I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Quando i gesti contano più delle parole

di Cettina Militello

I lettori vorranno perdonarmi se questo mese al viaggio abituale tra le donne teologhe sostituisco alcune riflessioni a margine della visita di Benedetto XVI in Turchia. Lo faccio proiettandomi nel clima dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani e richiamando insieme quel lontano 25 gennaio del 1959, quando, a pochi mesi dalla sua elezione, papa Giovanni manifestò il suo progetto di indire un concilio. La visita del Papa a mio parere sta all’interno di entrambe le attenzioni. Da una parte l’impegno, la fatica, il desiderio di raggiungere finalmente l’unità visibile tra i cristiani. Dall’altra il Concilio come “bussola” grazie alla quale è possibile navigare nella complessità dell’oggi finalmente recependone il messaggio, sul fronte dell’unità delle Chiese cristiane come su quello del dialogo interreligioso.

Nei discorsi del Papa sono state diverse le citazioni del Concilio. Parlando ai musulmani, il riferimento è stato soprattutto a Nostra aetate, ma anche la Gaudium et spes ha avuto un suo spazio. Parlando al piccolo gregge dei cattolici, le citazioni più importanti sono state tratte dalla Lumen gentium. Indirizzandosi poi al patriarca Bartolomeo, il riferimento obbligato e diretto è stato a Unitatis redintegratio. Ma va da sé che alle spalle dell’incontro, come di quelli intercorsi in precedenza tra i due capi delle due Chiese sorelle, sta l’intero travaglio del Vaticano II culminato, come più volte ricordato, nella reciproca cancellazione delle scomuniche.

Indirizzandosi al ministro per gli affari religiosi, il Papa ha ricordato come «per più di quarant’anni, l’insegnamento del concilio Vaticano Il ha ispirato e guidato l’approccio della Santa Sede e delle Chiese locali di tutto il mondo nei rapporti con i seguaci delle altre religioni. Seguendo la tradizione biblica, il Concilio insegna che tutto il genere umano condivide un’origine comune e un comune destino: Dio, nostro Creatore e termine del nostro pellegrinaggio terreno. I cristiani e i musulmani appartengono alla famiglia di quanti credono nell’unico Dio e che, secondo le rispettive tradizioni, fanno riferimento ad Abramo» (cf Nostra aetate 1; 3). E ricevendo gli ambasciatori accreditati presso il governo turco, di nuovo richiamandosi al Vaticano Il, il Papa ha affermato che «la Chiesa cerca ugualmente di collaborare con i credenti e i responsabili di tutte le religioni, e particolarmente con i musulmani, per “difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Nostra aetate 3)». «Spero», concludeva il Papa, «che, in questa prospettiva, il mio viaggio in Turchia porti numerosi frutti».

Il reciproco riconoscimento

Possono apparire affermazioni di routine o d’occasione. In verità, nella prospettiva di un reciproco riconoscimento e di un reciproco rispetto, non lo sono. Il dialogo è tale se l’altro ci è interlocutore alla pari; il che in altre parole vuol anche dire: se l’altro è oggetto del nostro amore. E’ certamente difficile muoversi, capovolgendo malintesi secolari e pregiudizi sempre vivi. Ma il vero dialogo non può nascere da considerazioni opportunistiche sul fronte della religione messa ai margini da un mondo globalizzato e secolarizzato; nasce piuttosto dal sincero riconoscimento che Dio si rivela anche oltre i confini rassicuranti della Chiesa e – ancor di più - che la Chiesa deve essere segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità con tutto il genere umano (cf LG 1). E questo appunto credo abbia testimoniato la preghiera silenziosa del Papa in direzione della Mecca. Ha condiviso al massimo ciò che ci unisce - la fede nel «Dio uno e misericordioso» (lo ha ricordato al piccolo gregge nella cattedrale di Istanbul citando LG 16) - e se ne è fatto testimone.

Anche sul fronte del dialogo ecumenico i gesti contano più delle parole - penso alle mani strette e levate insieme del Papa di Roma e del Patriarca di Costantinopoli -. E tuttavia, anche le parole possono suggerirci qualcosa in più oltre le difficoltà e la stanchezza di un dialogo - ahimé fermo, e da oltre un decennio -. Provo a selezionarle in questo senso a partire dalla dichiarazione comune, nella quale Benedetto e Bartolomeo auspicano che il loro incontro costituisca «un segno e un incoraggiamento (…) a condividere gli stessi sentimenti e gli stessi atteggiamenti di fraternità, di collaborazione e di comunione nella carità e nella verità». C’è un affidarsi allo Spirito Santo che, quando e come Dio lo vorrà, li aiuterà a preparare il grande giorno del ristabilimento della piena unità. Ma proprio da quest’intrecci di gioia e speranza emerge la consapevolezza che solo allora potranno rallegrarsi ed esultare veramente.

Sappiamo che la via conciliare al ristabilimento dell’unità visibile corre lungo il doppio binario del dialogo teologico e del dialogo della carità. Va detto che l’uno non corre senza l’altro e la stasi del dialogo teologico ha non di poco complicato anche il dialogo della carità. Riaffermare il valore del dialogo teologico, la sua funzione, il suo scopo dichiarato di «ristabilire la piena comunione», diventa dunque importante. Così come è importante la congiunta affermazione circa il non aver tratto dall’abolizione mutua delle scomuniche «tutte le conseguenze positive che ne possono derivare per il nostro cammino verso la piena unità».

Ripresa del dialogo

In verità il dialogo con l’ortodossia, il dialogo teologico, è ripreso nello scorso settembre, come la dichiarazione ricorda. E il tema a cui si è lavorato e al quale si continuerà a lavorare è quello della “Conciliarità e autorità nella Chiesa” a livello locale, regionale e universale. Con ciò la commissione, afferma ancora la dichiarazione, «ha intrapreso una fase di studio sulle conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa. Ciò permetterà di affrontare alcune delle principali questioni ancora controverse». E’ chiaro che siamo al cuore di un tema non solo portante per l’ecclesiologia ecumenica, ma portante tout court. Autorità e conciliarità sono i due poli del vissuto ecclesiale e il problema è quello di considerarli insieme, l’uno e l’altro, senza sbilanciarsi a favore dell’uno piuttosto che dell’altro.

La questione investe l’unica Chiesa che è presente in ogni Chiesa locale e investe la communio ecclesiarum, ossia il rapporto reciproco, la rete delle Chiese nella diversa circolarità anche canonica del luogo, della regione, della Chiesa intera e delle strutture che ne manifestano il mistero. Ripeto, se tutto ciò investe direttamente la questione delle Chiese in situazione di unità non ancora piena, investe anche il vissuto della Chiesa cattolico-romana, l’equilibrio anche in essa di un’articolazione sinodale - direi conciliare - che senza inficiare il referente dell’autorità, veramente lasci trasparire la soggettualità del popolo peregrinante, tutto intero in cammino, tutto intero attivo, come lo stesso papa Benedetto ha ricordato con dense parole, nell’omelia del 1’ dicembre, al piccolo gregge di Istanbul.

Rileggere il servizio petrino

E il problema dei problemi resta quello del Papato, resta il suo esercizio fuori da una contestualità sinodale quale fu attestata nel primo millennio. Resta il paradosso cattolico di ispirarsi a un concilio, il Vaticano Il, che pure “ecumenico” non è nel senso più proprio del termine, visto che a celebrarlo, sia pure invitando osservatori delle altre confessioni, è stata la Chiesa cattolico-romana. Il Papa ha ricordato, salutando il patriarca di Costantinopoli, come «in questa parte del mondo orientale si sono tenuti i sette concili ecumenici che ortodossi e cattolici riconoscono come autorevoli per la fede e la disciplina della Chiesa. Essi costituiscono permanenti pietre miliari e guide lungo il cammino verso la piena unità».

Ma basta ricordarlo oppure occorrerebbe riaprire il cantiere di un’effettiva conciliarità ecumenica? Verrà, insomma, il giorno nel quale cattolici e ortodossi e i battezzati tutti saranno raccolti in un concilio di nuovo veramente e pienamente ecumenico? Di più, verrà il giorno in cui il servizio petrino sarà riletto come tale e perciò liberato dalle pastoie di un esercizio del primato che altro non dovrebbe chiedere se non di servire alla verità e alla carità, senza prevaricazioni, senza offendere in alcun modo la ricchezza che lo Spirito elargisce a ogni Chiesa? Ecclesiae seu ritus, affermava Orientalium ecclesiarum 2.

Di quanto cambierebbe il rapporto delle Chiese ora separate se solo avessimo il coraggio di leggerne la storia come «espressione di quella mirabile varietà di cui è adornata la Sposa di Cristo». Così il Papa plaude alla molteplicità dei riti a cui fanno riferimento i fedeli e i vescovi convenuti alla cosiddetta casa di Maria ad Efeso, e aggiunge: «Purché sappiano convergere nell’unità e nella comune testimonianza». Credo sinceramente che occorra avere il coraggio - reciproco s’intende - d’assumere la provvidenzialità delle differenze che connotano le Chiese. Non c’è altra strada.

Occorre dar credito allo Spirito e riconoscerne il soffio diversificato. Insomma un consenso diversificato su ciò che ci ha divisi nel secondo millennio e, invece, assunzione totale, senza riserve, di ciò che ha visto le Chiese convergere nel primo millennio e di tutto quanto, pur essendo proprio a ognuno, non incrina la propria specifica identità ecclesiale. Che la questione del primato sia un punctum dolens i Papi lo riconoscono da Paolo VI in poi.

Superare le riserve al dialogo

Anche papa Benedetto nota che «il tema del servizio universale di Pietro e dei suoi Successori ha sfortunatamente dato origine alle nostre differenze di opinione, che speriamo di superare, grazie anche al dialogo teologico, ripreso di recente».E aggiunge: «Il mio venerato predecessore, il Servo di Dio papa Giovanni Paolo II, parlò della misericordia che caratterizza il servizio all’unità di Pietro, una misericordia che Pietro stesso sperimentò per primo (Ut unum sint 91). Su questa base papa Giovanni Paolo fece l’invito a entrare in dialogo fraterno, con lo scopo di identificare vie nelle quali il ministero petrino potrebbe essere oggi esercitato, pur rispettandone la natura e l’essenza, così da “realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (ibid. 95). E’ mio desiderio oggi richiamare e rinnovare tale invito» (discorso del 30 novembre nella chiesa patriarcale di San Giorgio al Fanar).

Voglio davvero augurarmi che papa Benedetto, ponendo la questione ecumenica tra i temi peculiari del suo pontificato - penso ancora con commozione alla metafora della rete “smagliata” nell’omelia d’inizio del suo ministero - oltrepassi autorevolmente da pastore e teologo le riserve che facilmente vengono opposte al riguardo. Purtroppo, spesso nella difesa del privilegio petrino, di certe sue forme, si nasconde più la volontà di esercitare ciascuno per la sua parte un piccolo/grande potere vicario, che non la volontà di riconoscere al successore di Pietro quanto a parole gli si riconosce.

Nella questione ecumenica - e non solo da parte cattolica - spesso è la pigrizia, il quieto vivere a prevalere. Si finisce con il rifuggire da tutto ciò che impegnerebbe altrimenti la Chiesa tutta, nell’interezza delle membra, come ha ben ricordato il Papa ai fedeli raccolti a Efeso e nella cattedrale di Istanbul. Il Papa però d’altro sentire si è fatto garante: «Posso assicurarvi», ha detto nel medesimo discorso al Fanar, «che la Chiesa cattolica è pronta a fare tutto il possibile per superare gli ostacoli e per ricercare, insieme con i nostri fratelli e sorelle ortodossi, mezzi sempre più efficaci di collaborazione pastorale a tale scopo». L’ecumenismo non è un processo dall’alto, né tanto meno è un processo elitario.

