La tradizione rabbinica ha da sempre riconosciuto il carattere ambiguo della musica, quello che porterà Thomas Mann a scrivere, in Doctor Faustus, che «la musica è ambiguità elevata a sistema». Intanto, la musica, che è apparsa l’arte più adatta, o l’unica adatta, a esprimere le cose divine, è anche l’arte più sensuale, la più capace di eccitare passioni. Ma la musica cela in sé una tentazione più terribile.
Nel suo saggio Il demoniaco nella musica Vittorio Mathieu, riferendosi al mito di Orfeo, osserva che «la musica da vita alle ombre, e non sembra presupporre una natura, come le altre arti. L’aspetto più fatale della sua tentazione si rivela, dunque, come una tentazione intellettuale»: quella, in definitiva, di sostituire al mondo creato da Dio il mondo creato dall’uomo. Prima e forse più radicalmente della tecnica moderna è la musica a percorrere la via del «delirio di onnipotenza».
Seguendo le orme di Kierkegaard commentatore del Don Giovanni di Mozart, e di Mann, Mathieu traccia la storia della musica come storia della sua dilagante demonicità, che si manifesta alla fine come «cancellazione della differenza tra ciò che è artificiale e ciò che è naturale».
Il patto col diavolo di Paganini, o il violino strumento diabolico dell’infinito moto perpetuo non sono stati che tappe e alle tentazioni tradizionali della musica – la sensualità, il demoniaco del movimento, l’istinto nichilistico della dissonanza – succede l’approdo alla dodecafonia di Schönberg: «La dodecafonia, scrive Mathieu, presuppone la distruzione di ogni struttura naturale della musica».
Così, attraverso la musica, l’uomo moderno sarebbe giunto al rifiuto della condizione creaturale, e dunque in definitiva al nulla totale: con il Novecento non c’è più né musica né demoniaco, nella fine apocalittica di tutto.
Ha un senso il fatto che l’esito supposto assolutamente nichilistico e catastrofico della musica contemporanea si compia nell’ebreo Schönberg?
Alla musica demoniaca si contrappone la musica nella quale il Medioevo cristiano vedeva manifestarsi la sacra armonia cosmica, l’ontologico accordo del canto umano con la natura e la soprannatura. Nella visione medievale ritorna l’antica idea pitagorica del numero, del rapporto come essenza di tutte le cose, dal moto delle sfere celesti alle vibrazioni della corda di uno strumento musicale. Ritornano anzi simboli ancora più remoti. Secondo Marius Schneider la musica sarebbe la più arcaica allegoria del cosmo: primordiali cosmogonie descrivono la creazione come il passaggio da un’oscurità sonora, in cui nulla è ancora solido e tutto è vibrazione musicale, a oggetti sempre più solidi e silenziosi.
Nel suo ritorno al Medioevo il romanticismo riscoprì il ruolo sacro della musica, reagendo alla riduzione illuministica della musica ad abilità tecnica, a puro divertimento. La musica ritorna ad essere esercizio metafisico, i romantici, già con Herder, ne riaffermano la sacralità nei confronti della profanità delle altre arti.
Ma Schopenhauer, la cui filosofia della musica ebbe grande influsso, proprio riconoscendo l’unicità della musica giunge ad affermare la sua indipendenza dal mondo fenomenico, tanto che potrebbe sussistere anche se il mondo non esistesse più. Per Hoffmann la musica è sì l’immagine di un ordine trascendente, il linguaggio segreto dell’universo, ma è, insieme, anche l’esercizio demoniaco che sonda l’inconscio e disgrega l’ordine delle cose. Nel DonGiovanni mozartiano Hoffmann vede trasformarsi la passione per la musica in delirio ossessivo, in straniamento dal mondo, in follia.
Ed ecco così che l’ardente sopravvalutazione romantica della musica, movendo da un orizzonte che non voleva essere lontano da quello della sacralità medievale, opera quasi un capovolgimento. Il posto dell’armonioso ordine del mondo è preso da un intimo, oscuro impulso. Sulle orme di Schopenhauer, la via è aperta a Nietzsche, per il quale la musica non può essere compresa in base alla categoria della bellezza, ma è il contrario di un’ebbrezza «dionisiaca» che accompagna lo spettacolo del dissolvimento nel tempo di ogni bella forma. E la via è aperta così anche alla musica contemporanea.
Ma il demonio musicale (e non solo musicale) vincente ha piuttosto il volto dell’infelicità che quello dell’empietà dissacratrice. L’idea platonica e poi medievale dell’arte come imitazione della natura, e della musica come espressione della sacra armonia del cosmo, è venuta meno perché è venuta meno – ed è un unico processo, il processo del moderno – l’idea di un universo divinamente armonioso. Ma che cosa in profondità ha provocato questa dissoluzione della perfetta ed eternamente compatta figura dell’universo?
La radice che io vedo è biblica ed ebraica. Non era passata invano, tra il Medioevo e il romanticismo, l’esperienza della Riforma, che aveva riscoperto il fondo biblico della fede cristiana. È con Lutero che la «fede» scalza il luogo del «sacro». Da allora l’uomo non vive più nella sua condizione di natura, inserito in un ordinato universo di cui egli è parte, destinato ad ascendere in esso fino al supremo Uno che è al vertice dell’essere; ma nel Dio che si abbassa verso le creature si rivela all'uomo la sua miseria, di cui l'uomo naturale non ha neppure il sospetto.
L'abisso che separa il solenne e armonioso sacro medievale dal lacerato profano moderno era già scavato. Per Hegel l'arte cristiana, che chiama «romantica», ha il suo culmine più significativo nella rappresentazione non della bellezza, ma dell'assoluta disarmonia, nell'orrore del corpo sfigurato del Crocifisso. E per Nietzsche la musica, abbandonato l'illusorio presente eternizzante delle belle parvenze, deve rivelare l'enigmatica oscurità del divenire.
Per la mia esperienza e per il mio modo di sentire, a esprimere la «religione», a testimoniarla, molto più degli autori della musica che accompagna la celebrazione del culto cattolico sono oggi autori profani. La musica di significato «religioso» rinasce oggi dal fondo dell'esperienza profana che suscita la domanda di salvezza. Ritrovo questo bisogno in Mahler, in Milhaud, e, soprattutto proprio in Schönberg. Tre ebrei.
Dietro istanze apparentemente tecniche (opporre al tradizionale sistema tonale una serie di suoni reciprocamente indipendenti) l'ideale di Schönberg, come hanno mostrato sia Adorno che Mann nella loro interpretazione del suo programma, è quello di un'arte che investa l'esistenza dell'uomo in tutte le sue dimensioni. E in Mosè e Aronne Mosè invoca la Parola, il Nome, il Suono assente che ha disperatamente atteso lungo i percorsi del deserto.
Schönberg, nel Doctor Faustus, è Adrian Leverkühn, il musicista dell'incontro notturno con il demonio, ma che dietro la sua demonicità si rivela creatura di dolore, portatore messianico delle sofferenze dell'epoca. Il Dio biblico sta nella domanda di redenzione, molto più che nelle eterne strutture dell'essere. Il contemplante riconoscimento della presenza dell'Armonia nel mondo è il sacro, la fede è la dolorosa consapevolezza dell'assenza dell'Armonia dal mondo. Il descensus ad inferos della musica contemporanea può essere perciò, alla fine anziché all'inizio, il più vero mito di Orfeo: quell'Orfeo che le antiche rappresentazioni cristiane identificavano con il Cristo.
Sergio Quinzio