Il primo documento cristiano che menziona il termine “laico” è la lettera ai Corinti, detta di san Clemente Romano (dal 95 circa). Essa parla della condotta degli uomini del popolo secondo le “regole laiche”. Dal terzo secolo, con Tertulliano e san Cipriano, in Africa del Nord il termine “laico” prende posto accanto al termine “clero”. Vi è già, in germe, una interpretazione giuridica che oppone “laico” a “chierico”. Infine, in san Gerolamo (principio del V secolo) troviamo non una definizione, ma una constatazione nettamente peggiorativa: di fronte al clero, scelto per le cose di Dio, i laici sono quelli che badano alle cose del mondo, quelli che si sposano, fanno del commercio, coltivano la terra, fanno la guerra, testimoniano nei giudizi…
Se nella Bibbia il termine “laico” è raro e poco precisato, esso contiene una nozione delle più ricche e chiare del laos, del popolo di Dio. Accanto ad un sacerdozio funzionale, alla casta sacerdotale levitica, la Scrittura presenta il sacerdozio universale del Popolo di Dio nella sua totalità. Dopo il dono della Torah a Mosè, il Signore dichiara: “Voi sarete un regno di sacerdoti (mamleket kohanin) e una nazione santa” (Es. 19,6). Il testo greco traduce con basileion ierateuma, sacerdozio regale, il “popolo di sacerdoti” al servizio del Re celeste. Nel Nuovo Testamento san Pietro riprende l’espressione: “Voi siete una generazione eletta, un real sacerdozio” (1 Pt. 2,9). Il popolo di Dio messo a parte è già riunito nel Tempio di Gerusalemme, è associato ora agli acta et passa Christi in carne. Dal regime profetico il popolo, costituito in Chiesa, passa alla realtà rivelata: esso è riunito ormai in Cristo e partecipa al Sacerdozio e alla Regalità unici di Gesù. Il Cristo ha fatto di tutti i cristiani “un regno di sacerdoti, e regneranno su tutta la terra” (Apoc. 5,10).
L’idea di un popolo profano non trova posto nella Bibbia, è assolutamente inimmaginabile. La Scrittura insegna nel modo più sicuro e costante il carattere sacro e sacerdotale di ogni membro del popolo.
I primi segni inquietanti appaiono alla fine del IV secolo, frutto precoce dell’era di Costantino. Sono i laici stessi che abbandonano la loro dignità di sacerdozio universale e allora i vescovi, fatalmente, divengono sempre più il punto di concentrazione del sacro, del sacerdotale, del “consacrato”. Una distanza viene a formarsi che porta ad una indigenza, ad un impoverimento progressivo del laicato, con il terribile rifiuto dei doni dello Spirito Santo. E’ il grande “tradimento dei laici”, tradimento della loro natura sacerdotale, i due poli del Laos, popolo di Dio, quello del re cristiano che protegge la Chiesa e s’intitola “vescovo esterno” e “diacono ecumenico” (titolo degli imperatori bizantini) e quello del monaco che vive nelle cose di Dio, questi due poli custodiscono la dignità carismatica dei laici, ma il resto, ciò che sta tra i due poli, cade nel vuoto, questa volta veramente profano; la massa, benché battezzata, si identifica con le cose profane del mondo. E’ in queste condizioni di rapida decadenza che si applica il termine peggiorativo di biotikoi e di antieroi; quelli che vivono nel mondo e sono estranei alle cose sacre e sante. Da allora la definizione dei laicato è negativa: un laico è un elemento passivo di pura ricettività, non ha nulla da fare nella Chiesa (salvo il contributo finanziario) perchè non ha funzione ecclesiastica, non ha ministerio né carisma.
Ora, l’Epistola a Diogneto (principio del III secolo) afferma: “Ciascuno risieda nella sua patria come uno straniero domiciliato. Ogni terra straniera è per loro una patria, ogni patria è terra straniera. Essi trascorrono la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo”. Questo testo non fa che accentuare l’insegnamento di san Paolo: i fedeli, i laici, sono eletti di Dio e concittadini dei santi, non hanno una città quaggiù. E’ evidente la vertiginosa riduzione da questa dignità di “santi” (chiamati alla santità) alla condizione profana di coloro che non s’occupano che delle cose di questo mondo. E’ la profanazione estrema del sacro.
