisfacente; o nel professor Melazzini, che muove solo due dita, ma si impegna a fare della sua vita un servizio agli ammalati. Ma troviamo altri casi, come quello della signora Benzi, che vive in un polmone d’acciaio e da questa prigione comunica con molte persone e le aiuta con la sua parola parlata o scritta; o il caso clamoroso del grande fisico Hawking, paralizzato da una sclerosi per cui comunica solo con un computer, che dal 1979 ricopre all’università di Cambridge la cattedra Lucasiana e continua a studiare i misteri dell’universo. Cosa c’è in queste persone che nel signor Welby invece si è spento? Perché non si studiano questi casi per capire come sia possibile trovare risorse di vita per sé e per gli altri, anche quando si è fisicamente provati e menomati?
Hemingway diceva che quando una campana suona a morto, non devi chiederti per chi suona; suona per tutti, anche per te, perché qualcosa si è spento in ognuno di noi. Anche in casi come quello del signor Welby dobbiamo chiederci se abbiamo fatto tutto quello che era possibile per impedire che l’ombra della morte si stendesse su un vivente o dobbiamo rimproverarci di non avere fatto tutto il possibile per impedire che la morte distruggesse una vita.
Vengono allora in mente le parole di Giovanni Paolo Il: «Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto (…). La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà, di sostegno nella prova. E’ richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Vaticano II (Gaudium et spes 18) “in faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo per l’uomo”, e tuttavia, “l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte”» (Evangelium vitae 67).
Giovanni Paolo Il ha dimostrato con la sua persona che la vita va vissuta tutta, fino in fondo, anche quando la sofferenza penetra il corpo e l’anima. E questo sembra confermato dai fatti. L’anestesista Antonio Foletti, che lavora all’ospedale di Losanna dove si può accedere al suicidio assistito, dice che in tre anni solo tre persone lo hanno chiesto. E da un’inchiesta fatta in Olanda nel 2005 risulta che la maggior parte di coloro che invocano l’eutanasia sono gli ammalati depressi. Per questo c’è da chiedersi se la domanda di morte sia provocata dalla sofferenza o dall’abbandono nella sofferenza.
Giordano Muraro
(da Vita Pastorale, Gennaio 2007)