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Domenica, 09 Marzo 2025 10:16

È possibile convertirsi? (Faustino Ferrari)

Una piccola storia. Colpito dalla sventura un ebreo della Polonia aveva deciso di fuggire. Si era disfatto dei suoi pochi averi, aveva preso commiato da parenti e amici e si era recato dal rabbino per riceverne l'ultima benedizione e una parola di conforto.
“Così la vostra scelta è fatta?”, chiese il buon rabbino. E dopo un poco: “E ditemi: andate lontano?”
“Lontano da dove?”, rispose l'ebreo.

Conversione? Con l’inizio della quaresima diventa un tema ricorrente l’invito alla conversione. Il gesto dell’imposizione delle ceneri è solitamente accompagnato dalle parole: “Convertiti e credi al vangelo”. Le letture bibliche esprimono il medesimo invito. Si tratta di un tema ricorrente e comune, ma che sembra, a volte, non lasciare tracce. Vale dunque la pena soffermarsi un po’ su questa parola – conversione.

Nel linguaggio corrente il termine “conversione” è inteso con tre diversi significati. Innanzitutto, viene ad indicare il passaggio da una comunità di fede a un’altra. È il cambiamento di religione. Il secondo significato fa riferimento a un cambiamento di vita di una persona (o anche di una comunità) che sceglie di abbandonare la “via dei peccatori”. Ed infine si intende un cambiamento di mentalità, un impegno di purificazione e rinnovamento della propria vita spirituale.

La storia è piena di vicende riguardanti persone o gruppi che “cambiano idea”, anche in maniera molto radicale. Ma di per sé non ci si converte ad una ideologia. Affrontiamo subito un problema non indifferente: per molti studiosi del comportamento umano – ed anche per autori che riflettono sui temi della vita spirituale – non sarebbe corretto parlare di conversione. La persona umana, infatti, sostengono costoro, tende ad essere abitudinaria e conformista. Quello che impariamo nei primissimi anni della nostra infanzia – anzi nelle primissime settimane –, ci struttura in permanenza ed influenza la nostra crescita. E così siamo segnati da ciò che apprendiamo: nel nostro modo di intendere le relazioni familiari e sociali, nei nostri gusti, nelle nostre consuetudini e abitudini. Siamo cioè soggetti che non sono protagonisti di cambiamenti radicali nella propria vita. Capaci anche di sperimentare la libertà, ma nelle consuetudini della routine. Tuttavia l’essere umano è un animale particolarmente curioso – ed è la curiosità a far muovere i nostri passi. Mentre l’immagine del cammino contiene elementi propri della nostra identità: la tensione in avanti e l’apertura al futuro.

La conversione – così come solitamente la intendiamo – comporta l’idea di un cambiamento radicale, totale, della vita. Ma ciò sembrerebbe umanamente impossibile – o quasi. E, a ben vedere, se si volesse considerare con attenzione la storia religiosa e spirituale si dovrebbe concludere che probabilmente le persone che hanno sperimentato una vera conversione siano state veramente poche. Anzi, c’è chi giunge ad affermare che forse – almeno dal punto di vista biblico – soltanto un personaggio si sia convertito – Saulo divenuto in seguito Paolo. Il racconto della conversione di Paolo lo conosciamo bene. È narrato nel libro degli Atti (9,1-19).

Alcuni biblisti, tuttavia, fanno osservare che neppure in questo episodio si possa parlare di una vera e propria conversione. Paolo viene chiamato, infatti, da Dio per svolgere un compito. Gli viene affidato l’incarico di portare il vangelo ai pagani. E Paolo accoglie nella libertà questo incarico. A ben vedere, quando Saulo parte per Damasco è già un uomo in crisi. Una crisi, di lungo corso – iniziata forse già al momento del martirio di Stefano. E la caduta da cavallo è soltanto la goccia che fa traboccare il vaso. È il momento in cui la crisi, che Saulo attraversava, inizia a risolversi.

Ho letto da qualche parte che secondo una filosofa femminista gli uomini, a differenza delle donne, non sarebbero capaci di convertirsi… Non voglio entrare nella questione. Ci si può chiedere se il periodo della quaresima sia caratterizzato da un appello per un buon proposito che, si sa, non può essere mantenuto. Si tratta soltanto di un invito formale che la liturgia propone?

