I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Dialogo nella tradizione cistercense
Per vivere in comunione
di Zelia Pani



Il valore pedagogico del dialogo nella formazione iniziale e in quella permanente come strumento di relazione tra le persone e di costruzione di una visione comune in funzione comunionale.

“Perché Possa vivere e crescere nell’unità, ciascuna comunità necessita di una visione comune della vita monastica”; in caso contrario, le persone che vivono in monastero potrebbero avere, del proprio esserci, ognuno un’idea diversa e quindi crearsi un cammino “separato”, vivere una propria vita e non contribuire efficacemente a creare un contesto comunitario generatore di vita. Lo scrive da Roma l’abbadessa madre Rosaria,ocso (ordine cistercense della stretta osservanza) in un articolo pubblicato sul Bulletin de l’A.I.M. (Alliance Inter Monastères), 84/2005, 43-50: un numero monografico su L’art de gouverner, nel quale il ministero dell’autorità al servizio della comunità è considerato secondo svariati aspetti.

Il tema sviluppato da madre Rosaria, Comunità in dialogo, la visione comune: un’autenticità vissuta insieme, propone una riflessione certamente estensibile, con le eventuali varianti carismatiche, anche a qualsiasi comunità religiosa che voglia realizzarsi come espressione della Chiesa-comunione.

A tutte, infatti, si attaglia l’osservazione del fatto che – scrive l’abbadessa – difficilmente la frammentazione dei progetti e dei comportamenti risulta attraente presso i giovani e le giovani chiamati/e alla vita consacrata in monastero, provenienti per lo più da un mondo rattristato dalla solitudine e chiuso in modo più o meno egoistico nell’individualismo; né può essere fonte di gioia e di vita nuova per le stesse comunità in atto.

In particolare, tuttavia, l’accento è posto nella riflessione di m. Rosaria sulla realtà da lei stessa vissuta nel suo autorevole ruolo: “Una riscoperta della vita cenobitica benedettina-cistercense, secondo la quale l’itinerario verso Dio si compie nella comunità e attraverso la comunità, sacramento di Cristo salvatore, avrà un impatto positivo sulla gioventù d’oggi.

COSTRUIRE CON SAPIENZA

Lo stile formativo cistercense – che conferma nell’ocso la sintonia dei suoi padri «con ciò che il concilio ha chiamato una “ecclesiologia di comunione”» - punta per ciascuna comunità sul dovere di costruire la propria visione comune su tre punti specifici: “l’insegnamento dell’Abate, fondato sulla tradizione, nel senso vero e bello del termine, costituito da tutto ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto, ossia il Vangelo, la regola, la dottrina dei Padri, che l’insegnamento attuale dei capitoli generali, il magistero della Chiesa, la storia e l’identità particolare della comunità di appartenenza; la riflessione e il dialogo, mediante i quali tale insegnamento viene assimilato e integrato in un criterio che determina le decisioni concrete della nostra vita qui e ora, in modo tale che la tradizione sia una risorsa e non un ostacolo; un ascolto colmo di saggezza di ciò che forma la realtà storica nella quale siamo inseriti. Che cosa ci viene chiesto qui e ora? Come ne integriamo il contenuto nella nostra tradizione viva? Il nostro carisma quale risposta dà alle sfide concrete che oggi ci vengono lanciate?”

A questo punto l’abbadessa ritiene di dover segnalare un possibile equivoco e propone di distinguere tra visione comune e ideologismo: “Nell’ideologismo si prende un’idea, dunque un particolare della realtà e lo si assolutizza fino a farne la chiave interpretativa dell’intera realtà”: si tratta – e qui richiama anche il pensiero dell’Abate generale dom Bernardo Olivera – di una forma di violenza sulla realtà, di un’esagerazione che si regge soltanto a prezzo di innumerevoli censure della realtà, come dimostra la storia delle ideologie dell’ultimo secolo.

Ma la verità - prosegue – “non è un’idea spuntata nella nostra mente. Non v’è che una sola verità assoluta e universale, a partire dalla quale anche il minimo frammento di realtà può essere accolto e compreso: Dio. Non un dio-idea, ma il Dio vivente, la santa Trinità fattasi palpabile nell’umanità di Cristo. Attorno a lui, per la forza dello Spirito siamo uno, siamo la Chiesa. Ed è convertendoci al suo modo di pensare e di vedere le cose che giungeremo a una visione comune”.

UNO STRUMENTO NECESSARIO

Il pensiero che m. Rosaria esprime trova riscontro – ella stessa scrive – sul documento Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica/2002, del quale anzi riporta l’intera parte centrale del n. 18. in tale sezione infatti la CIVCSVA pone al centro dell’itinerario di rinnovamento, cui tutte le comunità religiose sono tenute, il dialogo: il dialogo in funzione formativa, perché si possano conoscere e valorizzare le persone nelle loro doti umane, sociali e spirituali, e discernere “in esse i limiti umani che chiedono il superamento nonché le provocazioni dello Spirito che possono rinnovare la vita del singolo e dell’istituto” (RC 18); e il dialogo comunitario che porti in funzione comunionale ad “accogliere ed integrare i diversi modi i vedere e sentire “ (ivi) .

Il dialogo appare così - prosegue l’articolo - supremamente necessario a causa della grande differenza nell’educazione, nella cultura e nella corrente di pensiero ispirativa dei giovani nel mondo d’oggi, globalizzato e livellato in superficie ma privo di una cultura fondamentale omogenea; dove il Vangelo non è più un punto di riferimento e le medesime parole non hanno identico significato, mentre in monastero è indispensabile che le parole Dio, virtù, umiltà, fede, carità, silenzio, obbedienza… - e il contenuto che noi attribuiamo loro abbiano il medesimo senso.

La necessità odierna di un confronto continuo è perciò evidente: “Parlare, esprimersi per identificare il valore delle parole, discernere ciò che è buono e vero da ciò che non lo è, risalire dalle parole ai principi, dai principi al pensiero che li determina, e ancora più lontano ai sistemi di pensiero e alle esperienze dalle quali le parole sono sgorgate”.

Il dialogo che lo stesso RC qualifica formativo si riferisce - precisa m. Rosaria - al tempo della formazione iniziale quando la sua funzione pedagogica è più importante e durante la quale il dialogo avviene in primo luogo col formatore. “In monastero la Parola incarnata, Gesù, si incontra anzitutto nel rapporto privilegiato con colui che esercita per noi la paternità spirituale, e col quale viviamo l’apertura del cuore”.

È pur vero che ultimamente l’espressione tradizionale di paternità spirituale è stata a mano a mano abbandonata per far posto a quella di accompagnamento spirituale: un cambiamento di vocabolario che è spia di una profonda modificazione dell’intima sensibilità comune, passata “da qualcuno che si trovava davanti a me a qualcuno che si trova di fianco a me”.

Tuttavia nella tradizione monastica, benché il termine accompagnamento sembri più adatto alla mentalità contemporanea, il linguaggio filiale rimane quello che traduce in modo più completo e incisivo la realtà della relazione tra formatore e formando/a . Infatti “c’è qui in gioco un impegno responsabile e libero che ha caratteristiche molto diverse da quelle di una relazione semplicemente fraterna. Per il novizio, prendere liberamente la decisione di rinunciare alla propria sufficienza e autonomia è riconoscere che soltanto attraverso la mediazione di un altro potrà emergere la grazia dello Spirito Santo. San Benedetto considera l’apertura del cuore come l’apertura al Signore stesso. I testi della Scrittura che egli cita a tal proposito dicono esplicitamente che il fondamento di tale relazione è la fede. L’atteggiamento filiale consiste realmente in questo: aprire progressivamente il proprio cuore per ricevere una parola, credendo che tale atto esprime l’apertura alla stessa verità che è Cristo”.

In secondo luogo – precisa m. Rosaria – “il dialogo si vive in gruppo, tutti i fratelli o le sorelle con il formatore (nel noviziato e nel monasticato, da noi, l’incontro è settimanale). All’inizio, lo scambio nel dialogo tra i giovani verte su ciò che si legge e si interiorizza riguardo alla vita monastica, le sue osservanze, i suoi valori e anche l’esperienza che ognuno ha fatto sia dei valori che del modo nuovo di vivere”. E si nota ben presto – prosegue esemplificando – che quando si scambiano idee il dialogo si ferma al livello teorico, si vede che rimane una distanza tra ciò che si è capito e ciò che è stato vissuto. Così con l’aiuto del maestro o della maestra delle novizie i giovani prendono coscienza delle contraddizioni esistenti in se stessi; ognuno scoprirà le proprie incoerenze e sperimenterà alla luce della parola del Signore la dinamica di conversione che il dialogo può provocare portando alla ricerca della verità: sul piano del pensiero, su quello dell’autenticità di vita e di quell’impegno comune che conduce a scoprire “una verità più grande di quella che ciascuno può trovare cercando autonomamente”.

IL DIALOGO COMUNITARIO

Non c’è dubbio che anche il dialogo comunitario sia formativo, quantunque abbia luogo in un campo di indagine più ampio come la partecipazione nel consiglio dei fratelli al governo dell’abate, o più spesso perseguendo altre finalità, ad esempio per giungere a una decisione in merito a questioni concrete mediante una semplice riflessione interpersonale.

Ma ciò non è ancora il vero e proprio dialogo monastico, finalizzato non alla messa in comune di qualcosa o alla conoscenza reciproca o a uno scambio qualsiasi di idee, ma a qualcosa di più profondo che riflette il senso del dialogo ecclesiale.

“Nella Chiesa il dialogo non è un dibattito democratico e tanto meno uno scambio in vista di una migliore conoscenza psicologica. Né per crescere nel dialogo è sufficiente essere generosi. La generosità non coincide con la capacità di comunicare, di ascoltare, di collaborare. Il dialogo ecclesiale, strumento di ricerca della verità è molto diverso, sia nella teoria che nella pratica, dal dialogo democratico dove tutte le idee vengono non solo rispettate ma ritenute ugualmente valide: tutto può essere buono, tutto possibile. Nel dialogo ecclesiale accoglienza e rispetto sono dovute a ogni persona e a ogni cammino personale sincero e autentico. Ma non tutte le idee sono uguali: occorre valutarle attentamente una per una, col rispetto dovuto alla verità che si conosce e che si cerca. Riflessione, dominio di sé, umile consapevolezza nei valori nei quali si crede, apertura all’altro che è diverso, capacità di ascoltare con pazienza, simpatia e intelligenza…”.

