I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Riflettendo sulla Dichiarazione Conciliare
Nostra Aetate

Mutua conoscenza e stima tra le religioni

di Dario Vitali *

La dichiarazione ebbe un cammino tormentato e quattro redazioni. E’ ormai assodato che fu papa Giovanni XXIII a volere una rivisitazione del rapporto con gli ebrei. Da qui al riconoscimento del valore delle altre religioni il passo fu obbligato. Attualissime le brevi affermazioni sul dimenticare il passato e la mutua comprensione con i musulmani.

Parlare della Nostra aetate è toccare uno dei temi più delicati e sensibili del discorso teologico, che hanno suscitato un dibattito aspro e appassionato al Concilio, in aula e fuori. Si tratta, infatti, di una delle tre dichiarazioni (accanto alla Gravissimum educationis sull’educazione cristiana e alla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa) che ha conosciuto un percorso tormentato prima di giungere alla sua definitiva promulgazione, il 28.10.1965.

La redazione definitiva

Nella sua redazione definitiva il testo si presenta in cinque numeri, che affrontano il tema delicatissimo delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane a partire da una prospettiva universalistica (2) per terminare, dopo un breve accenno alla religione musulmana (3), alla relazione con l’ebraismo (4), inquadrate in un’introduzione che fissa i motivi della dichiarazione, e in un numero conclusivo sulla fraternità universale.

Chiarissima l’intenzione, espressa anche nel titolo, tutt’altro che occasionale: «Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggior attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». Il motivo è certamente contestuale: il progresso tecnologico e lo sviluppo economico hanno portato a un’interdipendenza tra i popoli che ha moltiplicato anche i punti di contatto tra le religioni. E però il fenomeno contestuale ha fatto emergere una ragione più profonda di questo necessario avvicinamento alle altre religioni, certamente non praticato in precedenza, quando le società erano sistemi chiusi: «Nel suo dovere di favorire l’unità e la carità tra gli uomini, anzi tra i popoli, essa esamina qui per prima cosa quello che gli uomini hanno in comune e che li spinge all’alleanza».

E’ questa la cornice in cui viene inscritto l’accostamento della Chiesa alle religioni non-cristiane, dal momento ché la dichiarazione si conclude con il rimando alla fraternità universale. Nell’introduzione, infatti, si dice che «tutti i popoli costituiscono una sola comunità», avendo in Dio la loro unica origine e il loro fine ultimo; questo fatto fonda la condanna finale di «qualsiasi discriminazione tra gli uomini e persecuzione perpetrata per motivi di razza o di colore, di casta o di religione», e l’esortazione ai cristiani «perché “la loro condotta tra i pagani sia irreprensibile” (1Pt 2,12) e se possibile, per quanto questo dipende da loro, vivano in pace con tutti, per essere realmente figli del Padre celeste».

All’interno di questa grande inclusione, la ,dichiarazione affronta il rapporto della Chiesa con le religioni non cristiane. La presentazione avviene secondo un movimento per cerchi concentrici sempre più circoscritti, in una specie di restringimento progressivo dell’obiettivo che fissa il rapporto della Chiesa con le religioni secondo un criterio di prossimità progressiva.

Il primo rapporto, illustrato al n. 2, è con le religioni che si possono ricollegare al senso religioso dell’uomo. Sotto questa caratterizzazione vengono elencati l’induismo, il buddismo e «le a!tre religioni che si trovano nel mondo intero, [le quali] si sforzano di superare in vari modi l’inquietudine del cuore umano, proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri».

«La Chiesa cattolica», afferma la dichiarazione, «non rigetta nulla di quanto c’è di vero e di santo in queste religioni», anzi guarda «con sincero rispetto a quei sistemi di agire e di vivere, a quei precetti e a quelle dottrine che, sebbene differiscano in molti punti da ciò che essa crede e propone, tuttavia non di rado riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini», e invita i suoi figli perché «riconoscano, conservino e promuovano quei beni spirituali e morali e quei valori socio-culturali che in essi si trovano». Senza che questo possa mai precludere l’annuncio di Cristo, «nel quale gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa».

Il passaggio successivo, scarno fin quasi alla laconicità, asserisce che «la Chiesa guarda con stima anche i musulmani», e cerca in quella religione i punti di contatto con la fede cristiana: la fede nell’unico Dio, il fatto che egli si sia rivelato, la storia della salvezza, la venerazione di Gesù come profeta, l’onore reso a Maria, la vita morale, il giudizio finale. Si. percepisce un discorso ancora embrionale, dovuto all’evidente difficoltà di coniugare due sistemi per secoli estranei e anche antagonisti.

E, tuttavia, la dichiarazione formula una presa di posizione che oggi suona profetica: «Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani e musulmani, il sacrosanto Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (3).

Sui giudei

Ma il rapporto a cui la dichiarazione si applica con più cura, con un testo assai denso e articolato che da solo è più ampio dei due numeri precedenti messi insieme, è quello «con la stirpe di Abramo» (4). Mentre il riferimento alle altre religioni appare come l’accostamento di due mondi diversi, qui il testo conciliare si apre con un «mysterium ecclesiae perscrutans», che rivela come «il vincolo» tra il popolo del Nuovo Testamento e la stirpe di Abramo è costitutivo della natura stessa della Chiesa: «Gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti»; tutti i fedeli di Cristo sono anche figli di Abramo secondo la fede, e la salvezza del nuovo popolo di Dio «è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto»; la rivelazione dell’Antico Testamento proviene dal popolo dell’alleanza.

Per cui la Chiesa «si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani», gli uni e gli altri riconciliati mediante la croce di Cristo. D’altronde, è un fatto che a Israele «appartengono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi: da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) come pure gli apostoli e i membri della comunità primitiva. In forza della irrevocabilità delle promesse, gli ebrei sono cari a Dio, anche se non hanno riconosciuto in Gesù il Messia e non hanno accettato il Vangelo.

Si tratta qui di un primo livello di risposte le quali conducono a una prima forma di responsabilizzazione: «Poiché dunque è così grande il patrimonio spirituale comune a cristiani ed ebrei, questo sacro Concilio vuole favorire e raccomandare la mutua conoscenza e stima l’uno dell’altro, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con il dialogo fraterno».

La seconda questione riguarda l’accusa di “deicidio” attribuita a quelli che, nella liturgia del Venerdì Santo, venivano bollati come perfidi iudaei, indicata come causa dell’antisemitismo montato fino alla tragedia dei campi di sterminio nazisti durante l’ultima guerra mondiale.

Il testo è formulato con la massima cautela: «E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti, nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio, facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa, inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con tutti gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette conto gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».

D’altronde, conclude il paragrafo, Cristo «si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale dì Dio e come la fonte di ogni grazia» (4).

L’iter della dichiarazione

Anche a una prima lettura si avverte il carattere composito del testo, frutto di tante stesure e rimaneggiamenti. Quello definitivo, infatti, costituisce la quarta redazione di un testo che ha conosciuto un iter complesso e non sempre lineare e che aveva nel numero sui rapporti della Chiesa con gli ebrei il nucleo iniziale, come dimostra anche la sproporzione del n. 4 rispetto agli altri numeri della dichiarazione.

La prima redazione risale alla fase preparatoria al Concilio. Infatti, il Segretariato per l’unità dei cristiani aveva ricevuto il compito di approntare uno schema De iudaeis, che contenesse una condanna esplicita dell’antisemitismo. Il testo nasceva probabilmente da una richiesta dello stesso Giovanni XXIII, il quale, dopo l’incontro del giugno 1960 con Jules Isaac, rappresentante del Consiglio mondiale ebraico, si era convinto della necessità di una presa di posizione della Chiesa sull’antisemitismo: la scelta poteva avere anche un risvolto apologetico per le accuse rivolte alla Chiesa di essere all’origine dell’antisemitismo con la sua predicazione sui giudei “deicidi” e di non aver fatto tutto quello che era possibile per contrastare l’Olocausto durante la seconda guerra mondiale. In questa direzione, già nel 1959 Giovanni XXIII aveva espunto dalla liturgia del Venerdì Santo il riferimento ai “perfidi giudei”.

Nel 1962 il testo era pronto e conteneva l’affermazione delle radici giudaiche della Chiesa e la condanna dell’antisemitismo. Ma le resistenze all’argomento non tardarono a farsi sentire, dentro e fuori la Chiesa. Nella stessa commissione preparatoria furono avanzate riserve: le ragioni dell’ostilità al documento furono esplicitamente rappresentate dal cardinale Cicognani, il quale dichiarava che il testo non rientrava tra gli scopi del Concilio e lo qualificava come superfluo (perché allora non un documento anche sui musulmani? - domandava il presule) e troppo esposto a strumentalizzazioni politiche di parte. In effetti, già era in atto un’aspra contestazione dei Paesi arabi .per la presenza a Roma di un funzionario dello Stato ebraico in rappresentanza del Consiglio ebraico mondiale, che aveva attirato sul Vaticano l’accusa di favoritismo nei confronti di Israele.

Il fatto che lo schema De iudaeis venisse ritirato dall’agenda conciliare sembrò sancire la fine della questione. Che tuttavia venne ripresa dallo stesso Giovanni XXIII - il quale, peraltro, era stato sollecitato sull’argomento dal cardinale Bea, presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani - e inserita, per esplicita indicazione del Papa, nello schema sull’ecumenismo, di cui avrebbe costituito il capitolo quarto, così titolato: “L’atteggiamento dei cattolici di fronte ai non cristiani e in particolare agli ebrei”.

Secondo questa impostazione, il testo fu presentato in aula durante la seconda sessione sotto il pontificato di Paolo VI. Il capitolo si componeva di 42 righe, quasi interamente dedicate all’ebraismo, dopo una breve introduzione sulle religioni in genere. In negativo, la relazione del cardinale Bea chiariva che il testo non concerneva il riconoscimento politico dello Stato d’Israele; in positivo, dichiarava che la questione trattata era di carattere esclusivamente religioso e la sua finalità era di chiarire come la Chiesa sia, in un certo senso, «una continuazione di Israele».

Importanza del documento

La necessità del testo - contestato da molti Padri conciliari - poggiava sul fatto che la Chiesa, direttamente o indirettamente, fosse accusata di aver ispirato e fomentato l’antisemitismo: «La ragione è che già da più decenni il cosiddetto antisemitismo infuriava in varie regioni e nella forma più violenta e criminosa, soprattutto in Germania, sotto il regime nazionalsocialista, il quale per odio contro gli ebrei perpetrò delitti spaventosi, eliminando più milioni di ebrei. (…) Non che l’antisemitismo, soprattutto quello del nazionalsocialismo, abbia attinto la propria ispirazione dalla dottrina della Chiesa, cosa che non regge affatto. Si tratta piuttosto di eliminare alcune idee che, forse per effetto di quella propaganda, rimangono ferme nell’animo dei cattolici». Certamente era un’illusione pretendere che la questione rimanesse circoscritta all’ambito soltanto religioso, e risultava debole l’affermazione di una sostanziale estraneità della Chiesa all’antisemitismo, di fatto non affrontando quel pregiudizio antigiudaico che è stato una costante della cristianità lungo tutto l’arco della sua storia. Né basterebbe asserire che la preclusione era un sentimento diffuso in tutta la società, dal momento che si trattava di una società cristiana, formata e regolata dalla predicazione della Chiesa.

Comunque sia, l’impostazione apparve riduttiva a molti; e se i vescovi delle Chiese orientali continuavano a sostenere l’inopportunità di una dichiarazione sugli ebrei mentre infuriava lo scontro con il mondo arabo e si ingigantiva la questione palestinese, molti altri chiesero di allargare effettivamente la trattazione a tutte le religioni non cristiane.

In merito ai contenuti, si osservò pure che la questione - come quella sulla libertà religiosa, che costituiva il capitolo V - risultava estranea allo schema De Oecumenismo, per cui il capitolo venne estrapolato e costituì la base per un documento autonomo, diviso in due parti, la prima sul tema dell’antisemitismo, la seconda sulle altre religioni.

Il documento fu presentato in aula durante la quarta sessione: per la risonanza avuta presso l’opinione pubblica - almeno così argomentava il cardinale Bea nella relatio - era impensabile togliere la dichiarazione dal programma conciliare. La discussione in aula fu aspra e andò dalla richiesta di ribadire la tesi del “deicidio” all’assunzione di responsabilità da parte della Chiesa per aver alimentato un atteggiamento antigiudaico.

Una commissione del Segretariato per l’unità dei cristiani, dopo la discussione, provvide non senza difficoltà a redigere celermente un testo in cinque punti, che prevedeva, appunto, un riferimento all’origine e al fine comune dell’umanità, alle religioni non cristiane, all’islamismo, all’ebraismo, per concludere con la condanna di ogni forma di discriminazione. Era lo schema che, con alcune correzioni, arriverà alla promulgazione finale. In aula, il cardinale Bea evocò in un’ulteriore relatio l’immagine evangelica del granello di senape, per lo sviluppo del documento, nato come una dichiarazione di condanna dell’antisemitismo e diventato un albero in cui trovavano posto tutte le religioni. Le votazioni sul documento furono lontane dall’unanimità. Vennero avanzate ancora riserve, prese in considerazione per la redazione ultima della dichiarazione, definitivamente approvata con 2.221 voti favorevoli e 88 contrari.

Se l’immagine del granello di senape evocato dal cardinale Bea non sembra corrispondere all’iter così tormentato della dichiarazione, e alla sua formulazione ancora esitante, non omogenea nelle parti e acerba in alcuni passaggi, si può comunque parlare di una novità assoluta nell’atteggiamento della Chiesa. Nell’arco di cinque anni si era passati da un’ipotetica dichiarazione di condanna dell’antisemitismo all’elaborazione teologica del rapporto della Chiesa con .le religioni non cristiane, nel quadro dell’universale volontà salvifica di Dio. Si trattava di un passaggio enorme, in linea con l’ecclesiologia di comunione e con l’apertura al dialogo nei confronti del mondo, che il Concilio aveva formulato nei documenti maggiori, soprattutto nella Lumen gentium e nella Gaudium et spes. Sta qui il punto di partenza di un dibattito intensissimo e pieno di tensioni, quello sul pluralismo religioso, che nel post-concilio conoscerà uno sviluppo incredibile.

* professore di ecclesiologia alla Pontificia università gregoriana di Roma

(da Vita Pastorale n. 2, 2007)

Bibliografia

Per un approfondimento della Nostra aetate il testo più accessibile è Stefani P. Chiesa ebraismo e altre religioni, Padova 1998: un approccio storico in Alberigo G.,Storia del concilio Vaticano II, I-V, Bologna 1995.2001; vale la pena di rileggere il testo del cardinale Bea, alla cui azione si deve di fatto la Dichiarazione Bea A., La Chiesa e il popolo ebraici, Brescia 1966.

Maria nel dialogo tra le Chiese

di Mons. Francesco Pio Tamburrino OSB
Arcivescovo di Foggia

“Questione mariana”

Maria, la madre di Gesù, nell’inno di lode che rivolge a Dio, suo Signore e Salvatore, esprime il presagio di una ininterrotta benedizione da parte di tutte le generazioni dell’umanità: «D’ora in poi tutte le generazioni mi diranno beata» (Lc 1,48). Nel Nuovo Testamento il verbo makarìzein e suoi derivati sì riferiscono alla «singolare gioia religiosa che viene all’uomo dalla partecipazione alla salvezza del regno di Dio» (1). La lode, per Maria, sarà sempre lo stupore umano di fronte alla grandezza di ciò che il Potente ha compiuto in lei, compiacendosi della umiltà (tapeinosis) della sua serva.

«Questa direzione verticale della sua lode non impedisce a Maria di definire la sua esatta posizione nel piano di Dio: - ella è la serva del Signore (cfr Lc 1,38), in una situazione di bassezza (tapeinosis); - tuttavia sarà riconosciuta beata (makariousin me) d’ora in poi da tutte le generazioni» (2).

A partire dalla autocoscienza che Maria manifesta nel Magnificat , sono possibili due accentuazioni differenti e complementari: la «direzione verticale», che esalta il Nome santo di Dio e la sua fedeltà; la «direzione orizzontale», che prende in considerazione Maria nel piano di Dio, la salvezza (ta megàla) operata in lei in favore di Israele e di tutte le generazioni umane.

Oggi la cristianità è divisa. La stessa lode di Maria nelle Chiese non riflette soltanto il legittimo pluralismo, cui il Magnificat fa da preludio e il Nuovo Testamento documenta più ampiamente, ma assume termini antitetici e alternativi.

Va detto subito che la divisione nelle mariologie delle Chiese non è nella persona di Maria, né in ciò che il Nuovo Testamento testimonia di lei. Da parte sua c’è stata solo la volontà di servire il Signore nel singolare compito di generare al mondo il Salvatore e di accompagnarlo nella sua missione mediante la fede e la sottomissione. Maria, nella sua funzione voluta da Dio e nel suo servizio, non è fonte di divisione, bensì di benedizione e di unità. Eppure ella, nella storia delle Chiese cristiane, soprattutto degli ultimi quattro secoli, è divenuta parte del contenzioso teologico, per cui oggi si parla di «questione» e di «problema» mariano. Anzi, il tema mariano sembra essere - nel dialogo ecumenico - uno degli argomenti che suscitano le reazioni e le emozioni più vivaci, capace di coinvolgere altri valori legati all’essenza della fede cristiana. Kenneth S. Kantzer, ad esempio, confessa la sua perplessità nel constatare come questa figura di donna venga sempre più «gonfiata», fino ad assumere aspetti di intollerabile idolatria. «Agli occhi dei protestanti la Chiesa cattolica promuove una pietà mariana che può essere solo definita idolatra» (3). D’altra parte, ortodossi e cattolici rimproverano ai protestanti di ignorare Maria, di non riconoscerle il posto che le compete e, dal punto di vista teologico, il compito unico che ha svolto nella storia della salvezza. Non è assurdo che, pur facendo parte in forza del battesimo di una unica Chiesa e pur essendo tutti credenti in Cristo, proprio sua madre ci divida (4)?

La divisione su Maria si situa sul versante delle teologie, che le Chiese hanno sviluppato nel corso della storia cristiana, delle esegesi bibliche che hanno prodotto, delle ecclesiologie differenti che contraddistinguono le loro coscienze. Sta di fatto che oggi le Chiese divise non sono in grado di proferire «con una sola voce» la lode che Maria presagiva nel popolo dei credenti.

Nel movimento ecumenico ufficiale il tema mariano non è stato ancora affrontato, forse perché finora è stato ritenuto marginale rispetto ad altri argomenti più urgenti e radicali. Solo singoli teologi o gruppi ristretti di ricercatori ne hanno fatto l’oggetto di colloqui interconfessionali (5).

Il tema mariano potrebbe essere studiato illustrando le posizioni delle varie Chiese al riguardo (6). Questa via, per sé legittima, sembra improduttiva, perché «un ecumenismo spaziale tende, direi, per sua natura, verso l’integrismo, verso la riaffermazione delle rispettive posizioni che, pur ripetute, ad un dato momento si scontrano» (7).

Preferisco situare il problema nella sua essenzialità, seguendo un taglio sistematico-teologico dei diversi livelli in cui si pone la «questione mariana».

Il punto di partenza: la Scrittura

La persona di Maria, nella sua essenza, nella sua funzione e missione, è tutta nelle Sacre Scritture e nella storia di salvezza, che hanno come punto centrale la persona e la missione di Gesù. Maria vi appare con discrezione e umiltà, ma anche in un ruolo unico di Vergine che genera miracolosamente il Salvatore del mondo, di credente, di serva del Signore, di povera per eccellenza, sempre disponibile a cogliere e servire i desideri di Dio e degli uomini. Un aspetto profondamente biblico, che ricollega Maria ad Abramo e ai grandi personaggi della storia della salvezza, messo in luce particolarmente dalla esegesi protestante, è la fede tentata di Maria.

