«Tutto ciò che è profondo ha bisogno di una maschera».
F. Nietzsche
Ti conosco, mascherina! è il titolo di un film del 1943 diretto da Eduardo de Filippo. Riprende un'espressione d'origine già medioevale, ma il cui significato è cambiato nel corso del tempo. Inizialmente, infatti, l'espressione non aveva un significato figurato. Veniva pronunciata da quanti, durante le feste in maschera, riconoscevano le persone che avevano davanti, pur conservando queste il viso coperto. Per noi è diventato un noto modo di dire, adoperato di solito in contesti scherzosi. Con quest'espressione, infatti, s'indicano quanti ritengono di ingannare o di nascondere qualcosa per far loro sapere che, nonostante le loro finzioni, le intenzioni restano piuttosto manifeste.
Mascherina è – fin troppo banale il ricordarlo – un diminutivo di maschera. Ovvero, in entrambi i casi s'indica un manufatto o un indumento che, fin dai tempi remoti dell'umanità, viene usato per coprire una parte o l'intero viso. L'origine dell'uso è probabilmente legata a rituali religiosi. In seguito, attraverso il teatro, l'uso è transitato in altri ambiti del vivere sociale, quali quelli delle feste popolari.
Non è certa l'etimologia della parola. C'è chi ritiene che possa derivare dal termine preindoeuropeo masca (fuliggine, ma anche fantasma nero). Altri vedrebbero l'origine nel tardo latino, là ove masca indicava la strega. Ci sono anche quanti ritengono che la parola possa derivare da una locuzione araba (mascharat) che indica lo scherzo, la burla. Non mancano neppure le attribuzioni celtiche all'origine del termine. L'incertezza mostra un quadro molto variegato, geograficamente e culturalmente ampio.
È curioso, invece, come un altro termine, indicante la maschera, sia penetrato profondamente nella nostra cultura e visione antropologica. Si tratta della parola d'origine etrusca persona. Persona, infatti, indicava inizialmente la maschera usata dagli attori nel teatro etrusco. Attraverso la lingua latina tale termine è giunto fino a noi per indicare non più il manufatto che permetteva all'attore di amplificare il suono della propria voce, ma il nostro essere – la nostra persona, appunto. Una traslazione estremamente significativa. A sottintendere, forse, che in qualche modo si è maschere? Che c'è una parte del nostro essere che non può essere svelata? Che rivela il bisogno di una sorta di protezione esterna? Che il nostro essere nel mondo si manifesta attraverso un nascondimento? Che la percezione della nostra nudità più che fatto fisico è una dimensione interiore?…
Insegnanti ed educatori sanno bene quanto siano coinvolgenti i giochi di travestimento e di mascheramento per i/le bambini/e. Un gioco che anche gli adulti si concedono in alcune occasioni, come il carnevale, ad esempio. Senza dimenticare che la realtà virtuale ha amplificato a dismisura le nostre attuali possibilità di mascheramento, attraverso i giochi di ruolo, la creazione di avatar e dei più diversi profili social. Ed in questo mondo virtuale è sempre più difficile poter affermare: Ti conosco, mascherina! Non si è alla presenza soltanto di piacevoli passatempi, ma immersi in una realtà che sta trasformando le nostre esistenze. Mascheramenti che stanno riplasmando la nostra persona.
Se l'uso della maschera è legato a dimensioni giocose e/o fantasmatiche, quello della mascherina è essenzialmente di tipo protettivo. A livello medico, chirurgico ed in diversi settori lavorativi si rende necessaria la protezione del volto o di una parte di esso. Una barriera per impedire che sostanze o prodotti pericolosi possano essere nocivi o contaminare le persone. E, spesso questi prodotti sono proprio quelli generati dal nostro corpo: saliva, starnuti, muco, ecc.