INCONTRARSI ATTORNO A GESÙ

L’elenco di quanto sia necessario per un dialogo comunitario fruttuoso sarebbe ancora lungo, ammette m. Rosaria; ma ciò che ella afferma essere indispensabile è “mantenere la presenza dello stesso atteggiamento di fede di cui si è detto per il dialogo nella formazione iniziale: è la stessa relazione sacramentale che si estende fino all’ultimo dei fratelli e delle sorelle, come giustamente esige s. Benedetto: “Che i fratelli si obbediscano scambievolmente”. Se manca tale indispensabile condizione, la fede, neppure le più belle idee porteranno frutti di conversione.

Un clima che avvolge totalmente la vita comune orientata con costanza all’autenticità della comunione, quasi di un reale modus vivendi sempre in atto: è ciò che si intuisce dietro le parole dell’abbadessa cistercense, la quale sottolinea il fatto che il dialogo in comunità “è un momento di incontro dove Gesù è veramente presente. Noi ci raduniamo nel suo nome, siamo la sua Chiesa e cerchiamo il suo pensiero e la sua volontà su di noi. Apprendiamo ad ascoltare e a comunicare a costruire la visione comune e l’unità, non di rado anche attraverso un cammino di riconciliazione.

Impariamo a discernere le situazioni e le difficoltà, sapendo tutti che dobbiamo compiere ogni sforzo per amarci gli uni gli altri; il più difficile infatti è riconoscere che se io faccio personalmente tale sforzo anche l’altro sta facendo il medesimo sforzo. E la fede nello Spirito che anima me anima che lui, poiché credere nell’amore dell’altro si fonda sul fatto di essere la Chiesa, il corpo del Signore”.

Infine, il dialogo comunitario rimane sempre un mezzo di ricerca della verità a più livelli: “Verità di se stessi: correzione fraterna, revisione di vita, confessione di mancanze personali, richiesta di perdono; verità del cammino concreto della comunità mediante scambio di idee, consiglio dell’abate in verità e umiltà nello spirito della regola e quando è necessario come decisione mediante voto; ricerca dello sguardo di Dio, del pensiero di Cristo e della sua Chiesa, della sua volontà per la nostra comunità, e il nostro ordine in questo momento storico della Chiesa e del mondo”.

Ecco perché - conclude m. Rosaria - occorre un cuore semplice e disponibile, che si lasci formare dal Signore mediante il suo Spirito, e perché unica nostra premura deve essere quella di divenire discepoli, persone mature e pacificate, capaci di ascoltare, di apprendere, di meravigliarsi.

Nella vita ci sono tanti motivi per scoraggiarsi, difficili da comunicare agli altri, ma che con il passare del tempo diventano dei veri e propri fardelli che si insediano nella psiche dell’individuo. Una persona così bloccata ha bisogno del sostegno di un contesto relazionale comprensivo. Grande importanza ha in questo la comunità.

Vi sono delle partenze che appartengono alla categoria della fuga, altre che conducono a una nuova nascita: si lascia “l'uomo vecchio per trovare un uomo nuovo”. la cura analitica fa parte di queste partenze costruttive. ma il viaggio è disseminato di trabocchetti, e quel che si scopre non è necessariamente quel che si cercava…

Mercoledì, 24 Maggio 2006 02:28

Ecumenismo spirituale (Gianfranco Brunelli)

Ecumenismo spirituale
di Gianfranco Brunelli


Il movimento ecumenico vive oggi una condizione di rapida trasformazione. Luci e ombre si bilanciano. Accanto ai dialoghi teologici e a una ricezione maggiormente condivisa, il movimento ecumenico ha bisogno di una nuova motivazione fondata sullo Spirito, cioè di una rinnovata spiritualità dell'ecumenismo.

È questo il giudizio che il card. w. Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, ha espresso aprendo l'Assemblea plenaria (Roma, 2-5.11.2003; Regno-doc. 21,2003,653). L'assemblea biennale del Pontificio consiglio è l'occasione di verifiche e di nuovi progetti (cf. Regno-att. 4,2001,127; 4,2002, 132). Allo svolgimento dei lavori concentrati sul tema della spiritualità di comunione, il card. Kasper ha affiancato anche un suo importante intervento dottrinale sul «carattere teologicamente vincolante» del decreto conciliare sull' ecumenismo Unitatis redintegratio (cf. Regno-doc. 21,2003,649 ss), conferendo sempre più al suo dicastero quel ruolo anche dottrinale che il concilio Vaticano II intese dargli.

Nel suo messaggio (3 novembre 2004), Giovanni Paolo II ha riconosciuto, nel quadro degli importanti risultati conseguiti, le presenti difficoltà e ha ribadito l'irreversibilità della scelta ecumenica: «Certamente, la via ecumenica non è una via facile. A mano a mano che progrediamo, gli ostacoli sono più facilmente individuati e la loro difficoltà è più lucidamente avvertita. Lo stesso traguardo dichiarato dei vari dialoghi teologici, in cui la Chiesa cattolica è impegnata con le altre Chiese e comunità ecclesiali, sembra in certi casi farsi persino più problematico. La prospettiva della piena comunione visibile può a volte ingenerare fenomeni e reazioni dolorose in chi vuole accelerare a tutti i costi il processo, o in chi si scoraggia per il lungo cammino ancora da percorrere. Noi tuttavia, alla scuola dell'ecumenismo, stiamo imparando a vivere con umile fiducia questo periodo intermedio, nella consapevolezza che esso resta comunque un periodo di non ritorno. Vogliamo superare insieme contrasti e difficoltà, vogliamo insieme riconoscere inadempienze e ritardi nei confronti dell'unità, vogliamo ristabilire il desiderio della riconciliazione là dove esso sembra minacciato da diffidenze e sospetti. Tutto questo può essere fatto, all'interno della stessa Chiesa cattolica e nella sua azione ecumenica, soltanto partendo dalla convinzione che non vi è altra scelta, poiché "il movimento a favore dell'unità dei cristiani non è soltanto una qualche 'appendice', che si aggiunge all'attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione" (Ut unum sint, n. 20; EV 14/2703)».

Aporie e nuove questioni

La crescita di consapevolezza ecumenica, tradotta nelle diverse Chiese - come hanno dimostrato i rapporti presentati per l'occasione sulla pratica spirituale comune tra le conferenze episcopali e i singoli organismi di dialogo e la diffusione nelle Chiese locali della settimana di preghiera per l'unità - indica un progressivo approfondimento e un'ampia condivisione a livello di popolo di Dio. La voce comune dei cristiani ha anche conosciuto nel corso del 2003 un'inattesa espressione in occasione della crisi irachena sui temi della pace e del diritto internazionale, con una inedita adesione al magistero del papa su questo punto.

Accanto alla crescita del movimento ecumenico si sono sviluppate anche tendenze di segno opposto, tali da suscitare nuove divisioni in seno alle Chiese: «Se da una parte si perviene a vincere gli antichi contrasti... dall'altra insorgono nuove divergenze, per la maggior parte dei casi in materia etica come I' aborto, il divorzio, l'eutanasia, l'omosessualità. Analogamente i problemi etnici, sociali e politici hanno spesso l'effetto di causare divisioni». Le tensioni tra le Chiese ortodosse autocefale, le nuove divisioni all'interno della Comunione anglicana, il proliferare di sette provenienti dalle comunità di tradizione riformata, le resistenze esistenti nella Chiesa cattolica nuocciono al dialogo.

Accanto a queste difficoltà di lunga durata, Kasper annota anche tre nuovi rischi: una pratica sempre più diffusa di «ecumenismo selvaggio»,frutto di superficialità, indifferenza, impazienza; la tentazione a un'impraticabile ripiegamento di tipo confessionale; infine, il proliferare delle sette con il loro «esclusivismo fanatico della salvezza». In questa situazione il rapporto tra teologia ecumenica e missionologia ha bisogno di essere ripensato. Sul piano delle relazioni con le chiese ortodosse, Kasper annota il cambiamento di clima nei rapporti con la Chiesa ortodossa in Grecia, Bulgaria e Serbia, mentre rimangono «intense e cordiali» le relazioni con il Patriarcato ecumenico. Con la Chiesa ortodossa russa i rapporti non sono peggiorati rispetto al 2001. Le questioni polemiche aperte sono le stesse esplose dopo il 1989: uniatismo, proselitismo, identificazione tra fede, cultura e nazione, libertà religiosa; mentre i problemi teologici circa la comprensione della Chiesa (autocefalia, territorio canonico, comprensione del termine Chiese sorelle) hanno mostrato nuovi approfondimenti e nuove difficoltà. Kasper auspica che tra Roma e Mosca si stabilisca una sorta di «codice di comportamento» e una collaborazione più stretta sui temi internazionali (Europa, Medio Oriente, pace).

Nell'insieme delle comunità ecclesiali occidentali le relazioni segnano passi significativi nel processo di ricezione della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione (1999), mentre nuove difficoltà sono sorte dopo la pubblicazione da parte cattolica della dichiarazione Dominus Iesus (2000) e dell'enciclica Ecclesia de eucharistia(2003). Le polemiche sul Kirchentag di Berlino (giugno 2003) hanno confermato le difficoltà.

I rapporti con la Comunione anglicana segnano un passaggio di grande difficoltà: emergenza di nuovi problemi in ambito etico e frammentazione interna alla stessa Comunione anglicana.

Il problema fondamentale con le comunità ecclesiali di tradizione riformata è quello di una diversa ecclesiologia che «conduce a diverse concezioni dello scopo ecumenico al quale si tende».Fino a quando non si saranno risolte le questioni ecclesiologiche è difficile immaginare passi ecumenici significativi. «Lo scopo ecumenico, dal punto di vista cattolico - ricorda Kasper - è la comunione piena e visibile nella fede, nei sacramenti e nel ministero gerarchico. Questa comunione, come mostra tra l'altro l'esempio delle Chiese orientali, considera una ricchezza la pluralità delle forme d'espressione delle diverse Chiese locali, a condizione che esse non comportino divergenze sostanziali. Da ciò si discosta il modello d'unità proposto dalla Concordia di Leuenberg (1973)».

Secondo tale modello, le Chiese confessionali adottano una forma di comunione ecclesiale che presuppone un consenso di principio circa la comprensione del Vangelo, pur lasciando sussistere professioni di fede diverse, Separate dal punto di vista confessionale e istituzionale, le Chiese sono in comunione per il pulpito e la santa cena, e riconoscono i rispettivi ministeri. In una diversa comprensione della comunione ecclesiale si motiva il no della Chiesa cattolica all'intercomunione.