L’unità visibile della Chiesa è nelle mani di tutti; non a caso la dichiarazione comune si conclude facendo appello a tutti «i fedeli delle nostre Chiese presenti ovunque nel mondo, vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, uomini e donne laici impegnati in un servizio ecclesiale, e a tutti i battezzati». Papa Benedetto, poi, commentando ai fedeli raccolti nella cattedrale di Istanbul le parole di Mt 16,17: «Beato te, Simone figlio di Giona: perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (e siamo all’interno di un “testo fondativo” del primato) ha aggiunto rivolto a tutti i presenti: «Sì, siamo beati quando lo Spirito Santo ci apre alla gioia di credere e quando ci fa entrare nella grande famiglia dei cristiani, la sua Chiesa, così molteplice nella varietà dei doni, delle funzioni e delle attività, e nello stesso tempo già una, “poiché è sempre lo stesso Dio che agisce in tutti”». Voglia lo Spirito renderci consapevoli del suo dono e accompagnarci nella consapevolezza dell’unità donata e nella fatica dell’unità da additare come tale a noi stessi e al mondo.

(da Vita Pastorale, Gennaio 2007)

Senza pace non c'è futuro

di Gerolamo Fazzini

Il rispetto della persona, immagine di Dio, è alla base della vera pace. Altrimenti, i diritti umani vengono svuotati del loro senso autentico.

«Rispettando la persona si promuove la pace, e costruendo la pace si pongono le premesse per un autentico umanesimo integrale. È così che si prepara un futuro sereno per le nuove generazioni». È uno dei passaggi-chiave del messaggio di Benedetto XVI per la Giornata mondiale della pace 2007. Un messaggio ampio e articolato, ma con una forte unitarietà interna e un nucleo centrale chiarissimo: «La persona umana cuore della pace», come suona il titolo.

Mai chiaramente come stavolta, il Papa - che si rivolge «ai governanti e ai responsabili delle nazioni» ma anche «a tutti gli uomini e le donne di buona volontà» - ha rimesso al centro lo strettissimo legame («trascendente grammatica» lo chiama) tra il rispetto della dignità della persona e la pace. Non c’è futuro senza pace, dice il Papa; ma non c’è pace senza il riconoscimento della persona. Ergo: occorre ripartire dalla verità dell’uomo, immagine di Dio, perché la pace non sia vuoto slogan o mero anelito spiritualista.

All’apparenza, quello di Papa Ratzinger sembra un richiamo formale: chi oggi non si direbbe d’accordo con la tutela dei diritti umani? «Se però - puntualizza Benedetto XVI - questi diritti si fondano su una concezione debole della persona, come non ne risulteranno anch’essi indeboliti?». La dignità dell’uomo - sottolinea il Papa - sta nel fatto che «nella sua natura si rispecchia l’immagine del Creatore». Di qui, come per cerchi concentrici, nascono e si sviluppano i diritti fondamentali, in primis alla vita.

È sulla originaria dignità dell’uomo come figlio di Dio che si fondano, altresì, il diritto alla libertà religiosa - al quale Benedetto XVI dedica un passaggio cruciale - così come l’urgenza di un’uguaglianza piena, superando discriminazioni sessuali o ingiustizie nell’accesso ai beni; è sulla «persona cuore della pace» che si radica l’impegno per una «ecologia umana e sociale» e la costruzione paziente di un’architettura internazionale a servizio della pace.

Le conseguenze non sono né poche né di poco conto. Innanzitutto, lottare in difesa della vita non è meno importante che protestare contro le troppe guerre che insanguinano il mondo o adoperarsi per abbattere le ingiustizie. Per converso: non ha senso battersi per l’embrione se questo significa chiudere gli occhi su tante altre insidie alla vita e alla pace che si verificano oggi nel mondo.

Ancora. Pensare di risolvere i problemi della pace semplicemente ristrutturando l’Onu e, in generale, rimodellando i rapporti politici tra Stati sarebbe miope, sembra dire il Papa. In causa, infatti, siamo chiamati tutti, grandi e piccoli, politici e cittadini, aziende e consumatori. La pace - ossia «la capacità di vivere gli uni accanto agli altri tessendo rapporti di giustizia e di solidarietà» - è qualcosa che ciascuno deve costruire nel suo spazio di vita, ogni giorno. Perché «la pace è insieme un dono e un compito». E dunque tutti, in misura diversa, siamo chiamati a farci carico di quanto avviene oltre il cortile di casa, siano il conflitto del Darfur o le tensioni del Libano. Tutti, in qualche modo, siamo corresponsabili delle varie emergenze citate dal Pontefice, dalla fame al pericolo nucleare, dalla violenza brutale delle armi a quella più sofisticata della bioetica piegata a fini disumani.

Infine. Se «il riconoscimento e il rispetto della legge naturale costituiscono la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti», quella che si profila è la possibilità di una nuova alleanza fra tutti coloro che riconoscono l’insopprimibile dignità dell’uomo, a fronte di chi vede nella persona «una dignità cangiante» e «diritti sempre negoziabili». Una sfida antica, ma che oggi - in un contesto com’è il nostro, segnato da fortissime derive tecnologiche ed economicistiche -assume un significato e una portata inauditi

(da Mondo e Missione, Gennaio 2007)

Pace e Dialogo Interreligioso

Un appello per la pace, «nome di Dio»

di Gabriele Mandel khân



Riteniamo utile premettere al prezioso testo di Gabriele Mandel khân un appello formulato da credenti di ogni religione al termine dell’annuale incontro Uomini e religioni, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, nello spirito della preghiera di Assisi (1986). Centrale il passo che indica «la pace (come) il nome di Dio. Dio non vuole l’eliminazione dell’altro. Dio ha compassione per chi soffre sotto i colpi della violenza, del terrorismo, della guerra. Chi usa il nome di Dio per affermare un interesse di parte o legittimare la violenza, avvilisce la religione».

Uomini e donne di religione differente ci siamo ritrovati nell’antica città di Lione per pregare, per dialogare, per far crescere un umanesimo di pace. Rendiamo omaggio alla memoria di Giovanni Paolo II, che è stato un maestro di dialogo e un testimone tenace della santità della pace. Siamo convinti che, senza pace, questo mondo diviene disumano. Abbiamo ascoltato il grido di tanti che soffrono per la guerra o per il terrorismo. Ci siamo chinati, pensosi, sulle nostra tradizioni religiose e vi abbiamo letto un messaggio di pace. Abbiamo pregato per la pace nel mondo.

E in nome della pace che ci rivolgiamo ai nostri correligionari, agli uomini e donne di buona volontà, a chi ancora crede che la violenza migliori il mondo. E diciamo: è tempo che finisca l’uso della violenza! La vita umana è sacra. La violenza umilia gli uomini e la causa di chi la utilizza. Il mondo è stanco di vivere nella paura. Le religioni non vogliono la violenza, la guerra, il terrorismo. Lo diciamo con forza a tutti gli uomini!

Deploriamo la distruzione dei luoghi religiosi dell’una o dell’altra comunità: le moschee, le chiese, le sinagoghe, i templi. I simboli della fede altrui non siano calpestati, perché ricordano a tutti il nome santo di Dio che non appartiene agli uomini. Come domandiamo il rispetto per la vita umana, chiediamo pure quello per i luoghi santi della vita spirituale.

La pace è il nome di Dio. Dio non vuole l’eliminazione dell’altro. Dio ha compassione per chi soffre sotto i colpi della violenza, del terrorismo, della guerra. Chi usa il nome di Dio per affermare un interesse di parte o legittimare la violenza, avvilisce la religione. Nessuna guerra è mai santa. L’umanità non si migliora con la violenza e con il terrore.

Le religioni insegnano che la pace del cuore è decisiva. Dio la dona a chi crede in Lui. La nostra ferma speranza è che la pace, dono di Dio, si estenda a tutti gli uomini e le donne, abbracci tutti i popoli della terra, fermi le mani dei violenti e sconvolga i disegni di terrore. Per questo abbiamo pregato a Lione.

Abbiamo anche constatato che i dolori del mondo sono tanti: l’umanità è ancora ben lontana dal realizzare quegli obiettivi del millennio, che si era data per abbattere la povertà, per il diritto alle cure, all’istruzione, all’acqua, alla sicurezza di vita, alla libertà dalla fame. Questo è molto grave! Il nostro mondo resta segnato da disperanti povertà. E’ una constatazione dolorosa che manifestiamo, con grave preoccupazione, ai responsabili politici. Ci facciamo carico della disperazione e del bisogno di milioni di poveri della terra. Chiediamo una più forte concentrazione di energie e di risorse per rendere meno povero e più umano il mondo del XXI secolo.

La pace e la giustizia rendono più possibile un mondo migliore. La via della pace è il dialogo. Il dialogo non abbassa la difesa verso l’altro, ma protegge; trasforma l’estraneo in amico; rende possibile quel lavoro in comune per lottare contro la povertà e ogni male.

A Lione abbiamo vissuto un dialogo franco, illuminato dallo spirito religioso della preghiera. Abbiamo dialogato tra esponenti delle varie comunità religiose e con gli umanisti del nostro tempo. Sono emerse le profonde diversità tra religioni e culture. Il mondo, pur globalizzato, non è divenuto tutto uguale. Ma si è fatto chiaro che c’è un destino unico. E’ tempo di lavorare assieme con coraggio per un umanesimo capace di costruire la pace tra i popoli e gli individui. L’obiettivo non è l’affermazione dell’uno o dell’altro, ma realizzare una civiltà in cui si vive insieme. L’arte del dialogo è la strada paziente per costruire questa civiltà del vivere insieme.

Conceda Dio al mondo e a ogni uomo e a ogni donna il dono meraviglioso della pace!

Lione, 13 settembre 2005

(da Vita Monastica, 233, Gennaio-marzo 2006)

La lite tra Girolamo e Rufino,
due umani padri della Chiesa

di Marco Ronconi *

Se perfino tra Girolamo e Rufino è scoppiata la « discordia che ora ci fa piangere, quale amico non si potrà d’ora in poi temere come un possibile futuro nemico?». Sant’Agostino cercava così, nel 404, di appianare un dissidio che fece epoca e che, a raccontarlo, sembra un romanzo. Girolamo dì Stridone è lo stesso san Girolamo cui si attribuisce l’inizio della traduzione latina della Bibbia, la cosiddetta Vulgata. Le sue opere sono capisaldi dell’arte poetica cristiana, dell’esegesi e della letteratura ascetica. Già prima di divenire segretario di papa Damaso, la padronanza della retorica latina e greca, oltre che la discreta conoscenza dell’ebraico, ne facevano un intellettuale ricercato da molti, famoso per la rara competenza cosmopolita, ma anche per il carattere passionale e poco incline alla diplomazia. Rufino di Concordia non fu mai elevato agli altari, ma a lui si rifecero, tra gli altri, Agostino, Giovanni Cassiano, Cassiodoro, Benedetto da Norcia e Isidoro di Siviglia. Secondo j. Gribomont e buona parte della critica contemporanea, le traduzioni che elaborò dal greco al latino di opere capitali per la cristianità hanno «recato un contributo decisivo alla cultura, biblica e non, del Medioevo latino». E grazie a lui, ad esempio, se ancora oggi conosciamo alcuni testi di Origene, andati perduti nell’originale.

Entrambi cresciuti vicino ad Aquileia alla scuola del vescovo Cromazio, entrambi traduttori ed esegeti, entrambi monaci e legati a nobildonne romane (Melania per Rufino e Paola per Girolamo), con cui fondarono monasteri in due diversi punti di Gerusalemme, avevano chiaramente idee diverse sui metodi di traduzione della Bibbia e sull’interpretazione della vita ascetica, ma nessuno immaginava quanto sarebbe accaduto nella controversia su Origene, il primo intellettuale cristiano di livello enciclopedico, vissuto ad Alessandria nel III secolo. La controversia nacque dal fatto che i testi di Origene, scritti evidentemente prima delle elaborazioni dottrinali dei grandi concili, si prestavano a interpretazioni difficili. All’epoca di Girolamo e Rufino, erano guardate con sospetto alcune sue spiegazioni sulla resurrezione della carne, sulla salvezza del diavolo, sull’esegesi allegorica e sulla preesistenza delle anime.