Di fronte a questa decadenza la vera Tradizione rimane tuttavia immutabile; la si trova nei dogmi, nella coscienza sacramentale e liturgica, nell’insegnamento ricco ed esplicito dei padri della Chiesa.
Il Sacerdozio universale non implica un’opposizione al sacerdozio funzionale del clero; codesto è d’altronde una emanazione del laicato, un’emanazione di tipo congregazionalista. La Chiesa ha ricevuto una struttura gerarchica dall’istituzione del collegio dei Dodici, conformemente al disegno divino. Il popolo è differenziato da Dio nel suo “principio sacerdotale” per mezzo dei ministeri carismatici. L’episcopato è scelto nel popolo, è della sua carne e del suo sangue sacerdotale, non viene a formare una struttura al di sopra del Corpo, perché ne è una parte organica, dall’unità ontologica di tutti i membri. Ma la sua origine è divina e si esercita in virtù della successione apostolica. Ogni candidato è promosso da Dio: “Sono Io che vi ho scelto e stabilito” (Gv. 15,16). Il potere sacramentale di celebrare i misteri e anzitutto di essere testimone apostolico dell’eucaristia, il potere di promulgare le definizioni dottrinali – carisma veritatis certum – appartengono all’episcopato in virtù dell’apostolicità della Chiesa: è anche il carisma pastorale di condurre il Corpo, cioè la regalità dei sacerdoti, verso la Parusia gloriosa. Immagine del Cristo, il vescovo non ha che un solo vero potere: quello della carità, una sola vera forza di persuasione, il suo martirio. Come dice in modo meraviglioso questa bella parola: “Noi non siamo i maestri della vostra fede, noi siamo i servitori della vostra gioia”.
E’ chiaro ciò che è essenziale della Tradizione: essa non è né legalitarismo antigerarchico, né la separazione clericale dell’unico Corpo in due, ma è la partecipazione sacerdotale di tutti all’unico Sacerdote divino per mezzo dei due sacerdozi. Ciascuno è stabilito da Dio, ed è questa origine divina che li toglie dal mondo e da ogni prospettiva profana.
Ciò che è raccolto in Uno solo, il Cristo, l’unico Sacerdote, è dispiegato nel suo Corpo: il sacerdote si dirige verso il regno e il sacerdozio universale dei sacerdoti. La Pasqua è la Parusia non si ricoprono ancora; di qui la coesistenza dei due sacerdozi: senza confusione, né separazione, e al di fuori di ogni possibile opposizione; è nella differenziazione dei carismi e dei ministeri che si realizza il solo Cristo.
Così la tradizione non inclina mai verso la confusione e afferma chiaramente l’uguaglianza di natura: tutti sono anzitutto membri equivalenti del Popolo di Dio. Con la “seconda nascita”, il battesimo, tutti sono già sacerdoti, ed è in seno a questa equivalenza sacerdotale che si produce la differenziazione funzionale dei carismi. Non è una “consacrazione”, ma un’ordinazione per un nuovo ministerio di chi era già consacrato, già mutato nella sua natura una volta per tutte, avendo già ricevuto il suo essere sacerdotale.
Il sacramento dell’unzione crismale (confermazione in Occidente) stabilisce tutti i battezzati nella stessa identica natura sacerdotale degli hiereis. Da questa identica equivalenza alcuni sono eletti, messi a parte e stabiliti dall’atto divino come vescovi e presbiteri (il Nuovo Testamento adopera i termini episcopos e presbiteros per indicare il ministero particolare (il clero) e mantiene il termine iereus, per il sacerdozio dei fedeli. Questa parola greca indicava il sacerdozio giudaico. Cristo ha abolito lo hiereus, in quanto casta distinta. Tutti i cristiani sono divenuti hiereis, sacerdoti del sacerdozio regale e universale). E’ la differenza funzionale dei ministeri che abolisce la differenza ontologica di natura e rende impossibile la rottura tra clero e laici. Il canonista Balsamone, nel XII secolo, cita l’opinione che l’ordinazione episcopale comporti l’assoluzione plenaria dei peccati, che ne farebbe un “secondo battesimo” e muterebbe dunque la natura. Una dottrina siffatta non è mai stata accettata dalla Tradizione, perché istituirebbe una differenza di natura tra i vescovi e i fedeli. La possibilità di ridurre un sacerdote allo stato laico, con l’autorizzazione alla vita coniugale, dimostra proprio il contrario, in questo caso il chierico depone il ministerio funzionale e resta parte del sacerdozio universale; non subisce né prima né dopo alcun mutamento ontologico. Questa affermazione prende rilievo in presenza di due tradizioni che traducono, ciascuna nel proprio ordine, il principio della “paternità divina”. Una risale a sant’Ignazio di Antiochia (Magn. 3,1), per il quale ogni vescovo è padre per la sua funzione liturgica; con l’acqua e lo Spirito egli rigenera la filiazione divina (Didascalia degli apostoli, II 26,4). L’altra risale ai “padri del deserto”: sono i grandi spirituali laici, i cui carismi non sono funzionali, ma personali. Uno pneumatikòs patér, un padre spirituale è un teodidacta, ammaestrato da Dio e guidato dallo Spirito. Semplici monaci, essi erano “padri spirituali” di tutti.