Per Kasper è questa aporia che oggi condiziona il dialogo e che deve essere superata.

Spiritualità e modello trinitario

Da questa diversità è partita anche la riflessione di mons. Kurt Koch, vescovo di Basilea, a cui è stata affidata la relazione principale, intitolata: «Riscoperta dell' anima di ogni ecumenismo (Unitatis redintegratio, n. 8). Necessità e prospettive di un ecumenismo spirituale» (Regno-doc. 21,2003, 658).

Per Koch «chiarire la comprensione della Chiesa e dell'unità è oggi il principale punto alI'ordine del giorno ecumenico»; in secondo luogo «la ricerca di una comprensione della natura della Chiesa difendibile dal punto di vista ecumenico deve essere perseguita come un processo spirituale». A ciò corrisponde in primo luogo «il compito spirituale permanente, suscettibile di distinguere tra ciò che è divino nella Chiesa e ciò a cui essa può rinunciare... Come per la spiritualità cristiana nella quale la distinzione degli spiriti è centrale, così deve essere per la spiritualità dell' ecumenismo».

Accanto alla preghiera come sorgente e al dono dello Spirito, Koch ha indicato il modello trinitario dell'unità: «L'unità ecclesiale ed ecumenica è (...) fondata sulla comunione trinitaria (...). La Chiesa può essere un' icona della Trinità soltanto se essa concepisce la sua unità, anche in una prospettiva ecumenica, non come uniformità e certamente neppure come pluralismo disarticolato, ma - al di là del modalismo e del triteismo - come un'unità nella diversità e come diversità nell'unità. L'obiettivo del movimento ecumenico è e resta I'unità visibile, ma non come Chiesa unitaria».

La spiritualità ecumenica della comunione è a doppio senso di marcia. Nessuna Chiesa è così povera da non poter dare un suo contributo peculiare e nessuna Chiesa è così ricca da non avere bisogno di essere arricchita dai carismi di altre Chiese.

L'ecumenismo riposa ancora oggi sul reciproco riconoscimento del battesimo. Esso invita a una pedagogia della santità, ha ricordato Koch richiamando Martin Lutero, che ha qualificato il battesimo del cristiano come «il suo abito di tutti i giorni che egli deve sempre indossare». «Per questo motivo, se vivi in pienezza, entri nel battesimo, che non significa soltanto vita nuova, ma che agisce, inizia, incita».

Non si tratta dunque della conversione degli altri, ma della propria conversione, la quale presuppone la disposizione interiore a riconoscere in modo autocritico le proprie debolezze e mancanze. Entro tale atteggiamento di principio, suggerisce Koch, è bene misurare i passi che ciascuno può e potendo deve fare.

È sulla scorta di quest'ultima affermazione che va inteso anche il testo che il card. Kasper ha consegnato a L'Osservatore romano il 9 novembre, anticipando e aprendo la celebrazione del 40° del decreto conciliare Unitatis redintegratio (Regno-doc. 21,2003,649).

Nel testo di Kasper è chiara la volontà di segnare una ripresa forte da parte cattolica dello spirito conciliare, definito spirito ecumenico. Riproponendo la troppo trascurata tesi che il decreto sull' ecumenismo vada interpretato assieme alla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium e questa con quello, Kasper addita il compito di un approfondimento della ecclesiologia di comunione nella Chiesa cattolica. «Nella mutata situazione ecumenica - dice Kasper - noi abbiamo ogni motivo per far sì che Unitatis redintegratio sviluppi la sua vitalità tanto nella teologia quanto nella prassi».

(da Il Regno, 22, 2004)


Mercoledì, 24 Maggio 2006 02:17

Tracce femminili nell'Islam (Adel Jabbar)

Nel riflettere sulla condizione della donna nei paesi musulmani, tema oggi molto discusso, è importante saper esplorare i vissuti reali, dentro i quali le donne cercano di interpretare ed elaborare realtà e situazioni, consapevoli dei limiti che vengono loro posti, delle convenzioni e dei retaggi culturali che spesso le ostacolano, lì come del resto anche altrove.

A vent'anni dal concilio si celebrò un sinodo straordinario dei vescovi (1985). Il passo che riguarda il bilancio liturgico constata che il rinnovamento «è stato accolto con gioia e con frutto dai fedeli», ma sottolinea che ora bisogna puntare alla «partecipazione interiore e spirituale».

La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(seconda parte)
di Carlo Molari


4. La fede di Gesù: oggetto e dinamiche

Se ora ci chiediamo quale fosse l’oggetto della fede di Gesù, dobbiamo rispondere che Egli ha esercitato e suscitato la fede nella venuta del Regno di Dio e lo ha vissuto con fedeltà “sino alla fine”. Gesù ha creduto alla vicinanza di Dio e alla venuta del suo Regno.

Quando Gesù ha iniziato la sua attività pubblica lo ha fatto con la convinzione di poter avere successo e di ottenere un cambiamento nella vita religiosa del suo tempo. Poi progressivamente ha suscitato reazione negative e resistenze profonde. Allora ha riflettuto sul da farsi, si è confrontato con la Scrittura, ha pregato a lungo e ha coinvolto i suoi nella preghiera (prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare Lc. 9, 28). Infine ha deciso di continuare il cammino e di salire a Gerusalemme (cfr Lc 9, 51). Si convinse che per mostrare la verità del Vangelo annunziato, non gli restava altra possibilità che viverlo fino in fondo e attendere da Dio il segno della sua fedeltà. Fu quindi una necessità di carattere storico a convincerlo di “amare sino alla fine” (cfr Gv 13,1). Se non avesse consentito a Dio di mostrare la verità del Vangelo che egli aveva annunziato, tutto sarebbe finito con la sua condanna. Quale fosse poi il segno della conferma divina Gesù l’aveva dedotto dalla tradizione sapienziale (cfr Sap 2) e dagli scritti profetici in particolare dai carmi del Servo, dove si parlava della luce che il Servo avrebbe visto, delle moltitudini che l’avrebbero riconosciuto. Jon Sobrino nei primi anni ’90 osservava: “per strano che possa sembrare adesso, la scoperta del regno di Dio come ciò che è al centro della vita e dell’interesse di Gesù è relativamente recente, di poco meno di un secolo fa. Personalmente ritengo che tale scoperta sia stata la più importante negli ultimi secoli per la Chiesa e per la teologia, e le sue conseguenze si sono fatte notare in tutti i settori teologici fondamentali”. Applicando la riflessione alla chiesa attuale il teologo gesuita che opera in S. Salvador continua: “proviamo a farci, in via puramente ipotetica, la seguente domanda: sarebbe identica a quella che è ora la missione della Chiesa.., se Gesù pur essendo stato risuscitato dal Padre e pur essendo stato proclamato dogmaticamente vero Dio e vero uomo, non avesse annunciato il regno di Dio? La risposta è chiaramente no, ed è quanto dimostra la storia recente della chiesa”. (54)

Percorrere il cammino di fede di Gesù ci consente di entrare dentro alla sua spiritualità e proseguirla nel tempo. Ci consente soprattutto di continuare la sua missione. Non è indifferente per la missione della chiesa il fatto che Gesù abbia creduto nella venuta del Regno e l’abbia annunziata. La chiesa attualmente nella fede non annuncia semplicemente che Gesù è morto e risorto, ma che è morto per la fedeltà al Regno in cui credeva ed è risuscitato per la carica d’amore che la sua fede in Dio gli ha consentito di esercitare sulla croce. Per questo la chiesa continua ad annunciare il Regno di Dio che viene nella storia.

Walter Kasper per chiarire come in Gesù Cristo ci viene definitivamente mostrato non solo “ciò che Dio è per l’uomo, ma anche ciò che l’uomo è per Dio”, (55) tra le altre indicazioni offre anche quella relativa alla fede di Gesù. (56) Già precedentemente, aveva sostenuto che “la preghiera di Gesù ci esprime la sua fede e il suo amore… Nella sua obbedienza Gesù si svuota interamente per farsi riempire soltanto da Dio; nella sua fede e gli è il modo d’essere dell’amore di Dio. Gesù crede totalmente e quindi è totalmente pervaso dalla potenza di Dio e partecipa all’onnipotenza divina, un’onnipotenza d’amore”. (57) Jacques Guillet conclude il suo volume sulla Fede di Gesù con una formula molto efficace: “La fede che ci salva non è la nostra, è la fede di Gesù Cristo”. (58) Anche Sequeri ritiene che “è sul fondamento di quella fede, e nel suo esito nella risuscitazione di Gesù dai morti, che la nostra fede in lui realizza, per suo tramite, la comunione con Dio che ci libera dal male e ci introduce nella vita eterna di Dio”. (59)

Wilhelm Thüsing, concludendo lo studio sulla fede di Gesù, già citato, indica i molti possibili riflessi della figura di Gesù come credente, sulla teologia: “possiamo concepire l’attribuzione a Gesù della qualità di ‘colui che crede’ come cifra significativa indicante una realtà di fatto centrale della cristologia: il fatto cioè, che l’orientamento soteriologicamente così determinante del Gesù risuscitato verso Dio… viene fondato nella vita terrena di Gesù. Da questa enunciazione centrale della teologia cristologica va scorta sia la relazione della cristologia alla soteriologia,.. sia alla ecclesiologia, alla escatologia e alla storia della promessa dell’Antico Testamento”. (60)

Non possiamo qui articolare tutti i passaggi, ma credo non sia difficile valutare l’incidenza che una simile prospettiva può esercitare su altri ambiti della teologia. (61)

5. Conclusione: una nuova tappa della spiritualità cristiana.

Per molti secoli la comprensione della spiritualità di Gesù è stata impedita da pregiudizi teologici. Può sembrare sorprendente il fatto che per molti secoli la riflessione su Cristo e la pietà cristiana siano state deformate da limiti così incidenti. La stessa interpretazione della morte di Gesù e della sua fedeltà all’amore “sino alla fine” è stata falsata dal presupposto che egli già conoscesse il suo destino.

Questo non ha certo impedito lo sviluppo di forme autentiche di spiritualità cristiana. Occorre ricordare infatti che la potenza della grazia è tale che anche attraverso modelli inadeguati riesce ad esprimere la luce e la grazia sufficienti a far crescere figli di Dio. Ciò che importa non sono i modelli attraverso i quali si interpretano le esperienze, bensì le offerte vitali accolte e le dinamiche messe in moto. È innegabile tuttavia che i modelli possono impedire alcuni sviluppi e in certe situazioni divenire ostacoli gravi.