Nel 398, in particolare, inizia una “raccolta di firme” per mettere all’indice l’alessandrino. Girolamo, che pure ha mostrato fino a quel punto incomparabile stima per colui che ha elogiato come grandissimo maestro aderisce al movimento antiorigenista, suscitando le critiche di molti, tra cui Rufino, che lo bollano in modo sottile ma inequivocabile come un traditore. Per lettera, volano parole grosse - soprattutto da parte di Girolamo - ma i due, complici anche amici comuni, riescono a riconciliarsi quasi subito, al punto che Rufino, presentando la traduzione di una delle opere più notevoli di Origene, cita Girolamo come modello del particolare metodo adottato. Il cardinale della Repubblica ceca Tomàš Špidllìk lo spiega così: «Non tutti coloro che traducono letteralmente i termini rendono bene anche il pensiero dell’autore. Per comprendere bene un testo bisogna amarlo. Ed è ciò che fa Rufino. Egli ammira il pensiero di Origene e perciò, nonostante la sua libertà nei termini, rende spesso meglio le idee principali del grande maestro alessandrino». Per preservare il buono della dottrina di Origene, quindi, non esita a smussare, togliere e ricomporre i testi, come del resto era costume tipico dell’epoca.

Il problema è che quando Girolamo legge la dedica, va su tutte le furie. Non vuole in nessun modo il suo nome legato all’alessandrino e, tra gli epiteti più lievi con cui parla di Rufino, risuonano «scorpione», «asino», «canaglia». Traduce poi la stessa opera senza nessuno degli accomodamenti di Rufino, per mostrare non solo quanto sia pericolosa, ma anche quanto poco credibile sia il lavoro dell’ex amico. Questi dà allora alle stampe un’Apologia, in cui ribatte chiedendo a Girolamo: «Che cosa è più audace e temerario: tradurre questi libri di Origene, dei quali quasi tutta la materia avevi già esposto in altre opere e tutte le dottrine che ora condanni avevi già pubblicate in opere tue: oppure alterare i libri della Sacra Scrittura [...] basandoti su una traduzione nuova del testo ebraico? Quale di queste due azioni ti sembra più illecita?». La tenzone crescerà ancora, fino a livelli d’acrimonia e di colore stupefacenti, su cui non ci addentriamo oltre. A un certo punto Rufino smise di replicare, mentre «finalmente è stata schiacciata la testa dell’idra», è la non criptica frase con cui Girolamo commentò la morte dell’altro.

Personalmente, pur comprendendo lo scoramento di Agostino, quando mi capita oggi di considerare l’importanza che hanno avuto le opere di questi uomini nella tradizione cristiana, avverto un qualche retrogusto di consolazione: amo infatti immaginare Girolamo e Rufino da qualche parte, sotto lo sguardo paziente e vigilante di un angelo, continuare ancora a discutere animatamente, l’uno un po’ più burbero e focoso, l’altro più sospirante e silenzioso, e capisco sempre più come il termine “Padri della Chiesa” sia sapientemente ricco di umanità e soprattutto plurale.

* teologo e insegnante di religione

(da Jesus, dicembre 2006)

Lettura liturgica del Libro di Isaia

I «Canti del Servo» nella liturgia cristiana

di Angelo Lameri

Ci proponiamo di leggere le pericopi di Is 42,1-9; 49,1-6; 50,4-9a; 52,13-53,12 (in se­guito questi testi verranno indicati con nu­meri arabi da 1 a 4) alla luce del loro utiliz­zo nella celebrazione liturgica, nel cui conte­sto la parola di Dio si arricchisce di una in­terpretazione nuova e di una insospettata ef­ficacia (cf Premesse al Lezionario, n. 3).

Le pericopi del «Servo sofferente» nel corso dell'anno liturgico

La presenza delle quattro peri copi è parti­colarmente evidente nella Settimana Santa: i canti 1-2-3 sono utilizzati come prime let­ture rispettivamente nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì, mentre il canto n. 4 apre la liturgia della parola nell'azione litur­gica del Venerdì Santo. Inoltre la pericope 3, in una forma abbreviata che si ferma al versetto 7, è utilizzata anche la domenica delle palme.

Non possiamo però ignorare che anche in altri momenti dell'anno liturgico siamo in­vitati all'ascolto di questi testi isaiani, pre­cisamente quattro volte in domeniche del Tempo Ordinario e una volta nel proprio dei Santi. In dettaglio: 42,1-4.6-7 nella dome­nica del Battesimo di Gesù - anno A, che chiude il Tempo di Natale e inaugura le settimane del Tempo Ordinario; 49,3.5-6 nella seconda domenica «Per annum» A e, con qualche modifica (49,1-6), nella messa del giorno della solennità della natività di Gio­vanni Battista; 50,5-9a nella XXIV domeni­ca «Per annum» B; 53,2a.3a.10-11 nella XXIX domenica «Per annum» B. Quest'ul­tima lettura infine compare tra i testi sugge­riti per la Messa votiva della S. Croce.

• Nella domenica del Battesimo di Gesù il primo canto del Servo del Signore è posto in relazione alla pericope evangelica di Mt 3,13-17. Dai «titoli» assegnati ai due testi appare evidente l'invito a leggere la figura del Servo, designato con solennità e abilita­to alla predicazione dallo spirito del Signo­re (Is 42, 1), in riferimento a Gesù Cristo e alla sua missione. Il titolo della prima lettu­ra infatti sottolinea: Ecco il mio Servo nel quale mi sono compiaciuto, ad esso fa eco il canto al Vangelo: Si aprirono i cieli e la vo­ce del Padre disse: Questi è il mio Figlio di­letto, ascoltatelo. La seconda delle collette alternative, infine, applica le prerogative del Servo «alleanza del popolo e luce delle na­zioni» a Gesù: Padre d'immensa gloria, tu hai consacrato con potenza di Spirito Santo il tuo Verbo fatto uomo, e lo hai stabilito lu­ce del mondo e alleanza di pace per tutti i popoli ...

• La seconda domenica del Tempo Ordina­rio ha il compito di operare un collegamen­to tra il Tempo di Natale, conclusosi con la festa del Battesimo di Gesù e il tempo «Per annum». Affermano le Premesse al leziona­rio: «Nella seconda domenica del TO il Vangelo si riferisce ancora alla manifesta­zione del Signore, celebrata nella solennità dell'Epifania: tale riferimento è sottolinea­to dalla pericope tradizionale delle nozze di Cana e da altre due pericopi, tratte esse pu­re dal Vangelo di Giovanni» (n. 105). Nel ciclo A, Giovanni Battista manifesta Gesù come l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (cf Gv 1,29-34) e la lettura di Is 49,3.5-6 applica a questo agnello di Dio il compimento della missione del Servo, pro­totipo del vero Israele, di divenire luce del­le nazioni per portare la salvezza fino all'e­stremità della terra. Viene infatti associato a questa pericope il Salmo 39: Ecco, io ven­go, Signore, per fare la tua volontà, che la lettera agli Ebrei mette sulle labbra di Gesù nel momento della sua incarnazione. Quindi il Servo, che Jahvè ha plasmato dal seno materno, è il Cristo, venuto per fare la vo­lontà del Padre, prendendo su di sé il pecca­to del mondo per portare la salvezza fino al­l'estremità della terra.

• Le domeniche del Tempo Ordinario adot­tano per i Vangeli il criterio della lettura se­micontinua dei Sinottici e le prime letture, tutte dall' AT, rispondono al criterio della concordanza tematica con la pagina evange­lica. Affermano le Premesse al Lezionario: «Si è fatto il possibile perché le letture scel­te fossero brevi e facili. Ma si è anche cer­cato che fossero assegnati alle domeniche molti testi importanti dell'Antico Testamen­to. È vero che questi testi dell'Antico Testa­mento sono inseriti nel Lezionario senza or­dine logico, per poterli riferire al brano del Vangelo; tuttavia il tesoro della Parola di Dio verrà aperto in così larga misura, che i partecipanti alla Messa domenicale potranno conoscere quasi tutte le pagine più im­portanti dell'Antico Testamento» (n. 106). Ci troviamo quindi di fronte ad una triplice preoccupazione, di natura didattica, cate­chetica: il loro legame con la pericope evan­gelica, che costituisce il criterio fondamen­tale di scelta; la semplicità e la brevità dei testi per favorirne la comprensione; la suffi­ciente completezza del ciclo triennale che presenta tutte le pagine più significative del­l'AT per farle conoscere ai praticanti delle Messe domenicali.

Ecco perché nella XXIV domenica Balla pericope di Mc 8,27-35, che attraverso il ti­tolo vuole mettere in evidenza la verità sul­la persona di Gesù Cristo, Figlio dell'uomo che deve molto soffrire, viene associata la pagina di Is 50,5-9, invitando così a leggere le parole del profeta come annuncio della passione del Signore che, schernito e oltrag­giato, non ha attenuato la sua fiducia in Dio.

Il quarto canto del Servo sofferente è utiliz­zato nella XXIX domenica B. Il Vangelo in­fatti ritorna sul tema della passione e morte:

Il Figlio dell'uomo è venuto per dare la propria vita in riscatto per molti per poi ri­cordare ai discepoli di ogni tempo che la vera grandezza sta nel servire e nel dare la vita (Mc 10,35-45). È quanto afferma il pro­feta: la vita del Servo del Signore, all'appa­renza segnata dal disprezzo e dalla sofferen­za, diviene causa di salvezza e di giustifica­zione per molti.

• Infine, anche nella messa del giorno della solennità di Giovanni Battista viene procla­mato uno dei nostri testi: Is 49,1-6. Qui pro­babilmente non si intende applicarlo diretta­mente a Gesù, visto che il Vangelo descrive la nascita del Battista (Lc 1,57-66.80), ma viene utilizzato per illustrare la missione del profeta, chiamato fin dal seno materno. Conduce verso questa interpretazione anche l'analoga scelta della messa della vigilia, che propone come prima lettura Ger 1,4-10 che narra la vocazione del profeta Geremia, stabilito profeta delle nazioni e consacrato prima ancora che uscisse alla luce.

La Settimana Santa

La Settimana Santa si colloca al termine dell' itinerario quaresimale, caratterizzato in modo originale nella proposta delle peri copi evangeliche, che seguono un loro percorso nei tre cicli, e delle letture dall'Antico e dal Nuovo Testamento.

La domenica delle Palme, che per certi aspetti è inserita nell' itinerario quaresimale nel quale costituisce la sesta domenica, apre questa settimana singolare, cui scopo è quello di ricordare la Passione di Cristo fin dal suo ingresso messianico in Gerusalem­me (cf Norme sull'anno liturgico e il calen­dario, nn. 30-31). (1)

Le premesse al Lezionario propongono una sintetica indicazione circa la proclamazione della Parola di Dio: «Nella domenica "delle Palme e della Passione del Signore ", per la processione sono scelti, dai tre Vangeli si­nottici, testi riferiti all'ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme; alla Messa invece si legge il racconto della Passione del Signo­re» (n. 97). Abbiamo quindi, a differenza delle altre domeniche, quattro testi biblici, di cui due dal Vangelo.

La celebrazione si apre con la commemora­zione dell'ingresso di Gesù in Gerusalem­me, che nella forma solenne prevede un rito di benedizione dei rami di palma o di ulivo a cui segue una processione verso il luogo della celebrazione dell'Eucaristia.

Il primo testo biblico viene proclamato nel corso del rito di benedizione che precede la processione e costituisce la memoria del­l'ingresso trionfale di Gesù in Gerusalem­me secondo i brani evangelici dei sinottici.

La celebrazione della Messa è caratterizzata fortemente dalla lettura della Passione del Signore secondo i sinottici, mentre le prime due letture permangono identiche nei tre anni del ciclo: Is 50,4-7: Non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi, sapendo di non restare deluso (terzo canto del Servo del Signore) e Fil 2,6-11: Cristo umiliò se stesso, per questo Dio l'ha esaltato.