La diffusione dell'epidemia del coronavirus ci ha imposto l'uso delle mascherine. A nostra protezione, ma soprattutto a protezione di quanti ci sono prossimi. Si profila una lunga stagione ove la nostra vita sociale sarà tutta giocata dietro questi scudi facciali. Non si tratta soltanto di una misura profilattica. Entra in gioco molto del nostro essere – di esseri in relazione. Quanto ci sarà facile riconoscere dietro le mascherine i volti conosciuti? Proveremo imbarazzo quando ci ritroveremo davanti a volti non coperti? Impareremo a guardarci negli occhi o le mascherine sanciranno un ulteriore distanziamento esistenziale? Ascolteremo le persone parlare senza poter scorgere il movimento delle loro labbra e l'intera mimetica dei volti: quanto tutto ciò influirà sulla nostra comunicazione? E che ne sarà dei nostri/e adolescenti che già manifestavano la tendenza a nascondersi, coperti dagli ampi cappucci dei loro giubbotti?…
La legge Reale del 1975 – mai abolita - vieta l'uso di tutto ciò che copre il volto impedendo il riconoscimento della persona... Ora, invece, ci dobbiamo mascherare. Le leggi passano da un estremo all'altro, attraverso le proibizioni e le liberalizzazioni. Non sempre ciò è frutto di saggezza e di razionalità. Spesso, solo dello stato di necessità.
È quanto mai probabile che quanti fino a poche settimane fa provavano disagio o si alteravano di fronte alla visione di un volto celato da un velo islamico (il niqāb, ad esempio), nei prossimi mesi (anni?) mostreranno uguale o maggiore preoccupazione davanti al volto scoperto di un immigrato. Bisogna riconoscere che la vita e la storia – a volte anche nelle esperienze più tragiche e dolorose – ci riservano sorprese inaspettate.
È certo che la moda non tarderà, passata la fase d'emergenza, ad entrare in gioco con i suoi prodotti e le sue offerte. Avremo una vasta e dettagliata proposta commerciale. Anche le mascherine assumeranno un loro fascino ed il loro aspetto seducente. S'instaureranno nuove prassi, sulla cui durata nessuno può giurare. Anche perché molti dei nostri comportamenti, oramai, si fondano soprattutto sul piano economico.
Pure la nostra vita religiosa resta coinvolta in questa nuova esperienza sociale e l'interessamento va ben aldilà della partecipazione alle funzioni liturgiche. Celare/svelare il volto non è semplicemente un'esperienza fisica, ma sottintende un coinvolgimento esistenziale che raggiunge le profondità del nostro essere. Nel binomio velamento/svelamento, infatti, il testo biblico comunica il perenne gioco che Creatore e creatura intrecciano. Cercare ed essere cercati, trovare ed essere trovati, nascondersi e manifestarsi non sono azioni che competono soltanto ad uno dei protagonisti della storia della salvezza. Prima del Dio absconditus (nascosto) le pagine del Genesi ci parlano dell'uomo che prova paura e si nasconde (3,10). Dio è colui che cerca l'uomo. «Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari» (1). Ma, al tempo stesso, l'uomo è invitato a cercare «il Signore, mentre si fa trovare» (2).
Ed il centro simbolico intorno a cui ruota questa ricerca è il volto. «Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto» (3). Così prega il salmista. Ma c'è un episodio particolare da sottolineare, tra le diverse epifanie divine: a Mosè che chiede di poter vedere la gloria di Dio è dato di scorgere non il volto, ma soltanto le tracce sulla sabbia del passaggio di Dio (4). Per il credente il desiderio non è totalmente compiuto, ma prolungato. Gioco umano/divino che dura per tutta la vita… Prima del reciproco riconoscimento.
E quest'odierno velare il volto potrà aiutarci nel nostro desiderare lo svelamento del volto di Dio?
Faustino Ferrari
1) Dt 32,10.
2) Is 55,6.
3) Sal 26,8-9.
4) Cfr Es 32,18-23.