Credo che la pietà cristiana oggi possa e debba subire una svolta notevole man mano che “tenendo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb. 3,1; 12,2) la comunità ecclesiale impara a percorrere il suo cammino di fede e ad assimilare i suoi criteri di scelta. Una fase nuova può aprirsi nella storia della teologia, della pietà e della spiritualità cristiana. Percorrendo il cammino di fede che Egli ha percorso non solo siamo in grado di “avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (cfr Fil 2,5), di “avere cioè il suo pensiero” (cfr 1 Cor 2,16) ma anche di sviluppare e far fiorire nel nostro tempo virtualità del suo Vangelo non ancora espresse

Oggi siamo in grado di fare un notevole passo avanti verso la scoperta dell’autentica spiritualità di Gesù, di penetrare il segreto della sua preghiera, di cogliere in modo più profondo la portata della sua fedeltà al Regno di Dio e di capire meglio l’annuncio del suo Vangelo.

A questa possibilità corrisponde il compito di testimoniare l’esito salvifico della via tracciata da Gesù, l’efficacia del suo Vangelo, di mostrare, cioè, a quale ricchezza può condurre lo Spirito che il risorto continua a effondere su coloro che, anche oggi, vivono la sua Parola. Non possiamo tradire la responsabilità che grava sulla nostra generazione. È in gioco la sopravvivenza dell’umanità.


Note

54) Sobrino J., Gesù Cristo liberatore, Cittadella ed., Assisi 1995 pp. 185 s.

55) Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 297.

56) “La fede è sinonimo di salvezza dell’uomo.. La realtà della salvezza, così come ci è giunta in Gesù Cristo, non consiste in altro se non nel fatto che, in lui, Dio è penetrato nella situazione di non salvezza del genere umano e così ha segnato un nuovo inizio, ha creato un’alternativa. E non si tratta di un processo giocato al di sopra delle nostre teste, ma nella e attraverso l’obbedienza umana di Gesù, il quale si aprì interamente alla venuta del Regno di Dio, si svuotò completamente per lasciarsi riempire dell’esistenza di Dio. Così l’obbedienza di Gesù, la sua disponibilità a Dio e agli altri, è il modo d’essere che la salvezza assume concretamente nella storia… In ultima analisi questa non è altro che una riformulazione del termine «fede» biblicamente intesa… La fede è l’essere nella recezione e nella obbedienza” Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 299 (corsivo mio).

57) Id. ib., pp. 150 s.

58) Guillet J., La fede di Gesù Cristo, Jaka Book, Milano 1981 p. 179.

59) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a.c. p. 16.

60) Thüsing W., o. c., p. 265.

61) Per scelta mi sono limitato all’ambito cattolico. Ma non posso terminare questa breve esposizione senza ricordare Gerhard Ebeling. Il professore evangelico di Tubinga nello studio Gesù e fede (ZThK 55(1958) pp. 64 110; tr. italiana in Parola e fede, Bompiani Milano 1974 pp. 77-126) riconosce “che Gesù non può essere distanziato dalla fede da lui predicata. Egli si identificò talmente con essa, che non ne parlò espressamente, ma si impegnò a suscitarla negli altri” (ib p. 114). Wolfanrg Panemberg lo riassume in modo efficace: “Gesù è il credente per eccellenza, che si abbandona immediatamente all’avvenire divino. Gesù è «la quintessenza della fede», e la fede è «la quintessenza dell’opera di Gesù». In tal modo Gesù è per Ebeling il «testimone della fede». Ponendosi come nuova autocomprensione dell’uomo riallanciandosi a Gesù stesso, alla relazione cioè che corre tra Gesù e il Padre, la fede è difesa dal sospetto di essere «priva di oggetto».” Pannemberg ritiene che “Permane.. legittimo lo sforzo di Ebeling, tutto teso a mettere in rapporto la struttura della fede cristiana non solo con il messaggio di Gesù sulla prossimità di dio e del suo Regno, ma anche con il comportamento proprio, personale di Cristo” Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana Brescia 1974 (l’originale è del 1964) p. 257.

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La fede di Gesù
Riflessioni sulla teologia cattolica (1)
(prima parte)
di Carlo Molari

Fino a qualche decennio fa i teologi cattolici non parlavano della fede di Gesù e, se qualcuno affrontava il problema, lo faceva per negare che Gesù nel suo pellegrinaggio terreno avesse esercitato la fede teologale. Si pensava infatti che Gesù godesse di una conoscenza immediata di Dio e in Dio di tutta la realtà creata, così da non poter esercitare la fede: la Visione glielo impediva. Alcuni giungevano a negarGli anche l’esercizio della speranza teologale. Gesù, che già possedeva la pienezza della grazia, non poteva attendere altro da Dio. (2) S. Tommaso in un primo momento sosteneva l’opinione secondo cui Gesù non avrebbe neppure avuto vere conoscenze sperimentali perché anch’esse erano infuse, poi cambiò idea, (3) ma a proposito della fede continuò a negarla con questa motivazione: “Oggetto della fede, come si è detto nella seconda parte (II-II q. 4 a. 1) è la realtà divina non vista (res divina non visa). Ora l’abito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dall’oggetto. Se dunque si toglie l’inevidenza dalla realtà divina, viene meno la fede. Ma il Cristo nel primo istante del suo concepimento ebbe piena visione dell’essenza di Dio... Dunque non ci può essere stata fede in lui” (4).

Tutti i manuali scolastici, fino oltre la metà del secolo scorso hanno ripreso fedelmente questa dottrina. Anzi alcuni teologi giunsero a conclusioni, a dir poco, strane. La scuola carmelitana di Salamanca, ad esempio, attribuì a Gesù la conoscenza di tutte le verità naturali al punto da pensare che egli “non sia stato soltanto il migliore dialettico, filosofo, matematico, medico, moralista o politico, ma anche musicista, letterato, oratore, artigiano, agricoltore, pittore, navigatore, soldato e così via” (5). Senza giungere a questi eccessi altri hanno sostenuto che Gesù fin dall’inizio della sua esistenza terrena, conosceva almeno tutte le cose che riguardavano la sua missione o tutto ciò che in qualche modo aveva relazione con la storia della salvezza.

In questa relazione vorrei mostrare come progressivamente i teologi sono giunti a parlare della fede di Gesù e indicare, in modo sommario, quali profonde conseguenze questo cambiamento ha nell’attuale riflessione sul cammino storico di Gesù, sulla fedeltà all’annuncio del Regno e sullo sviluppo della fede nei suoi discepoli.

Lo faccio in cinque punti: 1. Un po’ di storia recente. 2. Gli argomenti di coloro che difendono la dottrina tradizionale. 3. I riferimenti biblici e la coerenza dogmatica di coloro che parlano della fede di Gesù. 4. Alcune riflessioni sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche. 5. Alcuni riflessi nell’interpretazione dell’esperienza di Gesù e nella vita spirituale dei suoi discepoli.

1. Un po’ di storia recente.

Fino agli anni ’60 la teologia e il Magistero della chiesa cattolica attribuivano a Gesù un triplice modo di conoscere la realtà: la scienza beatifica, propria dei santi che godono della visione di Dio e in Lui conoscono tutte le cose, la scienza infusa, propria di alcune persone che, in vista di una particolare missione nella storia, in certe circostanze ricevono doni straordinari dello Spirito, e la scienza sperimentale, ottenuta con l'uso dei sensi e con la riflessione sulle esperienze quotidiane.

Forti resistenze a queste opinioni tradizionali apparvero alla fine del secolo XIX e agli inizi del sec. XX negli scritti dei ‘modernisti’. Nel Decreto Lamentabili (3 luglio 1907) il S. Uffizio condannava la loro dottrina riassunta in questa formula: “non è possibile conciliare il senso naturale dei testi dei vangeli con ciò che i nostri teologi insegnano riguardo alla coscienza e alla scienza infallibile di Gesù Cristo” (6). Condannata era pure l’opinione secondo cui: “il critico non può assegnare a Cristo una scienza illimitata, se non nell'ipotesi, che non è possibile concepire storicamente e che ripugna al senso morale, in cui Cristo abbia potuto avere come uomo la scienza di Dio e ciononostante non abbia voluto comunicare la cognizione di tante cose ai discepoli e alla posterità” (7). Un altro decreto dello stesso dicastero, il 5 giugno 1918, mostrava meno rigore sostenendo solo che si può insegnare con tranquillità (tuto doceri potest) l’opinione che “nell’anima del Cristo vivente fra gli uomini vi sia stata la scienza che possiedono i beati” (8). Ancora nell’Enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943) Pio XII affermava che Gesù, in virtù di “quella visione beatifica di cui godeva fin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina”, aveva un’esplicita conoscenza degli uomini che sarebbero appartenuti al suo corpo mistico in ogni tempo e in ogni luogo. (9) Nel 1965, quando già, come vedremo, era iniziato un cammino teologico in altra direzione, un teologo italiano scriveva con molta decisione: “la dottrina che insegna che l'anima del Cristo dal primo istante della sua creazione godeva della visione beatifica, è dottrina comune nell’ordinario e universale insegnamento della chiesa docente e nel pacifico possesso della fede della chiesa discente. Deve dunque ritenersi come dottrina cattolica, e perciò di fede divina, mentre l’opinione contraria è da ritenersi almeno «haeresim sapiens», se non addirittura come eretica” (10).

In questi ultimi decenni, però, si è accentuata sempre di più il divario fra coloro che continuano a difendere la posizione tradizionale, più o meno adattata alle nuove acquisizioni bibliche, e coloro che, invece, riconoscono in Gesù un’autentica vita di fede.