La domenica delle Palme ormai introduce negli eventi pasquali della morte e risurre­zione del Signore. Cessano i richiami alla conversione e viene proposto alla fede il Cristo sofferente e glorioso. È quindi già l'i­nizio della celebrazione degli eventi pasqua­li, che nelle due domeniche di passione e di risurrezione mostrano la Pasqua nèHasùa unità di passione/morte e di risurrezione.

In questo contesto la liturgia utilizza i quat­tro canti del Servo sofferente, distribuendo­li nei primi tre giorni e il Venerdì Santo, fa­cendone emergere la specificità.

Il lunedì viene proclamata la prima perico­pe, associata all'episodio dell'unzione di Betania (Gv 12,1-11). Il profeta presenta il Servo eletto sul quale il Signore ha fatto scendere il suo spirito. Di questo Servo ven­gono delineate la funzione e le qualità: pro­clamerà e stabilirà il diritto con fermezza, sarà luce e salvezza per le nazioni, non griderà e non spezzerà la canna incrinata. questa lettura risponde il Salmo 26: il Si­gnore è mia luce e mia salvezza, che appli­ca il tema della luce al Servo che non te­merà perché il Signore è difesa della sua vi­ta. Il brano evangelico invita poi a vedere in Cristo il compimento della figura veterote­stamentaria: l'unzione con nardo profumato di Cristo, Servo umile e docile, strumento di salvezza nelle mani di Dio, annuncia la sua morte e sepoltura. Al tempo stesso però il luogo in cui l'episodio avviene, la casa di Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai mor­ti, lascia intravedere che la fiducia che Cri­sto ha riposto in Dio non verrà delusa per­ché Egli offrirà un luogo di rifugio nel gior­no della sventura. La colletta infine legge la passione di Gesù nel suo valore salvifico: in realtà sfinita per la propria debolezza mor­tale è l'umanità, mentre il Cristo sofferente è fonte di vita.

Al martedì è assegnato il secondo canto. Es­so riprende il tema del primo: io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia sal­vezza fino agli estremi confini della terra. La liturgia però, attraverso il titolo assegna­to alla lettura, se del primo canto richiama­va in modo particolare la mitezza e l'umiltà del Servo, di questo secondo sottolinea la sua missione salvifica universale. Il Salmo responsoriale (dal Salmo 70) infatti, canta i prodigi del Signore: La mia bocca annun­zierà la tua giustizia, proclamerà sempre la tua salvezza, che non so misurare ... e anco­ra oggi proclamo i tuoi prodigi. La pagina evangelica (Gv 12,21-38) richiama infine che questa salvezza passa attraverso il buio della notte, della sofferenza, del tradimento (di Giuda e di Pietro). Gesù-Servo di Dio però non ha faticato e consumato invano le sue forze, perché su di lui Dio manifesterà la sua gloria, che la Chiesa riconosce accla­mando: Salve, nostro Re, obbediente al Pa­dre ... (cf canto al Vangelo).

Mercoledì ascoltiamo il terzo canto. È il canto della passione per eccellenza. Risulta infatti immediato l'abbinamento di quanto il Servo dice di sé con i particolari della passione di Gesù: Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Particolari ri­presi dal salmo 68, che però si conclude lo­dando Dio che ascolta i poveri e non di­sprezza i suoi che sono prigionieri. La peri­cope evangelica riprende il tema del tradi­mento, che inserisce nel contesto della cele­brazione pasquale. Ancora oggi la Chiesa nei santi misteri celebra la passione del Fi­glio, che attraverso il supplizio della croce ci ha liberati dal potere del nemico (colletta) e ci ha rigenerati alla vita eterna (orazione dopo la comunione). Proprio per questo il mistero del Figlio, obbediente al Padre, che non ha opposto resistenza e non si è tirato indietro, deve essere testimoniato nella vita di ogni credente (orazione sulle offerte).

Il Venerdì Santo celebra la Passione del Si­gnore. Il quarto canto del Servo, trafitto per i nostri delitti e schiacciato per le nostre ini­quità, è associato alla lettura della passione secondo Giovanni che attribuisce un carat­tere «trionfale» alla morte di Cristo. Proprio dalla morte di croce Cristo appare vincitore:

Avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente. La lettura di Eb 4,14­16; 5,7-9 aiuta poi a celebrare la passione/morte di Cristo in tutto il suo valore so­teriologico, perché Cristo diviene causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli ob­bediscono: Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiu­tati al momento opportuno.

Conclusione

La pur sommaria presentazione dell'utilizzo dei canti del Servo nella liturgia ci confer­ma prima di tutto il «proprium» della lettu­ra liturgica della parola di Dio, che è sem­pre una lettura cristologica. In questo caso specifico poi la liturgia fa propria una tradi­zione costante, che già a partire dal Nuovo Testamento legge nella persona di Gesù Cristo il compimento della figura del Servo di Dio, sofferente e glorioso. E significativa a questo riguardo la pagina di At 8,26-40nella quale viene descritto l'incontro di Fi­lippo con il funzionario etiope della regina Candace. Il diacono spiega al suo interlocutore Is 53,7-8 in riferimento alla vicenda di Gesù Cristo, anzi proprio a partire da quel passo della Scrittura, gli annunciò la buona novella di Gesù. L'etiope accoglie l'annun­cio e chiede il battesimo, riconoscendo nel­la fede Gesù Cristo come il Figlio di Dio, come aggiunge una glossa antica che si ispira alla liturgia battesimale (cf v. 37).

A questo proposito sottolineiamo che le no­stre pericopi isaiane sono lette in modo par­ticolare nel contesto delle celebrazioni della passione e morte del Signore. Di questa passione e morte i testi in questione e il contesto eucologico nel quale sono inseriti invitano a cogliere la dimensione soteriolo­gica, il «per noi». Il Servo infatti è luce per le nazioni e alleanza del popolo; ricondurrà i superstiti di Israele e porterà la salvezza fi­no agli estremi confini della terra perché si è caricato delle nostre sofferenze, è stato trafitto per le nostre iniquità. La passione di Cristo infatti è redentrice e rinnova l'univer­so (prefazio della passione I); è per noi for­za che ci ottiene il perdono e ci libera dal potere di Satana (collette dei primi tre gior­ni della Settimana Santa) proprio perché Cristo, che era senza peccato accettò la sua passione per noi peccatori e, consegnando­si a un 'ingiusta condanna, portò il peso dei nostri peccati. Con la sua morte lavò le no­stre colpe e con la sua risurrezione ci ac­quistò la salvezza (prefazio della domenica delle palme).

Non dobbiamo infine dimenticare che que­sti testi sono proclamati nel contesto della celebrazione eucaristica, memoriale della morte e risurrezione del Signore. Memoria­le che non costituisce un semplice ricordo soggettivo, che riduce il passato ad un aned­doto, ma è un atto di memoria collettiva, che mette in movimento il presente e di­schiude un avvenire. La Chiesa celebrando la passione e morte del suo Signore è rinno­vata ad immagine di Cristo e grazie a lui ogni cristiano porta in sé l'immagine del­l'uomo celeste, così che dal perdono si ac­cresca la fede e si rinforzi la certezza della redenzione eterna (Venerdì Santo, orazione sul popolo).

1) Cf A. LAMERI, L'anno liturgico come itinerario bi­blico, Queriniana, Brescia 1998 (Interpretare la Bib­bia oggi, 4.5), pp. 65-81.

(da Parole di Vita, 5, 1999)
Lunedì, 23 Aprile 2007 22:04

Il volto divino dell'altro (Marcelo Barros)

Il volto divino dell'altro
di Marcelo Barros






Anno C 28 gennaio 2007 IV Domenica del Tempo Ordinario Ger 1,4-5.17-19 Sal 70 1Cor 12,31-13,13 Lc 4,21-30


Un buon modo di accogliere spiritualmente questa parola del Vangelo, oggi, è immaginare che, proprio come coloro che ascoltarono Gesù, anche noi abbiamo difficoltà a comprendere e ad accogliere la sua proposta. Partire da questo presupposto ci evita di cadere nella presunzione di sentirci migliori e ci fa vivere più urgentemente l'urgenza di convertirci.

I testi di oggi ci parlano del carattere sovversivo e trasformatore della profezia. Geremia è stato chiamato fin dall'utero materno per piantare ed estirpare, per costruire e per demolire (prima lettura). Paolo dice ai Corinzi che lo Spirito è uno solo, ma ha molti doni e suscita i più diversi servizi. Tuttavia, di tutti, il maggiore e più eccellente è l'amore (agapé) che Gustavo Gutierrez dice che è meglio tradurre con solidarietà (seconda lettura). Gesù concretizza tutto questo applicandolo alla sua missione profetica, missione che sorprende ed esige non solo una comprensione nuova e diversa, ma un'adesione esigente e disinteressata.

Un primo sforzo è, allora, quello di comprendere la difficoltà degli ascoltatori di Gesù nella sinagoga di Nazareth. Secondo il Vangelo, Gesù aveva annunciato un nuovo giubileo di liberazione e di vita. Aveva letto la profezia di liberazione del terzo Isaia e aveva affermato: "Oggi si compie questa profezia". Il Vangelo dice che tutti reagirono. Ma Gesù dice che Dio realizza questo non solo per noi ma per tutti, e in particolare per l'altro, per il diverso, per lo straniero. All'udire ciò, i suoi ascoltatori si scandalizzano. Gesù insiste: Elia ed Eliseo sono stati inviati da Dio per dare segnali d'amore agli stranieri e non agli israeliti. Dio pone gli extracomunitari davanti a coloro che sono considerati cittadini.

Al quinto Forum Sociale Mondiale c'era stato un grande atto interreligioso: per due ore rappresentanti di diverse religioni avevano pregato ed espresso il proprio pensiero. Io coordinavo, ma non c'era nessun altro religioso cristiano. Alla fine, una signora venne da me indignata. Perché si erano manifestate tante religioni e io non avevo parlato del cristianesimo? Risposi che per me vivere il cristianesimo è valorizzare il diverso e testimoniare il volto divino nell'altro. Non è facile comprendere che, come diceva Dietrich Bonhoeffer, Dio sceglie di manifestarsi a me attraverso l'altro e all'altro attraverso di me. Fino ad oggi le Chiese hanno avuto difficoltà a vivere questo. Nel luglio del 2006, con grande sofferenza di molti pastori, pastore e fedeli, il Concilio della Chiesa metodista del Brasile, una delle pioniere dell'ecumenismo nel Paese, ha deciso di abbandonare ogni organismo ecumenico che abbia la partecipazione di "cattolici ed altri non cristiani". Da parte della Chiesa cattolica, quanti documenti e testi recenti sono stati scritti per garantire la superiorità della fede cristiana sulle altre credenze?

Nell'attuale contesto di un mondo pluralista, il Vangelo ci chiama alla profezia dell'universalizzazione o decentramento della fede. Oggi, questo è un importante e fondamentale aspetto della profezia del Vangelo. Come dice il teologo brasiliano Faustino Teixeira, "quello che caratterizza il discepolato di Gesù, ossia il cristianesimo, è il senso dell'alterità come norma di spiritualità e di vita".

(da Adista, 5 del 20 gennaio 2007)

L’immagine del religioso e della religiosa del secolo XXI che desidero presentare la sintetizzerei in otto tratti fondamentali, a cui si è giunti dopo le esperienze fatte, gli errori e le esagerazioni commessi e le nuove linee di forza che sono maturate.

Mercoledì, 18 Aprile 2007 01:59

Ecumenismo. Avanti passo dopo passo (l. bad.)

Ecumenismo

Avanti passo dopo passo

(l. bad.)