Il vescovo partecipa dunque al Sacerdozio di Cristo con la sua funzione sacra, il laico lo fa col suo essere stesso; egli partecipa all’unico Sacerdozio di Cristo con il suo essere santificato, con la sua natura sacerdotale. E’ in vista di questa dignità d’essere sacerdote nella sua stessa natura che il battezzato è suggellato con i doni, unto di Spirito nella sua stessa essenza. Si deve sottolineare con forza la sostanza, l’ontologia, la natura sacerdotale di ogni fedele. Il laico è sacerdote della sua esistenza, egli offre in sacrificio la totalità della sua vita e del suo essere.
Lo conferma nella tradizione orientale la stretta corrispondenza tra la “iniziazione” dei fedeli (battesimo e unzione) e l’ordinazione dei sacerdoti. Difatti, la preghiera dell’ottavo giorno dopo il battesimo fa menzione della “imposizione della mano di Dio” che stabilisce il battezzato nella “dignità della vocazione sublime e celeste”. Il colore bianco della tunica battesimale è il colore del sacerdozio nei due Patti; si comprende che per ragioni pratiche solo il clero lo abbia conservato. Il rito della tonsura significa la consacrazione totale al servizio ecclesiale; dunque tutti, clero e laici, sono messi a parte per le cose di Dio; tutti sono consacrati. Per un bambino di sesso maschile la tradizione antica prescriveva una processione intorno al tavolo dell’altare, corrispondente alla dignità del sacerdote del sacerdozio universale. Secondo Ippolito di Roma (Trad. Apost.) il battezzato riceve il bacio di pace (come il vescovo), come chi è degno del suo nuovo stato – dignus effectus est. Riguardo alla “pietra bianca” che porta inciso il nome nuovo (Apoc. 2,7), Ippolito precisa che questo nome è pronunciato durante l’eucaristia ; esso simboleggia l’ammissione nel regno, è il nome della nuova creatura, membro del sacerdozio regale. La sorprendente affinità liturgica di questi riti con l’ordinazione del clero sottolinea con vigore la dignità sacerdotale di ogni battezzato.
L’iniziazione (i tre grandi sacramenti dei fedeli) introduce tutti i ciascuno nell’ieràdiakosmesis, l’ordine o la gerarchia sacra del Popolo, differenziata soltanto nei misteri funzionali.
Questa perfetta uguaglianza di natura di tutti i membri della Chiesa corrisponde al carattere profondamente omogeneo della spiritualità ortodossa. Come non esiste separazione alcuna in Chiesa docente e discente, ma è la Chiesa totale che ammaestra la Chiesa, così pure è in tutto il suo insegnamento che l’evangelo si rivolge a tutti e a ciascuno. La preghiera, il digiuno, la lettura delle Scritture, la disciplina ascetica s’impongono quindi a tutti, allo stesso titolo. Il laicato costituisce dunque esattamente lo stato del monachesimo interiorizzato. La sua sapienza consiste essenzialmente nell’assumere, pur vivendo nel mondo e forse soprattutto a causa di questa vocazione, il massimalismo escatologico dei monaci, la loro attesa gioiosa e impaziente della Parusia.