«La lettura attenta delle Scritture ci dà una immagine succinta, ma impregnata di una fede semplice, turbata ma trionfante, nella persona di Maria. Dall’Annunciazione alla Natività, attraverso l’infanzia e la maturità di Gesù, fino alla sua crocifissione e alla risurrezione, e anche nella prima comunità cristiana, Maria è un esempio e uno stimolo della fede in Gesù il Cristo» (8).

René Laurentin ha osservato che, mentre al secolo XVI la discrezione del Nuovo Testamento su Maria indusse i protestanti a rinunciare ad ogni mariologia e i cattolici a sviluppare una mariologia parascritturistica, oggi «i protestanti ritrovano Maria mediante la Scrittura, mentre i cattolici ritrovano Maria nella Scrittura» (9).

Il confronto ecumenico sui testi biblici relativi a Maria è, senza dubbio, il primo e fondamentale passo verso una convergenza teologica. Tuttavia non va sottovalutato il fatto inevitabile che anche nell’esegesi è difficile liberarsi dalla forma mentis e dalla conoscenza precedente (Vorveständnis) confessionale, che si rivela nella preferenza e nell’insistenza su determinati temi e testi, piuttosto che su altri.

A questo si aggiunge, come per altre differenze nelle tradizioni confessionali (10), che lo stesso Nuovo Testamento non presenta la Madre di Gesù in modo uniforme e armonioso: la diversità di accentuazioni è già presente negli scritti neotestamentari. Giustamente in una ricerca interconfessionale, condotta negli Stati Uniti tra cattolici e luterani, si osserva: «Se le Chiese oggi non sono d’accordo nel valutare Maria, non è soltanto perché hanno tratto differenti conclusioni intorno agli sviluppi postneotestamentari, ma anche perché hanno dato enfasi differente ai diversi elementi che si trovano nello stesso Nuovo Testamento» (11).

Anche per la dottrina mariana, anzi per essa in modo del tutto speciale - affermata l’autorità sovrana della Scrittura come «norma non normata» della fede cristiana - si pone il problema del rapporto tra Scrittura-Tradizione-Chiesa. Il tradizionale dissenso sulle fonti della rivelazione («sola Scrittura» per i protestanti, Scrittura-Tradizione per gli ortodossi e i cattolici) si va smorzando ed è stato riformulato così dalla (Conferenza ecumenica di Fede e Costituzione a Montreal nel 1963:

«Il nostro punto di partenza è il fatto che viviamo tutti in una tradizione che si rifà al nostro Signore, e affonda le sue radici nell’Antico Testamento, e siamo tutti in debito con quella tradizione nella misura in cui abbiamo ricevuto, attraverso la sua trasmissione da una generazione all’altra, la verità rivelata, il Vangelo. Per questo possiamo dire che esistiamo, come cristiani, per mezzo della Tradizione del Vangelo (la paradosis del kerygma) testimoniata nelle Scritture, trasmessa dentro e per mezzo della Chiesa mediante la potenza dello Spirito Santo. La Tradizione presa in questo senso si realizza nella predicazione della Parola, nell’amministrazione dei sacramenti, nel culto, nell’insegnamento, nella teologia, nella missione e nella testimonianza a Cristo attraverso la vita dei membri della Chiesa.

Ciò che viene trasmesso nel processo della tradizione è la fede cristiana, non soltanto come una somma di principi, ma come una realtà vivente trasmessa attraverso l’opera dello Spirito Santo. Possiamo parlare della Tradizione (con la «T» maiuscola) cristiana, il cui contenuto è la rivelazione di Dio e il suo donarsi in Cristo, presente nella vita della Chiesa.

Ma questa Tradizione, che è l’opera dello Spirito Santo, è incorporata nelle tradizioni (nei due sensi della parola, intendendo sia la diversità nelle forme di espressione, sia le tradizioni confessionali). Le tradizioni nella storia cristiana, sono distinte dalla Tradizione, eppure ad essa collegate. Esse sono le espressioni e le manifestazioni in forme storiche diverse, dell’unica verità e realtà che è Cristo» (12).

Nel caso specifico della mariologia si evidenzia in maniera emblematica il modo diverso di concepire il rapporto fra Scrittura e Tradizione nelle Chiese. Per i cristiani della riforma, per i quali «la Tradizione coincide con la rivelazione in Cristo e la predicazione della Parola, affidata alla Chiesa ed è espressa in diversi gradi di fedeltà, in varie forme condizionate dalla storia, cioè dalle tradizioni» (13), il circolo resta più chiuso e le possibilità di sviluppo dottrinale non oltrepassano di molto il compito della esegesi biblica. Si spiegano allora le perplessità, nel mondo protestante attuale, di ritenere legittimo il titolo di Teotòcos (in latino deipara, colei che ha generato Dio).

«L’espressione «Madre di Dio» si è rivelata particolarmente inaccettabile dai protestanti. Come può, si afferma, una donna di carattere finito essere madre di una persona di carattere infinito?» (14).

Situato nel contesto storico in cui tale titolo è stato formulato (Concilio di Efeso del 431), esso non è un titolo mariano, ma cristologico, inteso ad affermare la qualità di Figlio di Dio inseparabilmente unito alla natura umana dal momento del suo concepimento nel seno di sua madre.

«Maria, nella tradizione cristiana, garantisce l’umanità di Gesù, la realtà della sua vita sulla terra, l’autenticità del dubbio e delle tentazioni che egli ha conosciuto» (15).

Il Nuovo Testamento riporta sulla bocca di Elisabetta il titolo di Maria come «Madre del Signore». L’esegeta minimalista vi scorge solo una lode alla madre del Messia. L’espressione, per quanto poderosa, non sarebbe da intendere nel senso di una confessione di fede nel figlio di Maria come Figlio di Dio (16). È legittimo tuttavia chiedersi se l’intuizione di Elisabetta, «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41) non sia sconfinata oltre il semplice riconoscimento del Messia. «Per Luca solo lo Spirito può operare la conoscenza di Gesù come Figlio di Dio» (17). A questo si aggiunge la probabilità che l’evangelista-redattore abbia caricato di un colore post-pasquale e della fede della comunità primitiva l’appellativo di Gesù come Signore (Kyrios).

Il Concilio di Efeso ha inteso collocarsi in continuità con la fede della Chiesa apostolica quando, in una situazione dottrinale diversa da Luca, intende dare lo stesso contenuto dogmatico alle due espressioni della maternità di Maria: «la madre del Signore» di Elisabetta è «la madre di Dio», madre umana del Cristo, vero Dio e vero uomo secondo l’assemblea efesina (18).

C’è poi un altro settore che la riflessione biblica su Maria deve tenere presente ed è quello che René Laurentin chiama «un complesso di suggerimenti» (19) che emergono dal rapporto vivente tra i testi mariani neotestamentari fra di loro e con il resto della Scrittura (20). I riferimenti all’Antico Testamento nei detti e fatti di Maria, espliciti o in filigrana, fanno parte integrante della figura biblica della Madre di Cristo.

Il punto di arrivo: Maria nelle Chiese

A venti secoli di distanza da «Maria nella storia» i cristiani si trovano divisi su «Maria nella fede». Come in altri settori della teologia (sacramenti, ministero ordinato, Scrittura-Tradizione, culto dei santi), si sono formati durante i secoli due poli di concentrazione: da una parte si ritrovano in sostanziale accordo le Chiese orientali (precalcedonesi e ortodosse) e la Chiesa cattolica; dall’altra le Chiese e Confessioni nate o ispirate dalla Riforma del secolo XVI.

Nelle Chiese orientali e cattolica, soprattutto a partire dai grandi dibattiti cristologici dei primi secoli, la comprensione teologica di Maria venne trasferita nel culto liturgico e nella pietà. Si può affermare che, tuttora, se si vuole cogliere il significato più completo e vitale di Maria nel ministero di Cristo e della Chiesa, per la cristianità orientale e cattolica, si deve far ricorso alla liturgia.

Nel contesto cultuale, la madre del Signore vi appare nella sua esatta posizione storico-salvifica: il centro del culto è Dio uni-trino; il sacerdote della nuova alleanza e unico mediatore è Cristo; colui che rende efficace e attuale il memoriale delle opere salvifiche di Dio è lo Spirito. Alla celebrazione della storia della salvezza sono presenti tutti i personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento e della Chiesa, da Abele il giusto fino all’ultimo battezzato, che Dio ha voluto associare alla sua opera. Maria vi è presente in prima fila.

Nella concezione del culto ci imbattiamo nella questione che divide i riformati dai cattolici e ortodossi, se, cioè, Maria e i santi debbano entrare e in che modo nella preghiera cristiana.

La norma della Chiesa antica (Concilio di Ippona del 393) di rivolgere la preghiera liturgica a Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito è osservata nella liturgia di tutte le Chiese. Nella liturgia romana si trovano pochissimi elementi, in genere di carattere lirico (inni, antifone) diretti a Maria e ai santi (21). La liturgia bizantina (22) e delle Chiese orientali (23) danno maggiore spazio di quella romana alla preghiera diretta a Maria. Spesso hanno forma di saluto (chairetismòs), che riecheggia quello dell’angelo nell’Annunciazione (Lc 1,28). In generale tali elementi sono marginali e non deformano il carattere teocentrico della liturgia. Il problema si pone invece per le forme di pietà mariana extraliturgica, ove Maria sembra tenere il posto centrale della preghiera e della devozione.

Sono presenti gli eletti di sempre [...].Non si tratta della preghiera per i defunti; la Riforma l’ha respinta a causa della mercantilizzazione della soteriologia che era stata favorita dal Medioevo occidentale; si tratta della preghiera con i vivi di dovunque e di sempre» (24)

Prendendo in esame e raffrontando la mariologia cattolica del Vaticano II e quella protestante, W.A.Quanbeck ha osservato che c’è una commemorazione dei santi vera e giusta nella Chiesa antica.

La preghiera biblica ammette che il credente possa far «memoria» a Dio non solo della sua alleanza, ma anche delle promesse e dell’amore dimostrato a Davide (I Re 8; sal 132,1: «Ricordati, Signore, di Davide, di tutte le sue prove»). Il Padre di Gesù Cristo è «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe» (I Re 18,36, ecc.), «un Dio non dei morti ma dei viventi» (Mc 12,27).

Sembra giunto il momento in cui le Chiese si possono fruttuosamente consultare, sul culto, sulla spiritualità e sulle forme espressive della devozione mariana e dei santi, per eliminare quanto è contrario alla fede cristiana, ma anche per discernere e rispettare quelle diversità e accentuazioni confessionali che sono legittime.

Bisogna riconoscere che, da parte cattolica, fanno ancora ostacolo le esagerazioni delle devozioni popolari e anche la tendenza di certi teologi a non considerare la mariologia in stretto nesso con la cristologia e l’ecclesiologia.

Nell’ambito della riflessione teologica, sia nel presentare la propria fede, sia nel valutare quella degli altri, va tenuto presente il criterio della «gerarchia della verità».

Il Concilio Vaticano II ammonisce i teologi cattolici in questi termini: «Nel mettere a confronto le dottrine si ricordino che esiste un ordine e gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana» (26).

Le verità del cristianesimo non possono essere semplicemente giustapposte o allineate nell’orizzonte piatto di una successione.

«Non tutto si presenta sul medesimo piano, tanto nella vita di tutta la Chiesa che nel suo insegnamento; certo, tutte le verità rivelate esigono la stessa adesione di fede; ma, secondo la maggiore o minore relazione prossima che hanno rispetto al fondamento del mistero rivelato, esse stanno in posizioni diverse le une di fronte alle altre e in rapporti differenti tra di loro» (27).

Il legittimo pluralismo può spingersi anche in altre direzioni; e sono «la diversa enunciazione delle dottrine teologiche», «i metodi e i cammini diversi per giungere alla conoscenza e alla confessione delle cose divine», e perfino uno sviluppo dogmatico differente «di alcuni aspetti del mistero rivelato, percepiti in modo più adatto e posti in migliore luce dall’uno che non dall’altro» (28). Questa osservazione del Vaticano Il riguarda direttamente gli Orientali, ma può estendersi anche alle Chiese della riforma.

In molti casi le formule teologiche si rivelano complementari, ma - non bisogna negarlo - talvolta estranee o opposte tra di loro (29). In questa zona si situano i dogmi cattolici della Immacolata Concezione e l’Assunzione di Maria. Nel prossimo futuro sarà compito della Chiesa cattolica rendere conto della fede che è in lei di fronte agli ortodossi e ai protestanti, utilizzando una accurata ermeneutica dei suoi dogmi, tenendo conto dell’apporto della scienza e del linguaggio, della antropologia e delle recenti escatologie (30).

Conclusione

Se esiste dissenso è divisione sulla figura di Maria, essi non sono dovuti alla sua persona, né al suo rapporto con Cristo, di cui è stata madre e serva fedele. Maria non ha creato partiti nella chiesa apostolica e tra i primi discepoli di Gesù (cfr 1Cor 3,4 ss). La divisione è nella storia successiva e nella teologia delle Chiese storiche.

Questo significa che riprendere la questione mariana in ambito ecumenico non può che giovare alla causa dell’unità. Maria, lasciata finora in disparte nei dialoghi ecumenici ufficiali, merita maggiore attenzione, perché il successo dei dialoghi in corso dipende anche dalle soluzioni che si daranno ai problemi posti dalla mariologia. Il serio rinnovamento teologico in atto sui temi della Scrittura-Tradizione, della ecclesiologia e della cooperazione umana alla salvezza permette una sutura delle lacerazioni.

Nella ricerca ecumenica su Maria, come del resto per ogni altro aspetto, bisogna evitare di fermarsi agli enunciati teologici astratti. La teologia sistematica non sempre è in grado di rendere conto del significato ultimo di ciò che afferma. La teologia deve essere riportata alla esperienza di fede nei suoi molteplici aspetti della vita ecclesiale perché si possa esprimere onestamente la fede, che essa è chiamata a servire. Il «vissuto» della fede dà alla teologia la dimensione che, in qualche modo, la completa e la rende più intelligibile. Per esemplificare: nelle Chiese in cui si apprezza la «verginità per il regno» e si pratica la vita monastica come carisma ecclesiale, più facilmente si recepisce nella teologia, il significato della verginità di Maria (31).

Il dialogo interconfessionale su Maria è possibile. Ma deve svolgersi a partire da ciò che unisce e non da ciò che divide. Ciò che unisce le Chiese su Maria non è il relitto superstite da un grande naufragio o il residuo salvato faticosamente dalla dissipazione reciproca delle divisioni. Esso è l’essenziale tenuto al sicuro da Dio, come seme e speranza di ua totale comunione di fede tra le Chiese

Note

(1) F. Hauck, Macàrios in Grande Lessico del Nuovo Testamento a cura di G. Kittel - G. Friedrich, tr. it., VI, Brescia 1970, 990.

(2) Luca, versione, introduzione e note di C. Ghidelli (Nuovissima versione della Bibbia, 35) Roma 1977, 65 -66.

(3) K. S. Kantzer, Maria, la madre di Gesù: c’è un’alternativa fra l’ignoranza e il divinizzarla? in Voce Evangelica 48 (1987n. 4,10).

(4) G. Cereti, Maria nel dialogo ecumenico, in AA. VV., Maria nella comunità ecumenica, Roma 1982, 21.

(5) Un gruppo di 23 teologi ortodossi, anglicani, riformati e cattolici nell’ VIII Congresso mariologico internazionale (ottobre 1979) arrivarono a redigere una dichiarazione sorprendente per la sostanziale convergenza su diverse questioni riguardanti Maria; il testo è pubblicato in Maria nella comunità ecumenica, 111-113. Di grande interesse sono i tre studi dei luterani T. Harjunpaa, P. Meinhold e W. Borowsky curati per il Centro di studi mariologici ecumenici di Superga (Torino) e pubblicati nel volumetto Maria ancora un ostacolo insormontabile all’unione dei cristiani? Torino 1970. Negli anni 1980-81 il Segretariato Attività Ecumeniche di Roma organizzò degli incontri interconfessionali su Maria. Le relazioni e le meditazioni sono contenute nel voI. Maria nella comunità ecumenica (v. nota 4) e rappresentano finora il migliore contributo delle Chiese italiane al dibattito su Maria.

(6) Così procede E. Geremia, Orientamento ecumenico del culto alla Vergine, in Testimoni nel mondo, n. 40, agosto 1981, 25-32.

(7) R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, in AA.VV., Maria nella comunità ecumenica, 13.

(8) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, in AA.VV. Le dialogué est ouvert, I, Neuchâtel 1965, 175.

(9) R. Laurentin, Compendio di mariologia, Il ed., Roma 1963, 50.

(10) Ad esempio, per l’ecclesiologia v. P. R. Tragan, Pluralismo ecclesiale nel Nuovo Testamento, in Servitium 20 (1986) 13-26.

(11) AA. VV.,Mary in the New Testament, Philadelphia New York 1978, 294.

(12) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 45-47, in La Bibbia. La sua autorità e interpretazione nel movimento ecumenico a cura di E. Flesseman - van Leer; ed. it. a cura di R. Bertalot e I. Gargano, Leumann-Torino 1982-35.

(13) Scrittura, Tradizione e tradizioni, 57, in La Bibbia. La sua autorità, 39.

(14) K. 5. Kantzer, Maria, la madre di Gesù, 11.

(15) W. A. Quanbeck, Le problème de la mariologie, 176; cfr. W. Borowsky, incontro delle confessioni in Maria, in Maria ancora un ostacolo, 39- 40; M. Thurian, Maria madre del Signore immagine della Chiesa, tr. it., II ed.,Brescia 1969, 87-93.

(16) K. E. Rengstorf, Il vangelo secondo Luca, tr.it., Brescia 1980, 59. Di diversa opinione è M. Thurian, Maria madre del Signore, 88: «San Luca dà al titolo di Kyrios il suo significato divino. Cristo è Signore, egli è Dio».

(17) K. H. Rengstorf, il vangelo secondo Luca, 59. Ma è proprio Luca a menzionare la presenza illuminante dello Spirito!

(18) Sulla continuità tra la fede biblica e il dogma efesino si vedano i testi di Lutero e Zwingli riportati da M. Thurian, Maria madre del Signore, 90-93.

(19) R. Laurentin, Compendio di mariologia, 50.

(20) L’esegeta e il teologo nella ricognizione di questi aspetti meno evidenti devono usare maggiore prudenza. «Le interpretazioni allegoriche dei testi biblici hanno permesso ai Padri e agli scrittori medioevali di tradurre la loro comprensione della figura di Maria in una forma immaginosa, ma talvolta non forniscono alla riflessione teologica una base rigorosa»: P. Grelot, Marie, in Dict de spirit., 10, Paris 1977, 409. Al libro di M. Thurian, Maria madre del Signore (v. n. 15) in campo protestante si muove l’appunto che «le sue conclusioni sono eccessivamente basate sull’allegoria e non trovano [...] un supporto sufficiente al momento della verifica con i testi del Nuovo Testamento: R. Bertalot, Principali dati dottrinali circa Maria nella tradizione protestante, in Maria nella comunità ecumenica, 108.

(21) Si possono menzionare, a titolo di esempio, il Carmen Paschale II, 63- 38 di Sedulio: Salve, sancta Parens divenuto l’antifona di introito per alcune messe mariane; l’inno Ave, maris stella e le quattro antifone maggiori di compieta. Questi e altri testi devozionali sono arricchiti di melodie gregoriane di grande valore artistico: cfr il capitolo Notre Dame dans I‘art grégorien nel volume Les plus belles mélodies grégoriennes, comtnentées par Dom Gajard, Solesmes 1985, 231- 268.

(22) J. Nasrallah, Marie dans la Sainte et Divine Liturgie Byzantine, Paris 1954, 45-107. Tra i numerosi esempi di preghiere dirette a Maria basti ricordare l’inno acatisto e i numerosi theotokia aggiunti regolarmente alle dossologie.