Qual è Io stato dl salute dell’ecumenismo oggi? Nell’impossibilità di tracciare un bilancio sintetico, ci limitiamo qui a «rileggere» due significativi eventi recenti. In primis, la visita di Benedetto XVI al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che «ha un valore incalcolabile nel processo dl riconciliazione», come ha affermato Sua Beatitudine Bartolomeo I. Dopo le polemiche che hanno preceduto la sua visita In Turchia, il pontefice ha rilanciato Il dialogo sull’esercizio del ministero papale, con l’obiettivo di superare uno degli ostacoli più importanti nel cammino verso la piena unità tra cattolici e ortodossi. La proposta è risuonata nella cattedrale di San Giorgio al Fanar, antico quartiere greco di Istanbul in cui si trova la sede del Patriarcato, nel giorno della festa di Sant’Andrea, primo vescovo della città e patrono delle Chiese orientali. E, insieme alle parole, i gesti: i colloqui a tu per tu, i pranzi insieme, il saluto al Papa attraverso il suono festoso delle campane (che, nella tradizione ortodossa, onora gli ospiti di riguardo), l’abbraccio tra Benedetto XVI e Bartolomeo I, lo scambio tra loro del bacio della pace in segno di fratellanza, la recita del Padre Nostro in greco da parte del pontefice, che tuttavia ha assistito da un posto d’onore alla Divina Liturgia senza poter concelebrare, a motivo della divisione che sussiste tra le due Chiese fin dallo scisma del 1054. E poi, sul balcone del Palazzo patriarcale, il gesto Bartolomeo I, che alza la mano del Papa suscitando Il suo sorriso.

Benedetto XVI ha riconosciuto che «Il tema del servizio universale di Pietro e dei suoi successori ha sfortunatamente dato origine alle nostre differenze di opinione, che speriamo di superare, grazie anche al dialogo teologico, ripreso di recente». Bartolomeo ha rimarcato la «comune volontà di continuare, senza tentennamenti, il nostro cammino, nello spirito di amore e fedeltà, verso la verità del Vangelo e della comune tradizione dei santi Padri, per restaurare la piena comunione delle nostre Chiese». Nella Dichiarazione comune, entrambi hanno rinnovato l’impegno a raggiungere la piena comunione, e al tempo al stesso hanno ribadito la richiesta dl pieno rispetto della libertà religiosa e dei diritti delle minoranze.

Significativo anche il recente incontro tra Papa Ratzinger e l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams - guida per circa 80 milioni di anglicani nel mondo -, anche se rimangono numerosi punti aperti nel confronto tra le due Chiese cristiane. Terreni di impegno condiviso, emersi nel testo congiunto presentato nel novembre scorso, sono rappresentati da «campi dl comune testimonianza»: la «ricerca della pace in Terra Santa» e il «dialogo Interreligioso attraverso Il quale possiamo congiuntamente raggiungere i fratelli e sorelle non cristiani», ad esempio. Il Papa ha assicurato che «il dialogo teologico» proseguirà, nonostante le difficoltà in ambito bioetico ed etico (dai temi della vita all’ordinazione di donne e omosessuali). Da parte sua, Williams ha ricordato che quarant’anni fa - grazie allo storico incontro di Paolo VI con il primate Michael Ramsey - «è iniziato un processo di riconciliazione e amicizia che è continuato fino ad oggi»

Occorre declinare questi passi nella vita quotidiana delle comunità cristiane, in Italia come nel mondo. Uno strumento ormai consolidato è la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio. Il tema di quest’anno è: «Fa sentire i sordi e fa parlare i muti» Il sussidio è elaborato dal Consiglio ecumenico delle Chiese (protestanti e ortodossi) e dal Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (cattolici). Lo stesso dicastero ha promosso la pubblicazione in 7 lingue di un Vademecum, L’ecumenismo spirituale (edito in Italia da Città Nuova), utile sussidio pastorale che suggerisce iniziative per rafforzare le radici di un dialogo già avviato.

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)

Lo sguardo di un teologo ortodosso sul futuro delle Chiese

Verso una spiritualità ecumenica e profetica

di padre Emmanuel Clapsis

Il testo che segue riporta ampi stralci della relazione tenuta al XIV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa tenutosi al monastero di Bose nel settembre 2006. L’edizione integrale degli Atti uscirà nel mese di giugno per le edizioni Qiqajon. Si pubblica per gentile concessione dell’editore.

Padre Emmanuel Clapsis insegna teologia sistematica alla Holy Cross Greek Orthodox School of Theology di Boston; è stato membro di numerose commissioni teologiche di dialogo ecumenico e del Consiglio ecumenico delle Chiese.


Alla nona Assemblea del Consiglio ecumenico delle Chiese tenutasi nel 2006 a Porto Alegre, in Brasile, le Chiese cristiane hanno riconosciuto la necessità di «concentrare l’attenzione sulla natura della spiritualità cristiana e sull’opera dello Spirito Santo nella Chiesa e nel mondo». Un aspetto di essenziale importanza per l’integrità del lavoro ecumenico in vista dell’unità visibile e per la missione delle Chiese. Il bisogno di fondare il movimento ecumenico e la missione delle Chiese cristiane nell’opera dello Spirito Santo è un principio condiviso, fondante l’ecumenismo.

Una spiritualità ecumenica per i nostri tempi deve essere una spiritualità dell’incarnazione, qui e ora, capace di dare vita, radicata nelle Scritture e nutrita dalla preghiera, con una dimensione comunitaria e celebrante, centrata sull’Eucaristia; deve trovare espressione nel servizio e nella testimonianza, ispirare fiducia e speranza. Inevitabilmente condurrà a sopportare sofferenze; è aperta all’ecumene, gioiosa e ricca di speranza. Sua fonte e guida è l’azione dello Spirito. È vissuta e ricercata in comunità per gli altri. È un processo continuo di formazione e discepolato.

Coloro che vivono nello Spirito Santo sanno aprire i loro cuori per abbracciare l’interezza della creazione di Dio. Si prendono cura della vita umana e dell’esperienza di ogni giorno, così come delle questioni di fondo della vita e della sopravvivenza dell’uomo, della giustizia, della pace, della custodia del creato, ma anche delle religioni umane e delle acquisizioni della cultura.

Come ha sostenuto il cardinale Walter Kasper, «la spiritualità sopravvive solo mettendosi in ascolto dei suggerimenti, attese, gioie e fallimenti della vita, e nel riconoscere i segni dei tempi che si rinvengono ogniqualvolta una nuova vita emerge e si sviluppa… Ogniqualvolta la vera vita appare, lo Spirito di Dio è al lavoro». Il suo appello per una spiritualità del quotidiano che abbracci la totalità della vita è stato appoggiato senza riserve dal vescovo ortodosso Kallistos Ware, che ha auspicato «una spiritualità che sappia coinvolgere la vita, in cui non ci sia dicotomia tra il sacro e il profano; una spiritualità non autosufficiente, non specializzata nei suoi propri ambiti, involuta in se stessa, ma al contrario che consideri il mondo come sacramento, che veda ogni essere umano e ogni cosa quali mezzi di comunione con il Dio vivente».

Sembra emergere una convergenza ecumenica sul tipo di spiritualità che le Chiese cristiane intendono incarnare nel mondo presente. Si tratta di una spiritualità che riflette l’opera dello Spirito Santo in ogni aspetto dell’esistenza umana. Include la pienezza della vita - profana e sacra, personale e collettiva -, e non semplicemente la relazione dell’io interiore con Dio. Ora, nel mondo post-moderno si verifica una migrazione culturale verso una vita soggettiva. Le soggettività di ciascun individuo (stati di coscienza, memoria, emozioni, passioni, esperienze fisiche, sogni, sentimenti) diventano una, se non l’unica, fonte di significato, senso e autorità. La «vita-come-se» è identificata con la religione e la «vita soggettiva» con la spiritualità.

La ricerca per comprendere i fattori sociali che caratterizzano la mutazione culturale verso il soggetto e la preminenza che la spiritualità assume nei confronti della religione deve tener conto anche degli effetti che la cultura consumistica e la mentalità di mercato hanno su ogni aspetto della nostra vita sociale e personale. Per esempio, nelle società moderne è emersa una spiritualità individualista-consumistica che comprende capitalismo, consumismo e individualismo, con un orientamento «post-moderno» che privilegia l’eclettismo, la sperimentazione individualistica, un approccio alle tradizioni religiose del tipo «prendine un po’ e mescola insieme». Questo riduzionismo è favorito dalla stessa nebulosità del termine «spiritualità». Il più delle volte, la spiritualità comporta un ampio ventaglio di emozioni e connotazioni, che nella maggior parte dei casi possono essere identificate solo da una certa comprensione della storia del termine, e anche dall’indagine del suo specifico contesto d’uso. I teologi ortodossi nei loro scritti sulla spiritualità e la vita spirituale si sono concentrati soprattutto sulla presentazione della tradizione esicasta, com’è stata praticata nel monachesimo orientale, e hanno recentemente introdotto un importante correttivo a questa tradizione, recuperando ciò che è chiamato spiritualità eucaristica o sacramentale, che assicura l’aspetto comunionale della vita ortodossa. Tuttavia non impegnano sufficientemente la riflessione sui fattori culturali che influenzano oggi la pratica e la comprensione delle vita spirituale ortodossa.

Per padre Alexander Schmemann, la corruzione culturale della spiritualità cristiana è un problema acuto anche per gli ortodossi: «Il nostro è il tempo dell’impostura, della frode spirituale… e il pericolo maggiore, la più grande carenza di tutto questo fenomeno è che troppe persone oggi - compresi quelli che appaiono come i più tradizionali “dispensatori” di spiritualità - sembrano considerare la spiritualità una sorta di entità a se stante, pressoché totalmente disconnessa dall’insieme della concezione cristiana e dell’esperienza di Dio, del mondo e dell’uomo, dalla totalità della fede cristiana. Ho visto la filocalia (l’amore per la bellezza - ndr) letta e praticata in gruppi e circoli i cui insegnamenti esoterici non solo non hanno nulla in comune, ma sono diametralmente opposti alla concezione cristiana del mondo. Così, quando è staccata dalla totalità della fede, persino quella “spiritualità” che ha l’apparenza più tradizionale, più ortodossa, corre sempre il rischio di diventare unilaterale, riduzionista e in questo senso eretica... diventando in altri termini una pseudo-spiritualità».

Secondo la definizione del Dizionario ecumenico, la spiritualità è la formazione e lo sviluppo dell’esistenza cristiana nel mondo sotto la guida dello Spirito Santo. I molteplici contesti culturali, i fattori sociali, le idiosincrasie personali e le storie diverse influenzeranno inevitabilmente aspetti diversi di questa viva esperienza della vita cristiana. Ciò colloca la spiritualità in una tensione tra l’unico Spirito Santo che è all’opera ovunque e in tutti, e la molteplicità delle concrete situazioni culturali e sociali e delle forme di vita. Mentre la spiritualità cristiana deve essere fondata nella tradizione biblica e modellata dalle pratiche sacramentali della Chiesa, è necessario accettare lo sviluppo di spiritualità multiple, poiché è possibile vivere l’unica vocazione cristiana in una varietà di forme.

La più alta espressione della vita nello Spirito di Dio è l’amore (1Cor 13,13), e così una persona vive in comunione d’amore con Dio e con il mondo. La spiritualità battesimale ed eucaristica, con i suoi forti aspetti ecclesiologici, non è l’unica spiritualità emersa nella Chiesa primitiva o persino quella più eminente che i teologi ortodossi hanno considerato quale unico contributo della tradizione orientale, alla ricerca di una spiritualità ecumenica. John Zizioulas discerne nella Chiesa primitiva due correnti di spiritualità che continuano a coesistere e che non sempre sono compatibili tra loro. Una è identificata con il tipo di spiritualità basato sulla comunità eucaristica, che implica la comunità e il suo orientamento escatologico come fattori decisivi; l’altra corrente è quella tipologia di spiritualità basata sull’esperienza dell’individuo che combatte contro le passioni ed è teso al raggiungimento della perfezione morale: una spiritualità accompagnata dall’unione mistica dell’anima o della mente con il Logos di Dio.