Come esempio il monachesimo interiorizzato, comune a tutti, si può citare la tradizione antica che vedeva nel tempo del fidanzamento un noviziato monastico per prepararsi al “sacerdozio coniugale”. Così le corone dei fidanzati, nel rito orientale del Coronamento (sacramento del matrimonio) erano conservate per sette giorni e poi il sacerdote dava la benedizione per por termine a questo tempo di continenza degli sposi. Così, nella Russia di un tempo, dopo la cerimonia del matrimonio la Chiesa, gli sposi partivano direttamente per un convento; essi si iniziavano per un tempo alla vita monastica, per iniziarsi meglio alla loro nuova vocazione coniugale, al loro sacerdozio coniugale.
Nicola Cabasilas, grande liturgista del XIV secolo, laico, ha intitolato il suo trattato sui sacramenti: La vita in Gesù Cristo; Giovanni di Cronstadt, sacerdote di grande santità all’inizio del XIX secolo, descrive nel suo libro La mia vita in Cristo, la sua esperienza eucaristica; questo indica che la vera patria delle anime ortodosse è la Chiesa dei misteri liturgici. Nicola Cabasilas parafrasa il testo degli Atti e dice: “E’ per i sacramenti che noi viviamo, ci muoviamo e siamo” (N. Cabasilas, La Vie en Jésus-Christ, cit., p. 27).
Il sacramento dell’unzione crismale è il sacramento del sacerdozio universale. Sull’uomo nato di nuovo nel battesimo lo Spirito Santo discende per infondergli il dono degli atti. L’unzione è il sacramento di forza che ci arma come “soldati e atleti di Cristo”, per “rendere testimonianza senza timore né debolezza” e attuare l’apostolato dell’amore carismatico. San Cirillo di Gerusalemme dice ai catecumeni: “Lo Spirito Santo vi arma per il combattimento… Egli veglierà su di voi come sui propri soldati” e “voi starete saldi contro ogni potenza nemica” (P.G., 33, 996, 1009). Il laico è anzitutto un combattente.
Il segnare con l’unzione cresimale tutte le parti del corpo nella tradizione orientale simboleggia le lingue di fuoco della Pentecoste. Esso è accompagnato dalla formula sacra: “Suggello del dono dello Spirito Santo”; il laico è dunque suggellato in tutto il suo essere dai doni, è un essere totalmente carismatico.
La preghiera posta al centro del sacramento precisa all’inizio dei doni: “Ch’egli si compiaccia di servirti in ogni atto e in ogni parola”. E’ la consacrazione di tutta la vita al ministero del laicato, ministero essenzialmente ecclesiale.
Il carattere totalitario, assoluto della consacrazione è, messo in rilievo dal rito della tonsura, rito identico a quello dell’entrata negli ordini monastici. La preghiera dice: “Benedici il Tuo servitore che è venuto a offrirti come primizia la tonsura dei capelli del suo capo”. Il senso simbolico è qui evidente, è l’offerta totale della vita.
L’accento escatologico della preghiera rafforza questo significato: “Che egli Ti renda gloria e abbia, tutti i giorni della sua vita, la visione dei beni di Gerusalemme”. Così tutti gli istanti del tempo si aprono sulla loro dimensione escatologica, tutti gli atti e tutte le parole sono al servizio del Re. Passando per la tonsura il laico è un monaco del monachesimo interiorizzato, sottoposto a tutte le esigenze assolute dell’evangelo.
All’epiclesi del sacramento,alla richiesta dello Spirito Santo,il padre celeste risponde con il suo invio,che riveste il battezzato di Cristo, lo ”cristifica”. Nella preghiera sulla santa cresima il vescovo di rito bizantino domanda: “O Dio,ségnali (i futuri confermati, unti, ”cristi”) con il suggello della cresima immacolata; essi porteranno nel loro cuore il cuore di Cristo per essere dimora trinitaria”. Si noti qui il trinocentrismo dell’ortodossia; l’equilibrio trinitario è sottolineato: suggellato dallo Spirito, divenuto Cristoforo, per essere dimora trinitaria.
Nell’ufficio, la scelta della lettura è già un commento. Durante il sacramento dell’unzione si leggono gli ultimi versetti dell’evangelo secondo san Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutti i popoli”. Con questa lettura l’ordine del Signore si rivolge quindi a ogni cristiano confermato, a ogni laico, e il sacramento gli offre la sua grazia perché possa compierlo: ”egli deve predicare agli altri ciò che ha ricevuto nel battesimo”. Accanto ai missionari accreditati, il confermato è ”l’uomo apostolico”, nel suo proprio modo. Con tutto il suo essere, suggellato coi doni, con la sua vita egli è chiamato ad una incessante testimonianza.