(23) Il più antico esempio (papiro del III secolo) proveniente dall’ Egitto è il Sub tuum praesidium; cfr F. Mercenier, La plus ancienne prière à la Sainte Vierge, in Questions liturgiques etparoissiales 25 (1940) 33-36. Per la Chiesa copta v. G. Giamberardini, Marie dans la Liturgie Copte, Paris 1958. Nella Chiesa armena si fa uso del cap. 80 del Libro delle Lamentazioni di Gregorio di Narek: Preghiere armene, Milano 1978, 101-107 («supplicazione alla Vergine»): nel rito della messa l’introito per le feste mariane è diretto a Maria Liturgia della Santa Messa, Milano 1976, 19.

(24) J. J. von AIlmen, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi del culto cristiano, tr. it., Leumann-Torino 1986, 178-179.

(25) W. A. Quanbeck, Le pro blème de la mariologie, 175-176.

(26) Decreto Unitatis redintegratio, 11..

(27) Segr, per l’unione dei cristiani, Riflessioni e suggerimenti sul dialogo ecumenico, 4b.

(28) Decr. Unitatis Redintegratio, 17,

(29) Nell’area del dissenso rientrano quei titoli mariani che spettano propriamente a Cristo (mediatrice, corredentrice, ausiliatrice, consolatrice, avvocata, ecc). Per il protestantesimo sono titoli riservati alla Trinità. Per il cattolicesimo e l’ortodossia fanno parte del culto e delle devozioni. Tali titoli sono da intendere in senso molto subalterno e analogico. La prassi devozionale, tuttavia, non deve mai offuscare la centralità e la singolarità di Cristo.

(30) W. Borowsky, Incontro delle confessioni in Maria, si apre una pista di ricerca: i due dogmi mariani appartengono alla «Maria glorificata», che supera di molto la «Maria biblica». Borowsky suggerisce di leggerli come «colore religioso» dato alla figura di Maria, elaborato e cresciuto nel corso della storia, per cui «non toccano necessariamente il rapporto personale con Cristo né lo distruggono». Cfr anche R. Bertalot, Come impostare un discorso ecumenico su Maria, 14-15.

(31) cfr G. Westfal, Vie et foi du protestant, Paris 1966, 131-132. Si può osservare che nelle Chiese riformate ove stanno rinascendo esperienze di tipo monastico, cresce anche l’interesse per Maria. Alcune fondazioni hanno assunto nomi significativi, quali: Congregazione delle figlie di Maria (Danimarca); Sorelle evangeliche di Maria di Darmstadt (Germania); Suore di Maria, madre di Gesù (Svezia).

Venerdì, 25 Maggio 2007 01:54

L’infinita coscienza (Giovanni Vannucci)

L’infinita coscienza

di Giovanni Vannucci


In un’ora di grande intimità con i discepoli. Gesù domandò loro: «Cosa dice la gente che io sia?». Ed essi risposero: «Per qualcuno tu sei Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri ancora un antico profeta tornato nella vita». «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro prese la parola e disse: «II Cristo di Dio». Gesù proibì loro di dirlo ad alcuno. Quindi disse chi era lui stesso e chi sarebbero stati i suoi seguaci: «II Figlio dell’Uomo deve soffrire, venir riprovato, essere ucciso e risorgere il terzo giorno». Dopo aver descritto la sua realtà personale continua il discorso con delle affermazioni che, a prima vista, possono sembrare fuori contesto: «Chi mi vuol seguire, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde; chi la perderà, la salva» (cfr. Lc 9,18-24).

La sequela delle parole di Cristo è questa: proibizione ai discepoli di dire che egli è il Cristo, il Messia, il che equivale a un suo rifiuto di tale titolo; affermazione della sua sconcertante realtà: egli è colui che dovrà essere ucciso dalle autorità della sua terra, ma che risorgerà il terzo giorno; i suoi discepoli lo seguiranno nella sua paradossale via: faranno gettito, come lui, della propria vita al fine di possederla veramente.

Cristo nasce alla vera vita accettando la morte, il discepolo trova la vita gettandola allo sbaraglio. Quasi abbia detto: io sono il mistero della morte-risurrezione; voi, miei discepoli, siete chiamati a vivere il mio dramma di rinuncia alla vita per ritrovarla nella sua verità. Tenendo conto di questa novità di coscienza possiamo comprendere il motivo della proibizione di rivelarlo alla gente come il Cristo, il Messia.

La figura del Messia nella tradizione ebraica, e quindi nel pensiero dei discepoli, era quella di un condottiero con la corona e la spada, di un capo di eserciti, oppure - come una recente esegesi ama presentarlo - di un agitatore, di un ribelle poco fortunato. La proibizione ai discepoli di rappresentarlo come il Messia condottiero, e la descrizione che fa di se stesso: dovrò affrontare la morte per risorgere, vogliono dire che Gesù Cristo non ha alcun mezzo di azione fisica; se l’avesse, o se volesse servirsene, non sarebbe «colui che getta la propria vita per veramente possederla» (Lc 9, 24). L’episodio evangelico riportato in Lc 9, 18-24 è uno di quegli avvenimenti della vita di Cristo che rimangono eterni, nella successiva storia della coscienza umana. Egli è ancora, in questo momento, in mezzo a noi suoi discepoli e ancora continua a chiederci: «Chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). E continua a proibirci di nominarlo con delle figure di potenza terrena: non dite che io sono il Messia trionfatore e guida di eserciti, prendete la vostra croce come io prendo la mia, gettate la vostra vita allo sbaraglio come io getto la mia, e comprenderete che io sono il senza Nome; ponete fine a tutte le designazioni potenti della mia realtà, comprenderete che con la mia venuta non inizia un nuovo regno terreno, ma un nuovo stato di coscienza, che distruggerà dalla vostra mente tutte le immagini acquisite del mistero divino e vi ricondurrà nell’infinita, incondizionata coscienza divina.

Nell’incontro personale con l’annuncio evangelico i nomi con cui viene designato sono relativi, spesso impropri, in quanto esprimono, accanto al mistero essenziale, delle proiezioni di coscienze non pienamente illuminate; ciò che invece ci attrae e ci rende inquieti è l’invito ad andare oltre, il necessario morire per rinascere in forme di coscienza sempre più vaste e in un continuo superamento dei limiti.

L’annuncio evangelico esige da noi un radicale cambiamento di coscienza, che, una volta iniziato, non si fermerà nel suo movimento di distruzione e di creazione finché non contempleremo faccia a faccia il mistero divino.

Dare un nome al mistero della Parola eterna incarnata in Gesù Cristo è limitarlo, solidificarlo, togliergli ogni energia vitale. La Parola incarnata è l’assoluta coscienza divina in atto, che nel mondo sensibile appare come energia che distrugge per creare, crea per distruggere, il cui moto si placherà quando tutto e tutti saranno ritornati nell’unità della prima sorgente. Anche la Risurrezione è la distruzione del corpo fisico di Gesù e il suo passaggio a una diversa dimensione, dove anche la carne è trasfigurata in una libertà che non conosce nei limiti delle cose sensibili.

Gesù Cristo è un Nome, anzi il Nome, il cui contenuto è di non poter essere espresso da nessun nome, la cui realtà ultima e inesprimibile costituisce il punto in cui convergono tutte le figure religiose e ove si depotenziano trasfigurandosi in lui. «Chi vede me, in questo rapporto essenziale, vede l’incommensurabile coscienza del Padre, e in essa vede anche il più ignorato dei fratelli nel suo valore esatto di creatura chiamata a raggiungere l’infinito di Dio».

Quando questa illuminazione, l’incontro con il mistero del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, si compie, scende nell’umana coscienza un’onda di vita esaltante, che distrugge quanto la mente ha formulato con le sue misure limitanti, quanto la nostra inerzia ha potuto costruire in dottrine, istituzioni, ripetizioni di riti e di preghiere, di false evidenze, di idolatrie, e, con anima piena e libera, possiamo contemplare l’innominabile realtà di Dio e del suo Cristo.


Giovanni Vannucci, «L’infinita coscienza», 12a domenica del tempo ordinario. Anno C. In La Vita senza fine, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 142-144.

Fasi della cultura europea d'oltralpe

S. KIERKEGAARD
E LA TEOLOGIA DIALETTICA (1813-1855)

di Renzo Bertalot




Premessa

Benché il tema che mi è stato assegnato ci impegna nel confronto con la teologia dialettica, si rende necessario richiamare alcuni punti noti ed essenziali di riferimento.

Sören Kierkegaard nacque il 15 maggio 1813 e morì nel 1855. L'Europa era allora in fase di restaurazione dopo la burrasca napoleonica.

La sua vita fu segnata sia dall'esperienza del padre, avvelenata da un complesso di colpa per aver maledetto la sua esistenza di miseria, sia dal suo euforico ed affrettato fidanzamento con Regina Olsen, legame che ritenne di dover rompere perché non si sentiva pronto al matrimonio.

La sua produzione letteraria risente del continuo di questi condizionamenti e si muove, non sempre coerentemente, tra l'angoscia e la disperazione.

La sua considerazione del cristianesimo lo porta a mettere a confronto Socrate e Cristo: due grandi maestri di religione. Socrate si ferma all'ironia e alla maieutica, mentre Cristo porta con sé la novità della trasformazione: una scuola di serie A e una di serie B.

Da un punto di vista filosofico Kierkegaard è soprattutto anti-hegeliano. Non accetta i sistemi chiusi. Non c'è sintesi tra ragione e fede. La vita si decide sulla base dell'esperienza personale. "Esistere" (ex-sistere) vuol dire trovarsi "fuori" e fare quotidianamente i conti soli con se stessi. Siamo nel puro soggettivismo: troppo puro per non leggervi una sublimazione del pietismo precedente e una ripulsa contro le sopravvivenze di una ortodossia protestante a carattere assolutistico.

Nella prospettiva kierkegardiana si rende necessario un triplice passaggio dall'esperienza "estetica" (la sua ammirazione per la natura, i gigli dei campi e gli uccelli del cielo; il suo primo viaggio entusiasmante a Berlino rivelatosi, in un secondo viaggio, un vissuto irripetibile se non addirittura deludente) alla fase "etica" del dovere (Che cosa devo fare?) e infine a quella del "salto" religioso, del "paradosso" e dell'"assurdo", della vera libertà che non è un modo di pensare, ma di vivere, che non è scienza, ma passione non reperibile nella politica delle chiese fatta di troppi compromessi e di impuri adattamenti terreni. Le chiese visibili sono repellenti perché promuovono una fede imposta.

A - La società borghese

Kierkegaard era morto troppo giovane per rendersi conto delle nuove idee che andavano maturando contrapponendo l'affermazione del proletariato alla solida società borghese europea. Il romanticismo e l'ottimismo, che avevano avvolto la società vittoriana e anche quella guglielmina, non lasciavano intravedere i venti di guerra che sarebbero diventati tempesta con la morte dell'arciduca Francesco Ferdinando d'Austria e della sua consorte a Sarajevo.

In Inghilterra già si parlava della religione come "oppio dei popoli" con il canonico anglicano Charles Kingsley e solo in seguito con Carlo Marx. Negli Stati Uniti le chiese affiancavano l'insorgenza della classe operaia e sostenevano l'Evangelo Sociale contro l'espandersi di un capitalismo selvaggio, animato da una "concorrenza demoniaca". L'Europa era in ritardo e le chiese avevano spontaneamente fatto il nido accanto al potere: erano per lo più sospettose e contrarie alla sovversione di una società, dopo tutto, ritenuta sana. Il socialismo religioso era ai suoi primi passi, ma lo sconvolgimento della prima guerra mondiale allontanò i giovani e il proletariato dalle chiese favorendo più il secolarismo che la secolarizzazione.

Fu allora che emerse una religiosità dal basso verso l'alto, caratteristica di una criptoteologia, di una ribellione alla grazia, di una malattia, di una disarmonia, di un vicolo cieco e di una catastrofe (Barth). Kant, con la sua Critica della Ragion Pura, aveva a suo tempo sbarrato definitivamente la strada a chi s'affacciava al "noumeno" partendo dal "fenomeno". Eppure Kant credeva nella sola grazia come salvezza dal mistero inspiegabile del male anche se restringeva la capacità e le possibilità della ragione al solo ambito del "fenomeno". Kant fu considerato il "filosofo del protestantesimo" da contrapporre, in area cattolica, al risorgente tomismo inteso come rimedio al dilagare del "modernismo" socialisteggiante nel mondo latino.

Nel contesto delle idee e degli eventi, accanto alla crisi della cultura europea, si affermò la forte e irreversibile affermazione della teologia dialettica, detta anche teologia della crisi. Karl Barth, Emil Brunner, Fiedrich Gogarten e Rudolf Bultmann ne furono i massimi animatori e gli ispiratori di nuove generazioni di teologi al di là delle Alpi.

Kierkegaard, dapprima quasi ignorato, ritrovava allora, a notevole distanza di tempo, il suo momento fortunato e il suo pensiero stimolava la ricerca di nuove prospettive capaci di riportare alla ribalta la passione per il Regno di Dio.

B – I punti di riferimento

La religiosità hegheliana della sintesi cadde in disuso. L'uomo non è riconciliato per quel che passa nella testa del filosofo. Nell'area dell'esistenza, del fenomeno, la riconciliazione non è avvenuta. Viviamo nell'alienazione, nell'angoscia e nella disperazione a causa della nostra finitezza. Di qui la necessità di un "salto" "non razionale", fatto con infinita passione oltre le indicazioni del grande maestro di religione, che fu Socrate, e i suoi metodi della ironia e della maieutica. L'uomo ha bisogno più di una levatrice per essere salvato; lo "scampo e in Cristo che ci è dato e che ci trasforma. La certezza oggettiva è impossibile nella religione. Il "salto ", invece, è necessario per superare la disperazione e il dubbio; si tratta di un "paradosso", di "un rischio" e di una scelta", ma non di un arbitrio. Il senso della vita è libertà e creatività; un abbandonarsi alla fede e al tocco della grazia vivificante.

La ragione procede dall'esistenza (non verso l'esistenza), mentre Dio è il "totalmente altro", il soggetto e non l'oggetto o il predicato. Le verità storiche non producono fede. Anche la Bibbia non produce fede se non è accompagnata dalla passione dello Spirito Santo. In questo senso il cristianesimo è soggettivo, "folle" e "assurdo" mentre l'oggettività (la filosofia speculativa) assume la caratteristica di un paganesimo.

C - Le radici

questi nuovi orientamenti se non si richiamano, a volo radente, alcuni antecedenti.

Con la fine della Scolastica vanno ricordati Guglielmo d'Occam e le vivaci discussioni del suo pensiero sia alla Sorbona di Parigi, sia nella falda sotterranea che doveva più tardi sfociare nel XVI secolo e nella Riforma protestante: si posset naturaliter probari fides non esset necessaria, (Se si può dimostrare naturalmente la fede è non necessaria).

Con l'Umanesimo s'impone l'apporto di Lorenzo Valla che dimostrò la falsità della donazione di Costantino che per un millennio aveva determinato la storia dell'occidente. A lui si deve la sostituzione della mediazione del magistero non solo con la storia, ma anche con la filologia. La traduzione della "Vulgata" era ritenuta inaffidabile; bisognava rivedere i termini di "sacramento", di "penitenza" e l'espressione "piena di grazia".

Con il Rinascimento va segnalata la caduta dell'incidenza di Aristotele. Sorge a Firenze l'Accademia Platonica; si rende necessario un forte ritorno "alle fonti" (ad fontes) che al di là delle Alpi significa innanzi tutto ritorno alla Sacra Scrittura.

Con il XVI secolo riaffiorano i tre "solismi" precedenti: sola gratia, sola Scriptura, sola fides. La giustificazione per fede si trova al centro dell'interesse teologico fino al riaffermarsi dell'inquisizione nel 1542con Paolo III.

fino ad arrivare recentemente a Karl Raimund Popper (1902-1994) e alla sua teoria della "falsificazione”.

D - La teologia dialettica

Con il dilagare della crisi della società borghese, il pensiero di Kierkegaard ritrovò il suo punto di forza. Fu maestro" apprezzato e influente tra i teologi del XX secolo che stavano ricostruendo la teologia su nuove basi (eppure antiche: ecclesia semper reformanda): nessun ritorno ad Hegel, ai sistemi chiusi, alla dottrina, alle certezze e alle prove antropologiche lasciateci in eredità dai secoli precedenti. L'angoscia, la disperazione, la mancanza di riconciliazione, la non razionalità, l'incertezza e il dubbio erano tutti concetti che travagliavano i ripensamenti e intessevano la crisi con fattori ineliminabili. Il paradosso, il salto, il totalmente altro e il rischio riprendevano il sopravvento. Kierkegaard è oggi considerato il padre della filosofia esistenziale, della teologia dialettica e della psicologia del profondo. E il ceppo solido, capace di una nuova vitalità intorno agli anni della prima guerra mondiale, al momento del crollo della società borghese e della crisi della teologia liberale. I teologi, che a lui si sono ispirati, ne hanno condiviso le prospettive e l'impegno contro lo storicismo, lo psicologismo, il moralismo e il razionalismo, pur assumendo di volta in volta caratteristiche proprie di notevole portata nel rimanente del millennio. Ne ricorderemo alcune.

a) Emil Brunner (1889-1966) riprende da Kierkegaard l'idea della "contemporaneità" della fede. La rivelazione ci porta a confessare la fede cristiana "insieme" agli autori del Nuovo Testamento, non certo per l'azione del predicatore, ma per l'azione stessa dello Spirito Santo. Tra la ragione e la rivelazione v'è un'antitesi in quanto la ragione accecata dal peccato non è in grado di produrre prove oltre se stessa. Tuttavia l'uomo naturale non è svincolato da Dio anzi gli è sottomesso: esistono "punti di contatto" tra la linea verticale e quella orizzontale, tra il "totalmente altro", l'infinito, e il finito. Si tratta quindi di un "terreno comune" che si presta alla domanda esistenziale, all'apologetica come preparazione alla grazia. A questo punto sorse la polemica interminabile (forse mai spenta) con Karl Barth che rispose con un secco "NO" ad ogni "punto di contatto": lo Spirito Santo non ha bisogno di "punti di contatto" perché se li crea. Tuttavia per Brunner il protestante, che si occupa di filosofia, rispetta l'evento (esistenziale) della rivelazione senza attingervi e sa pure che la sua elaborazione dogmatica è un'opera filosofica e non l'atto stesso di Dio che si rivela. In questo senso nessuna filosofia potrà mai dirsi cristiana.

b) Rudolf Bultmann (1884-1951). Anche per il teologo di Marburgo la teologia liberale del secolo precedente non aveva parlato di Dio, ma dell'uomo, anche se ancora oggi non va sottovalutata la sua importanza per la serietà critica nel descrivere (kantianamente) il fenomeno. Una filosofia neutra, come quella di Heidegger, può aiutarci a "dialogare" con la storia nell'indagare la "precomprensione" che tutti ci portiamo dietro. Ma Dio, fuori della fede, non è riconoscibile perché la rivelazione è "un fatto di Dio".