La tradizione contemplativa monastica tende a identificare la spiritualità con un’attitudine interiore, personale, influenzata dall’azione dello Spirito Santo e orientata alla sequela di Cristo. Una della principali caratteristiche che differenzia la loro concezione è che nella spiritualità eucaristica l’altro, la creazione e la comunità dei fedeli sono intrinsecamente coinvolti, mentre nella spiritualità contemplativa ciò che ha la priorità è la personale «visione» di Dio. Solo dopo la realizzazione di questa unità, la visione di Dio, una persona illuminata può volgersi con amore verso gli altri. Nella luce della svolta soggettivistica e degli effetti involontari di una cultura consumistica, la spiritualità contemplativa ricevuta e praticata al di fuori dell’assemblea eucaristica corre il rischio di ridurre la vita spirituale cristiana al rafforzamento religioso dell’individualismo, disgiungendo esistenzialmente le «persone spirituali» dalla comunità dei fedeli e dal mondo. Questa critica non deve intendersi come un ripudio della spiritualità contemplativa, ma come la necessità di riconoscerla come un aspetto essenziale della spiritualità cristiana che non può essere disgiunto dall’ethos eucaristico ed evangelico. Proprio questi ultimi completano e danno il giusto contesto agli sforzi ascetici. L’aspetto «interiore» e contemplativo della spiritualità è solo un aspetto della vita spirituale che non può essere distaccato o praticato indipendentemente dalla Chiesa. Lo Spirito rinnova la pienezza del mondo, così come l’aspetto interiore ed esteriore della vita umana.

La spiritualità eucaristica, con la sua enfasi escatologica, può in qualche esempio separarsi dalla storia e divenire indifferente alla necessità di manifestare la novità in Cristo attraverso parole e azioni che riflettono lo spirito di ciò che la Chiesa e il cristiano battezzato sono divenuti in Cristo. La celebrazione escatologica dell’attiva presenza di Dio nel mondo - com’è sperimentata e vissuta nell’Eucaristia -, invece di diventare la base della partecipazione della Chiesa e dell’impegno nella continua opera di Dio per la trasfigurazione del mondo, in qualche caso diventa una giustificazione ideologica per fuggire dalla storia. John Zizioulas ripudia questa corrente e riconosce la necessità per l’ortodossia di trarre implicazioni etiche dall’Eucaristia. L’ortodosso non può accontentarsi di «una bellissima liturgia senza prendersi cura di trarne le conseguenze sociali ed etiche». Un’attitudine simile compromette la missione e l’impegno della Chiesa.

Una vita spirituale che riflette l’ethos evangelico, liturgico e patristico della Chiesa dovrebbe riflettere l’inseparabile unità tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo. La vita spirituale è una vita di comunione che riflette l’amore di Dio. Come afferma Olivier Clement, «entrare in Dio significa lasciarsi prendere dall’immenso movimento dell’amore della Trinità che ci rivela l’altra persona come “prossimo” o, meglio, che fa diventare ciascuno di noi il “prossimo” degli altri. E diventare prossimo vuol dire stare dalla parte di Cristo, poiché egli si identifica con ogni essere umano che soffre o viene rifiutato, che è in carcere o ignorato… (Mt 25,35-40)». Karl Rahner afferma che se qualcuno sostenesse che l’amore di Dio è qualcosa che ha avuto luogo isolatamente dagli altri o che è possibile amare Dio pur ignorando il proprio prossimo, non si tratterebbe certamente del messaggio cristiano. Amare gli altri con le loro irriducibili differenze e condividere con loro le risorse e il potere che regolano la vita personale e comunitaria è sempre un «amore difficile». La paura della diversità può portare a violente esplosioni contro gli «altri» e all’esclusione dal nostro spazio vitale. L’antidoto a questa paura è, per san Gregorio di Nissa, la forza dell’amore che lo Spirito Santo riversa su tutti noi. «Quando l’amore perfetto ha vinto la paura, o la paura è stata trasformata in amore, allora tutto ciò che è stato risparmiato sarà una unità che cresce insieme attraverso l’una e unica pienezza, e ognuno sarà, nell’altro, una unità nella perfetta Colomba, lo Spirito Santo». Una persona che vive nella forza dello Spirito Santo è l’incarnazione vivente di tutto ciò che Dio ha creato. Scrive Evagrio Pontico: «Beato è colui che si considera “rifiuto di tutti”. Beato è colui che guarda alla salvezza e al progresso di tutti come se fossero suoi propri, con ogni gioia. Beato è colui che considera tutti gli uomini come Dio, dopo Dio… che da tutti è separato e con tutti è armonicamente unito». Questa apertura e questa filadelfìa (amore per il fratello - ndr) costituiscono l’unico modo per vincere l’individualismo estremo che minaccia oggi l’esistenza umana. La formazione di una spiritualità ecumenica che consideri il mondo come sacramento e veda ogni persona umana e cosa materiale quali mezzi di comunione con il Dio vivente richiede una teologia dello Spirito Santo che riconosca la presenza attiva, di sostegno e trasformazione dello Spirito Santo in ogni essere umano, nella Chiesa e nel mondo. Una vita spirituale improvvisata coltiva il desiderio di essere con Dio senza alcun desiderio di partecipare attivamente all’amore di Dio per il mondo. Una relazione intima con Dio richiede una connessione coerentemente articolata tra misticismo e profezia.

* professore di teologia sistematica

(da Mondo e Missione, gennaio 2007)

Mercoledì, 18 Aprile 2007 01:20

Bernardo di Chiaravalle (Franco Gioannetti)

Bernardo di Chiaravalle (1090-1153)

di P. Franco Gioannetti


La vita

Bernardo di Chiaravalle nacque nel 1090, terzo di una nobile famiglia borgognona. Suo padre era Tescelin le Saur, signore di Fontaine-lès-Dijon e sua madre Aleth di Montbard. Dopo aver goduto di un’ampia formazione culturale presso i canonici di Chatillon, nel 1112 (secondo altri autori nel 1113) entrò nel monastero di Citeaux, che era stato fondato inizialmente nel 1098, come monastero riformato, dai benedettini, e che era noto per il suo straordinario rigore. Bernardo aveva convinto trenta parenti e amici a fare con lui lo stesso passo. Già nell’estate del 1115 fu mandato a capo di dodici monaci per fondare un altro monastero, Chiaravalle, di cui fino alla morte, avvenuta nel 1153, fu abate. Un’ascesi esagerata lo fece ammalare tanto gravemente che nel 1118 fu costretto a ritirarsi per un anno in una capanna sul terreno del convento, per recuperare le energie. Anche per il resto della vita sarà afflitto da gravi dolori di stomaco. Nello stesso anno incominciò la lunga serie di circa settanta altre fondazioni di monasteri.

A partire dal 1128 si coinvolse sempre più in faccende di politica ecclesiastica. Al concilio di Troyes fece da segretario e un anno più tardi fece da mediatore in una contesa tra Ludovico il Grosso e il vescovo di Parigi, mentre nel 1129/30 fece da mediatore tra Ludovico VI e l’arcivescovo di Sens. Quando, a partire dal 1130, due papi Innocenzo II e Anacleto II, rivendicavano, l’uno contro l’altro, il diritto di sedere sulla cattedra di Pietro, Bernardo prese partito per Innocenzo II. Al concilio di Etampes, nel 1130, conquistò Ludovico VI e i vescovi francesi al suo candidato. Re Lotario e il clero tedesco poco dopo s’unirono a questa decisione, e nel 1130/31 Bernardo convinse anche il re d’Inghilterra a riconoscere Innocenzo II. Nel marzo del 1131 s’incontrarono il papa e re Lotario, il quale voleva utilizzare la crisi del papato per indurre il Papa all’abolizione del concordato di Worms e per riacquistare il diritto di investitura dei vescovi. Ma l’energico intervento di Bernardo impedì il realizzarsi di questo desiderio.

Nei 1133 Bernardo, invitato dal Papa, intraprese un lungo viaggio attraverso l’Italia. Fece da piacere nella guerra tra Pisa e Genova e fu presente all’incoronazione imperiale di Lotario a Roma. Nel 1137 fu chiamato a Roma a fare opera di mediatore tra il Papa, imperatore e il re di Sicilia. Nel 1140, al concilio di Sens, grazie all’influenza di Bernardo furono condannati gli scritti di Pietro Abelardo. Nel 1143 l’abate di Chiaravalle fece opera di mediazione nella guerra tra il re Ludovico VII e il Conte di Champagne. Nello stesso anno Papa Innocenzo II gli rimproverò di immischiarsi troppo nella politica.

Nel 1145 un monaco di Chiaravalle fu eletto Papa col nome di Eugenio III. Chiaravalle da allora divenne sempre più il centro delle decisioni di politica ecclesiastica. Nella primavera del 1153 riuscì ad accomodare gravi tensioni politiche a Lothringen. Poi, tornato in patria, se ammalò e morì il 20 agosto. Nel 1174 fu dichiarato santo.

L’Opera - Influsso sugli ordini religiosi e sulla chiesa

La movimentata vita esterna di Bernardo sembra porsi in forte contrasto con la sua opera di monaco e il suo insegnamento di mistico. L’uomo che per alcuni decenni diede la sua impronta, in maniera determinante, alla storia dell’Europa, viveva allo stesso tempo con dedizione e convinzione la vita monacale, in modo tale da entusiasmare molte persone. La riforma iniziata nel monastero di Citeaux deve a lui in gran parte il proprio successo.

Ma l’attività di riforma di Bernardo, all’interno della chiesa, non era limitata al suo ordine. Egli divenne maestro della vita monastica in genere. Ciò che disse sul ruolo della regola di Benedetto e sull’autorità dell’abate e su questioni ascetiche condusse a riforme in molti monasteri benedettini. Inoltre contribuì col consiglio e con l’azione, al rinnovamento di altri ordini canonici e religiosi. Promosse l’ordine cavalleresco dei Templari e nelle diocesi portò come vescovi monaci di Citaux e Chiaravalle.. Sviluppò una dottrina sull’uso delimitato del potere e si diede da fare perché essa, nelle diverse guerre del suo tempo, avesse effetti mitiganti. S’impegnò energicamente per la riforma del clero, lo stile di vita dei prelati, e della curia romana.

Tutto questo era legato al tempo in cui operava e alle sue convinzioni, e in ciò trovava anche i propri limiti. La sua dottrina spirituale e mistica invece ha continuato a far sentire i suoi effetti lungo i secoli.

Scritti

I testi relativamente più spontanei di Bernardo sono le sue Epistolae (Ep.), di cui sono state conservate circa 500; vanno dal 1116 al 1153. Diciamo “relativamente” perchè già durante la vita di Bernardo furono organizzate in una prima raccolta e rielaborate da Bernardo stesso per la pubblicazione. L’indagine scientifica recente ha appurato come tutte le letture, e gli scritti di Bernardo siano stati continuamente rivisti e stilisticamente affinati, con la precisa intenzione di renderli adatti alla pubblicazione. Di conseguenza l’impressione che costituiscano documenti spontanei per lo più inganna. Le lettere di Bernardo trattano tutti gli argomenti pensabili, da brevi chiarificazioni obiettive e organizzative sugli scritti politici, fino a consigli spirituali e ad ampie trattazioni di carattere teologico-mistico (ad esempio Ep. 11 sull’essenza e i gradi dell’amore; Ep. 77, che è un trattato teologico sul battesimo).

Anche attraverso le sue prediche possiamo avere con lui un incontro molto personale. Esse costituiscono oltre la metà della sua opera. Con i suoi monaci viveva molto intensamente, attingendo alla Bibbia e in sintonia con le stagioni liturgiche; e ciò comportava l’esegesi continua e viva mediante la predicazione, un servizio che talvolta sovraccaricò Bernardo di lavoro, ma egli espletò sempre con appassionata dedizione. Ci sono tramandate all’incirca 120 prediche singole sulle festività dell’anno liturgico e dei santi, due brevi serie di prediche sulla pericope dell’annunciazione di Lc 1, 26-38 e sul Salmo 90 (91) e circa 500 brevi testi, abbozzi, e frammenti di testi, di cui 125 sono raccolti col titolo Sermones de diversis. Tutti questi testi si riferiscono sostanzialmente alla vita monastica e mistica, i discorsi politici di Bernardo non ci sono stati conservati.