L’idea di un popolo passivo è in evidente contraddizione con l’ecclesiologia patristica; il sacerdozio universale dei fedeli partecipa ai tre poteri, governo, insegnamento e santificazione.
Il primo concilio di Gerusalemme al tempo degli apostoli (Atti15) riunisce tutti gli elementi della Chiesa: ”Gli apostoli,gli anziani e i fratelli”. La parola “è piaciuto allo Spirito Santo e a noi” diviene formula sacra dei concili ecumenici, e questo “noi” è il noi collegiale del Corpo nella sua totalità: Sono i vescovi che costituiscono il concilio, ma essi portano in loro tutto il Corpo e il loro potere supremo si esercita sul piano del mistero del consensus di tutti; i vescovi agiscono ex consensu ecclesiae.Come dice bene l’enciclica dei Padri orientali del 1848: ”Da noi le innovazioni non hanno potuto essere introdotte né dai patriarchi né dai concili; perché per noi la custodia (il fatto di proteggere, di difendere; la parola greca adoperata qui implica l’idea di qualcuno che porta lo scudo) della religione sta nel corpo intero della Chiesa, cioè nel popolo stesso che vuol conservare intatta la sua fede” (Mansi 40,a07,408). I laici nella tradizione orientale non sono i giudici (kriteis) della fede, la promulgazione delle definizioni dottrinali è il carisma proprio dell’episcopato; i laici, invece, sono i difensori della fede. Lo “scudo” è la Chiesa nella sua totalità, perciò la capacità di distinguere la verità dall’errore, ”di verificare e di testimoniare” (1Ts. 5, 19, 21) è data a tutti. Questa difesa è anzi il dovere sacro di ogni laico. E’ nota la funzione che hanno avuto i laici nella crisi ariana del IV secolo, o più tardi, nel XV secolo, ma soprattutto nel XVI e XVIII secolo nella Russia sud-occidentale, quando le confraternite ortodosse salvano la purezza della fede e costituiscono dei veri e propri bastioni della verità di fronte all’episcopato decadente. Il consensus del sacerdozio universale fa appello, nel caso di un collegio episcopale manchevole, al collegio episcopale illuminato dallo Spirito Santo.
Negli atti cultuali dell’ortodossia l’axios, nel momento dell’ordinazione episcopale, o l’amen finale, sono come la firma santa del Corpo nella sua totalità apposta su ogni atto della Chiesa. Durante la liturgia ogni fedele è liturgo insieme col vescovo; il popolo partecipa attivamente all’anafora eucaristica, all’epiclesi (si usa sempre il plurale; il sacerdote formula in nome di tutti “Noi Ti preghiamo…” e poi è testimone apostolico del miracolo compiuto). La comunione di spirito tra il celebrante e l’assemblea è totale e corrisponde al senso della parola liturgia, che è l’azione comune.
Nell’insegnamento, ed è questo un fatto particolare della ortodossia,i professori di teologia sono spessissimo dei laici. Il ministero della parola si ricollega al carisma dell’ordine, ma i vescovi possono delegare ed alcuni già nella chiesa latina delegano a laici scelti il potere di insegnare e di predicare in virtù del loro carisma di sacerdozio universale. Nella società sacralizzata di Bisanzio l’Imperatore ha il potere di riunire i concili e la predicazione imperiale occupa un posto normale. Si conoscono anche nel XIV secolo le belle omelie di Nicola Cabasilas, laico e grande liturgista. Si può ricordare anche il nome di Cirillo di Filea, un esicasta ardente esperto a livello esistenziale della preghiera detta esicasmo, sposato e padre di famiglia. Nella Grecia attuale i laici sono spesso mandati dal Sinodo in missione apostolica; essi insegnano e predicano nelle chiese; anche qui esercitano il loro carisma sacerdotale.
In materia temporale, sono i consigli e i concistori nell’ortodossia, che amministrano la diocesi. Ma anche nella chiesa cattolica iniziano a conoscere questo aspetto. Il vescovo è un padre spirituale, pastore e liturgo. Quando accade, per esempio attualmente in Grecia, che lo Stato eserciti una supremazia sull’organizzazione materiale della Chiesa, è perché lo Stato, in linea di principio rappresenta qui il popolo cristiano.