Bultmann sarà ricordato per il suo programma di "demitologizzazione": il tentativo di separare il messaggio biblico dai suoi miti con lo scopo di evidenziarne la portata "contemporanea" (come Kierkegaard e Brunner). Tuttavia la fede rimane un "paradosso" senza garanzie. La sicurezza è solo nella grazia che ci "giustifica". L'autocomprensione e l'autorealizzazione rimangono un'illusione se Dio non ci "afferra", non opera il miracolo dell'"incontro" e non raddrizza (extra nos) dall'esterno i nostri desideri e la nostra natura donandoci la vera libertà (quella del "salto" kierkegaardiano) possibile solo nella fede.

c) Karl Barth (1886-1968). Il teologo di Basilea è stato l'alfiere della rivoluzione teologica che andava compiendosi riportando alla ribalta Sören Kierkegaard. "Dio è in cielo e l'uomo è in terra", il "totalmente altro", la religione (nel mondo latino sarebbe preferibile dire religiosità) come ribellione alla grazia, l'uomo che cerca se stesso non troverà nulla, ma l'uomo trovato da Dio troverà se stesso:

sono tutte espressioni classiche ricorrenti ogni volta che s'indaga sul pensiero di Barth dalle assonanze kierkegaardiane. Barth è rimasto fedele per tutta la vita al "maestro" di Copenaghen. Tuttavia qualche differenziazione va pure notata specialmente con l'andare del tempo. Il "totalmente altro" di Dio in quanto "altro" non richiamava forse l'uomo come unità di misura o di confronto? Quindi un nuovo paganesimo? È l'uomo capace di scegliere e di credere? L'Evangelo non ci ricorda forse che Cristo sceglie per noi altrimenti cadiamo nell'eresia del terzo articolo del credo apostolico: "Credo nello Spirito Santo…"?

Che il SI di Dio venga dall'alto e debba essere proclamato dalla comunità imponeva a Barth un prolungamento della liberazione annunciata all'umanità da Kierkegaard contro ogni criptoteologia dal basso o criptofilosofia originaria dall'alto.

d) Paul Tillich (1886-1965). Il teologo tedesco-americano ha condiviso con Barth la rivoluzione kantiana contro la metafisica e ogni tentativo di sintesi tra filosofia e teologia. Una filosofia “cristiana" è "una "disonestà filosofica". Tillich più di Barth si ferma a riflettere sulla nostra "alienazione", capace sì di formulare domande, ma non di offrire risposte. L'impatto con il "non-essere" porta all'angoscia e alla disperazione e poi si spegne in una serie di interrogativi a carattere ultimo e definitivo. Sono concetti che richiamano Kierkegaard e il "salto" della fede. La medicina non è in grado di guarire l'angoscia esistenziale (dovuta al senso di colpa e alla mancanza di significato); solo l'Evangelo ci garantisce contro il crollo delle nostre attese. La risposta "adeguata" viene dalla salvezza cioè dalla continua vittoria di Dio su di noi. Il mondo, infatti, non è abbandonato a se stesso perché se lo fosse a nulla servirebbe il governo di Dio.

Kierkegaard lascia al terzo millennio l'eco del suo grido di libertà che risuona forte attraverso i suoi discepoli ora esistenzialisti ora teologi. Il suo appello vuol essere determinante (contro l'assolutismo, contro il relativismo e contro il potere) nel nome della grazia "paradossale" che sola può illuminare e ispirare il formarsi di una nuova cultura laica ed europea.


* Il testo è stato presentato in occasione della riunione veneziana (2000) della Società Italiana per gli Studi Kierkegaardiani e si richiama all'incidenza del pensiero di Kierkegaard sulla riflessione teologica d'oltralpe. Oggi il teologo danese torna ad essere di notevole interesse per molti settori della nuova cultura europea, in via di unificazione.

Cf. Leggere oggi Kierkegaard, a cura di Isabella Adinolfi, Città Nuova Ed., Roma, 2000.

GIORNATA DEL DIALOGO EBRAICO CRISTIANO
17 GENNAIO 2003

"Mosè parlava con DIO
e tutto il popolo rispondeva"

di Rav Umberto Piperno

Il titolo proposto dal Segretariato delle Attività Ecumeniche è una traduzione parziale.

Non solo rispondeva, ma "corrispondeva". Operava attivamente ed integra con la Parola Divina.

Desidero iniziare ringraziando sia il Segretariato per le Attività Ecumeniche sia le istituzioni della Chiesa cattolica e delle altre Chiese cristiane che vedo qui presenti a testimoniare la particolarità di questa Trieste, sempre attenta al Dialogo, non solo nella dimensione italiana ma addirittura di quella europea, di un’Europa attenta alla Parola del Signore e speriamo anche della nostra risposta a questa Parola che scende su di noi. Certamente abbiamo un certo grado di responsabilità nell'interno di ogni comunità e all'interno di ogni città, di essere non solo il Mosè di questa generazione, il Mosè del proprio culto, della propria comunità o di coloro che ci sono vicini, bensì soprattutto di coloro che per qualche motivo ancora non ci sono vicini, ancora non riescono a rispondere, o meglio a corrispondere all'invito della Parola divina.

Quindi dobbiamo in qualche modo porre il punto d'equilibrio, il difficilissimo incontro tra la dimensione sovrannaturale, e la dimensione della parola umana; ma Parola divina non è come quella umana.

La Parola divina è come un martello che spezza la roccia da cui escono settanta scintille, una Parola capace di dire contemporaneamente la stessa cosa in settanta lingue e quindi capace di parlare "secondo la forza", secondo l’attitudine a capire di chi ascolta questa Parola.

In questo incontro tra la Parola divina e la parola dell’uomo, vedremo come nell'Esodo questa discesa è una discesa graduale del Signore sul monte Sinai, è anche una salita del popolo ebraico e di Mosè verso il monte Sinai.

Il Talmud affronta questo incontro ascensionale e discensionale con una con una distanza dice “ di quattro cubiti “ che diremmo di limite, di confine tra queste due parole; ed il compito di Mosè viene ad essere proprio quello dell’intermediario tra questi” quattro cubiti “, questo spazio umano di “ quattro cubiti “ nel pensiero giuridico ebraico, è uno spazio di acquisto, lo spazio del corpo umano, sia nella dimensione della vita, sia in quella appunto in cui l'anima è staccata dal corpo.

Tutto ciò che è intorno a noi, in qualche modo viene ad essere appartenente ai suoi ” quattro cubiti di pertinenza “, quindi questi “ quattro cubiti “ che certamente non sono vuoti, ma che sono pieni di parole.

A chi appartengono queste parole: all'uomo o al Signore?

Ancora di più ci chiediamo quale sia la difficile strada, il difficile ruolo di Mosè che non vuole essere assolutamente un intermediario, che non vuole essere assolutamente un portavoce, bensì, fin dall'inizio della sua scelta dapprima della nascita, dalla sua formazione, sia nella culla presso il Nilo, sia nel momento in cui pur accolto dal Faraone, veniva allattato dalla madre, ebbene Mosè si nutre di questi sentimenti di giustizia che poi ritrova quando esce e va verso il suoi fratelli.

E vide "nelle loro sofferenze". Non vide "le sofferenze" ma vide dall'interno, con il suo sentimento con la sua interiorità

Ecco la grandezza di Mosè fino dall'inizio è di guardare all'interno e di esser capace di compartecipare all'interno di una situazione in cui la stessa divina presenza si trova in difficoltà; ed ecco come allora l'esperienza del Sinai, l'esperienza della ricezione della Parola divina e della risposta del popolo, del Patto della Legge stabilita sul Sinai, non a caso il Libro dell’Esodo lo pone come primo incontro tra Mosè e il Signore.

Il Signore non parla con Mosé bambino, non parla a Mosè quando compie questi grandi atti di giustizia nei confronti dei suoi fratelli, o ancora di più nei confronti di estranei, tra pastori che litigano, ma nel momento in cui, dice il Midrash, come sappiamo va nel deserto per correre dietro ad una pecora che si era allontanata. Solo in quel momento diremmo, la persona, il leader diviene tale proprio nella compartecipazione, nella preoccupazione per il singolo, quest'elemento pastorale dell'attività di Mosè che non è assolutamente marginale nella sua esperienza.

Mosè vive per quarant'anni negli agi della corte del Faraone, accorgendosi però nel quarantesimo anno di questa tragedia del suo popolo, ma per altri quarant'anni vive a Midian, vive una dimensione pastorale, prepara la sua figura, il suo intervento, curando il gregge come tanti altri grandi personaggi della Bibbia. Ma sono questi secondi quarant'anni che daranno a Mosè la capacità di leader, poi certamente nel ottantesimo anno avverrà questa scelta, questa chiamata dal ” Roveto “ e negli ultimi quarant'anni secondo tradizione, dagli 80 ai 120 anni, allora Mosè interverrà positivamente a favore del popolo ebraico, e parlerà con il Signore.

Parlerà con molti intervalli, come vedremo, non è un dialogo continuo, un dialogo addirittura ci dice la Bibbia con 38 anni di pausa.

Il Signore parla a Mosè nell’ottantesimo anno della sua vita, l'anno in cui si realizzano le “Piaghe”, si realizza l'uscita dall'Egitto, si realizzano i cinquanta giorni dopo il Patto del Sinai, per un anno intero vedremo le Prime e le Seconde Tavole, il massimo momento della visione profetica nella rottura delle Prime Tavole, del Perdono divino, l'inaugurazione del Santuario, l'invio degli esploratori, e poi abbiamo 38 anni di silenzio.

Fino all'ultimo anno, da Numeri (cap.13) fino al Deuteronomio in cui in sei mesi Mosè riassume tutto il suo insegnamento, quindi è un Logos (dialogo) interrotto a spezzoni, in cui abbiamo appunto questo avvicinamento solo all'ottantesimo anno per due anni e poi gli ultimi mesi.

Ma allora ci domandiamo ecco quale fosse la qualità di questa “ chiamata “, di questo discorso, di questa capacità di poter essere prescelto per riportare da Parola divina ad un popolo intero.

Abbiamo detto le qualità morali, le qualità di estrema dedizione ad ogni singolo, la guida della comunità che significa l'andare fino al deserto, nel posto dove non c'è assolutamente pascolo, per seguire una pecora. Una pecora che non solo si era allontanata dal gregge, il Midrash aggiunge qualcosa a riguardo di questa pecora, a riguardo di cosa fosse andata a fare nel deserto.

Dice il Midrash, per raccogliere qualche goccia di miele che usciva da una roccia. Sappiamo che molto probabilmente le api forse pongono il nido nelle rocce, ecco: raccogliere da una roccia dove non c'è niente, dove non c'è vita, apparentemente, ecco lì c'è il miele. Questo è il compito di Mosè: prendere il miele, raccogliere il miele dove apparentemente sembra esserci il deserto.

Se trasferiamo questo insegnamento nella attualità, grandi sembrano essere i deserti, grandi sembrano essere le rocce e molto piccole sembrano essere le gocce di miele. Un po' il compito di ognuno di noi, di ogni Mosè che affronta il deserto, senza “seccarsi spiritualmente”, di seguire questo impeto per raccogliere questo miele, fare in modo che diventi tutta una vallata, questa pecora che si è allontanata venga quindi nutrita, e santifichi in qualche modo l'intera realtà circostante.

Per questo il Signore si manifesta proprio in questo Monte del Signore che però sembra esser privo di vita, sembra essere un Roveto consumato dal fuoco.

Un Roveto che però non si consuma, l'immagine del Roveto che darà il Nome al Monte, il Monte Sinai, vuole anzitutto trasmetterci l'insegnamento che la Parola del Signore è in ogni posto, persino nel deserto e soprattutto non in un grande albero, non come dice il profeta Elia: “ Nella voce impetuosa dell'acqua, nella voce impetuosa del fuoco, bensì una voce sottile e silenziosa “.

Voce silenziosa: paradosso del testo biblico. Una voce di fuoco che non consuma, che non distrugge che non è un fuoco dell'odio né un fuoco della distruzione, bensì, come vedremo” dalla Destra del Signore una Legge di Fuoco”.

Queste Parole incise con il fuoco che vengono ad essere riportate al popolo nelle Prime Tavole per essere poi sostituite da una scrittura umana, quella di Mosè nelle Seconde Tavole.

La dimensione del Roveto vuole sottolineare ancora la compartecipazione del Signore ai dolori del suo popolo; la possibilità di stare all'interno di un Roveto, in una situazione di ristrettezza, in cui le spine vengono ancora di più a procurare dolore.

Preoccupazione e dolore, più per il Signore che non per coloro che purtroppo sembrano non accorgersi di tutto ciò.

Li dove è compressa la libertà umana, la spiritualità del singolo, di un popolo, è compressa la Parola del Signore. E quindi ecco che la preoccupazione di Mosè è proprio che il popolo non possa ricevere, recepire, credere ne a Mosè né alla sua Parola: “..Certamente non mi crederanno …”.

Mosè chiede non solo dei segni, ma un messaggio, una “parola chiave” con la quale creare un collegamento iniziale, con il quale aprire la porta del Dialogo.

E certamente questo insegnamento, questa “parola chiave”, altro non può essere che il ricordo.

“ Il Signore si è ricordato e si ricorderà di voi “.

Quelle stesse parole che ha detto Giacobbe quando ha voluto essere sepolto in Israele, quelle stesse parole che ha voluto dire Giuseppe che non ha voluto essere sepolto in Israele bensì rimanere in Egitto in sepoltura temporanea, affinché fosse come simbolo vivente, paradossalmente pur privo di vita fisica, legato al ricordo della liberazione che sarebbe arrivata.

Quindi ecco che queste due parole, questo verbo del ricordo viene ad essere il primo elemento in cui il popolo si riconosce.

Sento una voce familiare, sento un verbo familiare, forse quella parola d'ordine che porta un personaggio nuovo, un personaggio che viene da lontano. Ma soprattutto un personaggio che pratica la fratellanza.

La novità, la prima grande novità del messaggio biblico dell'Esodo, è proprio la fratellanza, la compartecipazione tra Mosè e Aronne.

Mentre nel Libro della Bibbia, nel primo Libro della Genesi da Caino e Abele, Abramo e Lot che debbono dividersi perché sono fratelli. Noi siamo fratelli. Quali fratelli! Non ci sia lite tra noi, dividiamoci perché siamo fratelli. Certamente una situazione di fratellanza ridotta ed ancora di più fratellanze imperfette tra Ismaele e di Isacco, e tra i figli di Isacco, tra Giacobbe ed Esaù. Fratellanze difficili tra Giuseppe e i sui fratelli, come tra i due figli di Giuseppe l’uno che prende il posto dell’altro, questa lotta continua per la primogenitura, quale fratellanza ci offre il Libro della Genesi.

Improvvisamente ecco che arriva Mosè con il fratello più grande che si preoccupa, prima di tutto nel messaggio del Signore di dare giusto ruolo al fratello più grande, perché appunto chiede:

“ Manda chi sei solito mandare “.

Il Signore gli indica una nuova dimensione nel quale Aronne non è solo il portavoce, certamente tutta la difficoltà del profeta balbuziente, quasi del profeta noto, colui che deve riportare la Parola e che incapace di parlare. È vero in termini umani, è incapace di dire cose sue, ma certamente è capace di essere ispirato. All'interno di questa ispirazione: “ Aronne tuo fratello sarà il tuo profeta “. Non è il suo speaker, non è suo portavoce, non è il suo addetto stampa.

Aronne viene ad avere insieme a Mosè questo ruolo di comunicazione, ma questo ruolo di comunicazione si crea proprio nel momento in cui, per la prima volta, si ri-incontrano dopo quarant'anni Mosè e Aronne dopo questa grande esperienza del Roveto Ardente.

Il Signore lo rassicura: “ Stai tranquillo, ti vedrà e gioirà in cuor suo.”

Anche qui il vedere non solo un fratello, ma il condividere a livello interiore la gioia di una missione difficile, di un compito che più che un onore certamente è un grande onere rispetto al quale Mosè e Aronne insieme rischiano più volte la lapidazione da parte del popolo ebraico.

“ Ancora un po' e mi lapideranno “.

Per la mancanza di cibo, per la mancanza d'acqua, per le scelte difficili e coraggiose che faranno Mosè ed Aronne; ebbene la gioia interna, la gioia all'interno di un cuore è ancora quella che fa pensare a un popolo, addirittura li fa inchinare quando vedono un leader che è capace di gioire assieme a suo fratello, quando egli non ha sentimenti di prevalenza, allora il popolo riesce ad accorgersi che Mosè è il leader giusto, prescelto dal Signore proprio per queste sue qualità.

Ed allora ecco che durante tutta l'uscita dall'Egitto, durante tutto il periodo di sei mesi nei quali si susseguono i segni e i miracoli, Mosè ed Aronne insieme agiscono l'uno dove non può agir l'altro: per esempio Mosè che non può colpire la sabbia perché la sabbia lo difeso quando lui ha sepolto l'egiziano ed allora è Aronne a coprire la sabbia; Mosè che non può colpire l'acqua perché l'acqua lo ha salvato quando era un bambino in fasce nel Nilo, allora è Aronne a percuoterla.

Ma soprattutto è nell'esperienza del passaggio del Mar Rosso, in cui ecco per la prima volta il popolo ebraico ebbe fiducia nel Signore è in Mosè suo servitore.

Il testo biblico dice. “… ebbe fiducia “ non dice “… ebbe fede ”.

Come sappiamo grande è la distanza tra fede e fiducia; la fiducia viene ad essere qualcosa che ha bisogno di un elemento pratico di riscontro, ebbene il popolo ebraico per la prima volta dopo sei mesi, dopo le “ Dieci Piaghe “, nel momento in cui passa il Mar Rosso, nutre questa fiducia. Certamente è la Parola del Signore, che non è più una Parola destinata alla liberazione fisica, ma che diventa immediatamente “ fattore di crescita spirituale “ così come il Signore dichiara nel suo programma di liberazione in cinque punti nel quale appunto il popolo ebraico si sarebbe dovuto liberare non solo dalla schiavitù fisica, non solo dal sentimento di dipendenza psicologica verso padrone, ma addirittura di meritare un'indipendenza di mezzi, di strutture, con le quali costituire una Nazione, meritare di essere preso come Popolo, come Sposa del Signore e quindi di avere, di meritare questo rapporto diretto con il Signore e di essere portato quindi, nella sua terra.

Per realizzare questo progetto, questo processo, la Parola del Signore certamente ha un ruolo diverso.

Un ruolo insieme di crescita, di salita, di rivelazione, ma in ogni momento, come è scritto nei Salmi, la voce del Signore è secondo la forza; la forza di chi è capace di recepire; la forza individuale, non la forza in termini divini, ma la forza in termini umani. La capacità ricettiva dell'uomo, una capacità che viene ad essere assolutamente individuale e quindi ecco che cinquanta giorni dopo l'uscita del popolo ebraico dall'Egitto nel terzo mese, si realizza questo incontro, questo incontro che non è lontano nel tempo, che come dice nel Libro dell'Esodo, cap.19, viene ad essere l'incontro odierno.

“In questo giorno arrivarono nel deserto del Sinai “. Non dice in quello, oppure arrivarono tanti anni fa. I Maestri calcolano l'anno 1313 avanti all'era volgare, ma non ci interessa. Nessuno del popolo ebraico, ne i bambini ne i Maestri si sogna mai di dire sono passati 3380 anni dalla Rivelazione. No!.

Il giorno in cui, ogni uomo, apre il libro della Parola divina, quello è il giorno del Sinai; non conta l'anno, in questo giorno, non solo, ma soprattutto si realizza quella condizione indispensabile per ricevere la Parola divina.

Apparentemente la Bibbia sembra darci dettagli di viaggio, dettagli per chi voglia ripercorrere le tracce di Mosè nel deserto del Sinai. Ma Maestri del Midrash leggono sempre questi dettagli in chiave di “elevazione spirituale”. Partirono da Refidim e arrivarono nel deserto del Sinai.

Già sapevamo nell'ultimo brano letto, da dove era partito il popolo, che bisogna c'era di ripetere questo elemento. I Maestri giocano sul significato topografico del nome “ rifidim “che è vicino ad un termine che si ottiene invertendo le lettere fino ad avere un altro termine il cui significato è quello di divisione.

L'ultimo elemento di cui appunto si era occupato il testo biblico era l'attacco di Amalec, l'attacco portato al popolo ebraico nel momento in cui era caldo di entusiasmo e pieno di fiducia nel Signore.

