Il vocabolo ebraico che designa il Padre è Ab, o, in aramaico, la lingua di Gesù, Abba; esso è composto da due consonanti: l’Alef — ’A —, che indica l’unità divina, il punto sorgivo e fecondatore della creazione; la creazione nella grafia ebraica è raffigurata invece dalla lettera Beth, la B di Ab. Quindi la prima lettera di Ab — Padre — è l’Intemporale da cui sgorgano il tempo, lo spazio, l’infinito numero delle creature. La suprema Coscienza vivente è una, una e immersa nella molteplicità creata. La seconda lettera, B, è il supporto, lo sgabello della divinità creatrice, la creazione quale espressione visibile e temporale dell’Invisibile creatore.
La parola Padre, nel linguaggio concreto di Gesù e del suo popolo, non è tanto un’invocazione emotiva, ma piuttosto l’affermazione che nel creato esiste una Presenza attiva e santa che stimola la coscienza, che l’afferma e spinge alla più intensa collaborazione al divenire della creazione.
Il Padre non è una realtà lontana, ma la Presenza vivente, immanente nel creato e nelle creature per guidarle verso il compimento del loro specifico e personale destino. Gesù è cosciente di quest’opera fecondatrice divina e la designa con la metafora: «Padre che sei nei cieli» (Mt 6, 9), oppure con l’altra: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (Gv 10, 30). Due esseri viventi non sono mai perfettamente una sola cosa se non nel momento della fecondazione.
Gesù, designando il mistero divino col termine «Padre», rivela che la presenza attiva e fecondatrice di Dio è operante nella sua persona e, per partecipazione, essendo Cristo colui che riporta tutte le creature al loro centro originario, nelle manifestazioni particolari di ogni essere creato, È il Padre che riveste di bellezza i gigli del campo, che vigila amoroso sui passerotti, che non permette la caduta di un solo capello senza il suo volere.
Gesù descrive il rapporto con il Padre col verbo conoscere: «Io conosco il Padre come il Padre conosce me» (Gv 10, 15); «Onde conosciate che il Padre è unito a me e io al Padre» (Gv 10, 38). La conoscenza è intimamente legata all’amore: il Padre conosce il Figlio perché lo ama, il Figlio conosce il Padre perché lo ama, i discepoli conoscono il Figlio perché essi sperimentano e ricambiano il suo amore-dono. Questa conoscenza non è un riconoscimento intellettuale di Dio o del Figlio, ma uno scambio di vita attraverso un amore-oblazione; essa viene sperimentata nella partecipazione reciproca del Padre e del Figlio, del Figlio e dei discepoli nell’unione di un amore fecondante.
In Gesù la consapevolezza della presenza del Padre è costante, pervade tutte le sue parole e i suoi gesti. È l’inesauribile sorgente di ogni sua azione ordinaria e prodigiosa, il fuoco centrale che anima e dà significato alle sue parole e ai suoi gesti.
Egli e venuto a «compiere le cose del Padre» (Lc 2, 49): il Padre è sempre operoso, e le sue parole sono le parole del Padre, la sua vita è la vita del Padre, la sua esistenza è la manifestazione dell’intimo contenuto della realtà del Padre.
Nell'agonia del Getsemani Gesù implora il Padre e si rimette alla sua volontà; sulla croce consegna il suo soffio vitale nelle mani del Padre.
Ai discepoli indica come termine del loro cammino l’infinita comprensione del Padre, costantemente li richiama alla presenza del Padre che ascolta nella segretezza e vede le intenzioni dei cuori.
Gli Angeli dei fanciulli vedono sempre il luminoso volto del Padre; Gesù ai discepoli vieta l’appellativo di padre perché uno solo è il loro Padre.
La presenza del Padre è vissuta da Gesù come immanente nell’essere, ed è a questa forma di coscienza che vuole che i discepoli si dischiudano. Per questo Egli domanda loro la rinuncia al loro piccolo io personale per integrarlo nell’assoluto Io divino.
Il discepolo di Gesù è chiamato come Lui a fare «le cose del Padre». Esse non sono le cose imposte da un io di gruppo, di popolo, di chiesa, di partito, di stato, ma dall’assoluto e incondizionato liberatore Io divino. Esso è il punto di riferimento dell’io del discepolo, in esso è chiamato a reintegrarsi se vuole raggiungere la seconda nascita.
La coscienza della Presenza, liberando l’uomo dagli idoli del suo io nato dalla carne e dal sangue, dagli io creati dai numerosi maestri umani, gli fa sentire la vita in tutta la sua calda pienezza che dona fiducia lungimirante e concreta; gli fa sperimentare, come Gesù, che il Padre non è un mito, un’artificiosa densificazione di aspirazioni terrene, un oggetto di preghiera, ma una Presenza che feconda tutto l’essere umano; e il suo patto non è costituito da suppliche, ordinanze, sinagoghe, maestri, ma da un accordo di carne e di spirito.
La Presenza del Padre non è mai nei templi, nelle organizzazioni, nelle parole astratte o in quelle salmodiche, ma ovunque esiste una mente aperta all’infinita realtà divina, ovunque esista un cuore dalle ali spiegate. La luce del Padre è ovunque, ovunque è il suo Figlio e il suo tempio.
Si capisce perché Giuseppe e Maria, abituati a riferire l’infinito del Padre alle precise istituzioni e figure sacre del loro popolo, non comprendano le parole del Figlio: «Essi non compresero le sue parole» (Lc 2,50).
Maria, la cui anima purissima è aperta a tutte le imprevedibili rivelazioni dello Spirito, accoglie nel suo cuore le parole incomprensibili del Figlio e le custodisce con rispetto e venerazione, aspettandone la maturazione. E Maria è la figura della Chiesa, dell’umanità che umilmente attende che le parole: «Io devo occuparmi delle cose del Padre» diano i loro frutti.
(da Giovanni Vannucci, La vita senza fine, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; Le cose del Padre. Domenica fra l’ottava di Natale - Festa della Sacra Famiglia - Anno C; Pag. 29-32)