Eppure nella nostra vita sperimentiamo dei cambiamenti. E questi cambiamenti avvengono quando siamo motivati da due opposte ragioni. La prima ragione è quella che ci porta a cambiare (lavoro, casa, partner, amici, ecc. ma anche associazioni, religioni…) per gli evidenti vantaggi che vediamo insiti nella nuova situazione. Si cambia lavoro perché meglio retribuito, più vicino a casa e con migliori opportunità di carriera, ad esempio. L’opposta ragione che ci porta ad attuare un cambiamento nella nostra vita è quella della disperazione: si è allora disposti a tutto pur di non continuare a prolungare la situazione di malessere e di disagio che ci ritroviamo ad attraversare.

Ma se vogliamo iniziare a comprendere cosa possa significare conversione, dobbiamo farlo alla luce del testo biblico. La tradizione ebraica ha mantenuto in maniera maggiormente fedele il significato più profondo del termine. La tradizione ebraica parla infatti di teshuvah. È l’invito a ritornare a Dio. “Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno” (Gioele 2,13). Le strade umane tendono ad allontanarsi da Dio. È questo il significato più profondo dei primi capitoli di Genesi. Anzi, sono gli esseri umani a nascondersi, a sottrarsi allo sguardo di Dio. I passi – i progetti – sono volti a mettere sempre maggiore distanza tra l’essere umano e Dio. Teshuvah: ritorna verso Dio, volgi i tuoi passi verso Dio. “Esaminiamo la nostra condotta e scrutiamola, ritorniamo al Signore” (Lam 3,40). Ed i primi racconti di Genesi non fanno che presentare questa prospettiva: la persona umana vuole vivere senza fare i propri conti con Dio. Anzi, vuole superare quell’unico scoglio che lo rende limitato nel suo comprendersi: la morte. La tentazione del serpente – voi sarete simili a Dio – non fa che concretizzare il desiderio umano di vivere senza Dio.

Caino e Abele, Lamech, i vari personaggi che iniziano a popolare la terra, i giorni di Noè, la costruzione della torre di Babele… sono tutte narrazioni che presentano questo progressivo allontanamento da Dio. Finché non c’è una persona che si mette in ascolto di Dio: Abramo. Abramo è il primo a fare teshuvah – a fare ritorno a Dio. “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò” (Gen 12,1). E questo ritorno a Dio avviene in una maniera paradossale: uscendo dalla propria terra. Abramo non ha una casa da lasciare perché è nomade: si sposta con il clan familiare, con le tende e gli armenti. E la sua teshuvah si compie nel continuare il suo viaggio, nel lasciare dietro di sé i pascoli ed i pozzi che gli sono noti e abituali, per andare in cerca di nuovi.

A ben considerare, Abramo non compie chissà quale grande azione. Al pari di tanti altri nomadi anch’egli è in cerca di pascoli adatti al suo bestiame. I trasferimenti vengono fatti in base ai cicli delle stagioni – alle piogge e ai periodi di siccità. Eppure il viaggio di Abramo diventa emblematico poiché si rivela essere un ritorno nelle vie di Dio. Con Abramo il cammino di allontanamento da Dio intrapreso dal genere umano cambia direzione. Non si tratta, però, di un cammino di ritorno sui propri passi, ma verso un nuovo orizzonte. “Per fede Abramo, chiamato da Dio, (…) partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

Teshuvah: il ritorno a Dio diventa il cammino su di una nuova strada. E per iniziare a camminare su di una nuova strada non servono scelte radicali. Basta deviare di poco. È noto il cosiddetto “effetto farfalla”: il batter d’ali di una farfalla in Brasile può alterare in un altro luogo del pianeta il corso del clima per sempre. Ed il noto matematico e logico inglese Alan Turing affermava che “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato”, potrebbe significare la differenza tra il fatto che un uomo è ucciso oppure no da un valanga un anno dopo. Possiamo così considerare che la teshuvah – il ritorno a Dio – inizia a compiersi attraverso un piccolo, piccolissimo cambiamento attuato in una vita che è caratterizzata da consuetudini e abitudini.

Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di rendere il concetto di teshuvah con la parola metanoia. Il termine greco μετάνοια è composto dalla preposizione μετά (ciò che va oltre, comprende, si pone sopra) e dal verbo νοέω (percepire, pensare), e significa "cambiamento di vista" o "cambiamento di sguardo". Nell'antica Grecia, metanoia significava “assumere una condotta diversa, possibilmente migliore”. In alcuni testi del Nuovo Testamento metanoia significa andare al di là di noi e si riferisce a un movimento mediante il quale la persona umana si volge verso Dio, si apre a Dio. Le beatitudini evangeliche (Mt 5, 3-12) sono l’espressione migliore della metanoia cristiana. Anche l’inizio della predicazione di Gesù è contraddistinto dall’invito alla metanoia: “Dopo che Giovanni Battista fu consegnato, venne Gesù nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio e dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo””. (Mc 1, 14-15).

“Il tempo è compiuto”. Significa: è giunto il momento; è adesso. Mentre noi solitamente attendiamo sempre dopo… Convertirsi – seguendo questa prospettiva biblica – non consiste tanto nel compiere grandi cose, ma semplicemente nell’aggiungere quella goccia che fa traboccare l’intero vaso. È un cambiare il modo di vedere le cose. È quella piccola deviazione nel cammino della nostra vita che si rivela essere un ritorno sulle vie del Signore. Vuol dire iniziare a vedere le cose in modo diverso.

Papa Francesco insiste nell’affermare che il tempo è superiore allo spazio. Lo ha fatto in diversi documenti. Ed aggiunge che ciò che conta è avviare processi. Non sono le grandi decisioni a cambiare la storia – la storia universale come la storia personale – ma la capacità di dare avvio a piccole cose che si manifestano capaci di influenzare significativamente il futuro. “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada” (Is, 43,19). Come il piccolo seme di senape che germoglia, dando origine ad un’intera pianta. Sembrerebbe, a prima vista, una semplice cosa, un’operazione dai facili costi. Ma non è proprio così. Sono le piccole cose che si rivelano essere le più difficili da realizzare. Provo a fare un esempio.

Leggiamo nel Vangelo che un modo per fare ritorno a Dio è quello di riconciliarsi con il fratello prima di compiere la nostra offerta (Mt 5,23-24). A volte ci capita di comprendere che le nostre relazioni familiari – o con i vicini di casa –, ad esempio, siano ingessate e in qualche modo bloccate. Magari non sono in corso conflitti evidenti, ma ci si rende conto che nelle consuetudini – che automaticamente si perpetuano – c’è qualcosa che non va. E sappiamo che basterebbe ben poco per cambiare le cose. Forse, semplicemente trovare il coraggio per parlarne insieme. Oppure, nel compiere un’azione di poco conto – un saluto, una telefonata, un invito… – ma che produrrebbe un significativo cambiamento. Ma non si riesce a fare ciò che riteniamo andrebbe fatto per migliorare le nostre relazioni. Oppure può capitare che si continui a rimandare ad un prossimo futuro… Finché giunge la morte per rendersi conto che ciò che si avrebbe voluto/dovuto fare o dire non può più essere compiuto.

C’è un altro aspetto da considerare quando parliamo di teshuvah/metanoia. Nella prospettiva biblica ciò non si compie per un buon proposito o per una risoluzione presa. Ma è nell’agire che tutto ciò si manifesta. C’è un passo molto importante che si legge nel libro del Deuteronomio: “Noi faremo e ascolteremo” (Deut 5,27). Noi siamo abituati a considerare l’ascolto precedere l’azione. La conversione si compie prima nell’azione e poi nell’ascolto – poiché l’azione manifesta che si è attuato l’ascolto. Potremmo portare molti esempi di questa diversa comprensione temporale. “I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma, videro la stella perché si erano messi in cammino”. Così scrive san Giovanni Crisostomo. E per fare un altro esempio, un simile tipo di lettura lo ritroviamo anche in san Giovanni della Croce, quando osserva a riguardo dei testimoni della risurrezione (Maria Maddalena, i discepoli, i due di Emmaus e Tommaso): essi non videro il Signore e perciò credettero, ma prima credettero e per questo poi lo videro.