Ecco che arriva qualcuno che dice: “ Vediamo se il Signore è con noi oppure no “.

Nello stesso momento, nel momento del dubbio il nemico si fa strada e colpisce il popolo ebraico alle sue spalle. Numerosi sono stati gli Amalec della storia, numerosi e sempre più sanguinari.

Il dovere di ricordare quello che ci ha fatto Amalec che ti ha raffreddato nella strada, non ti ha solo attaccato, ha fatto di più. Il pericolo più grande è quello di aver raffreddato la vita di un singolo o di una comunità:

i Maestri che non ci sono più, l'entusiasmo di una vita comunitaria che prima di una Shoà poteva avere quattro sinagoghe, centri di studio attivi dalla mattina alla sera, in migliaia di luoghi in Europa che sono stati interrotti, distrutti da Ameleq.

Non è solo la distruzione fisica: è il raffreddamento di questo entusiasmo il pericolo più grande. E allora questa divisione dal Signore, questa difficoltà di percepire la presenza del Signore, che viene a portare la divisione. Ma nel momento in cui il popolo ebraico avanza all'incontro con la Parola del Signore ecco che il testo biblico ci dice: “ Si accamparono nel deserto e si accampò li Israele di fronte al monte.

Che vuol dire sia accamparono, si accampò?

Soprattutto che bisogno c'è di una ripetizione, e perché soprattutto con persone diverse prima al plurale poi al singolare. I Maestri sottolineano che non si può ascoltare la Parola del Signore se non si è uniti.

“ Si accampò Israel come un unico uomo, con un unico cuore “, dicono i commentatori.

Solo quando superano le divisioni, solo quando diventano come un'unica persona, allora il Signore può parlare.

Ecco allora che Mosè sale verso il Signore. E il Signore lo chiama dal monte dicendogli: “ Così dirai alla casa di Giacobbe e parlerai ai figli di Israele “.

Anche qui “ parlare “ e “ dire “ due verbi diversi, “ la casa “ e i ” figli “.

La Torah, il testo biblico in poche parole, in una sola parola ci vuole insegnare anche la psicologia, ci vuole insegnare il mestiere di leader, di mestiere di oratore, come parlare al popolo.

Innanzitutto parlare alle donne, la casa di Giacobbe la forza della spiritualità di un popolo, di una comunità, sono le donne.

Saper entrare nel cuore delle donne, saperle conquistare, saper fare in modo che la parola sia una parola dolce, una parola appunto capace di catturare la loro attenzione.

Purtroppo gli uomini non sono così ricettivi e quindi per i figli di Israel, per i maschi, c'è bisogno di altro.

C’è bisogno non solo di narrare, ma dice ancora il Midrash, c’è bisogno di parole "dure come nervi".

Parole che in qualche modo hanno una elasticità, che però non può essere estesa o ridotta a piacere; ma così come la funzione del nervo nell'uomo è quella di trasmettere un impulso, un comando, ma se non ci fosse la durezza dell'elemento trasmettitore, non arriverebbe il messaggio.

L'uomo ha bisogno, per ascoltare la Parola del Signore di uno strumento particolare, uno strumento duro come lo sono i nervi.

A proposito della Parola stessa in cui appunto il Signore viene a dire: “ Avete visto quello che ho fatto in Egitto, vi ho portato su ali d'aquila e vi ho fatto arrivare a me “, quindi usa una cura particolare nei confronti del viaggio, una protezione particolare, e continua “ Se ora ascolterete la mia voce e osserverete il mio Patto “. Le condizioni sono chiare: per essere un reame di sacerdoti, un popolo distinto. Queste sono le parole che porterai ai figli di Israele: ascoltare la voce, anche qui ” nella voce “, cioè l'intera gamma dei messaggi e osservare il patto. Nel Sinai si realizza un vero Patto che pone il popolo ebraico nella accettazione, e vedremo se questa accettazione è libera o no, del precetto divino, della sua norma così come per ogni persona, che si avvicina all'ebraismo.

Non basta il patto della circoncisione. La circoncisione è il patto storico, il passaggio di generazione in generazione, da Abramo ai suoi figli.

Quel Patto che lega il singolo alla spiritualità divina, che porta l'elemento corporale, fisico nella dimensione del sacro e quindi ecco che il patto della circoncisione è strettamente individuale.

Il bambino nel momento in cui viene circonciso, perfeziona attraverso questa modifica della sua dimensione corporale, appunto la dimensione in cui la materia in oggetto è proprio l'organo dedicato alla riproduzione, entra nello Spirito.

Ma la circoncisione rimane un discorso individuale non è un discorso collettivo.

Il discorso collettivo, comunitario e di popolo, si realizza per tutto il popolo ebraico nel momento in cui il popolo si prepara al Decalogo, si prepara all'incontro con il Signore. Dice il testo dell'Esodo: “ Lavando i vestiti “. Ma in effetti quell'immersione nelle acque della purità che perfezionano appunto l'ingresso del popolo ebraico, non è solo l'immersione ad essere determinante. Insieme alla circoncisione, insieme all'immersione e per la donna che non ha neanche bisogno di sacralizzare il suo corpo perché già sacro, per il quale c'e solo l'immersione, ecco che deve intervenire l'elemento fondamentale, l'elemento dell'accettazione dei precetti.

Quest'accettazione è certamente un'accettazione difficile da comprendere, e un'accettazione rispetto alla quale il popolo ebraico viene a porre il suo futuro, così come ogni persona diremmo viene a porre le sue scelte, a dare una dimensione particolare alla sua libertà, piuttosto che a sottomettere la propria libertà.

Il mondo dei precetti non è mai una sottomissione e lo vedremo nel punto in cui è scritto: “ Le Parole incise sulle Tavole non leggere “ l'inciso “ ma, libertà sulle Tavole “. Quindi la libertà quotidiana in ogni momento di dedicare la propria attenzione e il proprio orecchio alla Parola del Signore, al richiamo della coscienza a un'altra voce a un altro richiamo, alla libertà di ogni giorno di aderire o non aderire ai precetti positivi. La libertà di violare o non violare un precetto negativo. La libertà che ogni giorno l'ebreo sceglie dicendo al presente: “ Ci stai dando la Legge “.

Ma che viene ad essere santificata fino dal momento del Monte Sinai.

È questa un'esperienza a cui partecipa, secondo il Midrash, tutto il popolo ebraico, passato, presente e futuro. Tutte le anime che sarebbero nate, che nasceranno nel corso dei secoli, secondo il Midrash è li presente ai piedi, o meglio come vedremo, sotto il Monte Sinai.

Perché “ sotto “ il monte Sinai ?

Dopo questo messaggio da parte del Signore, dopo questa condizione, Mosè chiama gli anziani del popolo e gli propone quelle cose, così come gli aveva detto, ordinato il Signore.

Ed ecco ora la risposta del popolo:

Rispose tutto il popolo insieme, qui nel capitolo 19,8 e dissero: “ Tutto quello che ha detto il Signore faremo “.

Più avanti viene detto: “..Tutto quello che ha detto il Signore faremo ed ascolteremo “.

Che bisogno c'è di dire”.. faremo e ascolteremo “. Anzi, se “faremo “ non c'è bisogno di ascoltare; e che vuol dire “ ascolteremo “; non è meglio dire: “ Ascolteremo e faremo “ ?.

L'ascolto non è condizione necessaria per l'esecuzione di un’azione.

Ma come si può realizzare la volontà del Signore se non si ascolta ?.

Possiamo ascoltare, possiamo comprendere, possiamo capire solo facendo.

Quindi non vuol dire prima faremo senza capir niente e poi ascolteremo, ma vuol dire ascolteremo mettendo in pratica, ascolteremo facendo, nella contemporaneità.

Il vero ascolto non è l'ascolto passivo, come davanti a uno strumento meccanico come la radio, la televisione, il computer; ma è "l'interattività" e quindi la possibilità di rispondere, la possibilità di intervenire e modificare in qualche modo, non il programma divino che certamente non può essere modificato, ma la dimensione della propria spiritualità.

Innanzitutto il cammino della " Teshuvà " del ritorno a Dio in ogni momento della nostra vita.

L'uomo in quanto tale, non solo l'ebreo quindi, ha la possibilità di pentirsi del sue colpe, ha la possibilità di ravvedersi, un ravvedimento attivo dove deve prima di tutto correggere il suo comportamento, per incontrare di nuovo il Signore.

E quindi ecco che a proposito di questo “ faremo “ certamente il Talmud deve intervenire.

Come sappiamo, i dettagli del racconto dell'Esodo, anche dal punto di vista "metereologico" sono abbastanza importanti.

Il Signore che parla dall'interno, più che da dietro una cortina di nubi, le nubi che rappresentano un elemento non di schermo tra l'uomo e il Signore, ma un elemento di protezione per l'uomo, quasi come quegli occhiali che servono per non rimanere abbagliati.

Più avanti il testo biblico dice: “ Verrò da te nell'addensarsi delle nubi ”.

Dio parla con il suo profeta Mosè affinché il popolo ascolti e risponda.

“ Ed in te avranno fiducia per sempre “.

Solo dopo Mosè riporta le parole del Signore a tutto il popolo.

Allora il Signore gli dice di prepararsi, di dividersi tre giorni delle proprie mogli e nel terzo giorno il Signore si sarebbe manifestato.

Il Signore sarebbe sceso sul Monte, nel terzo giorno davanti agli occhi di tutto il popolo.

Ecco che questi tre giorni di limitazione, non solo nella vita familiare coniugale, ma questi confini messi intorno al Monte, vengono ad essere quegli elementi nei quali insieme al suono del Corno, al suono dello Shofar, gli avrebbero consentito poi di salire al Monte.

Ecco che Mosè deve discendere dal Monte Sinai.

Quante volte ha dovuto salire e scendere dal Monte per riportare anche questa norma al popolo, in cui appunto viene a dire quello che era richiesto dal Signore per l'incontro.

E solo nel terzo giorno, al mattino, tra "suoni e lampi".

Tuoni e lampi anche qui normalmente prima il lampo dopo il tuono, la fisica ci insegna e la luce è ben più veloce del suono.

La Bibbia ci vuole dire che questa è un'esperienza sinestetica in cui non solo l'udito viene coinvolto, ma tutte le capacità dell'uomo, quelle intellettive e quelle sensitive.

E "tremò tutto il popolo che era ai piedi del Monte" così come poi tremerà il Monte.

Immaginiamo, la paura, la sensazione di un terremoto in cui trema la terra, ma anche trema la persona, trema e vibra diremmo, anche l'anima dell'uomo.

E allora ecco che anche qui il testo usa delle “ forzature “ bellissime. “ Fece uscire Mosè il popolo incontro al Signore dall'accampamento e si fermarono ai piedi del monte “.

Che vuol dire: “ Fece uscire “.

I Maestri vedono qui quasi una “ forzatura “: come la sposa che ha paura di andare incontro allo sposo mentre l'accompagna il padre, perché appunto forse ci potrebbe ripensare, forse ha qualche esitazione. Ebbene arriva il momento in cui, malgrado la santità dell'unione, ecco sorgono i dubbi e c'è bisogno di un Mosè che spinga il popolo ebraico a questo incontro.

Un incontro in cui il popolo si ferma ed è presente sotto il Monte, mentre il Monte sta fumando, diventa un vulcano perché era sceso il Signore con il fuoco ed il fumo come appunto una fornace.

Immaginiamo questa dimensione dei vulcani nel quale la voce dello " Shofar " è sempre forte.

“ Mosè parlava “, questo è il titolo dell'incontro, e ” il Signore gli rispondeva con la voce “.

Più avanti, prima del dell'incontro, scese il Signore sul Monte Sinai, quindi continui spostamenti.

Il Signore chiede ancora a Mosè di scendere un'altra volta per prepararlo a salire gradatamente, scese verso il popolo e il Signore disse tutte queste parole, cioè i Comandamenti.

E poi il popolo che ” vedeva “ i suoni.

Anche qui un'esperienza particolare, quasi televisiva diciamo, in cui il popolo vedeva da lontano e che chiedono a Mosè di parlare con il Signore perché loro temono di morire.

E Mosè che dice al popolo di non aver paura perché proprio questa è la prova che Signore richiede:

“ che sia il Suo timore sul vostro volto, senza peccare “.

Il popolo sta lontano e Mosè si avvicina alla Nube, dove c'e il Signore.

Certamente l'esperienza del Sinai, è quell’esperienza collettiva, che dimostra la veridicità della propria fede come elemento di continuità, dice: “ Come sarebbe stato possibile trasferire ad un intero popolo, un racconto collettivo se qualcuno non ne avesse trasmessa la memoria “.

Non una memoria individuale, che passa ad un popolo, ma una memoria trasmessa da un testimone.

Se ci vengono a raccontate che i nostri nonni sono andati sulla Luna, non potremmo mai credere a questo racconto se almeno una persona che ha conosciuto il nonno non abbia ricevuto questo messaggio, non abbia ricevuto questa testimonianza.

Quindi l'elemento della fiducia nella Torah stà proprio in questa esperienza collettiva, in cui il popolo ebraico nel corso della sua storia delle sue diaspore vive questo incontro, è certamente anche storicamente almeno subito pochi secoli dopo la promulgazione del Pentateuco, il popolo ha la coscienza che c'è stato questo incontro, che c'è stato questo Patto di accettazione.

Ma come è questo Patto ?.

Il Talmud si sofferma su questo incontro, si sofferma e cerchiamo in pochi minuti di trarre qualche insegnamento da questo momento di attesa, e nello stesso momento di sosta sotto il Monte.

Perché “sotto il monte” e non “ai piedi del monte” ?.

Un altro Midrash ci dice che il Signore usò violenza nei confronti del popolo ebraico.

I Rabbini, che parlano liberamente, usano questa metafora.

Come un uomo che usa violenza ad una donna, cioè che lo ha forzato ad accettare la Legge.

“ O accettate la mia Legge o qui sarà la vostra tomba”.

Il popolo ebraico non aveva scelta; avrebbe dovuto accettare il Patto del Sinai, altrimenti il Monte sarebbe piombato su di loro e li avrebbe soffocati.

Non solo il Monte, ma addirittura tutto il mondo, quel mondo creato nel sesto giorno, sarebbe piombato nel caos.

Quindi li dove non c'è l'accettazione della Legge e lo studio della Legge, l’intero mondo torna nel caos, l'intero mondo viene distrutto.

Una responsabilità ben pesante per il popolo ebraico, una responsabilità di accettare, appunto un matrimonio forzato.

I Maestri dicono questo innanzitutto per legare il Signore al popolo ebraico; è vero che forse c'è stato un atto di violenza, vedremo poi che non è così, ma che invece c'è stata una libera scelta.

Ma se c'è stato un atto violenza, ebbene, così come un uomo che poi il decide di sposare quella donna perché la ha violentata non può più divorziare da lei, non può dire cinquant'anni dopo: “ è vecchia non mi piace “. E quindi così il popolo ebraico non può essere più abbandonato dal Signore.

Ecco perché “ costringono “ tra virgolette il Signore ad essere il marito sempre fedele al popolo d'Israele malgrado il popolo di Israele non sia sempre stato fedele. Quindi viene capovolta questa violenza, viene capovolta chiaramente con un'immagine nella quale il Talmud nel trattato di Shabbat, accetta che ci sia stata questa imposizione. Ma quale imposizione, se poi abbiamo letto nell'Esodo: “ Tutto quello che ha detto il Signore faremo e ascolteremo “.

C'è un’attitudine, nel popolo ebraico che come al solito lo porta ad essere impaziente e a non aspettare i tempi necessari.

Quindi pronunciano questa affermazione senza pensare, un'affermazione che non avrebbero poi confermato nel corso della storia.

Ma interviene un altro Maestro e dice non è così.

La Torah ci vuole dire che è vero che la sussistenza del popolo ebraico e del mondo, dipende dall'accettazione della Torah: “ O accettate o qui sarà la vostra morte “. Così come se il popolo ebraico si distaccasse della sua Legge sarebbe come un corpo senz‘anima.

Ma nello stesso momento dice: “ Ecco che tutto il popolo ebraico ha accettato la Legge e la ha accettata anche in un secondo momento, nel momento della persecuzione alla fine del pericolo “.

Nel libro di Ester è scritto: “ Tutti accettarono e riconobbero “.

Che cosa misero in pratica? Il precetto di leggere il rotolo di Ester.

Che cosa c'entra questo precetto rabbinico abbastanza facile da seguire, anzi, nel momento di massima gioia del popolo ebraico, che ci vuole ad accettare questi quattro precetti del "Purin" di ascoltare questi pochi capitoli degli agiografi e poi magari gioire, fare il banchetto, dare doni ai poveri, fare una bella festa.

No dice, perché è importante quella accettazione?

Perché è un'accettazione dopo il pericolo.

Il popolo ebraico che rimane fedele alla Legge, proprio e malgrado il nemico che lo aveva voluto colpire per la sua dimensione appunto di fede, di fiducia, di attaccamento al Signore. Ed allora ecco che la seconda accettazione quella avvenuta in Persia, ai tempi di Ester, che paradossalmente viene ad essere una accettazione più forte di quella del Monte Sinai.

Cioè come nel corso della storia il popolo ebraico ha accettato e confermato liberamente, finito il pericolo, di ritornare alla Legge del Signore; ritornare senza alcuna costrizione, ritornare senza dimensione di paura che non è immobilità, ma è appunto una paura della responsabilità.

Il Midrash continua, che cosa è avvenuto dopo che il popolo ebraico ha detto: “ Faremo ed ascolteremo” sono venuti seicentomila angeli, uno per ogni individuo, ed hanno donato a ciascuno due corone: una per il “ faremo “ un'altra per “ l'ascolteremo “.

Immaginiamoci quindi questa dimensione nella quale ogni individuo dal più semplice fino al profeta Mosè, è incoronato con questi elementi, non a caso diremo messaggi di splendore nella dimensione intellettuale, nella dimensione appunto “ sopra la testa “.

Ma poi dice quando il popolo ebraico ha fatto il vitello d'oro sono scesi un milione e duecentomila angeli ognuno a riprendere una corona, mentre prima un angelo gli aveva dato due corone, queste corone state perdute, ma questa perdita delle corone viene sostituita dai "Tifillin" dai filatteri dove c'è: “ L'ascolta Israele “.

Quindi chi ha sbagliato ha la possibilità, ogni giorno di rimettere almeno una di queste corone, dimostrando che “faremo ed ascolteremo” cioè che stiamo “ascoltando” dimostrando con il precetto dei filatteri sulla testa “di fare”, di accettare queste corone.

Il discorso delle donne è ancora più nobile; le donne hanno ancora queste due corone: non le hanno perse perché non hanno sbagliato nell’ episodio del “vitello d’oro “.

Nel fondere il vitello d'oro sono stati usati ornamenti maschili, orecchini da uomo, anelli..

Per questo motivo le donne non mettono i filatteri: perché non hanno perso le loro corone.

Non hanno bisogno di corone sostitutive, umane da mettere al posto di quelle divine. Ma verrà il momento in cui tutto il popolo ebraico si pentirà, e farà Thesuvà, e accetterà quelle Seconde Tavole che Mosè ha riportato al popolo ebraico nel giorno del Kippur, il 10 del mese di Tishrì.

Mosè scende dopo 40 giorni, sente il rumore nel campo.

Mosè pensa che si tratti di guerra, ma sente solo confusione e allora compie quel grandissimo atto nel pensiero ebraico il più alto momento di profezia, perchè anticipa l'intelletto attivo, la volontà del Signore nello spezzare le Tavole del Signore.

Spezzare quelle Tavole scritte con il fuoco del Signore perché appunto il popolo non le avrebbe potuto sopportare. L'uomo non avrebbe potuto incontrare questa Volontà, questa Parola.