Nell’ortodossia sul piano della santificazione, lo stato monastico è del tutto indipendente dall’ordinazione (l’episcopato secondo il diritto canonico è incompatibile con il grado monastico di “megaloschema”). La direzione spirituale degli startzi non è legata al sacerdozio. Gli “pneumatici”, gli “spirituali”, monaci o laici che vivono nel mondo e che il popolo chiama “uomini di Dio” o “folli per Cristo”, godono di un’autorità spirituale grandissima. Il popolo li riconosce come direttori di coscienza; semplici monaci erano spesso padri spirituali di vescovi e patriarchi. L’occidente ha conosciuto il fiorire della paternità spirituale di religiosi non sacerdoti (il monachesimo benedettino, Benedetto, Francesco, ecc.) e nel medioevo la maternità spirituale di alcune monache. Questo ministero puramente carismatico non cesserà mai di esistere nella Chiesa accanto al ministero del clero.
I laici formano un luogo ecclesiale che è ad un tempo mondo e Chiesa. Essi non hanno accesso al potere di accordare i mezzi di grazia (potere sacramentale del clero); la loro sfera è invece “la vita di grazia” e “lo stato di grazia”. Con la semplice presenza nel mondo di “esseri santificati”, di “sacerdoti” nella loro sostanza stessa, di “dimore trinitarie”, il sacerdozio universale dei laici detiene il potere del sacro cosmico, della liturgia cosmica: al di fuori delle mura del tempio i laici introducono la verità dei dogmi vissuti nella società e nei rapporti umani e scacciano così gli elementi profani e demoniaci del mondo.
Oltre la partecipazione attiva ai poteri della Chiesa, i Padri sottolineano la triplice dignità dei laici in se stessa; san Macario l’Egiziano dice: “Il cristianesimo non è qualcosa di mediocre, è un grande mistero. Medita sulla tua nobiltà… Con l’unzione tutti divengono re, sacerdoti e profeti dei misteri celesti” (P.G.,34, 624 B C ).
La dignità regale è di natura ascetica: è la padronanza dello spirituale sul materiale,sugli istinti e sulle pulsazioni cosmiche della carne, la liberazione dalle determinazioni che vengono dal mondo. Sant’Ecumenio dice: “Re , per il dominio sulle nostre passioni” (P.G., 118, 832 ). San Gregorio Nisseno precisa anch’egli: “L’anima dimostra la sua regalità nella libera disposizione dei suoi desideri, e questo è proprio del re; dominare ogni cosa è il carattere proprio della natura regale”.
La dignità regale è dunque il “come” dell’esistenza, la qualità regale di dominare, di essere il proprio padrone e signore. Il suo “quid”, il suo contenuto,è posto nella dignità sacerdotale. San Paolo esorta ad offrire i nostri corpi in sacrificio vivente,il che è il “culto razionale” ( Rom. 12, 1 ): fare del nostro essere e della nostra esistenza un culto,una liturgia,una dossologia: origine lo esprime in modo mirabile: ”Tutti quelli che hanno ricevuto l’unzione sono divenuti sacerdoti… Se amo i miei fratelli fino a dare la mia vita per loro e combatto per la verità fino alla morte… se il mondo è crocifisso per me e io al mondo, io ho offerto un sacrificio e divengo sacerdote della mia esistenza…” ( P.G.,12, 521-522). Nello stesso senso san Gregorio Nanzanzieno riassume: “Noi siamo sacerdoti con l’offerta di noi stessi in ostia spirituale” (P.G., 35, 498).
Per definire la dignità profetica sant’Ecumenio raccoglie tutte le dignità in un solo movimento: “Re per il dominio sulle nostre passioni, sacerdoti per immolare i nostri corpi, profeti essendo istruiti sui grandi misteri” ( P.G.,118, 932 C D). San Teofilatte, aggiunge: ”Profeta,perché vede ciò che occhio non ha visto” (P. G., 124,812 ). Secondo la Bibbia il profeta è colui che è sensibile ai “disegni di Dio “ nel mondo, colui che afferra il cammino provvidenziale della storia sotto lo sguardo di Dio. Eusebio di Cesarea, nella sua Dimostrazione evangelica (P. G: , 22, 92-93 ) scrive: ”noi bruciamo il profumo profetico in ogni luogo e gli sacrifichiamo il frutto odoroso di una teologia pratica”. Ecco una magnifica definizione del laicato: con tutto il suo essere, in tutta la sua esistenza, divenire questa teologia vivente, teofania, luogo risplendente della sua presenza, della parusia di Dio.