Riprendiamo la figura di Abramo. Il racconto delle sue vicende inizia con queste parole: “Lascia la tua terra” (Gen 12,1). Lekh lekhà! Espressione che si può tradurre anche con “Vai a te stesso”. Vale a dire: entra in te stesso, lascia dietro di te la monotonia delle solite cose, datti il tempo sufficiente, prendi il cammino del tuo tempo… Quale significato ha per noi l’ascolto di questa voce interiore? È possibile mettersi in ascolto nella misura in cui possiamo assicurarci un po’ di intima interiorità, dandoci il tempo ed il silenzio sufficienti. A ben vedere, ci dicono gli autori spirituali, il viaggio più difficile e duro, più lungo e affascinante è quello che si compie nel nostro intimo.

E torniamo al racconto iniziale. Lontano da dove? Chiede l’ebreo in partenza. Lontano da dove – quando l’invito è di andare a se stessi, nella propria intimità? A mettersi in cammino per lasciarsi avvicinare a Dio.

Un’altra storia. Un rabbino polacco aveva sognato di trovare un tesoro sotto un ponte della città di Praga. Egli si mise subito in cammino, affrontando a piedi il lungo viaggio. Arrivato a destinazione, non poté soddisfare il desiderio di mettersi a cercare il tesoro poiché il ponte – il famoso ponte Carlo – era custodito da un numeroso drappello di guardie. Il capo delle guardie lo notò e gli chiese ragione del suo aggirarsi irresoluto. Il rabbino iniziò, allora, a raccontare del sogno fatto. Il capo delle guardie si mise a ridere: non c’era da prestare fede ai sogni. Anche lui, infatti, n’aveva fatto uno simile. Aveva sognato che nei pressi di una certa casa – che descrisse con precisione – era nascosto un tesoro. Il rabbino capì che l’uomo stava parlando proprio della sua abitazione. Ritornò a casa e, scavando secondo le indicazioni ricevute, trovò il tesoro. Forse, anche a noi capita di cercare lontano quello che invece c’è molto vicino?

È possibile convertirsi? Nella misura in cui riusciremo ad andare a noi stessi. Poiché lì, ci insegnano i maestri spirituali, in qualche angolo nascosto del nostro cuore, è presente Dio. E questo nostro tornare a Dio si compie, allora, nella discesa dell’intimo del nostro cuore. “Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19). Maria… Colei che viene indicata come la “prima in cammino”.

Faustino Ferrari

 

Pubblicato in Bailamme
Giovedì, 21 Dicembre 2023 11:12

Dalla crepa entra la luce (Faustino Ferrari)

Esiste una "broken art" giapponese. Si tratta della tecnica di riparare il vasellame di ceramica. Il nome di quest'arte è kintsugi (o anche kintsukuroi) e letteralmente significa «riparare con l’oro». I frammenti dell’oggetto rotto vengono aggiustati usando una mistura di lacca e oro in polvere. Un oggetto, anche se rotto, può così continuare ad essere usato. Anzi, i segni della rottura vengono impreziositi. Dal danno si ricava un oggetto ancor più prezioso, considerato esteticamente migliore, raffinato. La conservazione si salda alla memoria. Avere davanti agli occhi l'oggetto riparato farà ricordare la circostanza in cui è stata causata la rottura. La cultura occidentale è portata a vedere in ciò un'attenzione per ciò che può essere riusato. Si può, invece, ricavare una lezione simbolica: non bisogna vergognarsi delle ferite subite nella propria esistenza. Le cicatrici delle ferite – fisiche e/o spirituali – non sono da nascondersi. Accettandole in tutta la loro visibilità, possono rivelarsi preziose. Per una nuova vita.
 
«Ring the bells that still can ring / Forget your perfect offering / There is a crack, a crack in everything / That’s how the light gets in». È il ritornello della canzone Anthem, del canadese Leonard Cohen. Perché la luce possa passare attraverso una crepa è necessario che la crepa sia ampia a sufficienza – e maggiore è la crepa, maggiore è la luce che l’attraversa.
 