Non avrebbe potuto, come ha fatto Mosè, salire, entrare in questi “ due metri “, in questi quattro cubiti di terra di nessuno.

Ed allora che fa ?

Risale sul monte Sinai, per 40 giorni e 40 notti e chiede perdono al Signore per tutto il popolo.

Quel popolo ebraico che il Signore vuole distruggere, per crearne un altro a partire da Mosè.

Rinuncia ad una sua discendenza, ad il suo onore in favore del popolo, e solo dopo nel momento in cui può vedere parte della sua Gloria, solo dopo Il Signore passa su lui e gli rivela i 13 Attributi, allora discende al popolo ebraico.

Scende con le Seconde Tavole.

Queste Seconde Tavole che certamente non sono diverse nel contenuto, nella Parola divina, se non in piccolissime differenze tra il testo dell'Esodo e quello del Deuteronomio, ma che sono fuse nel contenuto. Questa volta però sono di matrice umana, scritte dall'uomo; e solo dove sono scritte dall'uomo sono sostenibili dalle mani dell'uomo; cioè non vengono più ad essere un peso per l'uomo, ma vengono ad essere quell'elemento di libertà che si tramuta, dicono i Maestri, nella semplicità del popolo che accetta quel che ha detto il Signore:

“Faremo ed ascolteremo”.

In che modo ?. Dove i giusti ed insieme tutto il popolo, nel momento del loro ravvedimento verranno condotti verso il loro obiettivo finale, con una gioia eterna sul loro capo.

Cos'è questa gioia eterna ?

Sono queste corone recuperate. Quindi la dimensione nella quale tutto il popolo non è capace immediatamente di rispondere, oppure risponde senza pensare, o risponde impetuosamente, si impegna forse in maniera precipitosa o viene costretto a impegnarsi, ma solo nel momento in cui nella dimensione futura il popolo è capace di prendere quest'impegno, di ri-meritare queste corone perché giornalmente appunto le sostituisce con le corone dei filatteri, con le corone delle buone azioni, così come Mosè ha meritato questa corona di splendore sul suo volto, allora ecco che riusciamo a comprendere, riusciamo a capire come il popolo “risponda” o meglio “corrisponda” alla Parola del Signore.

Una ascesa verso il monte Sinai, una ascesa verso la volontà del Signore che non si ferma mai, che non ha mai malgrado la discesa del Signore sul monte, un momento di incontro.

Una ascesa che è quotidiana, un compito difficile così come quello di Mosè di prendere il miele dalle rocce desertiche, un compito però di cui non abbiamo più paura.

* Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Trieste

ESPERIENZE DI DIALOGO

Le radici teologiche dell’hospitalitas

di Salvino Leone *

1. L’accoglienza all’ospite nella Sacra Scrittura

1.1 Nell’Antico Testamento. Nei confronti dell’ospite l’antico Israele ha avuto un atteggiamento caratterizzato da una profonda ambivalenza: da un lato, infatti temeva lo straniero in quanto portatore di diversità e, come tale, implicito e potenziale pericolo per la sua unità etnica, religiosa e culturale(1); dall’altro, si sforzava di accoglierlo individuando specifiche modalità per farlo, anche in ossequio ad una consolidata tradizione semitica che traspare in filigrana in numerosi brani scritturistici (2).

E’ interessante notare come l’unità semantica che nelle nostre lingue definisce lo «straniero» - il quale è, più specificamente, l’«altro» da ospitare - nella lingua ebraica si frammenti in almeno tre distinti sostantivi(3): il primo è zar (usato più spesso al plurale zarîm), che indica lo straniero in senso politico o, in ogni caso, l’appartenente a un’altra etnia o popolo ostile a Israele(4). Il secondo è nokrî, che è il forestiero in senso prettamente etnico-religioso; può non essere nemico di Israele, ma non ne condivide la fede e non rientra quindi nella sua comunità; il più delle volte non si trova in condizioni di marginalità economica o sociale(5). il terzo è gherîm, che indica lo straniero residente presso Israele ma senza una propria terra; tra i gherîm si trovavano principalmente gli esuli, i profughi, i rifugiati, gli emigrati, i fuggiaschi, ecc.(6).

Sono propriamente questi ultimi a essere oggetto di particolare rispetto e protezione, non essendo nemici né economicamente autosufficienti. La tipologia protettiva si esprimeva non solo nel non farne oggetto di vessazione, ma nel farli partecipare alle feste (cfr. Dt 16,11-12), nell’elargir loro la decima di ogni triennio (cfr. Dt 14,28-29), nel lasciare ad essi i residui del raccolto e della vendemmia (cfr. Dt 24,19-21) e nel riservar loro un trattamento assolutamente egualitario in giudizio (cfr. Dt 27,19). Le ragioni di tale attenzione per lo straniero o, almeno per questo tipo di straniero, sono varie(7).

La prima può ritenersi di ordine culturale e va rintracciata nella credenza popolare per cui si riteneva che, sotto le spoglie dell’ospite, si potesse nascondere una divinità. La traccia forse più famosa di questa tradizione, per quanto di epoca assai successiva, la riscontriamo nel mito di Filemone e Bauci (8), ma anche presso altre culture tale topos è ricorrente. Ne troviamo traccia indubbiamente nell’incontro tra Abramo e i tre personaggi alle querce di Mambre(9) o nella parenesi di Eb 13,2 (che non a caso si colloca in un interlocutorio di contesto semitico): «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni nel praticarla hanno accolto gli angeli senza saperlo»(10). E’ interessante notare, in tal senso, come il messaggio che si cela dietro tale narratività evidenzi nell’ospitalità l’occasione di incontro con Dio”.

La seconda ragione è di carattere storico e fa riferimento alla personale vicenda di Israele la cui storia nasce da un «arameo errante» (Dt 26,5) che viene accolto da diversi popoli e dal quale ha origine una generazione che per lunghi secoli vivrà straniera in terra straniera. L’ospitalità che adesso Israele è invitato ad offrire allo straniero si realizza proprio nel segno di quella ospitalità che un giorno ha ricevuto o, al contrario, della quale non ha potuto godere perché fatto oggetto di soprusi. Quando Dio dice «voi conoscete la vita dello straniero» (Es 23,9), non fa riferimento solo a un dato puramente cognitivo, peraltro impensabile nella mentalità ebraica, ma a una conoscenza essenzialmente esperienziale. Voi la conoscete perché ne avete fatto esperienza e quindi sapete cosa significa. E quindi «il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Lv 19,34). Proprio in tale cornice può porsi una interessante istituzione che è quella delle «città-rifugio» riservate a qualsiasi straniero avesse ucciso qualcuno involontariamente (cfr. Nm 35,15). Interessante perché costituisce la prima attestazione di un passaggio dall’ospitalità personale all’ospitalità strutturale: non più il singolo che ospita una o più persone ma un’intera comunità che si fa realtà ospitante.

La terza motivazione è quella propriamente religiosa e si radica nell’esemplarità divina che Israele è chiamato a riproporre: «Il Signore vostro Dio (...) rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10, 18). Ospitare il forestiero, l’orfano, la vedova diventa così espressione di «giustizia», cioè di perfetto adempimento della Legge (12). Il pio israelita, lo tzaddiq è tenuto a farlo nella duplice prospettiva del comandamento ma anche dell’esempio di Dio. JHWH che gli chiede tutto questo è anche Colui che per primo lo fa. Ne consegue che chi è fedele alla legge di Dio lo è anche nella prassi dell’ospitalità. In tal senso vi sono alcuni interessanti esempi da riportare dai quali emerge come la prassi dell’ospitalità, in un contesto religioso, sia premiata in vario modo. Il primo episodio è quello della prostituta Raab che accoglie gli esploratori inviati da Giosuè, fingendo che si tratti di comuni «clienti» (Gs 2,1-12). il secondo, che presenta alcuni tratti di somiglianza col primo, è relativo alla vedova di Zarepta che, accogliendo il profeta Elia, condivide con lui il suo ultimo pasto (1 Re 17,20). In entrambi i casi le due donne vengono premiate: la prima con l’incolumità per sé e la sua famiglia, la seconda con la guarigione del figlio. L’ospitalità che è accoglienza alla vita dell’altro viene ricompensata con il dono della vita. Tale dinamica retributiva diventa ancora più evidente nella storia di Rut, in cui la sua accoglienza al paese straniero, per cui lascia il proprio accompagnando la suocera Noemi, e quella di Booz alla donna straniera, che sposerà, culminerà nel premio più grande, quello cioè di diventare antenati di Davide e quindi del Messia (Mt 1,5-6). L’abbandono delle proprie certezze che si attua in questa singolare e reciproca ospitalità trova nell’accoglienza all’altro la sua nuova certezza.

1.2 Nel Nuovo Testamento. Il misterioso evento che sta all’origine nel Nuovo Testamento e storicizza in Cristo l’inizio della redenzione è attuato nel segno dell’ospitalità. Maria si fa ospite del Verbo che, in virtù della sua accoglienza, diviene il Gesù storico. In lei è l’intera umanità a ospitarlo(13), anche se, come sottolinea Giovanni, le tenebre non hanno accolto la sua luce (Gv 1,5). E non è un caso che la sua nascita avvenga proprio nel segno di un dramma di ospitalità: nessuna locanda ha posto per il figlio di Dio costretto a nascere per strada, in una «mangiatoia»(14). Quella terra che diventa per lui la sola realtà accogliente è ben simbolizzata, nell’iconologia bizantina, da quella grotta della nascita che si fa al tempo stesso accoglienza sepolcrale, cioè grembo del rinascere.

E, così pure, non è un caso che dall’accoglienza di Maria scaturisca un ulteriore duplice gesto di ospitalità. Il primo è quello che, paradossalmente, compie la stessa Maria che, facendosi essa stessa ospite di Elisabetta andando a trovarla cum festinatione, cioè con una premura ben sottolineata da Luca. Il secondo è quello, più evidente, da parte della cugina che accoglie «la madre del suo Signore» e quindi, in essa, lo stesso Gesù. Dietro quel sobbalzare di feto vi è proprio la gioia dell’accogliere, per primi, il figlio di Dio.

Nel messaggio evangelico, poi, troviamo almeno tre distinte tipologie che sottolineano, in aggiunta a quanto evidenziato nel Primo Testamento, il valore dato all’ospitalità.

La prima è la prospettiva di carattere etico-antropologico. Il comandamento dell’amore, sopratutto per coloro che si trovano in una situazione di precarietà esistenziale, trova nell’identificazione del «povero»(15) con Cristo la sua principale ragion d’essere. Nell’ospitare ed accogliere l’altro si accoglie Cristo stesso che, nella persona ospitata, si cela. Il tema, esplicitato nella parabola dei capri (Mt 25,31-45), verrà riletto innanzitutto nelle molte proiezioni devozionali, iconografiche e agiografiche che mostrano, con i linguaggi propri dei rispettivi ambiti, la figura di un povero che in realtà appare essere lo stesso Gesù (16). Ma poi, anche nella semplificazione catechistica, come una delle «opere di misericordia corporale» (17).

La seconda valenza è di ordine escatologico. Sempre in riferimento alla stessa parabola sopra citata l’ospitalità diventa uno dei parametri del giudizio escatologico. Ovviamente, nella parabola, l’elenco delle azioni misericordiose ha valore esemplificativo più che esaustivo ma nell’identificare solo pochi gesti-simbolo è significativo notare come Gesù vi includa proprio l’ospitalità.

La terza ragione, infine, è di carattere cristologico. I pressanti inviti vetero-testamentari ad accogliere i forestieri, unitamente ad altre persone in condizione di marginalità esistenziale, trovano il nuovo riferimento esemplare nella persona stessa di Gesù e nella sua testimonianza. Se, prima, l’israelita doveva accogliere l’altro perché glielo chiedeva Dio e Dio stesso si faceva difensore del povero, adesso tutto questo si incarna nella concretezza di un esempio visibile da imitare. Il Dio fattosi uomo si dimostra costantemente accogliente nei confronti dell’altro, ospita nel suo cuore, nel suo gesto sanante, nella sua parola guaritrice chiunque lo accosti.

Non dobbiamo trascurare, poi, i molti tratti biografici che, pur senza evidenziare in modo tematico la dimensione dell’ospitalità, di fatto presentano situazioni in cui Gesù è ospite di parenti, amici, discepoli. Anzi, molte volte, tali situazioni fanno da cornice a eventi miracolosi o insegnamenti particolarmente significativi. Basti pensare alle nozze di Cana, alle quali era presente come ospite; alla guarigione della suocera di Pietro nella cui casa di Cafarnao si fermava quando passava dalla Galilea; al banchetto in casa di Simone col noto episodio della donna peccatrice; all’abitazione di Marta e Maria in Betania, delle quali era ospite abituale, in cui sono ambientate la scena dell’unzione e i preliminari della resurrezione di Lazzaro; all’ultima cena in un sala appositamente predisposta per accoglierlo insieme ai discepoli, ecc...

Il tema dell’ospitalità verrà poi ripreso in vari passaggi degli altri scritti neotestamentari nel modo seguente: nella lettera ai Romani, la sua pratica viene presentata da Paolo come uno dei frutti della carità in un elenco che, se pur non esaustivo, ne evidenzia, tuttavia, alcuni dei più significativi: «Siate premurosi nell’ospitalità» (hospitalitatem sectantes, Rm 12,13); nella Prima lettera di Pietro se ne sottolinea la dimensione della reciprocità: «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1 Pt 4,9); nelle lettere pastorali, emerge come dovere specifico del vescovo: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare (1 Tm 3,2; cfr. anche Tt 1,8); nella lettera agli Ebrei, infine, è evidenziata la sua connessione con la carità, da cui promana, correlandola ad altre opere di misericordia sulla scia di Mt 25,3 1-45: «Perseverate nell’amore fraterno. Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo(18) Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo mortale (Eb 13,1-3)».

2. La prassi ospitante nella tradizione ecclesiale

2.1 Ospitalità ed evangelizzazione. Quanto detto a proposito delle attestazioni neotestamentarie inerenti l’ospitalità diventa ben presto prassi ecclesiale. Sono proprio le case dei credenti, infatti, i primi centri di ascolto della Parola e dello spezzare del pane, le prime ecclesìe: «Salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,4) e ancora: «Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23). Negli Atti viene ricordato come, dopo il battesimo di Lidia, questa rivolga a Paolo e ai suoi discepoli un invito: «Se avete giudicato ch’io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa». E ci costrinse ad accettare» (At 16,15). Possiamo senz’altro affermare che la prassi dell’ospitalità presso le case dei credenti, unitamente alla predicazione itinerante costituisse non solo l’ordinaria modalità di evangelizzazione nella Chiesa apostolica, ma anche il primo nucleo di quella che diventerà l’assemblea domenicale. Questa considerazione, di per sé prettamente storico-ecclesiale, assume tuttavia una portata assai più ampia ove si consideri il ruolo che svolge la «struttura ospitante» nella diffusione del messaggi evangelico. Non si tratta, cioè, soltanto di una pia pratica o dell’esercizio di una virtù, per quanto attuata in risposta ad un’esortazione evangelica, bensì di realizzare il regno di Dio anche attraverso una specifica prassi all’interno di una spazialità accogliente.

2.2 La riflessione patristica. Sul piano della prima riflessione teologica il tema dell’ospitalità è ampiamente presente negli scritti patristici(19). Nei Padri d’Oriente, d’altra parte, non va sottovalutata la sua consonanza con un ben preciso substrato culturale. La sua prassi, infatti, non si radicava solo in una convinta assimilazione dell’insegnamento biblico, ma anche in un retroterra storico che la valorizzava in modo specifico. Limitandoci ai Padri dei primi secoli la Didachè vi dedica espressamente un capitolo dando anche chiare indicazioni operative:

venuto èdi passaggio, aiutatelo quanto potete; non rimarrà da voi se non due o tre giorni, se necessario. Se vuole fermarsi da voi, avendo un mestiere, lavori e mangi. Se non ha un mestiere provvedete secondo il vostro giudizio, perché un cristiano non viva tra voi ozioso. Se non vuole così èun mercante di Cristo: guardatevi da costoro!»(20).

Nella Lettera ai Corinti Clemente associa arditamente l’ospitalità alla fede nella motivazione della promessa di Dio ad Abramo: «Per la fede e l’ospitalità gli fu dato un figlio nella vecchiaia» e prosegue associandovi ora la pietà (per la quale Lot fu salvato dalla distruzione di Sodoma) ora di nuovo la fede, a proposito della prostituta Raab.(21)

Possiamo citare ancora Il Pastore di Ernia nel quale l’ospitalità è vivamente raccomandata perché offre l’occasione di manifestare la carità(22). Aristide che ricorda come i cristiani gioiscano a ricevere i pellegrini come se fossero loro veri fratelli(23) Cipriano che autorizza a prelevare dai suoi beni il necessario per sostenere i forestieri’(24). Tertulliano che arriva addirittura a definire l’intera cristianità come contesseratio hospitalitatis. (25). E dell’ospitalità parleranno anche sant’Ambrogio e sant’Agostino(26).

2.3 Gli xenodochi e la prima ospitalità organizzata. Sulla scia e nella consapevolezza di tutto questo la Chiesa dei primi secoli organizza in modo sistematico le prime specifiche strutture di accoglienza.(27)

Le prime di queste possono ritenersi le diaconìe istituite a Roma da papa Fabiano (240-253) e annesse agli uffici del vescovo per assistere varie categorie di bisognosi: malati, orfani, pellegrini, forestieri, vedove. Il concilio di Nicea (325 d.C.) renderà obbligatoria per ogni città l’istituzione degli xenodochi, strutture di ricovero appositamente destinate ai pellegrini e agli stranieri. Queste venivano così ad affiancarsi ad altre istituzioni che cominciavano a nascere come i nosocomi (il più delle volte costruiti accanto ai primi e destinati ai malati); i brefotrofi (per accogliere i bambini a qualunque titolo bisognosi); gli orfanotrofi; gli ptocotrofi (per i poveri), i gerontocomi (per gli anziani).