Già all'inizio degli anni '960 Karl Rahner, riportando la dottrina scolastica sulla coscienza umana di Cristo, osservava: “Agli orecchi di noi moderni, questa affermazioni suonano a tutta prima con un timbro quasi mitologico. Sembrano contraddire all'autentica umanità e storicità del Signore; paiono essere in contrasto a prima vista insanabile con il dato scritturale che notifica una coscienza in fase di graduale sviluppo in Gesù (Lc 2,52), che ci mostra un Signore in atto di dichiarare di non sapere nulla proprio su cose decisive in materia soteriologica (Mt 24,36; Mc 13,32), che ci addita un Gesù influenzato sin nell'intimo dalla spiritualità e dalla religiosità del suo tempo” (11). K. Rahner da parte sua ha attribuito a Gesù una certa conoscenza immediata di Dio, ma di tipo non concettuale e quindi una conoscenza irriflessa, che non si traduceva, cioè, in concetti ed era perciò compatibile “con una genuina esperienza umana”, con l’ignoranza e “con un’autentica evoluzione spirituale e religiosa” (12). Rahner ha così offerto gli elementi per superare la frequente tenenza ad attribuire caratteristiche divine alla natura umana di Gesù, che egli stesso considerava un residuo dell’eresia monofisita (13), e per compiere passi ulteriori. Egli stesso aveva partecipato alla pubblicazione di un volume, in cui un suo discepolo difendeva con argomenti articolati la fede di Gesù. (14) In uno scritto successivo riconosceva che la teologia tradizionale non dava risalto, come invece è necessario fare, al “fatto che Gesù fosse uno che credeva, sperava, cercava ed era tentato, uno che si arrendeva inevitabilmente di fronte alla incomprensibilità di Dio” (15). L. Malevez, richiamandosi al metodo e ai principi di K. Rhaner ne svilupperà le implicazioni, applicandoli al cammino di fede di Gesù. (16)

Negli stessi anni (1961) anche Hans Urs von Balthasar ha affrontato in modo diretto il problema della fede di Gesù. (17) Richiamandosi a M. Buber, (18) egli ha valorizzato la distinzione tra fede come atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, di cui Abramo era tipico rappresentante (partì senza sapere dove andava Eb. 11,8) e la fede dei cristiani, che si configurò ben presto come annuncio/accoglienza di un evento/verità da credere. Egli sostiene che il rapporto di Gesù storico con Dio non ha carattere beatifico, ma si esprime con un vero atteggiamento di fede che ha però un carattere singolare ed è accompagnato da una particolare conoscenza della sua condizione filiale e della sua missione. Egli riconosce che “questo atteggiamento prototipico è stato nel suo foro interiore così perfetto e quindi così inesprimibile che il designarlo con lo stesso termine in uso per l’imitazione che ne facciamo noi, rischia di sopprimere la distanza fra l’uno e l’altro” (19). In un tempo successivo, ammette la rilevanza della tradizione circa la visione beatifica, ma conclude che anche l’eventuale particolare conoscenza che Gesù aveva di Dio, in ordine alla sua missione, non gli impediva, anzi implicava l’esercizio della fede in Lui. (20)

I biblisti d’altra parte continuavano a mettere in luce che l’esistenza di Gesù come appare dai vangeli, è molto diversa da quella che i teologi descrivevano nelle loro manuali e nelle loro riflessioni. Egli, infatti, “cresceva in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52), ha cambiato opinione e non di rado ha assunto, come si è espresso Raymond. Brown “le idee inadeguate, anche erronee del suo tempo” (21).

2. Argomenti attuali in difesa della dottrina tradizionale

Nonostante le sollecitazioni dei biblisti e di molti teologi, la dottrina tradizionale ha conservato i suoi difensori. I teologi che oggi difendono la dottrina tradizionale hanno adattato gli argomenti alle acquisizioni bibliche. Nel 1982 la Pontificia Accademia di S. Tommaso dedicò una sessione al tema della fede di Gesù. Tutti, un biblista, un patrologo e un teologo sistematico, vi difesero la dottrina tradizionale. Gli atti sono stati pubblicati in un numero speciale della Rivista Doctor Comunis. (22)

Qualche anno fa Angelo Amato, allora professore di Cristologia all’Università salesiana di Roma, e ora Segretario della Congregazione per la Dottrina della fede, ha pubblicato un’ampia recensione di un volume che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Trento sulla fede di Gesù. (23) Egli, contro l’opinione dei relatori, non solo esamina e confuta le ragioni di chi crede di poter attribuire a Gesù una vera fede, ma argomenta dettagliatamente a favore della visione beatifica di Gesù. Secondo la sua convinzione, “si possono ridurre a tre le ragioni che fondano questa visione misteriosamente beatifica nel Gesù terreno, prepasquale: essa è un’esigenza intrinseca dell’unione ipostatica; (24) è il fondamento della sua missione rivelatrice e redentrice; non appare, infine, lesiva della sua autentica umanità, né rende meno dolorosa la passione, che il Verbo ha pienamente vissuto «in sacramento humanitatis»”. (25)

Commentando l’episodio della trasfigurazione scrive: “La luce che è Gesù non è quella profetica, ma quella stessa di Dio, che si manifesta anche nella sua umanità. La categoria teologica della visione beatifica del Cristo prepasquale non sembra quindi del tutto inadeguata per la comprensione della coscienza che Gesù ha di essere nel Padre”. (26) Concludendo poi l’analisi dei testi biblici scrive: “Il regime di esistenza terrena di Gesù, così come viene presentato nel NT, non sembra quindi escludere l’ipotesi di una visione beatifica. Né tale conclusione pregiudicherebbe la realtà e l’impegno di sofferenza del Figlio nella sua passione e morte”. (27) Egli pertanto considera “aprioristico il rifiuto” da parte di molti teologi attuali, della “visione immediata e beata del Padre nel Cristo prepasquale”. (28)

Quanto alla natura della visione egli osserva: “questa conoscenza immediata di Dio è certamente atematica, ma non per difetto, bensì per eccesso. Essa, infatti, è intrinsecamente ineffabile, perché «extracategoriale» e «metaconcettuale». Supera cioè per la ricchezza e l’inesauribilità del suo contenuto tutte le categorie concettuali del linguaggio umano. Più che indeterminazione atematica è quindi superdeterminazione e superconcentrazione tematica. Per cui paradossalmente la tematizzazione di questa visione mediata in categorie e linguaggio umano non rappresenta un progresso e un arricchimento, bensì una vera e propria kénosi e una involuzione, perché si va dal «di più» della conoscenza al «meno» della espressione e della formulazione. Di conseguenza l’indispensabile concettualizzazione, che questa visione sopracategoriale ha dovuto subire mediante la cosiddetta «scienza infusa», costituisce un misterioso processo kenotico. Il Cristo terreno vive in sé il passaggio dalla ricchezza della visione al continuo e intrinseco depauperamento della sua traduzione concettuale”. (29)

Amato conclude la sua analisi critica con l’affermazione: “La risposta allora alla domanda se in Gesù ci sia stata fede è negativa, sia da un punto di vista biblico, che da quello teologico. Nel NT Gesù non è mai presentato come il primo credente o come il modello della fede (Abramo per l'AT e Maria per il NT lo sono), bensì come colui che è la fonte e il fine della fede dei discepoli. Propriamente parlando, Gesù non ha la fede, ma suscita la fede. Se la nostra fede cristiana è fede in Gesù Cristo, Gesù non ha potuto avere la fede”. (30)

Torneremo più avanti sulla consistenza di queste argomentazioni. (31)

3. La fede di Gesù: argomenti biblici e coerenza dogmatica

In questi ultimi decenni è diventato sempre più folto il gruppo dei teologi che rifiutano l’opinione tradizionale e parlano della fede di Gesù. Il cambiamento non è stato improvviso ma è avvenuto a piccoli passi. Alcuni teologi hanno ammesso l’esercizio della fede anche nello stato di gloria; (32) altri hanno attribuito a Gesù una particolare intuizione di Dio compatibile con la fede, (33) altri hanno accentuato la dimensione filiale di Gesù e il corrispondente atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, accompagnato da una particolare intuizione di Dio. (34) Infine altri sia biblisti che teologi senza difficoltà parlano di un autentico cammino di fede di Gesù, senza tentativi di conciliazione con la tradizione teologica. (35) Essi negano a Gesù conoscenze speciali non derivate dalla sua esperienza umana sperimentale o spirituale e gli attribuiscono un’autentica vita di fede, che è norma per il nostro cammino. In questo senso, secondo le formule della lettera agli Ebrei, Gesù è “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1), “iniziatore e consumatore della nostra fede” (Eb.12, 2). Per costoro tutte le argomentazioni addotte dai teologi dei secoli scorsi, sia quelle di ispirazione biblica che quelle dogmatiche, erano valide solo se riferite alla condizione gloriosa di Cristo, ma non alla sua esistenza terrena.

Non mi fermo ad esaminare le varie posizioni. (36) Vorrei piuttosto presentare gli argomenti addotti sia quelli biblici (3.1) che quelli dogmatici (3.2). In un quarto paragrafo vorrei poi proporre una breve riflessione sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche.

3.1. Argomenti biblici.

Abitualmente tutti affermano che nella Scrittura Gesù non è mai soggetto del verbo pisteuo, non si dice cioè che Gesù ha esercitato la fede o che ha creduto come si dice di Abramo o di Maria. Ma questo argomento negativo non è sufficiente a dimostrare l’assunto tradizionale. Vi sono infatti nel Nuovo Testamento numerose indicazioni relative all’esercizio della fede di Gesù.

Wilhelm Thüsing in un volume scritto insieme a K. Rahner scrive: “Della fede di Gesù stesso si parla nel NT almeno in due scritti, il Vangelo di Marco e nella lettera agli Ebrei; inoltre io credo di poter dimostrare l’esistenza di questo tòpos anche in Paolo”. (37) Del Vangelo di Marco egli cita l’episodio del ragazzo epilettico del cap. 9 (vv.14-29). Il Padre del ragazzo dice a Gesù: “se tu puoi fa qualcosa”. Gesù riprende la formula e, quasi riflettendo tra sé e sé esclama: “se tu puoi. Tutto è possibile per chi crede” (Mc. 9,23). Thüsing commenta: “In questo collegamento logico, soltanto Gesù può essere inteso come colui che crede, al quale, appunto attraverso la fede, la guarigione è possibile. Una conferma di ciò la troviamo alla fine della pericope, nel versetto 29, dove Gesù designa la preghiera come condizione dalla quale dipende la possibilità o l’impossibilità della guarigione”. (38) Anche Jon Sobrino che accetta questa argomentazione scrive: “In questo passo «chi crede» non è altri che Gesù stesso, il quale compie infatti il miracolo in base alla propria fede. Lo conferma il v. 29: «Questa specie di demoni non si può scacciare se non con la preghiera»: gli esegeti equiparano questa preghiera alla fede. Ciò che qui si afferma direttamente è dunque il fatto che Gesù possedette la forza proveniente dalla fede, mentre egli stesso viene indirettamente dichiarato come colui che ha fede.. Gesù - così almeno ha interpretato Marco- fa riferimento alla propria fede e viene dichiarato uomo di fede”. (39) L’argomentazione di Wilhelm Thüsing viene citata anche da Walter Kasper: “Qui la fede viene.. considerata come partecipazione all’onnipotenza di Dio e quindi come una capacità di ridonare la salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano, dovremmo convenire che soltanto Gesù qui è «colui che crede» e che solo lui, proprio in forza della sua «fede», è capace di sanare… Nella sua radicale obbedienza Gesù è quindi la radicale originarietà da Dio e il radicale riferimento a Lui. Egli non è nulla da sé ma tutto da Dio e per Dio. È quindi la forma vuota, lo spazio aperto all’amore di Dio che si comunica.. La successiva cristologia della figliolanza non è altro che l’interpretazione e traduzione di ciò che si trova nascosto nell’obbedienza e donazione filiali di Gesù”. (40)