Michel de Certeau ha parlato di «fratture». Abbiamo una concezione della storia che si svolge in un continuo progresso. Per Certeau questo modo di intendere, però, non è corretto. L’attuale crisi contemporanea non è unica né nuova. La storia umana e spirituale presenta una continua serie di fratture. Ciò è visibile soprattutto nell’esperienza delle persone mistiche. La loro vita spirituale resta incomunicabile. Ma, al tempo stesso, non può non essere comunicata. C’è un indicibile divino che va trasportato nella parola umana. In questa frattura si colloca la vita spirituale più profonda.
Il filosofo Martin Heidegger ha usato un’immagine di altro genere. Ha parlato di segnavia, di sentieri interrotti e di radure. I segnavia sono le tracce che permettono di percorrere un sentiero che si inoltra nel bosco. Ma si tratta di sentieri che s’interrompono, all’improvviso. S’interrompono nella radura dell’essere. Teniamo qui soltanto l’immagine del sentiero che si spezza nella radura. La radura può essere vista come una sorta di ferita, di cicatrice del bosco – il luogo ove, non si sa perché, gli alberi non crescono. A prima vista sembrerebbe che il cammino sia stato smarrito. In realtà, la radura è il solo luogo del bosco ove sia possibile vedere un tratto del cielo.
 
Il pittore di icone è colui che, avendo sperimentato il mistero divino, cerca di comunicare la propria esperienza spirituale attraverso le immagini sante. Non cerca di esprimere la bellezza attraverso una rappresentazione attraente. Spesso le icone, secondo i nostri gusti estetici, non sono belle. La bellezza estetica non ci deve distrarre dal contemplare il mistero divino. L’icona, dal punto di vista simbolico, rappresenta una sorta di piccola finestra, una frattura che ci permette di scorgere qualcosa della luce divina. Rappresenta la crepa che ci apre al mistero divino.
Nella tradizione rabbinica si legge: «È un disonore per un uomo comune servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo – sia benedetto – non è così. Al contrario, egli si serve soltanto di vasi rotti: ‘il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato’ (Sal 34,19); ‘egli guarisce i cuori spezzati’ (Sal 147,3); ‘Dio non disprezza un cuore spezzato e abbattuto’ (Sal 51,20)».
 
Ad un giovane che chiedeva consigli per la preghiera, Jean Claude Colin diede vari suggerimenti. Tra gli altri consigli leggiamo: «Bisogna anche apprendere a gustare Dio. Eh sì, gustare Dio… Gustare Dio è avere il cuore ferito». Perché Colin parla di un cuore ferito?
 
Il profeta Ezechiele annuncia un nuovo tempo, nel quale il cuore di pietra sarà sostituito da un cuore di carne (36,22-32). E per Geremia è un tempo in cui la legge non sarà più scritta sulla pietra delle tavole, ma nel cuore stesso (32,36-41). La trasformazione di questo cuore di pietra non avviene per sostituzione, ma attraverso una lacerazione. Il cuore di pietra può essere sanato nel momento in cui inizia a rompersi. Il profeta Gioele invita a lacerare il proprio cuore e non le vesti (2,16).
 
La ferita del cuore è l’immagine paradossale che svela un’opera in corso di risanamento! Il cuore corrotto è un cuore di pietra, gelido, immobile e rinchiuso in se stesso. Dio si rivela il medico che cura questo cuore di pietra facendovi breccia – una crepa – e lasciandovi il segno di una ferita. Una ferita non più rimarginabile, ma che diventa il farmaco per la guarigione del cuore. Il cuore ferito è il segno dell’azione e della vicinanza di Dio.
 
La vicinanza di Dio a chi ha il cuore ferito non si chiude in un rapporto intimistico, ma interpella all'apertura e alla solidarietà con i tanti cuori feriti della storia e del mondo. Preghiera e solidarietà costituiscono i due modi per attuare l'accoglienza della vicinanza di Dio in noi. Scrive Agostino: «Ama ed egli si avvicinerà; ama ed egli abiterà in te». Il profeta Isaia annuncia un tempo in cui «ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi» (58,12). Come nell’arte giapponese, si tratterà di brecce riparate con l’oro?
 