Le prediche più note e importanti sono i Sermones super Cantica Canticorum (Cant.,) che iniziò nel 1135 come commento continuo ai singoli versetti del Cantico dei cantici di Salomone e che portò avanti, con interruzioni, fino alla morte. Però è arrivato soltanto fino a 3, 1. I cistercensi inglesi Gilberto di Hoiland (morto nel 1172) e Giovanni di Ford (1140-1214) hanno proseguito questo commentario con 48 e rispettivamente 120 altre prediche, fino all’ultimo versetto del Cantico dei cantici. In questi Sermones super Cantica Canticorum, ai quali ha lavorato accuratamente per vent’anni, Bernardo sviluppa, nei termini più vivi e profondi la sua dottrina, basata sull’esperienza, del cammino verso Dio dell’anima che cresce fino a diventarr sposa della Parola divina, unita al Cristo in un matrimonio mistico.

La maggior parte delle numerose trattazioni di Bernardo sono fondamentalmente lunghe lettere, scritte da lui in risposta a determinante questioni postegli. Nel 1125 Bernardo, dietro richiesta dell’amico Guglielmo di Saint-Thierry, scrisse per lui il suo primo trattato di una certa dimensione, l’Apologia. Si tratta di un dibattito - a tratti molto polemico - sullo stile cluniacense della vita monastica; i Cistercensi infatti avevano adottato, nella architettura e nell’arte, uno stile più sobrio e severo. De moribus et officiis episcoporum sorse tra il 1126 e il 1128; era destinato alla arcivescovo di Sens, che si era convertito a una vita ispirata alla riforma gregoriana della chiesa. Con il De baptismo, scritto nel 1138, Bernardo rispondeva ad alcune questioni di Ugo di san Vittore, e l’Epistola de erroribus Petri Abelardi, scritta verso il 1140, era una lettera a Papa Innocenzo II, nella quale, con parole talvolta troppo aspre, stigmatizzava il suo avversario teologico. Già tra il 1126 e il 1135 aveva dedicato a Guglielmo di Sanit-Thierry il trattato dogmatico De gratia et libero arbitrio. Menzioniamo ancora, per amore di completezza, la Vita s. Malachiae, composta tra il 1148 e il 1152, su Malachia arcivescovo di Armah in Irlanda, in amico intimo di Bernardo, che era morto nel 1148, e il trattato De praecepto et dispensatione, scritto prima del 1143/44, destinato ai benedettini di Chartres, che gli avevano rivolto una serie di domande sulla regola di san Benedetto, i poteri dell’abate e la libertà di coscienza dei monaci.

Una delle sue prime opere - scritta prima del 1124/25 - è sorta da discorsi del giovane abate ai suoi monaci sul capitolo settimo della regola di san Benedetto. Essa descrive “i gradi dell’umiltà” e porta il titolo di De gradibus humilitatis et superbiae (De grad.). L’opera offre una presentazione della mistica, che contiene già in nuce tutto ciò che l’uomo più maturo svilupperà negli ultimi Sermones super Cantica Canticorum. Poco dopo – nel 1125 .- scrisse al priore della grande Certosa una lettera sull’amore a Dio (Ep. 11), che più tardi integrò nella trattazione De diligendo Deo (Dil.), un opera con l’esperienza fondamentale della sua vita personale e il centro principio della sua mistica:

Il motivo per cui dobbiamo amare Dio è semplicemente Dio stesso e la misura è senza misura (Dil. I, 1), poiché facilmente gli uomini diventano capaci di un amore più grande, quando si rendono conto che essi stessi sono amati ancora di più (Dil. III, 7).

Accenni a questo centro dell’esperienza dell’essere amati e dell’amare, si trovano in altri due scritti di Bernardo: nel De consideratione (Consid.) e nel De conversione (Convers., 1140), un’edizione ampliata dei discorsi di Bernardo al clero di Parigi.

La dottrina mistica

Con la sua mistica Bernardo si trova alla soglia che conduce dall’era patristica a quella moderna. Detto da un lato “l’ultimo padre della chiesa)” egli è anche uno dei primi mistici “moderni”. L’aspetto “moderno” della sua spiritualità consiste non in una teoria nuova, “moderna”, poiché di fatto egli continua a rifarsi a temi e concetti tradizionali, ma in un modo nuovo, molto personale, di dare espressione alle proprie esperienze e di suscitare nei suoi lettori e uditori esperienze corrispondenti.

È importante notare che Bernardo si muove nella corrente di un nuovo stile di pietà, che s’era imposto in Europa già prima di lui, a partire dalla metà del secolo XI. Caratteristico di questo nuovo stile era un modo diverso di accostarsi a Gesù Cristo. Fino ad allora c’era stata in primo piano l’adorazione della divinità di Cristo, com’era comune nell’ambito romanico e bizantino (e com’è di fatto comune fino ad oggi nelle chiese ortodosse). Se là l’uomo si poneva in adorazione, con sacro timore, da solo e soprattutto in comunità, nella celebrazione liturgica, alla presenza del Figlio di Dio sovrano universale, per implorare la partecipazione alla sua grazia divina e alla sua gloria e partecipare così già adesso alla liturgia celeste dei redenti, ora invece l’attenzione dei cercatori di Dio si rivolgeva al destino terreno di Gesù Cristo. Adesso il singolo abbracciava con amore affettivo il Servo di Dio povero e sofferente, riconoscendolo come immagine della propria vita povera e penosa, e trovava nella sequela di lui la via alla redenzione. Se prima il centro era costituito dalla celebrazione liturgica ora invece si nutriva l’ideale dell’imitazione del Gesù povero, che nell’obbedienza, nell’umiltà e nella dedizione indefessa, compie la volontà del Padre celeste e che la compassione per i suoi fratelli uomini muove a condividere le loro sofferenze e la loro morte, fino alle ultime conseguenze.

L’effetto di questo nuovo stile di pietà era la ricerca, da parte di tutti e ovunque, di un nuovo stile di vita corrispondente, che fosse caratterizzato dalla povertà, dalla semplicità, dall’ascesi rigorosa e dal lavoro fisico. Allo stesso tempo in Occidente si riprese conoscenza dell’antica tradizione monastica orientale, che diede al movimento, caratterizzato dalla ricerca di povertà tipico del secolo XI, un forte tratto eremitico. Presero vita così gli ordini, tuttora esistenti, dei certosini e dei camaldolesi. I cistercensi divennero invero, non da ultimo per influsso di Bernardo, un ordine il cui tratto più caratteristico è un’intensa vita comune, ma allo stesso tempo la loro pietà era improntata da un interesse per il singolo, e tutte le istruzioni spirituali si rivolgevano al singolo, ruotavano attorno al suo rapporto intimo con Dio e alle sue esperienze personali con lui, descritte ora con un nuovo interesse e con una nuova sensibilità psicologica. In questo periodo era molto letto Agostino stesso, che nelle sue Confessioni si presentava in maniera convincente con i tratti della personalità singola.

All’inizio del cammino spirituale c’è per Bernardo la riflessione su di sé, il bilancio sobrio del proprio essere all’interno e all’esterno. Egli si esperimenta come l’uomo complesso, pieno di tensioni, contraddittorio. “Io sono la chimera del mio secolo. Non vivo né la vita di un monaco, ne quella di un laico. Da tempo ho rinunciato alla condizione di vita claustrale, ma non all’abito”. (Ep. 250, 4). Egli riconosce che la vera e propria povertà dell’uomo consiste nella sua inquietudine interiore:

Chi è più povero di spirito di colui che nel proprio spirito non trova alcun luogo di riposo, alcun luogo dove posare il capo? (Convers. VII, 12).

Per interpretare teologicamente questa condizione di alienazione Bernardo si serve dei concetti tradizionali: l’uomo – egli dice – si trova in regione dissimilitudinis, nella terra della di dissomiglianza. Bernardo creò una visione esistenziale e teologico-salvifica, etica: l’uomo – osserva – diventa “dissimile” attraverso il peccato, la disobbedienza a Dio. È caratteristico della sua mistica il fatto che in lui a svolgere il ruolo decisivo sia l’orientamento della sua volontà: unione con Dio significa sostanzialmente diventare uno con il volere di Dio nell’amore.

In ultima analisi a partire da questo dato si può ricondurre la sua vita a un denominatore comune. La sua molteplice attività si può far risalire tutta all’unica fondamentale decisione di voler fare continuamente quello che Dio s’aspetta da lui. La mistica nel senso di Bernardo è di conseguenza il rapporto intenso e personale col tu di Dio e l’obbedienza senza condizioni e nei confronti di questo tu, la disponibilità indefessa a donarsi. L’estasi mistica perciò in Bernardo è fondamentalmente un’estasi d’obbedienza. Ciò conferisce alla sua vita e alla sua dottrina una grande vitalità e pluriformità d’aspetti, e una vicinanza costante all’uomo e alla politica, poiché quando egli per brevi momenti viene totalmente rapito in Dio, nell’estasi, “quello stesso amore che lo chiama, lo strappa violentemente dall’estasi per mandarlo ai fratelli” (Dil. X, 27).

Questo vivere e agire ispirati dalla pienezza dell’amore rappresenta la condizione finale. Di solito l’uomo esperimenta soprattutto la propria fragilità. Bernardo si serve anche qui di formulazioni tradizionali, quando spiega che l’uomo creato “ad immagine e somiglianza di Dio” (in imaginem et similitudinem Dei, secondo Gn 1, 26) mediante la disobbedienza del peccato ha perso la propria somiglianza (similitudo) con Dio. Ma i segni della sua dipendenza da Dio sono rimasti in lui indelebili: egli resta immagine (imago) di Dio, soprattutto grazie alla sua indistruttibile volontà libera (libertas a necessitate), che però ha smarrito la capacità di libera scelta (liberum consilium), e la forza di fare ciò che sceglie di fare (liberum complacitum). Bernardo invita a riflettere profondamente sullo sforzo sistematico per conoscere se stessi. Allora l’orgoglio, sviluppatosi per mancanza di una sufficiente valutazione di sé, svanisce, e allo stesso tempo si disinnesca la disperazione latente che proviene da una mancanza di conoscenza di Dio

Il peccato è per natura un ridursi dell’uomo al proprio volere e potere, è voluntas propria. L’uomo deve essere attento a non ripiegarsi su se stesso nella contemplazione del proprio ombelico e nell’incapsulamento in sé, che è proprio il contrario della vera conoscenza di sé. L’uomo incurvato geme “sotto il peso insopportabile della sua volontà propria, invece di portare il giogo dolce e il peso soave dell’amore” (Ep. 11,5), che “non cerca ciò che è utile soltanto a sé, ma ciò che è utile a molti” (Ep. 11,4).

L’ottimismo di Bernardo e la sua psicologia e pedagogia diventano chiari là dove spiega come persino nell’amore egoistico (amor carnalis) del peccatore si nasconde un frammento di verità. Questo amore – egli sostiene - rappresenta il primo grado, anche se del tutto inadeguato, di quell’amore, che l’uomo deve imparare. Amarsi e preoccuparsi del proprio io corrisponde ad un istinto sano. Si tratta però di liberare quest’amore di sé dalla propria ristrettezza e dal proprio stato di schiavitù nella bramosia (cupido), in cui nella sua miopia cerca costantemente, con mezzi errati, una gratificazione svariata e illusoria. Tale amore dev’essere dilatato e “ordinato” in funzione di un amore senza confini e di un’esperienza di essere amati senza confini.

Da una valutazione sobria e obiettiva di sé Bernardo si ripromette la possibilità di diventare sensibili nei confronti di altri uomini, poiché si scopre che siamo tutti compagni di destino.