Non ci sono eccessive difficoltà a riconoscere la convinzione che secondo la Lettera agli Ebrei, Gesù abbia esercitato la fede. Egli viene riconosciuto “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1) e “iniziatore e consumatore della fede” (Eb 12,2). L’autore riconosce che Gesù aveva introdotto una modalità nuova nell’esercizio della fede in Dio, aveva aperto una via particolare. I discepoli di Gesù erano appunto designati “quelli della via di Cristo” (cfr Atti 9,3). D’altra parte la stessa Lettera osserva che Gesù aveva imparato “l’obbedienza (= la fede, l’ascolto) dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (= che hanno fede in Lui)” (Eb., 5,8s.). Gesù ha reso così possibile un nuovo tipo di esperienza di Dio. “Si tratta dell’esperienza che la πίστις, in quanto fiducioso abbandonarsi al Dio della promessa, in quanto orientamento e in quanto resistenza nella situazione di tentazione, è possibile se si leva lo sguardo a colui che, in quanto credente (Eb 12,2) non solo incomincia l’esperienza di fede (come iniziatore oppure condottiero [α̉ρχηγός] della fede, ma anche la perfeziona”. (41) “Questo tuttavia non va inteso in maniera puramente esemplare, bensì prototipa e originaria: come colui che ha vissuto questa ‘fede’ in modo singolare e la cui fede adesso è pervenuta allo stato di ‘perennità’, egli da ai suoi la forza per questa fede – cioè (secondo il contesto di Eb. 12) per «la corsa senza posa» verso la meta della promessa”. (42)

Quanto a Paolo è interessante notare il valore di una sua formula singolare: πίστις Χριστoυ̃: fede di Cristo. Essa è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. (43)

Non è questo il luogo per una esegesi particolareggiata dei testi citati. (44) Presento solo velocemente il ventaglio delle interpretazioni e chiarisco la ragione di coloro che argomentano a favore della fede personale di Gesù.

Possiamo raggruppare le interpretazioni del sintagma genetivale πίστις Χριστoυ̃ in quattro gruppi:

a. senso oggettivo: la fede in Cristo. È questa l’interpretazione più tradizionale comune ai Padri greci, agli occidentali come S. Agostino e S. Tommaso. Anche Lutero interpreta Paolo in senso oggettivo. I commentari e le traduzioni più diffuse (la traduzione CEI sia nella prima redazione che nella recente revisione) interpretano la formula come la fede in Gesù Cristo.

b. Senso soggettivo: la fede esercitata da Gesù nei confronti del Padre; lo stile della sua fiducia in Dio, che ha influito sui discepoli e ha suscitato la loro fede. Diversi esegeti e teologi attuali come vedremo, interpretano a formula in questo senso.

c. Senso genetico o di autore: la fede suscitata da Cristo, sia nei confronti di Dio (perché da lui esercitata) sia nei suoi confronti: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv. 14,1).

d. Senso complesso: che racchiude diversi significati intrecciati in virtù dell’unione profonda che il discepolo ha con Cristo perché guidato dal suo Spirito. R. Vignolo la chiama fede di relazione e la descrive con queste parole: “fede attuata, istituita da Cristo, meglio ancora fede portata da Cristo; intendendo l’attuazione vuoi a Cristo come singolare soggetto di fede, vuoi a Cristo come istituente una fede correlata a lui, affidabilmente fondata su di lui”. (45) Egli osservando che “il sintagma così inteso svolge un ruolo di raccordo privilegiato nel contesto del pensiero paolino” ricorda in modo sommario altre interpretazioni complesse. (46)

Roberto Vignolo nel suo articolo molto attento ed accurato, osserva che “percentualmente nel corpo paolino largamente inteso (con eccezione di Eb. e prescindendo dai casi direttamente in questione) πίστις è seguita 29 volte da genitivo soggettivo e solo 3 volte da genitivo oggettivo. Evidentemente i genitivi di Rom 3,3; 4, 12.16 sono tutti soggettivi”. (47)

In conclusione credo che non si possa escludere il riferimento soggettivo nelle formule paoline citate. Altrimenti Paolo avrebbe scelto l’espressione πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃.

3.2. Coerenza dogmatica.

Tutte le argomentazioni, sia di carattere biblico che razionale, addotte dai teologi che difendono la dottrina tradizionale, valgono per lo stato glorioso di Cristo e non per la sua esistenza terrena. Argomentare ad es. che Cristo, come principio della beatitudine dei santi, deve possedere in sé, ciò che dona ai beati, ha una certa legittimità solo se riferita a Cristo co­stituito Messia e Signore (At. 2, 36), ma non vale per l'esistenza terrena di Gesù. Lo stesso può dirsi dell'argomentazione secondo cui Gesù deve possedere la pienezza della grazia (cfr. Gv.1,14) che comunica, o che in Lui “sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col. 2,3).

Molte sono le ragioni che hanno determinato l’attribuzione a Gesù della visione beatifica e alla conseguente negazione della fede. Ne ricordo alcune per rendere conto della deformazione subita dalla cristologia e dalla spiritualità.

In primo luogo si concepiva l’incarnazione come un evento istantaneo, perfetto fin dall’inizio; mentre è un processo che si compie nella risurrezione, quanto Gesù è stato costituito figlio di Dio con potenza per opera dello Spirito ( cfr. Rom 1,4).

Si pensava inoltre che la conoscenza umana potesse essere acquisita per infusione di specie intelligibili indipendentemente dall’esperienza. Mentre, nella prospettiva antropologica unitaria, propria dell’attuale cultura, anche quando è dono divino ogni conoscenza viene sempre filtrata dall’esperienza che soggiace.

Infine non si teneva conto sufficientemente della definizione del Concilio di Calcedonia, non molto nota in Occidente. Affermare infatti che l’unione ipostatica debba indurre una conoscenza peculiare in Gesù, significa non riconoscere il carattere peculiare dell’Unione ipostatica, che, secondo il Concilio avviene “senza mutazione e senza confusione” (asynxùtos, atréptos). La natura umana perciò conserva le caratteristiche e le dinamiche proprie come la natura divina del Verbo conserva le proprie.

L’opinione che attribuisce a Gesù storico la visione beatifica si è potuta sviluppare quindi solo in ambito neocalcedonese o, come altri dicono, in “una prospettiva cristologica alessandrina”. (48)

Alcuni cambiamenti avvenuti nella teologia ci consentono oggi di prospettare diversamente il cammino di Gesù. P. A. Sequeri ne privilegia due: “L’elaborazione più approfondita del carattere integralmente storico della incarnazione e il ricupero della più sostanziale nozione di fede come principio di una relazione di totale adesione sostanziale a Dio, consentono oggi di apprezzare l’importanza di quella indicazione, senza pregiudizio (anzi) per la comprensione dogmatica della singolarità e unicità della identificazione di Gesù con il Figlio”. (49)

La cosa che sorprende è il tipo di vita umana che, secondo l’opinione tradizionale, Gesù avrebbe condotto nell’ipotesi che Egli fin dall’inizio, vedesse tutto in Dio. La sua attività si sarebbe svolta come la recita di un copione già scritto, pur coinvolgendo in profondità tutte le sue facoltà umane. Come un attore che entra nella sua parte in modo integrale e fedele, Gesù si sarebbe confrontato continuamente con la volontà del Padre e avrebbe fedelmente seguito la sua parola. Questo modo di leggere l’avventura di Gesù svuotava di significato molti racconti evangelici e caricava alcuni altri di messaggi aggiuntivi, spesso deformanti. Ne derivava una lettura della storia di Gesù per molti aspetti falsata. La riflessione di Gesù in ordine alle scelte da compiere, la valutazione delle circostanze e la sua preghiera per scegliere con coerenza non avevano alcuna rilevanza, anzi erano completamente trascurate dai biblisti e dai teologi. Maritain parlava di una “parodia di umanità”. (50)

Jon Sobrino osserva poi che nella scolastica si era giunti in modo sorprendente a considerare la fede come non costitutiva della condizione umana. Se non si attribuisce la fede a Gesù, egli scrive: “Lo si potrà chiamare uno di noi, ma nel profondo della realtà umana non è come noi. Si potrà far risaltare l’umanità di Gesù a vari livelli, personale-esistenziale, anche sociale e persino politico, ma se non si accetta la sua fede, Gesù resta infinitamente distante da noi e – paradossalmente per la teologia – significherebbe dire che la fede non è essenziale per definire la realtà umana”. (51)

La fede è la prima incidenza dell’azione divina nella vita degli uomini. Sarebbe insensato pensare che l’azione di Dio in Gesù non abbia suscitato l’atteggiamento di accoglienza e di ascolto che è appunto la fede. Anche la conoscenza di Dio in Gesù è stata progressiva: Egli ha imparato a pregare, a leggere le Scritture, a conoscere la tradizione del suo popolo. Attraverso questo percorso Egli è diventato “la figura riuscita del perfetto credente”. (52) La fede in Dio ha raggiunto in Gesù una ricchezza tale da consentire l’acquisizione definitiva del “Nome”. “In questa prospettiva la fede di Gesù diventa il principio stesso della modalità rivelativa e storica dell’incarnazione; e al tempo stesso il fondamento di quella relazione che attua il regno nella sua persona”. (53)

Infine nel considerare la fede e le sue dinamiche non ha senso opporre l’atteggiamento vitale di abbandono fiducioso e la conoscenza. Questa infatti si sviluppa solo all’interno dell’esperienza di fede che fiorisce nell’amore. Anche per Gesù vale il principio ricordato da Giovanni: “chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio” (1 Gv. 4,7). Anche Gesù è cresciuto nella conoscenza di Dio attraverso la vita teologale, l’esercizio cioè della fiducia in Dio che in lui fioriva come amore.