In epoca medievale assistiamo a una straordinaria ed eterogenea fioritura di «ordini ospedalieri», termine col quale non dobbiamo intendere l’assistenza ospedaliera in senso stretto bensì ogni tipologia di attività «ospitante» nei confronti di poveri, stranieri, pellegrini, malati, ecc... Tra queste istituzioni ricordiamo: gli Antoniani che curavano in modo particolare gli storpi e i soggetti colpiti dal «fuoco di Sant’Antonio»(28) i «fratelli dei ponti» e i «cavalieri d’Altopascio» che costruivano rifugi per i viandanti in prossimità dei valichi e dei tratti di strada particolarmente pericolosi o insicuri; l’Ordine di Santo Spirito, fondato verso il 1180 da un laico, Guido di Montpellier al quale si deve, per intervento di Innocenzo III che lo istituì formalmente, l’ospedale di Santo Spirito, la prima vera e propria struttura ospedaliera di un certo respiro che farà esclamare a Lutero nel suo viaggio a Roma:

«Gli ospedali in Italia sono provvisti di tutto ciò che è necessario; sono ben costruiti, vi si mangia e beve bene, e vi si è serviti con sollecitudine; i medici sono abili, i letti e le mobilia sono puliti e ben tenuti. Quando il malato vi è condotto, gli si tolgono gli abiti in presenza di un pubblico notaio che li registra; poi si mettono da parte con cura ed il malato viene ricoperto da una veste bianca e deposto in un tetto ben preparato. La pulizia è ammirevole».(29)

2.4 La Regola di san Benedetto. Parlando di hospitalitas, un posto a se stante occupa indubbiamente la Regola di san Benedetto che al suo esercizio dedica un intero capitolo, il cap. LIII: «Come debbano essere accolti gli ospiti» (De suscipiendis hospitibus):

1) Tutti gli ospiti che sopraggiungano, siano ricevuti come Cristo, perché Egli dirà: «Fui ospite e mi accoglieste»;
2) e a tutti si renda il conveniente onore, specialmente poi a quanti ci sono familiari secondo la fede, e ai pellegrini.
3) Appena dunque è stato annunziato un ospite, il superiore o i fratelli gli vadano incontro con ogni dimostrazione di carità;
4) ma prima preghino insieme, e solo allora si accomunino a lui nella pace.
5) Tale bacio di pace appunto non dev’essere offerto se non dopo che si è pregato, ad evitare le illusioni diaboliche.
6) Perfino nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono:
7) inchinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che viene accolto.
8) Ricevuti dunque gli ospiti, siano condotti all’orazione, e dopo si sieda con loro il superiore o un fratello da lui incaricato.
9) Si legga dinanzi all’ospite la Legge divina per edificarlo, e poi gli si offra ogni segno di premurosa benevolenza.
10) Il superiore per riguardo all’ospite rompa pure il digiuno, purché non si tratti d’uno speciale giorno di digiuno che non possa esser violato;
11) i fratelli invece seguano i consueti digiuni.
12) L’acqua alle mani la versi agli ospiti l’abate;
13) i piedi a tutti gli ospiti li lavino sia l’abate che tutta la comunità,
14) e finita la lavanda dicano questo verso: «Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel mezzo del tuo tempio».
15) I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzioni, perché specialmente in loro si riceve Cristo, mentre ai ricchi si porta rispetto per la stessa soggezione che incutono.
16) La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, di modo che in qualunque ora vengano all’improvviso gli ospiti, che nel monastero non mancano mai, i fratelli non ne siano disturbati.
17) A prestare servizio in questa cucina entrino per tutto un anno due fratelli ben adatti a tale compito.
18) A loro, secondo che ne abbiano bisogno, si procurino degli aiuti, perché servano senza mormorare; quando invece mancano di lavoro, vadano ad occuparsi dove viene loro comandato.
19) E non solo per essi, ma anche per tutti gli ufficiali del monastero sia questa la norma,
20) che quando hanno bisogno di aiuti, ne vengano provvisti, e quando invece sono liberi, si occupino dove vuole l’obbedienza.21) Similarmente la foresteria sia affidata ad un fratello che abbia l’anima posseduta dal timore di Dio;
22) in essa vi sia un numero sufficiente di letti arredati, e la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente.
23) Nessuno poi, se non ne ha ricevuto l’incombenza, si accompagni o parli con gli ospiti;
24) ma se li incontra o li vede, li saluti umilmente, come abbiamo detto, e chiesta la benedizione passi oltre, dicendo che non gli è permesso di parlare con l’ospite.

Il capitolo può essere nettamente diviso in due parti. I vv. 1-15 espongono in termini generali le ragioni dell’ospitalità, mentre i successivi trattano specificamente di alcune modalità pratiche per attuarla in monastero.

Il primo versetto pone l’accento sulla dimensione universalistica dell’ospitalità per cui si debbono accogliere tutti. Se una preferenza va fatta, questa riguarda i fratelli nella fede (domestici fidei) nei quali vanno ravvisati altri monaci o chierici, i pellegrini (che incontravano il monastero lunga la via del loro pellegrinaggio) e, com’è detto al v. 15, i poveri(30).

La prassi dell’ospitalità non è mai disgiunta, tuttavia, da una sua più elevata comprensione all’interno di un ben preciso universo spirituale, tant’é che il primo atto con cui l’ospite viene accolto non è quello del dargli ristoro ma del pregare insieme a lui(31).

Le ragioni teologiche dell’accoglienza non sono solo esplicitate al v. 1 in rapporto alla matteana parabola dei capri, ma vengono ulteriormente sottolineate da atti fisici di vera e propria venerazione, immedesimandosi in lui Cristo in persona, e dal sentimento di gratitudine formulato con le parole del Salmo 47,10(32).

Più pragmatiche e, certamente, di minor slancio spirituale, appaiono le indicazioni dei versetti successivi. Ma non c’è da stupirsene. La Regola, infatti, pur pervasa da un profondo affiato spirituale è pur sempre un testo normativo, per di più destinato a disciplinare la vita in un contesto monastico ben più affollato di quelli odierni e, di solito, anche culturalmente assai meno elevato. Per cui non devono disturbare indicazioni così dettagliate che non sono indice di pedanteria normativa e che nulla tolgono alla ricchezza spirituale dei precedenti versetti.

Vi sono da notare, tuttavia, due elementi di rilievo. Il primo riguarda il servizio del monaco accogliente al quale viene data molta importanza (v. 21). Tale attenzione ricorda quella che oggi, nell’ambito della gestione delle risorse umane viene attribuita ai cosiddetti servizi di front line che costituiscono il primo impatto dell’utente con una istituzione a volte determinante per la credibilità della stessa e i successivi sviluppi del rapporto.

Il secondo è relativo alla proibizione, fatta ai monaci, di intrattenersi con l’ospite. Potrebbe sembrare una chiusura contrastante con quanto affermato prima, ma non è così. Con grande saggezza e perspicacia, infatti, san Benedetto vuole evitare che persone sprovvedute e magari pettegole, come a volte potevano essere i monaci, abbiano a screditare il buon nome del monastero o della stessa vita monastica, lasciando un marchio negativo nella memoria dell’ospite. (33)

2.4 Il carisma di San Giovanni di Dio. Dopo secoli di prassi dell’ospitalità, praticata a livello individuale e soprattutto nelle foresterie monastiche, tale vissuto torna prepotentemente sulla scena ecclesiale in virtù dell’esperienza di un santo portoghese, san Giovanni di Dio (1495-1550), diventando l’oggetto specifico di un «quarto voto» per l’Ordine dei Fatebenefratelli che da lui avrà origine. (34)

Nella sua esperienza storica Giovanni Ciudad, dopo varie esperienze (guardiano di pecore, soldato di ventura, muratore, ecc.), convertitosi in seguito all’ascolto di una predica di san Giovanni d’Avila, manifesta visibilmente i segni di uno sconvolgimento profondo per cui viene ritenuto «pazzo»(35) e rinchiuso nell’ala manicomiale dell’ospedale di Granada. Lì ha modo di vedere come vengono trattati i malati, e i malati di mente in modo particolare, per cui chiede a Dio di poter avere, quando uscirà, un ospedale in cui poter curare i malati a modo suo (36). Cosa che avverrà dando origine a una ininterrotta attività «ospitaliera» che continua fino ad oggi, non limitata a quella sanitaria ma molto più ampia (case di riposo, hospices, asili notturni, unità di strada, ecc...)

3. Nuovi percorsi teologico-pastorali

In conclusione e senza volermi addentrare in trattazioni di più ampio impegno e respiro, mi limito a indicare alcune possibili vie che una riflessione sulle dimensioni teologiche dell’hospitalitas può aprire nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale.

3.1 Ospitalità e teologia trinitaria. Un primo percorso di ricerca credo sia quello di evidenziare all’interno della stessa vita trinitaria le radici fontali dell’ospitalità. Se, infatti, nell’analisi biblica ed ecclesiale si evidenzia la sua natura di virtù morale, questa va ricondotta non solo alla volontà creatrice di Dio strutturante la vita morale della persona, ma anche, e in primo luogo, alla sua stessa vita di cui quella umana dovrebbe costituire similitudine esistenziale e, soprattutto, caritativa.

E così che il Padre accoglie in sé il Figlio, anzi ancor più lo «genera» in una generazione eterna che, evidenziando l’unità di natura tra generato e generante, pone l’ospitalità nella sua dimensione di più profonda intimità e condivisione, non semplice accoglienza in seno alla propria esistenza ma comunione e unità genetica della stessa.

A sua volta il Figlio accoglie il Padre, nel suo essere generante, certo, ma - in prospettiva dell’Incarnazione - anche accettando profondamente e con amore sofferto la sua volontà. Il Padre, come dirà a Filippo (Gv 14,9), è già tutto nel Figlio e il suo ospitarlo in sé si fa segno per il mondo.

Infine lo Spirito, reciproco dono di amore ma anche sua reciproca accoglienza. Accoglienza, poi, diventa storia nell’esistenzialità umana ponendosi, come ci ricorda la sequenza di Pentecoste, quale dulcis hospes animae.

Ovviamente, in queste che sono linee appena abbozzate, non bisogna assolutamente correre il rischio di una sorta di implicito, per quanto involontario, «triteismo» sempre incombente quando si affronta il discorso sulle singole «persone» trinitarie. Il reciproco ospitarsi, in tal senso, deve costituire anzi un ulteriore elemento in grado di evidenziare, sia pure nel paradosso, il mistero del Dio uni-trino.

3.2 L’ospitalità eucaristica. È un punto di particolare delicatezza e attualità in ambito ecumenico. Il cammino compiuto dall’ecumenismo nei tempi post-conciliari è stato notevole, anche se in questi ultimi anni ha subito alcune battute di arresto che ci auguriamo possano essere presto superate.

Tra i vari problemi sul tappeto, quello della cosiddetta «ospitalità eucaristica» costituisce indubbiamente uno degli ambiti verso i quali sono maggiormente rivolte l’attenzione e le aspettative delle Chiese. Sappiamo bene, infatti, che il dialogo dottrinale si muove a piccoli passi e non sempre particolarmente significativi. La possibilità di accedere reciprocamente e in via ordinaria all’eucaristia (cosa attualmente possibile ad alcune particolari condizioni (37) e, in ogni caso, nell’ambito delle Chiese che riconoscono piena sacramentalità (38) alle rispettive celebrazioni eucaristiche), potranno costituire un significativo progresso sul piano del «vissuto» ecumenico che, spesso, precede e trascina poi la comunione dottrinale.

Non solo, ma il problema oggi è particolarmente avvertito nei matrimoni misti che costituiscono, forse, il fronte più avanzato, più problematico ma al tempo stesso più fecondo in ambito ecumenico. Di fronte a una comunione di vita e alla celebrazione sacramentale del matrimonio l’impossibilità di accedere insieme all’eucaristia costituisce, indubbiamente, un oggettivo segno di contraddizione.

Il dialogo, tuttavia, si è fatto più serrato in questi ultimi anni e non è escluso che, in tempi brevi, si possa arrivare anche a un qualche documento comune, come già avvenuto per la Dichiarazione sulla giustificazione (39).

3.3 L’ospitalità come rinnovata via di carità. Si è già detto, e più volte, che la virtù dell’ospitalità costituisce una particolare e significativa espressione della carità. Tuttavia, le sue forme storiche sono state quasi sempre esercitate, secondo modalità che oggi possono apparire desuete. Nessuno bussa più alla porta e viene accolto o si presenta come viandante, pellegrino, straniero. Anche nelle tradizionali foresterie monastiche che hanno mantenuto ininterrotta la consuetudine dell’accoglienza agli ospiti, questa si svolge oggi secondo modalità più spiccatamente «alberghiere», pur senza tradire lo spirito originario che le ha generate. Ma proprio per questo l’imperativo etico di Cristo attende di incarnarsi in forme nuove di esercizio. Molte delle quali, peraltro, sono sotto gli occhi di noi tutti.

Mi limito a ricordarne due in modo particolare. La prima, di carattere più generale e «pubblico» riguarda l’accoglienza agli immigrati. Non è questa la sede per affrontare un simile problema, ma è chiaro che lo spirito che deve animarla non può essere quello di una precostituita chiusura bensì, al contrario, quello di una fondamentale apertura all’altro. Anche se questo dovrà confrontarsi con oggettive possibilità o disposizioni legislative, queste dovranno essere sempre improntate a compiere il maggior sforzo possibile per garantire la fruizione di quei beni (terra, lavoro, casa, ecc.) che non possono essere gelosa ed egoistica prerogativa di una nazione.

La seconda modalità, più personale, segno quasi di una ferialità del quotidiano è quella che molti movimenti stanno portando avanti con la prassi di periodiche accoglienze, soprattutto per bambini vittime dei danni delle guerre o di catastrofi naturali. Anche questa è un’ospitalità in qualche modo «organizzata», ma costituisce un modo nuovo di esprimere la carità nei confronti di vittime innocenti del male, soprattutto se provocato dall’uomo. In tal senso, anzi, è interessante notare come tale prassi esuli dall’ambito strettamente cristiano essendo ampiamente diffusa anche tra chi non condivide in alcun modo la fede cristiana.

Forse, anche in questo sono ravvisabili quei semi del Verbo (spermata tou Logou) di cui parla Giustino (40), segno di perenne speranza e presenza dello Spirito nella storia dell’uomo.


Note

(1) Tale minaccia era particolarmente avvertita nei confronti delle donne cananee, perché, proprio in virtù, dei «matrimoni misti», queste avevano introdotto culti idolatri in Israele intaccandone la purezza della fede. Tale tentazione, dalla quale non fu immune lo stesso re Salomone (cfr. I Re 1-8), diede esito, nella legislazione post-esilica di Esdra, ad una specifica proibizione del matrimonio di un israelita con donne straniere e allo scioglimento di quelli già contratti (Esd 10).

(2) Cfr. Gn 19,2;24,25-32; Gd 15,19-20; 2 Sam 12,4; Gb 31, 2.

(3) A. BONORA, Lo «straniero» in Deuteronomio, in «Parola, Spirito e Vita», n. 27 (1993) 26-28;

(4) Dt 25,5; Gb 15,9; Is 61,5; 25,15; Ger, 30,8; 51,51; Ez 7,2-11; 11,9.

(5) Dt 23,21; 14,21; 15,3.

(6) Dt 14,29; 16, 11.14; 26,11-12.

(7) Cfr. ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO, Carta d’identità dell’Ordine, Curia Generalizia, Roma 1998, p. 2.2.3.

(8) Si tratta di una toccante leggenda di cui ci parla il poeta latino Ovidionelle Metamorfosi. Un giorno Hermes e Zeus si travestirono da mendicanti per andare sulla terra a vedere come vivevano gli uomini. Ma questi rifiutarono di accoglierli usando modi rudi e scortesi. Solo due poveri anziani, Filemone e Bauci, li accolsero nella loro povera capanna e condivisero con loro il proprio povero pasto con animo lieto. A questo punto gli dei si manifestarono e trasformarono in un tempio d’oro la capanna chiedendo quale fosse il loro desiderio più grande. I due anziani coniugi chiesero di poter rimanere sempre insieme a servirli nel tempio. Cosa che avvenne morendo contemporaneamente ed essendo trasformati l’uno in quercia e l’altra in tiglio, con i rami intrecciati tra loro.

(9) Gn 18, 1-16. In tale brano potremmo rinvenire addirittura un vero e proprio parallelo letterario nel racconto della visita che i tre dei greci, Zeus, Posidone ed Hermes fanno a Ireo e, dopo averne ricevuto ospitalità, gli promettono un figlio, Orione. La narrazione biblica e il mito greco potrebbero dipendere, con modalità che non conosciamo, da un comune substrato tradizionale (G. VON RAD, Genesi, Paideia, Brescia 1978, p. 269).

(10) In tal caso il primo riferimento, indubbiamente è quello a Gn 18,1-16 ma non è esclusa l’allusione ad altre tradizioni circolanti tra i destinatari a cui l’autore della lettera si rivolge.

(11) Non a caso vi è un incedere quasi liturgico nel racconto di Abramo alle querce di Mamre: si prostra (culto), prepara il vitello e il latte (offerta), crede alla promessa (fede), li supplica di non distruggere Sodoma (orazione).

(12) Cfr. Lv 16,29 18,26; 19,10.33

(13) Mi limito a riportare, tra tutti, un brano di Gregorio di Nissa: «Il Verbo, essendosi unito all’uomo, prese in lui tutta la nostra natura, affinché, per questa unione alla divinità, tutta l’umanità fosse divinizzata in lui e tutta la massa della nostra natura fosse santificata con la prima» (Adv. Apoll 15, PG 45, 1152c).

(14) Ormai è assodato che il tema della “grotta” nasce col Protovangelo di Giacomo, scritto verso la fine del il secolo. Ma se scompare la grotta l’interpretare con “mangiatoia” il termine greco phartne fa propendere per l’ipotesi della “stalla”. L’idea del nascere “per strada”, così, non solo assai più plausibile ma è anche consona al tema degli eventi itineranti così tipico di Luca. In realtà il termine phatne indica anche la sacca che veniva deposta sul dorso del mulo nel quale si poneva gli oggetti di uso comune e il cibo. Per cui diventa non solo verosimile ma anche suggestivo che Maria abbia posto il bambino in questa mangiatoia-sacca, lui che un giorno sarebbe stato il “pane di vita”, nel “villaggio del pane” (=Bet-lehern) nascendo per strada (cfr. G. I. GARGANO, I vangeli dell’infanzia, EDB, Bologna 2004, pp. 11-14).

(15) Ovviamente tale sostantivo deve inteso in senso propriamente biblico, cioè non solo come colui che non ha, ma come colui che non è, che non ha peso sociale, che è emarginato, che patisce l’ingiustizia, che non ha voce. La triplice categorizzazione scritturistica dell’orfano, della vedova e dello straniero prescinde infatti dalle effettive condizioni economiche che potevano anche non essere precarie. La loro precarietà era più esistenziale che economica (cfr. A. GELIN, Il povero nella Sacra Scrittura, Sussidi Biblici n. 32-33, 1991).

(16) Tale simbolizzazione scenica, del resto ripropone quanto già sant’Ambrogio affermava: «In officiis hospitalibus omnibus humanitas impertienda est…., ne tu suscipias hominem, suscipias Christum. Licet in hospite sit Christus, quia Christus in papere est, sicut ipse ait» (AMBROGIO,De officiis, lib. 11, 107).

(17) Verosimilmente il loro elenco, come oggi lo riportiamo risale ai secc. XII e XIV quando costituiva un comune insegnamento tramandato oralmente. Dopo il concilio di Trento esso venne ufficialmente codificato nei catechismi, soprattutto ad uso della prima confessione e comunione.

(18) Cfr. quanto già detto alla nota 10.

19) Cfr. A.P. FRUTAZ, Ospitalità in: E ANCILLI (a cura di), Dizionario enciclopedico di ospitalità, Città Nuova, Roma 1992, pp. 1792-1793.

Didachè, XIII, 1-5 in A. QUACQUARELLI (a cura di), I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 1984. Prima lettera di Clemente ai Corinti 0.10,7; 11,1; 12,1 (ibid.). ERMA, Il Pastore, Precetto VIII, 10; Similitudine VIII, 10,3 (ibid). ARISTIDE, Apologia, t15 (Corpus apologeticum, IX, 344-348).

(24) CIPRIANO, Epistulae n. 7 (PL 4, 196).

(25) TERTULLIANO, De praescriptione haereticorum, n. 29 (PL 2, 9).

(26)AMBROGIO, De Abraham 1, 5,32 (PL 14, 435); De Officiis 2, 103 (PL 16, 131); SANT’AGOSTINO, Sermones 355, 1, 3 (PL 39).

(27) Cfr. A. CASERA, L’ospedale e l’assistenza ai malati nel corso dei secoli, Ed. Salcom, Brezzo di Bedero 1994.

(28) Il fuoco di Sant’Antonio altro non è che un malattia causata dall’herpes zoster e caratterizzata da forti dolori ed eritema cutaneo a fascia. La sua etimologia popolare non è chiara. Secondo alcuni farebbe riferimento alla iconografia che a volte raffigura sant’Antonio abate con una fiamma in mano (riferita in realtà alla leggenda agiografica del fuoco strappato al demonio e donato all’uomo), secondo altri all’ardore delle tentazioni sessuali da lui superate nel deserto e delle quali ci parla Atanasio nella biografia del santo.

(29) Riportato da G. COSMACINI, Lebbrosario, Lazzaretto, Ospedale, in «Missione Salute», n. 2 (1993), 48.

(30) Cfr. La Regola di San Benedetto e le regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Fondazione Lorenzo valla/Mondadori, Milano 1998, p. 360.