Nella bibbia ogni immagine assume anche il significato opposto. Così è per l’immagine della crepa. Geremia ricorda: «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l'acqua» (2,13). Per ogni cosa si rende così necessario il discernimento.
 
Nel vangelo di Matteo, nel racconto della risurrezione di Gesù viene usata l’immagine del terremoto (28,2). Si tratta di un immagine che non significa castigo né è solo simbolo di distruzione, ma è spesso associata con le teofanie. Attraverso il terremoto, Dio si manifesta. Il forte terremoto crea solchi nel terreno, apre crepe e fratture nelle costruzioni. Sconvolge. Il terremoto del racconto di pasqua apre le crepe attraverso cui è possibile vedere la luce della risurrezione di Cristo. Soltanto i riverberi di quella luce – poiché non è dato di poter scorgere pienamente la gloria di Dio, la gloria della risurrezione.
 
E poi, il racconto di Tommaso. Nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel «Mio Signore e mio Dio!» non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il vangelo di Giovanni – il più spirituale dei quattro vangeli – a riguardo non lascia dubbi ed è radicale. Il momento dell’elevazione in croce – momento culminante della morte con la consegna al Padre dello Spirito da parte del Figlio – è al pari il momento della massima glorificazione. Ed i discepoli incontrano nel Risorto non un fantasma, ma l’Uomo dei dolori e delle ferite.
 
Quali sono le crepe – le fratture, le ferite – attraverso cui possiamo scorgere la luce della risurrezione penetrare nella nostra vita?
 
Faustino Ferrari
 
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Martedì, 19 Aprile 2022 11:26

Pasqua 2022

E noi, in questo tempo, quando in tanti si sacrificano per un tempo di guerra, in questa Pasqua, continuiamo ad osare di celebrare la risurrezione con il racconto di un Dio sconfitto...

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Domenica, 27 Marzo 2022 01:05

C'è censura e censura… (Faustino Ferrari)

«La censura è il controllo della comunicazione da parte di un'autorità, che limita la libertà di espressione e l'accesso all'informazione con l'intento dichiarato di tutelare l'ordine sociale e politico» (Wikipedia).

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Sabato, 25 Aprile 2020 14:00

Messe in streaming o altro? (Faustino Ferrari)

Queste messe sine populo sembrano riportarci ad una situazione preconciliare, ove il prete torna ad essere l'unico protagonista, mentre il popolo è relegato al ruolo di spettatore di lontane celebrazioni.

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Mercoledì, 22 Aprile 2020 14:07

Mascherine (Faustino Ferrari)

La diffusione dell'epidemia del coronavirus ci ha imposto l'uso delle mascherine. A nostra protezione, ma soprattutto a protezione di quanti ci sono prossimi. Si profila una lunga stagione ove la nostra vita sociale sarà tutta giocata dietro questi scudi facciali. Non si tratta soltanto di una misura profilattica.

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Sabato, 11 Aprile 2020 14:21

Pasqua 2020 (Faustino Ferrari)

E celebreremo la pasqua, ma non nelle nostre chiese. Quest'anno non ci sarà il braciere con il fuoco né il bacile dell'acqua benedetta. Non accenderemo i nostri lumi al cero pasquale. Non scenderà l'acquasanta sul nostro capo...

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Venerdì, 10 Aprile 2020 14:55

Celebrare il silenzio (Faustino Ferrari)

Il silenzio è ambivalente – ambiguo. Esperienza, al pari della solitudine, amata o odiata – leggera o grave, ardua o liberante. Esperienza che era stata sempre più ridotta, quasi vanificata, dal nostro vivere quotidiano, fatto di fretta e di rumori.

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Giovedì, 09 Aprile 2020 13:50

Una memoria per il futuro (Faustino Ferrari)

Se ci lasciamo sollecitare dalle molte domande suscitate in noi dall'eredità di Bonhoeffer anche i giorni del nostro attuale isolamento domestico potranno essere fecondi.

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La paura dell'epidemia, in realtà, non era assente dalla nostra vita quotidiana. Faceva parte di un vasto bagaglio di paure che continuiamo a considerare incerte e che incombono su di noi, ma che per la loro indefinitività tendiamo a confinarle nel sottofondo.

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