(continua)

Note

1) Dedico con gratitudine questa breve relazione alla memoria dell’amico scomparso il 13 corrente mese [luglio 2005], P. Dalmazio Mongillo O. P., profondo indagatore del mistero di Dio, e sempre attento con l’intelligenza del cuore ai problemi dell’uomo. Maestro efficace di dottrina e testimone fedele per la sapienza da contemplativo che lo abitava.

2) Pietro Lombardo ad esempio nega l’esercizio delle virtù della fede e della speranza “quia non aenigmaticam et specularem, sed clarissimam de ea (= della risurrezione futura) habuit cognitionem. Quia non perfectius cognovit praeteritam, qual intellegit futuram… nec tam fidem vel spem-virtutem habuit, quia per speciem videbat ea quae credebat” Liber Sentent. III, dist. 26. cap. 4.

3) Commentando le Sentenze di Pietro Lombardo S. Tommaso giovane sosteneva che la scienza acquisita non proveniva dall’esperienza bensì era “infusa per accidens” (In 3 Sent. D. 14, a.3, ac. 5 ad 3; d. 18 a. 3 ad 5um.). Nella Summa Theologiae si corregge (quamvis alibi aliter scripserim) e parla di una vera scienza acquisita attribuendo a Gesù “alcune specie intelligibili prodotte dall’intelletto agente e accolte dal suo intelletto possibile” (S. Th III q. 9, a. 4)

4) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae III, q. 7, a. 3.

5) Galot J., Chi sei tu o Cristo? L. E. F., Firenze 1977 pp. 317-318 cita il Cursus theologicus, Tratt. 221 De incarnatione, disp. 22, dub 2, 4 n. 29 (ed Paris-Bruxelles-Génève 1880) t. XV, p. 320. Egli conclude : « La visione beatifica del Gesù terreno manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura né dalla tradizione patristica” p. 324.

6) Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 32 DHü 3432 .

7) Decreto del S. Uffizio Lamentabili, 3 luglio 1907 n. 34 DHü 3434. Cfr. C. Porro, La controversia cristologia nel periodo modernista, Vengono 1971.

8) Decreto 5 giugno 1918 DHü 3645.

9) “Egli ha costantemente e perfettamente presenti tutte le membra del corpo mistico e le abbraccia con il suo salvifico amore” Pio XII Lettera Enciclica Mystici Corporis, AAS 36 (1943) p. 230 DHü 3812. Anche l’Enciclica di Pio XII sul Sacro Cuore, Haurietis acquas(1956) accenna a questi tipo di conoscenza di Gesù, DHü 3924. Oggi i teologi considerano questi riferimenti senza importanza dottrinale essendo incidentali, espressione delle opinioni comuni della teologia del tempo. “I cenni alla visione beatifica del Gesù terreno, contenuti nella Mystici corporis e nell’Haurietis acquas sono incidentali e non intendono definire un punto dottrinale” Forte B., Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della storia, S. Paolo, 1981 p. 201 n. 16. Cfr anche Galot J., Chi sei tu o Cristo?, Fiorentina, Firenze 1977 p. 327 n. 33.

10) Pesce Santi, É possibile la visione beatifica in un'anima viatrice, Catania 1965 p. 197. Le sue riflessioni vorrebbero illustrare l’esperienza mistica di Lucia Mangano (Trecastagni (Ct) 1896 - S. Giovanni La Punta (Ct) 1946), della Compagnia di S. Orsola. Le vengono attribuite esperienze mistiche interpretate come “visione beatifica in statu viae”.

11) Rahner K., Considerazioni dogmatiche sulla scienza e coscienza di Cristo, in Saggi di cristologia e di mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 201 (La conferenza è del 1961).

12) Rahner K., Considerazioni...., in o. c., p. 238. Rahner precisa che queste conoscenze acquisite sono “come tematizzazione oggettivante di questo originario e perenne contatto immediato on Dio, che si estrinseca nell’incontro con il proprio ambiente spirituale e religioso, nonché nella graduale conoscenza sperimentale della propria esistenza” ib.

13) Karl Rahner rilevava “qualche ideuccia docetistica e monofisitica... quando i cristiani parlano dell'incarnazione di Dio” (Teologia dell'incarnazione, in Saggi di cristologia e mariologia, Paoline, Roma 1965 p. 117); analogamente parlava di “una maniera monofisitica e criptoeretica” di intendere “la predicazione logica degli idiomi” (Problemi di cristologia d'oggi, ib. p. 58); sul rapporto con l’esegesi concludeva: “Se il monofisismo e il monotelismo...saranno veramente eliminati dalla nostra cristologia concreta e vissuta, non solo nelle formulazioni estreme della loro tesi ma anche nella nostra comprensione originaria e senza riserve religiose, riusciremo più facilmente ad instaurare un rapporto libero e piano sui risultati cui l’odierna esegesi è giunta a proposito del Gesù storico” La cristologia fra l'esegesi e la dogmatica, in Nuovi Saggi 4, Paoline, Roma 1973 p. 271. Il monofisismo, difeso da Eutiche, un archimandrita di Costantinopoli, attribuiva qualità divine alla natura umana di Cristo. Fu condannato nel quarto Concilio ecumenico a Calcedonia (451).

14) Rahner K.- Thüsing W., Cristologia. Prospettiva sistematica ed esegetica, Questiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1974

15) Rahner K., Cristologia oggi ? in Id., Teologia dell’esperienza dello Spirito, in Nuovi Saggi VI, Roma 1978 p. 439.

16) Malevez L., Le Christ et la foi, in Pour une théologie de la foi, Cerf Paris 1969 pp.159-216.

17) Balthasar H. Urs v., Fides Cristi, in Sponsa Verbi. Saggi Teologici 2, Morcelliana, Brescia 1972 (l’originale è del 1961) pp. 41-74.

18) M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1995.

19) Balthasar H. Urs v., Fides Cristi, in Sponsa Verbi o. c., p. 48.

20) Nella Teodrammatica scrive di Gesù: “Dal momento che egli non conosce o non vuole conoscere le strade su cui Dio va con lui in adempimento della missione, ma ha la certezza che il Padre adempirà la missione sino al termine, la definizione di fede della lettera agli ebrei può venire applicata a lui” Teodrammatica, 3: Le persone del dramma, l’uomo in Cristo, Jaca Book, Milano 1983 pp. 161 s. Poco dopo ammette e accoglie il fatto che: “una lunga e seria tradizione teologica considera cosa conforme alla dignità del salvatore del mondo la necessità di attribuirgli fin dal primo istante della sua incarnazione, non solo un sapere a riguardo della sua missione, ma di ogni cosa umanamente conoscibile, quantomeno legata a un valore salvifico. Riedlinger ha mostrato in maniera convincente che questo teologhema circolante per la patristica e la scolastica non è semplicemente ascrivibile a una miope teologia di convenienza che voleva adornare Cristo di tutte le sue condegne prerogative, ma che si rifà senz’altro a una tendenza biblica sempre più intensa a partire da Paolo e da Marco e attraverso Matteo e Luca fino a Giovanni, dove Gesù appare «onnisciente» (Gv. 16,30; cfr.16,19)” (p. 164). In nota a conferma di questa opinione egli cita H Riedlinger, Geschichtlichkeit und Vollendung des Wissens Christi(QD32, Herder 1966) p. 65 e il contesto pp. 58-71; aggiunge poi: “Ma con ragione vi si dice: «Se il Padre che l’ama gli mostra tutto ciò che lui stesso fa, ciò non vuol dire senz’altro che il Gesù terreno ha ininterrottamente davanti agli occhi tutta la realtà»” p. 69.

Una dettagliata esposizione del pensiero di Hans Urs von Balthasar su questo tema si trova in F. G. Brambilla, Gesù autore e perfezionatore della fede, in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, Dehoniane, Bologna 2000 pp. 79-99 (pp. 69-124).

21) Brown R., Scienza e coscienza di Cristo, in Id., Gesù Dio e uomo, Cittadella Assisi 1970 pp. 53-121 qui p. 75. Sulla questione generale egli sostiene: “La Scrittura da sola non dimostra, ma non è contraria a una teoria che ammetta uno sviluppo psicologico della conoscenza che Gesù poteva avere di ciò che stava per accadergli” ib. p. 84.

22) AA. VV., La visione beatifica di Cristo viatore, in Doctor communis, numero speciale, Vaticano 36 (1983). Tra gli altri vi scrivono il biblista Feuillet, La science de vision de Jésus etles Evangiles,pp. 159-169; il patrologo Salgano J.-M., La science du Fils de Dieu fait homme. Prises de position des Pères et de la Pré-scbolastique (II- XII siècle) pp. 180-286 ; il sistematico Ols D., La visione beatifica di Cristo viatore, pp. 323-411

23) Amato A., Fede di Gesù? A proposito di una recente pubblicazione, Salesianum 64(2002) pp. 67-112. Recensisce AA. VV., (a cura di G. Cannobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2001.

24) Scrive: “La visione beatifica dell'anima umana del Cristo è anzitutto l'espressione dell'armonia esistente in lui tra l'ordine dell'essere e quello del conoscere. Dall'unione, infatti, della natura umana nella persona del Verbo, segue anche la sua unione nella visione. Questa visione è, quindi, la traduzione coscienziale dell'unione ipostatica. Si coglie qui la relazione profonda esistente tra il Verbo e la sua umanità assunta.” Amato A., Fede di Gesù? a. c., p. 109

25) Amato A., a. c., p. 109 (e n. 91) cita e riassume C. Nigro, Il mistero della conoscenza umana di Cristo nella teologia contemporanea,IPAGRovigo 1971, p. 45.

26) Amato A., a. c., p. 116.

27) Amato A., a. c., p. 109.

28) Amato A., a. c., p. 103.

29) Amato A., a., c. p. 110. Rimanda a Nigro C. o. c., p. 32 ss.

30) Amato A., a. c., p. 111 (sottolineatura mia).

31) Come si vede tutti gli argomenti si muovono in orizzonte neocelcedonese e spesso passano dalla semplice ammissione di possibilità della visione beatifica alla affermazione della sua effettiva realtà. Il termine ‘neocalcedonese’ è stato introdotto negli anni ’60 per indicare gli sviluppi e gli adattamenti che la dottrina di Calcedonia ha subito nei secoli successivi nel tentativo di raggiungere un compromesso con i monofisiti.