(31) Questo in realtà aveva anche un secondo scopo, cioè quello di evitare gli «inganni del demonio», che nella persona dell’ospite potevano celarsi (Sancti Benedicti regula monasteriorum, a cura dii. SCHUSTER, Pia Società San Paolo, Alba 1945, p. 313).

(32) Proprio per tale fondazione cristologica, il precetto di accogliere gli ospiti è presente in quasi tutte le regole monastiche: Pacomio, Praecepta, 51-54; Regola di san Basilio, 32-33; Regola dei quattro santi Padri, 2, 36-42; Seconda Regola dei Padri, 14-16; Regola di Cesario per le Vergini, 38; 40; Vitae Patrum Jurensium 172 (tutti citati da G. HOLZHERR, La Regola di San Benedetto, Piemme, Torino 1992, p. 387).

(33) Ibidem.

(34) La menzione di un vero e proprio «voto di ospitatiti» compare per la prima volta nel Breve Romani Pontificis di Clemente VIII (1596), cioè dopo quasi mezzo secolo dalla morte del santo, dopo che l’ordine si era già diffuso in gran parte d’Europa. La citazione non è delle più nobili in quanto è inclusa in una disposizione che consente agli Ordinari dei luoghi di espellere i frati giudicati indegni e «ab emisso per eos hospitalitatis voto absolvere» (G. RUSSOTTO, Origine ed evoluzione sotrica del voto di ospitalità dei Fatebenefratelli, Ufficio Formazione e Studi dei Fatebenefratelli, Roma 1978, p. 36).

(35) II Castro, primo e più autorevole biografo del santo, dice che il santo «fu preso per pazzo» (F DE CASTRO, Hiistoria de la vida y sanctas obras de Juan de Dios, Granada 1585), anche sei successivi studiosi, sopratutto degli ultimi due secoli, danno diverse interpretazioni dell’evento, optando chi per una semplice simulazione o espressione parossistica di uno stato d’animo, chi per un effettivo disordine mentale (cfr. G. RUSSOTTO, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Ufficio Formazione e Studi FBF, Roma 1969, vol. I, pp. 62-64). Sia l’una che l’altra interpretazione ovviamente nulla tolgono alla genuinità della conversione e alla santità del successivo percorso esistenziale.

(36)Il Castro ha riportato fedelmente le parole del santo: «Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione e servirli come desidero io» (E. DE CASTRO, op. cit., cap. IX).

(37)Sono sostanzialmente quelle fissate dal can. 844 §§ 3-4 del Codice di Diritto canonico e dall’enciclica di Giovanni Paolo II, Ecdesia de Eucaristia, nn. 45 e 46.

(38) Sono escluse sostanzialmente quelle delle Chiese nate dalla Riforma alle quali la Chiesa Cattolica non riconosce la piena validità sacramentale per defectus ordinis.

(39) Si tratta della Dichiarazione Congiunta tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Luterana Mondiale circa la dottrina della giustificazione (Gemeinsame Erklärung) firmata il 31 ottobre 1999 ad Augsburg, in Germania, dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani. Tale dichiarazione pone fine a cinque secoli di reciproche incomprensioni su un problema che è stato il punto di partenza dottrinale della riforma luterana e del successivo allontanamento tra le due Chiese.

(40)GIUSTINO, II Apologia 13, 3 (PL 6).


* Docente di Teologia morale alla Facoltà teologica di Sicilia. - Palermo. Le riflessioni qui presentate nascono da una duplice contingenza esperenziale. La prima fa riferimento a lunghi anni di frequentazione della foresteria monastica di Camaldoli, la seconda trae spunto dall’aver operato per circa vent’anni tra i Fatebenefratelli che professano, nell’ospitalità, il loro quarto voto religioso.

(da Vita Monastica, n. 233, Gennaio-marzo 2006)

Bioetica, vie diverse
ma stesso approdo
tra cattolici e ortodossi

di Vladimir Zelinskij

Fede e ragione, due doni che Dio ha dato agli uomini insieme con il terzo: la libertà. Ma essi non vivono sempre in pace fra di loro. Anche quando hanno un punto di partenza comune: la sacralità della vita umana. La questione dell’inizio della nostra esistenza non è questione di fede, dicono i cattolici. È un semplice fatto della forza della logica che dovrebbe essere vincolante per i credenti e non credenti.

La logica, però, è come una guardia per l’ordine, sembra invincibile quando l’ordine c’è, ma appena arriva il trasgressore, si mostra innocua, perché tutti sanno che la sua arma è caricata a salve. Infatti, ognuno sceglie una propria logica e crede nella sua infallibilità. Le vere scelte umane provengono da una sorgente più profonda. Per l’Ortodossia nessun esperimento sull’embrione è lecito, non solo perché il concepito contiene in sé tutto il programma del suo sviluppo che può manifestarsi anche fuori del grembo materno, non solo perché tutta l’identità umana è già “piegata” in due cellule che si sono trovate per unirsi e per portare alla luce “gloria di Dio, uomo vivente”, ma anche perché il concepimento è un atto della creazione in cui partecipano non solo uomo e donna. È un miracolo dove Dio è presente, un sacramento in cui è offerto il suo amore. Forse, i cristiani non possono esprimere il loro pensiero non solo con le prove, ma anche con lo stupore?

Mi ricordo del mio incontro con il professor Jérôme Lejeune, il famoso genetista. «Posso spiegare lo sviluppo del concepito dal primo momento», disse lui, «ma pur con tutta la mia conoscenza mi rendo conto che mi trovo davanti a un mistero inesplicabile». Il mistero ci chiede un attimo della contemplazione che a volte può essere non meno convincente che il sistema della logica più ferrea. S’impone la domanda, però: perché dobbiamo dare la preferenza a quel mucchietto di cellule davanti a una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Davvero la ratio da sola è capace di risolvere questo dilemma? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare le malattie finora incurabili? Se la fede avesse il diritto di parola, risponderei così: perché colui che in ogni caso è più forte, che ha avuto la sua vita e, come diceva Dostoevsky, «ha già mangiato la mela», è chiamato a non impedire l’affacciarsi alla vita di un essere umano infinitamente più debole, che non ha vissuto, ch’è ancora innocente.

L’approccio “occidentale” alla bioetica (come agli altri problemi difficili del nostro mondo) può essere diverso da quello “orientale”, ma la soluzione cristiana è quasi sempre uguale. Se uno ha più fiducia nella luce della ragione e un altro nel mistero della luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo, davvero abbiamo ancora motivi validi per rimanere divisi?

Giovedì, 03 Maggio 2007 02:20

Lezione nona. Il profetismo

Lezione Nona

IL PROFETISMO

 

 

Nel cammino della storia salvifica l’incontro del Dio vivente con l’umanità rappresentata da Israele, avviene mediante continue esperienze religiose tramite alcuni personaggi che svolgono dei ruoli particolari per tutto il corso di svolgimento dell’economia divina di salvezza.

Giovedì, 03 Maggio 2007 01:07

Le opere di Teilhard de Chardin

LE OPERE




A. FONTI AUTOBIOGRAFICHE

Journal, I Cahiers 1-5 (26 aout 1915 – 4 Janvier 1919). Texte intégral publié par Nicole et Karl Schmitz-Moormann. Paris (Fayard) 1975, 396p.


B. OPERE SCIENTIFICHE

L’œuvre Scientifique. Textes réunis et édités par N. Nicole et Karl Schmitz-Moormann. Vol. I-X. Olten-Freiburg (Walter-Verlag) 1971-4634p.


C. OPERE FILOSOFICO-SCIENTIFICHE

Le Phénomène Humain. Paris (Seuil) 1955, 350 p. (Œuvres I).

Il Fenomeno Umano. Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1968 321p.

L’Apparition de l’Homme. Paris (Seuil) 1956. 378 p.(Œuvres II).

L’Apparizione dell’Uomo. Milano (Il Saggiatore) 1979. 320p.

La Vision du Passé. Paris (Seuil) 1967. 394p. (Oeuvres III).

La Visione del passato. Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore) 1973 464p.

Le Milieu Divin. Essai de Vie Intérieure. Paris (Seuil) 1957. 260p. (Oeuvres IV)

L’Ambiente Divino. Saggio di vita interiore. Trad. Aldo Daverio. Revisore Ferdinando Ormea, Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1968 190p.

L’Avenir de l’Homme. Paris (Seuil) 1959. 408p. (Oeuvres V)

L’Avvenire dell’Uomo. Milano (Il Saggiatore) 1972. 480p.

L’Energie Humaine. Paris (Seuil) 1962. 224p. (Oeuvres VI)

L’Activation de L’Energie. Paris (Seuil) 1963. 432p. (Oeuvres VII

La Place de l’Homme dans le Nature (Le Groupe Zoologique Humain). Paris (Seuil) 1963. 176p. (Oeuvres VIII)

Il Posto dell’Uomo nella natura. (Il gruppo zoologico umano): Trad. Ferdinando Ormea. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore 1970. 184p.

Scienze et Christ. Paris (Seuil) 1965. 294p. (Oeuvres IX).

Comment Je Crois. Paris (Seuil) 1969. 294p. (Oeuvres X):

Les Directions de l’Avenir. Paris (Seuil) 1973. 238p. (Oeuvres XI).

Ecrits du Temps de la Guerre. Paris (Seuil) 1976480p. (Oeuvres XII):

La Vita Cosmica (Scritti del tempo di guerra: 1916-1929): Trad. Annette Dozon Daverio. Milano (Il Saggiatore) 1970 536p.

Le Cœur de la Matière. Paris (Seuil) 1976. 256p. (Oeuvres XIII).


D. EPISTOLARIO

Lettres d’Egypte 1905-1908. Paris (Aubier-Montaigne) 1963. 228p.

Lettere dall’Egitto 1905-1908. Trad. Nicoletta Cavalletti. Brescia (Morcelliana) 1966. 282p.

Lettres d’Hastings et de Paris 1908-1914. Paris (Aubier-Montaigne) 1965. 463p.

Lettere da Hastings e da Parigi 1908-1914. Trad. Lucia Pigni Maccia. Brescia (Morcelliana) 11967. 432p.

Genèse d’une pensée. Lettres 1914-1919. Paris (Grasset) 1961. 406p.

Genesi di un pensiero. Lettere dal fronte 1914-1919. Trad. Stefano Majnoni. Milano (Feltrinelli) 1966. 268p.

Lettres de voyage 1923-1939. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1956. 227p.

Lettres de voyage 1939-1955. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1957. 193p.

Lettres de voyage 1923-1955. Recueillies et présentées par Claude Aragonnès. Paris (Grasset) 1962. 370p

Lettere di viaggio. Trad. Michele Rago e Vincenzo Dominaci. Milano (Feltrinelli) 1962. XXV-317p.

Blondel et Teilhard. Correspondance commentée par Henri de Lubac s.j. Paris (Beauchesne) 1965. 168p.

Corrispondenza di Maurice Blondel e Pierre Teilhard de Chardin. Commentata da Henri de Lubac. Trad. Vincenzo De Mari. Torino (Borla) 1968. 184p.

“Lettres inédites a un savant de ses amis”. Christus. Paris 1967.14. pp.238-258.

Lettere a un amico scienziato. Presentazione e commento di Annette Daverio. Torino (P. Gribaudi) 1969. 74p.

Lettres à Léontine Zanta. Introduction par Robert Garric et Henri de Lubac s.j. Paris (Desclée) 1965. 142p.

Convergere in alto. Lettere a Léontine Zanta. Introduzione di Robert Garric e Henri de Lubac. Presentazione e note di Michel Certeau. Trad. A. Dozon Daverio. Milano (Il Saggiatore di Alberto Mondadori Editore) 1969 175p.

Accomplir l’homme. Lettres inédites 1926-1952. Preface du Père d’Ouince s.j. Paris (Grasset) 1968. 288p.

Realizzare l’Uomo (Lettere inedite 1926-1952). Milano (Il Saggiatore) 1974. 348p.

Rivière, Claude. En Chine avec Teilhard 1938-1944 récit suivi de lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin. Preface de Jean de Beer. Paris (Seuil) 1968. 272p.

Lettres intimes à Auguste Valansin, Bruno de Solages, Henri de Lubac, André Ravier (1919-1955). Introduction et notes par Henri de Lubac. Paris (Aubier-Montaigne) 1974. 512p.

Dans le sillage des sinanthropes. Lettres inédites de Pierre Teilhard de Chardin et Jahan Gunnar Andersson 1926-1934. Presentation de Pierre Leroy. Paris (Fayard) 1971. 98p.

Pierre Leroy. Lettres familières de Pierre Teilhard de Chardin mon ami. Les dernieres années 1948-1955. Paris (le Centurion) 1976. 268p.

Giovedì, 03 Maggio 2007 00:54

Le «tavole del dialogo» (aa.vv.)

Islam e cristianesimo

Le «tavole del dialogo»




Il documento qui riprodotto è stato elaborato da: Paolo Branca, docente di Lingua e letteratura araba nell’Università Cattolica di Milano; Stefano Allievi docente di Sociologia nell’Università di Padova; Silvio Ferrari, docente nelle Università di Milano e Lovanio; Mario Scialoja, presidente della Lega musulmana mondiale-Italia e del suo direttore, Giovanni Sarubbi. E’ caduta tradizionalmente alla chiusura del periodo di digiuno e purificazione previsto dalla religione islamica (ramadan). Per conoscere le iniziative connesse alla Giornata (oltre che accedere a numerosi articoli e documenti sui temi del dialogo cristiano-islamico) si può consultare il sito www.ildialogo.org


E’ necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza.

Il diritto alla differenza non può mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.

La presenza di musulmani in Italia ha ormai raggiunto una tale «massa critica» da non consentire che il fenomeno sia gestito soltanto attraverso forme d’intervento estemporanee e improvvisate, com’è spesso stato finora. L’impegno di molti che si sono prodigati, sia da parte italiana sia da parte islamica, con numerose iniziative conferma le potenzialità di un tessuto sociale vivo e attivo, ma proprio per non vanificare tali energie e al fine di evitare derive che hanno interessato di recente altri Paesi europei, ci sembra indispensabile che le istituzioni e i cittadini - italiani e non - coinvolti a vario titolo nella questione trovino modalità per riflettere e agire insieme all’interno di un progetto comune ispirato a principi chiari e condivisi.

Per questo (…) riteniamo doveroso richiamare alcuni punti che ci paiono di cruciale importanza nel compito comune che ci troviamo ad affrontare. Va da sé che i musulmani condividono con immigrati di altra origine molte problematiche simili. Sarebbe pertanto indebito ritenere le considerazioni che seguiranno come pensate esclusivamente per loro, anche se il presente documento ne tratta in modo specifico: una buona legge sulla libertà religiosa, ad esempio, andrebbe incontro alle esigenze di tutte le comunità e non solamente di quella islamica. La globalizzazione in atto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, invece che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie) sta conducendo piuttosto a un loro irrigidimento che non sembra cogliere sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro di uomini e culture che si sta producendo, bensì tende a enfatizzare diffidenze e timori che inducono alla chiusura e alla contrapposizione.

Siamo consapevoli dei rischi insiti in un vacuo relativismo che potrebbe portarci a poco auspicabili confusioni e allo svilimento delle tradizioni culturali e religiose di ciascuno: ma il valore che attribuiamo alla nostra e altrui identità ci spinge a ritenere necessaria una gestione coraggiosa e consapevole di questo processo di incontro e convivenza, l’unica in grado di portare a buoni risultati nell’interesse comune. Per questa ragione pensiamo che vada scoraggiato con ogni mezzo lo spirito di sospetto e di rivalsa che in taluni - da entrambe le parti - sembra purtroppo prevalere. I punti che ci pare necessario richiamare sono:

1. Incoraggiare la collaborazione con le istituzioni a ogni livello per promuovere una reale partecipazione. dimostrando che le regole della democrazia tutelano e premiano i comportamenti migliori. A tale scopo è utile in particolare partire dal censimento e dalla valorizzazione delle molteplici esperienze in atto anche al fine di contrastare una comunicazione basata su semplici opinioni, anziché su evidenze empiriche. Interventi formativi all’interno delle pubbliche amministrazioni (scuola, sanità, carcere, personale di polizia, ecc.) sulle tematiche relative al pluralismo culturale nelle aree di loro competenza, con un taglio che privilegi la concretezza delle situazioni su considerazioni di ordine astrattamente teologico, ideologico o politologico. Il confronto con esperienze internazionali che già affrontano da tempo temi e situazioni analoghe consentirebbe di valutarne gli esiti e di ispirarsi alle pratiche (legislative e operative) più efficaci. 

2. Scoraggiare con fermezza ogni forma di illegalità per evitare il formarsi di società parallele o gruppi che si percepiscano e si presentino come corpi estranei: il diritto alla differenza non può e non deve mai diventare pretesa di una differenza nei diritti e nei doveri.

3. Valorizzare le iniziative che si pongono nella prospettiva della condivisione di valori, interesso e impegno comune al servizio della collettività.

4. Dare priorità alle donne e ai giovani che, senza rinunciare alla propria specificità culturale e religiosa, dimostrano di voler sviluppare, con chi condivide i loro problemi e le loro aspirazioni, attività che favoriscono contatti, scambi e integrazione. 

5. Offrire, a livello universitario, percorsi di maturazione e di formazione a quanti intendono svolgere funzioni di servizio alle comunità, specie nei ruoli di orientamento e di guida. Non si tratta ovviamente di formare i ministri del culto, ma di favorire l’emersione e il consolidamento di competenze e capacità specifiche tra coloro che già operano nei diversi gruppi, affinché la loro azione sia maggiormente adeguata alle finalità dell’integrazione e della partecipazione alla vita del Paese in cui risiedono.

6. Stimolare, specie nelle scuole, la valorizzazione degli apporti delle differenti culture del Mediterraneo alla costruzione di una comune civiltà. Laddove siano presenti numerosi alunni arabofoni, appositi corsi per la conservazione e lo sviluppo della lingua d’origine (del resto già in atto, in forma sperimentale) andrebbero diffusi e sostenuti. Tali interventi non sarebbero ad esclusivo vantaggio degli immigrati, ma contribuirebbero alla trasformazione dell’intero settore scolastico non sarebbe adeguato che alla realtà di un mondo sempre più interdipendente se restasse ancorato a forme di istruzione centrate soltanto sulla cultura locale.

7. Incoraggiare i mass media a dare spazio alle numerose esperienze di collaborazione e di condivisione tra persone di fede e di cultura diversa, evitando di diffondere e/o amplificare soltanto fatti e notizie che confermino mutui pregiudizi. Non si tratta evidentemente di occultare le problematicità, ma ancora una volta di partire dalla realtà che è più ricca delle sue rappresentazioni, mediante inchieste sul campo, lavoro di terreno empirico, informazione completa e imparziale.

8. Promuovere politiche che migliorino le condizioni di vita delle società di provenienza degli immigrati, con riferimento non soltanto alla situazione economica ma anche allo sviluppo della società civile, al rispetto dei diritti umani e alla valorizzazione del pluralismo ad ogni livello.

9. Valorizzare l’azione delle istituzioni locali, che sono a contatto diretto con le realtà di base, nel promuovere iniziative che - per la qualità degli interventi e le loro ricadute positive sul territorio - possono costituire dei modelli validi anche per analoghe situazioni, in stretto contatto con le agenzie culturali e religiose che già operano in tal senso.

10. Approfondire la conoscenza reciproca, nel mutuo rispetto pur senza rinunciare allo spirito critico e autocritico, non solamente con sporadiche iniziative informative, ma attraverso il lavoro permanente e sistematico di gruppi che affrontino insieme tematiche specifiche di comune interesse. Ciò favorirebbe inoltre lo sviluppo di prospettive professionali che facciano tesoro delle competenze e delle capacità di chi si distingue nel lavoro interculturale.

(da Popoli, ottobre 2006)

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