Lo sguardo alle proprie necessità apre lo sguardo alle necessità degli altri; e grazie a ciò che soffre egli stesso, l’uomo diventa capace di condividere le sofferenze altrui (De Grad. V, 18).

La voluntas propria può svilupparsi dunque un po’ alla volta sino a diventare voluntas communis. Quanti sanno soffrire con gli altri, “estendono la propria simpatia ai loro simili. Mediante l’amore si conformano talmente con loro, da sentire come proprie forze e debolezze le forze e le debolezze loro” (De grad. III, 6).

L’uomo che impara a guardare al di là di sé, può scoprire un terzo, che condivide la propria povertà e allo stesso tempo ha in sé la possibilità di andare al di là dei propri limiti: il Dio fattosi povero in Gesù Cristo. Sì, da che Gesù è diventato uno di noi, la nostra miseria e la nostra pena ci uniscono a lui.

Bernardo fa esperienza di grande pena, malattia, afflizione e tentazioni: “Mi accade quello che è accaduto a Gesù Cristo, il che mi rende molto simile a lui e mi unisce con lui”. La “mistica della passione” che ne deriva cerca la totale identificazione con Cristo, che si è fatto in tutto simile a lui. “Transformamur cum conformamur (siamo trasformati diventando simili a lui)” (Cant. 62,5). Così, al centro della pietà bernardiana c’è la meditazione sulla vita e sulla passione di Gesù Cristo. A Bernardo interessa soprattutto di Gesù il suo atteggiamento di fondo, il suo modus (Cant. 11,3) di comportarsi: il suo donarsi sino in fondo (exinanitio), il suo spogliarsi completamente, la sua umiliazione e l’umiltà, il suo servire, la sua obbedienza.

La vita di Gesù Cristo, per colui che la segue, ha un’efficacia sacramentale, trasformante. Diventare uguali a Gesù comporta la comunione di destino, l’unione con lui, la redenzione, l’aprirsi ad una nuova vita. Bernardo cita volentieri il passo biblico di 1Cor 6,17.

Quanto più l’uomo riflette e legge su Gesù Cristo, quanto più lo prega e gli obbedisce, tanta più confidenza acquista in lui, e un po’ alla volta Dio lo illumina sensibilmente. La conseguenza è che egli trova sempre più gusto in Dio. E una volta che ha gustato quanto è buono il Signore, giunge al primo grado dell’amore, dove ama Dio non più per se stesso ma per lui. In questa condizione si resta a lungo. E non so se un uomo in questa vita possa arrivare tanto lontano da amare (in un grado successivo) se stesso soltanto più per amore di Dio (Dil. XV, 39).

Durante quel lungo tempo che costituisce la maggior parte, la parte quotidiana, della vita, l’uomo – secondo l’esperienza di Bernardo – può trovare Dio specialmente nella sacra Scrittura. La Bibbia ha per lui addirittura un carattere sacramentale, tanto che la sua dottrina spirituale sulla Scrittura, i sacramenti in senso stretto (che sono per lui ovviamente il fondamento) passano fortemente in secondo piano, sorprendentemente, in favore dell’incontro vivo con Dio nella sua parola.

Quando sento come i miei sensi vengano aperti alla comprensione della sacra Scrittura, o come la luce della sapienza sgorghi dal mio intimo, o come la luce mi venga riversata dall’alto e mi si aprono con essa i ministeri, o come il cielo mi apra per così dire il suo seno incommensurabilmente ampio e faccia traboccare il mio spirito con una pioggia abbondante di sollecitazioni e riflessioni, allora non dubito che lo Sposo è presente. Questi sono infatti i tesori della parola, e dalla sua pienezza noi riceviamo tutto questo (Cant. 69,6).

La Bibbia divenne l’elemento vitale di Bernardo. La forma linguistica della Vulgata latina (la traduzione ufficiale della Bibbia in quel tempo) era talmente penetrata nella sua carne e nel suo sangue, che egli parlava letteralmente il “dialetto” della Bibbia. Non è possibile infatti staccare i modi di dire e le formulazioni bibliche, come citazioni, dalle sue parole proprie.

Al suo senso giovanneo per la Parola, Bernardo associa una predilezione per la mistica di Cristo caratteristica di Paolo. A sua volta unisce tale mistica alle immagini e al testo del Cantico dei cantici veterotestamentario. Con una sensibilità addirittura femminile, vive e descrive il suo io come anima che aspira a Dio, e i canti del desiderio, della ricerca e del ritrovamento tra sposo e sposa diventano per lui canti del suo amore per Dio. Questo linguaggio ispirato all’amore sponsale non soltanto conferisce alla mistica bernardiana il suo calore e la sua poesia umana; esso esclude anche ogni tentazione di dissolvimento della persona in un “divino” impersonale: la sua mistica è essenzialmente di natura dialogica.

L’essenziale sta nel tendere verso di lui con grande desiderio; non lo si raggiunge con la ragione, ma diventando conformi a lui (Cant. 69,2).

Sotto questo profilo Bernardo si è sempre mantenuto interiormente estraneo a quel confronto critico e distanziato con la sacra Scrittura e il dogma che incominciava a diventare caratteristico dei maestri contemporanei nelle scuole. Anzi, lo avvertì come pericoloso e, con una passione non sempre rispettosa delle regole della correttezza e dell’obiettività, combatté maestri come Abelardo e Gilberto de Poitiers.

La cultura senza l’amore si gonfia; l’amore senza la cultura si smarrisce. La sposa della Parola non può essere stupida. Ma il padre non sopporta neanche una sposa gonfia d’orgoglio (Cant. 69,2).

Occorre menzionare altri due aspetti della mistica di Bernardo: il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa e la sua devozione a Maria. Bernardo può essere dichiarato un mistico marcatamente “ecclesiale”, poiché per lui Cristo e la sua chiesa “sono due in una carne sola” (Cant. 27,7). La chiesa è il corpo mistico di Cristo, in cui il singolo fedele è incorporato; e nella misura in cui vive nella chiesa e con la chiesa, diventa egli stesso sposa di Cristo. Ciò spiega il suo impegno instancabile per la chiesa concreta sulla terra, le cui ferite egli avvertiva come ferite di Cristo e come ferite inferte a se stesso.

La devozione a Maria assume, nell’insieme del pensiero e della fisionomia spirituale di Bernardo, un suo spazio proprio, non del tutto integrato nella sua mistica orientata in senso rigorosamente cristocentrico. Egli parla relativamente di rado di Maria e non apporta alcun contributo nuovo e originale alla dottrina tradizionale della chiesa su di lei. Tuttavia, il poco che ha esposto su Maria è talmente buono ed è formulato in termini così personalizzati che potè dare l’impulso allo sviluppo della successiva pietà mariana.

Il titolo che gli è stato dato è Doctor marianus ma lo caratterizzerebbe ancora meglio il titolo di Doctor caritatis. Egli ha vissuto una via, o meglio la via dell’amore per Dio e per gli uomini, che ha percorso fino alle altezze dell’esperienza possibile su questa terra, là dove

il servo buono e fedele viene introdotto nella gioia del suo Signore (Mt 25,21) e si berrà dalla pienezza della casa di Dio (Sal 36,9). Egli allora in una maniera mirabile dimenticherà per così dire completamente se stesso, scomparirà addirittura a se stesso concretamente, per entrare totalmente in Dio. Da allora sarà unito a lui e sarà un solo spirito (cf. 1Cor 6,17) (Dil. XV, 39).

Le esperienze estatiche che Bernardo descrive ricorrendo a espressioni quali raptus (essere trasportato) e excessus (uscire di sé), risultano, in termini del tutto logici, come il compimento della sua dottrina sull’amore. Esse non sono accompagnate da alcuna circostanza insolita, ma rappresentano la condizione dell’amore perfetto, una fusione totale di tutte le percezioni e gli sforzi nell’amore di Dio che tutto abbraccia:

L’amore è sufficiente a se stesso. Dove subentra l’amore, strappa a sé tutte le altre sensazioni e aspirazioni e le fa prigioniere. Per questo l’anima che ama, ama davvero, e non sa fare altro che amare (Cant. 83,3).

L’influsso esercitato da Bernardo

Gli scritti di Bernardo erano molto diffusi già quando lui morì. Fino ad oggi ci sono stati conservati più di 1500 manoscritti, quasi la metà dei quali redatti durante la sua vita. Sono sopravvissuti a tutte le catastrofi, in una quantità che è unica nella storia della letteratura. I suoi interessi politici e teologici sono stati dimenticati presto, ma la sua teologia ha continuato a far sentire la sua influenza nell’ordine dei Cistercensi e, nei secoli XII e XIII, ha ispirato altri numerosi autori. Da essa prese vita nel secolo XIII la devozione e la mistica del cuore di Gesù. La teologia di Bernardo, che parte dall’esperienza del singolo, e il suo concetto di esperienza, influenzarono i teologi francescani del secolo XIII, il cui ordine è sorto nella seconda ondata di quel movimento incentrato sulla povertà che s’era avviato nel secolo XI e che aveva anticipato il suo ideale spirituale della sequela del Gesù povero di Nazareth. Alessandro di Hales e Bonaventura citano abbondantemente le opere di Bernardo (Cant. 43,4). La devozione a Gesù, sviluppata in maniera così convincente da Bernardo, ha ispirato il poeta che ha composto l’inno Jesus dulcis memoria, e che nei secoli successivi ha impresso la propria impronta in maniera determinante sulla devotio moderna sviluppatasi attorno a Geert Groote e ai Fratelli della vita comune, nel secolo XV.

Tra i mistici domenicani renani del secolo XIV, a subire fortemente l’influsso di Bernardo fu soprattutto Enrico Susone. Martin Lutero ha molto apprezzato Bernardo, a cui deve stimoli essenziali: l’amore per la parola di Dio, il rapporto tra conoscenza di sé e conoscenza di Dio, la priorità data al singolo, il richiamo alla propria esperienza nella teologia.

Furono gli autori spirituali francesi dei secoli XVII e XVIII a recuperare un’immagine più sobria del santo. Jean Mabillon nel 1667 curò un’edizione completa di tutte le opere autentiche di Bernardo. Nelle controversie del periodo sul giansenismo e nei dibattiti tra Fénelon e Bossuet, tutti i partiti si richiamavano a Bernardo. Bérulle e gli spiritualisti della scuola francese si sentivano imparentati spiritualmente con lui. Pascal ha imparato da Bernardo a prendere sul serio il “cuore” e le sue ragioni, e ha fatto proprio il “Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato” del De dirigendo Deo di Bernardo.

Nel secolo XIX Bernardo divenne per gli apologeti una riprova lampante della potenza dello spirito della pietà medievale, mentre i suoi avversari elevarono Abelardo, contro cui lui aveva così aspramente combattuto, a figura simbolo delle lotte contro l’oscurantismo della chiesa. Adolfo van Harnack dichiarò che negli scritti di Bernardo si può trovare nel modo più chiaro “il genio religioso del secolo XII”. Nel 1895 l’abbé Elphège Vacandard, con la sua opera in due volumi sulla vita di Bernardo, tuttora insuperata, ha posto il fondamento per una sua biografia storicamente obiettiva. E nel 1934 è stato Etienne Gilson a proporlo alla teologia con un libro sulla sua mistica.

Nell’ambiente di lingua tedesca questi stimoli ad una edizione delle opere di Bernardo e ad una presentazione della sua vita storicamente e spiritualmente seria e all’altezza dei tempi non hanno trovato fino ad oggi chi li accogliesse e li portasse avanti. Manca una traduzione completa che renda accessibili le sue opere in lingua tedesca. L’edizione in tedesco delle sue prediche, in sei volumi, risale all’inizio degli anni 30. C’è, è vero, tutta una serie di studi di dettaglio e alcuni romanzi popolari su Bernardo, ma la riscoperta dei grandi mistici è diventata feconda sino ad ora soltanto in ambiente di lingua francese e che di recente in quello di lingua inglese e italiana.

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