Percorrendo la tradizione patristica si può disegnare a grandi tratti un “tipo” particolare di laico. E’ un uomo di preghiera, anzitutto, un essere liturgico: l’uomo del Sanctus e del Trisagion, colui che riassume la sua vita in quella parola del salmo: “Io canterò al mio Dio finché esisterò”. L’abate Antonio (P. G., 65, 84) parla di un uomo di una grande santità che esercitava al secolo la professione del medico; egli dava ai poveri tutto il suo superfluo e cantava tutto il giorno il Trisagion, unendosi al coro degli angeli. Egli fa pensare a quel tipo di santo che viene chiamato anargiro, disinteressato; esercita la sua medicina come una forma del suo sacerdozio, come sacerdote. Fa pensare anche al “buon medico” di Camus, ma come lo si vede oggi...
Oggi, nei paesi comunisti in cui la Chiesa è più che mai ridotta alla sola vita liturgica, questa sua nudità si erge come un appello possente a porre di nuovo al centro l’unica cosa necessaria. Molto di recente l’episcopato russo ha esortato i laici, in mancanza di una vita liturgica regolare, a divenire tempio, a prolungare la liturgia nella loro esistenza, a fare una liturgia della loro vita, e a presentare agli uomini senza fede un volto, un sorriso liturgico… Nelle tragiche condizioni di tensione estrema la Chiesa insegna anzitutto come pregare, come partecipare alla lotta per una testimonianza silenziosa, come “ascoltare il silenzio del Verbo”, per renderlo più potente di ogni parola compromessa.
Secondo una vecchia tradizione, san Michele offre sull’altare dall’Alto, degli “agnelli di fuoco”, le anime dei martiri. La loro testimonianza non è necessariamente spettacolare; sacerdote del mondo, il laico pratica il discernimento degli spiriti e dice “no” al dominio demoniaco. Gli altri, quelli che sono “sotto l’altare”, gridano (Apoc. 6, 9) : “Fino a quando, Signore…”. La Chiesa può fare di tutte le ricchezze della cultura umana un’icona splendida del regno di Dio, ma essa può anche essere spogliata fino al martirio e “seguire nuda il Cristo nudo…”.
Durante la liturgia il vescovo raccoglie la preghiera e i doni dei fedeli e porta quest’offerta al Padre, pronuncia l’epiclesi da parte di tutti. Ma la presenza del laico nel mondo è anch’essa un’epiclesi perpetua, essa santifica ogni parte del mondo, contribuisce alla pace di cui parla l’evangelo, aspira al “bacio di pace” liturgico. Seguendo le litanie, la sua preghiera è volta al giorno che viene, alla terra e ai suoi frutti, allo sforzo dell’uomo. Nell’immensa cattedrale che è l’universo di Dio, l’uomo, sacerdote della sua vita, operaio o sapiente, fa di tutto ciò che è umano offerta, canto, dossologia.
Il laico è testimone oculare della risurrezione di Cristo. E’ l’insegnamento liturgico e il senso dell’ufficio della notte di Pasqua. Il mistero liturgico oltrepassa la comunione, “ripresenta” l’avvenimento, diviene avvenimento. Davanti al popolo il Cristo risuscitato appare,e questo dà ad ogni fedele la dignità apostolica del testimone.
Il laico è perciò un “uomo apostolico” (san Massimo il Confessore, P. G., 90, 913; cfr. Lc. 10, 19 ) nel suo modo proprio. Secondo i grandi spirituali, egli è colui che cammina sui serpenti, domina ogni malattia, sposta le montagne e risuscita i morti, se tale è la volontà di Dio. Vivere semplicemente la sua fede fino in fondo è incrollabilmente il suo destino.
L’atteggiamento del laico è un silenzio raccolto, umile ma anche tutto permeato di una tenerezza appassionata. Sant’Isacco, san Giovanni Climaco dicevano che si deve amare Dio come si ama la propria fidanzata ed essere innamorati di tutta la creazione di Dio, per decifrare in ogni cosa in senso di Dio. Secondo Merleau-Ponty: “l’uomo è condannato al senso” (Phénoménologie de la Perception, p. XIV ); noi diremo invitato a vivere la sua fede: vedere ciò che non si vede, contemplare la sapienza di Dio nell’assurdità apparente della Storia, divenire luce, rivelazione, profezia.
Meravigliato per l’esistenza di Dio - “il mondo è pieno della Trinità” – il laico è anche un po’ folle, della pazzia di cui parla san Paolo: è l’umorismo paradossale dei “folli per Cristo”, il solo capace di spezzare la pesante gravità degli innumerevoli dottrinari.
Il laico è anche un uomo che la fede libera dalla “grande paura del ventesimo secolo“, paura della bomba, del cancro, del comunismo, della morte; la fede è sempre una certa maniera di amare il mondo, una maniera estrema, che segue il suo Signore fino nella discesa agli inferi. Non è certo da un sistema teologico, ma forse soltanto dal profondo dell’inferno che una luminosa, gioiosa speranza può nascere e imporsi.
Il cristianesimo, nella grandezza dei suoi confessori e dei suoi martiri, nella dignità di ogni credente, è messianico, rivoluzionario, esplosivo. Nel regno di Cesare ci è comandato di cercare e dunque di trovare ciò che non vi si trova: il regno di Dio. Questo ordine significa proprio che noi dobbiamo trasformare la forma del mondo, mutare la sua figura che passa in icona del regno. Mutare il mondo significa passare da ciò che il mondo non possiede ancora - ed è per questo che è ancora il mondo – a ciò in cui si trasfigura, e diviene così un’altra cosa: il regno.
L’appello centrale dell’evangelo invita alla violenza cristiana, che sola si impadronisce del regno di Dio. E’ parlando di san Giovanni Battista che il Signore parla di violenza. San Giovanni non è dunque soltanto un testimone del regno, ma è già il luogo in cui il mondo è vinto e in cui il regno è presente. Non è soltanto una voce che l’annunzia è la sua voce. L’amico dello Sposo, colui che diminuisce perché l’altro, il filantropo divino – che ama gli uomini - cresca e appaia. Essere il vero laico significa essere colui che con tutta la sua vita, con ciò che è già presente in lui, annuncia Colui che viene; essere colui che secondo san Gregorio Nisseno, pieno di “ebbrezza sobria“ grida ad ogni passante: “Vieni e bevi”; colui che dice con san Giovanni Climaco quella parola così alata nella sua letizia: ” il tuo amore ha ferito l’anima mia e il mio cuore non può sopportare le tue fiamme; io avanzo cantandoti…” ( P.G., 88, 1160 B ).
L’evangelo ci parla dei violenti che si impadroniscono del regno. Uno dei segni sicuri del suo avvicinarsi è l’unità del mondo cristiano. In questa attesa degli ultimi adempimenti la speranza, la grande speranza cristiana, prende vita. La preghiera di tutte le Chiese sale per formulare l’epiclesi ecumenica, invocare lo Spirito Santo e la sua discesa sul miracolo possibile dell’unità. E’ il nostro ardente desiderio, la nostra ardente preghiera. Il destino del mondo dipende dalla risposta del Padre, ma questa è sospesa alla nostra trasparente sincerità, alla purezza del nostro cuore.
Gesù Cristo, col dono totale di sé, ha rivelato il sacerdozio perfetto. Immagine di tutte le perfezioni, egli è il Vescovo supremo; è anche l’unico Laico supremo. La sua preghiera sacerdotale reca perciò l’aspirazione di tutti i santi: glorificare la Trinità santa d’un sol cuore e di un’anima sola e riunire tutti gli uomini intorno al solo e unico Calice.
Il Filantropo divino ci attende per prendere parte a questa gioia che non è più di questo mondo soltanto; essa inaugura già il Banchetto del Regno.
* Salvo alcune notazioni particolari, queste pagine vengono da uno studio di Pavel Evdokimov, ortodosso di rito bizantino slavo, laico, professore all’istituto S. Sergio di Parigi ed a quello ecumenico di Bossey, osservatore al Concilio Ecumenico Vaticano II, morto nel 1970.