32) J. Guillet, La fede di Gesù Cristo, Jaca Book Milano 1982 “Se la fede rimane nella visione gloriosa, se la visione sola è capace di darle la sua pienezza e la sua perfezione, si capisce che Gesù, poiché è il figlio, lo splendore della gloria del mondo (Eb 1,1-3), sia anche .. colui che nella sua fede si trova al punto di partenza e al compimento della fede… La fede che ci salva non è la nostra, è la fede di Gesù Cristo” pp. 178-179.

33) “La visione beatifica del Gesù terrestre manca di fondamento, perché non è attestata né dalla Scrittura, né dalla tradizione patristica” J. Galot, Chi sei tu o Cristo? L. E. F., Firenze 1977 p. 324. Tuttavia egli attribuisce a Gesù storico una particolare intuizione del suo io divino: “Questa presa di coscienza [del proprio io divino] pur comportando i limiti e l'oscurità inerenti a una qualsiasi psicologia umana, è fatta di una evidenza intima che non può essere ricondotta alla forma di un atto di fede” Chi sei tu o Cristo?, Fiorentina, Firenze 19843 p. 349 (pp. 348-351). Egli aggiunge però: “Ci sono nelle disposizioni di Cristo elementi essenziali della fede, e nella sua esperienza intima vi sono prove che somigliano a quelle della fede. Da questo punto di vista, Gesù deve essere considerato come il modello della nostra fede" ib. p. 350. Cfr. anche Id La coscienza di Cristo, Cittadella, Assisi; Id., Gesù ha avuto la fede? in Civ. Catt. 133(1982) 3 pp. 460-472. Nella stessa linea sembra essere G. Iammarrone: “In questo senso egli fece proprio in una certa misura l'atteggiamento dei «credenti» di cui ci narra la Scrittura. Anche se non si vuole, e forse non è il caso di denominare l'atteggiamento di Gesù «fede», dati gli equivoci che tale termine può sempre suscitare, ci sembra che esso vada rilevato e ben sottolineato in una valorizzazione di lui quale archetipo e modello dell'«uomo nuovo»”, L'uomo immagine di Dio. Antropologia e cristologia, Borla, Roma 1989 p. 70.

34) L. Malevez continuando la riflessione di K. Rahner affronta il tema della fede di Gesù sottolineando l’aspetto della libertà e della fiducia in Dio: “l’abbandono per il quale la natura umana singolare di Gesù passa nell’appartenenza a Dio non può essere concepito sotto tutti i rapporti come un’alienazione. La stessa assunzione per la quale il Verbo attira a sé la sua umanità, è l’atto stesso con il quale la dona e la restituisce più perfettamente a se stessa, perché la fa essere ciò a cui essa stessa aspirava” Le Christ et la foi, in Id, Pour une théologie de la foi, Paria 1969 (pp. 159-216) p. 195. Anche B. Forte sviluppa le intuizioni di K. Rahner sulla conoscenza atematica e irriflessa e le conseguenti interpretazioni delle formule bibliche concludendo che tale modo “mentre salvaguarda la condizione unica della coscienza umana di Figlio in Gesù, da conto suggestivamente della sua fede e della sua speranza” Gesù di Nazaret, storia di Dio,Dio della storia, Paoline, Roma 19844 p. 209

35) Cfr. ampia bibliografia in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, Dehoniane, Bologna 2000 pp. 43 s. (per aspetto biblico) p. 99. n. 56 (aspetto dogmatico); Dupuis J., Introduzione alla cristologia, Piemme, Casale Monferrato 1998.

36) Cfr. Brambilla F. G., Le principali tendenze sulla fede di Gesù, in AA. VV., (a cura di G. Canobbio), La fede di Gesù, o. c., pp.77- 122; Presenta le diverse opinioni secondo tre paradigmi: 1. Paradigma scolastico per cui cita il domenicano Ols. 2. Paradigma della singolarità: H. U. von Balthasar; 3. Paradigma antropologico: K. Rahner- L. Malevez. Presenta poi da parte sua alcune Ipotesi conclusive ( pp. 122-124). Cfr. anche Molari C., Gesù rivelatore del Padre in Auer J., Gesù il Salvatore. Cristologia, Cittadella, Assisi (pp. 5-35) pp. 14-21; Id., La fede nel Dio di Gesù, Camaldoli 1991, dove elenco cinque opinioni diverse.

37) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in Rahner K.- Thüsing W., Cristologia.Prospettiva sistematica ed esegetica, Questiones disputatae, Morcelliana, Brescia 1974 pp. 97-361 qui p. 251. L’originale è del 1972.

38) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 253. Tra i teologi già Gerhard Ebeling in un articolo del 1958 scriveva “Naturalmente il ‘tutto è possibile per chi crede’ (Mc 9,23), visto nel contesto in cui è posto, va applicato prima di tutto a Gesù, e lo stesso dicasi dell’affermazione di Mc 11,23 e par. a proposito del fico seccato… Considerato il modo con cui parla della fede, difficilmente lo si può escludere da questa stessa fede” (tr it. Gesù e fede in Parola e fede, Bompiani, Milano 1974 (pp. 77-126) qui p.114).

39) Sobrino J., Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1995 pp. 271 s. Egli richiama anche Mc 11,22 ss.: la fede che sposta le montagne in rapporto all’episodio del fico (Mc 11,20).

40) Kasper W., Gesù il Cristo, (BTC 23), Queriniana, Brescia 1975 p. 150.

41) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 188.

42) Thüsing W., Approcci neotestamentari a una cristologia dialettico-trascendentale, in o. c., p. 252.

43) A queste alcuni aggiungono anche Gal 3,26 secondo la variante di P46 e di altri manoscritti; la maggioranza ha la lezione più facile: πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃. Cfr. Vignolo R., nello studio citato nella nota seguente definisce “interessante variante” (p. 45 ) quella delle poche testimonianze che egli elenca dettagliatamente.

44) Vignolo R., La fede portata da Cristo. Πίστις Χριστoυ̃ in Paolo, in AA. VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 pp. 43-67. Alle pp. 45-46 traduce la formula nei nove riferimenti paolini (compreso Gal 3,26) con l’espressione “la fede portata da Cristo” o “la fede portata dal Figlio di Dio” o “la fede portata da Gesù”).

45) Vignolo R., La fede portata da Cristo in o. c., p. 67; la definisce anche: “fede istituita da Gesù, portata da Gesù, da lui stesso direttamente inaugurata in singolare, inconfondibile, pienezza, e in forza dell’universale inclusività garantita dal soggetto e dall’atto di quell’evento, instaurata pro nobis come universalmente partecipabile” p. 66 .

46) “L’interpretazione qui proposta rende pure ragione allo spessore fiutato da molti illustri esegeti paolini, che in proposito, con formule magari non felicissime, hanno parlato di «genitivo mistico» (Deissmann), o di principio metafisico («la fede che è il Cristo»: Lohmeyer)” Vignolo R., ib., p. 67. Precedentemente aveva ricordato anche le interpretazioni di Hatch (genitivo di appartenenza) e di Schweizer (genitivo di comunione) ib. p. 46.

47) Vignolo R., ib., p. 48. In nota (in polemica con Romano Penna) egli aggiunge che questo dato “relativizza l’osservazione per cui Paolo .. si atterrebbe al più comune uso greco di sintagmi genitivali con πίστις + genitivo prevalentemente in senso oggettivo” Id. ib. p. 48 n. 12. Si riferisce a R. Penna, Il tema della giustificazione in Paolo. Status quaestionis, in ATI ( a cura di G. Ancona), La giustificazione, Messaggero, Padova 1997, pp. 19-64 qui p. 47. Romano Penna interpreta il sintagma sempre in senso oggettivo. Egli tra l’altro a pagina 41 “offre una limpida messa a punto circa il genitivo complesso delle «opere della legge» (in precedenza attribuito anche al sintagma «giustizia di Dio»”. Si chiede quindi Vignolo: “perché allora non far valere anche in questo caso la qualità di un genitivo complesso, uscendo così da un troppo schematico aut-aut tra genitivo ogg. E sogg.?” Vignolo R., La fede portata da Cristo in o. c., p. 56 n. 27.

48) Brambilla F. G., Gesù autore e perfezionatore della fede, in AA. VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 p. 123 (pp. 69-124).

49) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, in AA.VV., (cur. G. Canobbio), La fede di Gesù, EDB, Bologna 2000 pp. 13-41 qui p. 16

50) Maritain J., Della Grazia e della umanità di Gesù, Morcelliana Brescia 1971 p. 18.

51) Sobrino J., Gesù liberatore, o. c. p. 270.

52) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a. c., p. 17.

53) Sequeri P. A., Fede di Gesù e filiazione divina, a. c., p. 16.

Siamo ancora in Galilea, lontano dalla città santa. Il Maestro non è solo con i discepoli. Una grande folla lo seguiva. Questa simpatica sequela non è indice di fede autentica.

Domenica, 21 Maggio 2006 20:40

Midrash

Midrash

Il termine midrash è un sostantivo derivante da darash che, nel testo biblico (ma anche a Qumrân), significa soprattutto ricercare, scrutare, esaminare, studiare.

Nella tradizione rabbinica, midrash designa anzitutto un’attività e un metodo di interpretazione della Scrittura che, andando al di là del senso letterale (chiamato peshat, semplice, ovvio), scruta il testo in profondità (secondo regole e tecniche proprie) e sotto tutti gli aspetti, per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle problematiche delle comunità, trarne applicazioni pratiche e significati nuovi che sono lontani dall'apparire a prima vista.

Indica inoltre il risultato di questa ricerca.

Se applicata alle parti legislative per derivarne conseguenze giuridiche, questa elaborazione dà il midrash halakhah (da h lak, camminare; da cui interpretazione normativa, regola di condotta).

Se applicata alle sezioni narrative, dà il midrash haggadah (da higgîd, annunciare, raccontare) che comprende racconti storici o leggendari, sviluppi d'ordine morale, ecc.

Il midrash parte sempre, in modo più o meno esplicito, dal testo biblico e può essere immesso in forme diverse secondo i generi letterari che lo trasmettono.

Come tipo di attività esegetica e prodotto di questa attività, il midrash è già presente nella Bibbia, nella letteratura intertestamentaria (Apocrifi e Qumrân), così come nel Nuovo Testamento. I risultati di secoli di “ricerca” nelle scuole (beth ha-midrash) e nelle sinagoghe, dopo un lunghissimo periodo di trasmissione orale, furono progressivamente messi per scritto, andando a formare raccolte multiple chiamate midrashim.

Queste si presentano sia come un commento continuo della Scrittura (midrashim esegetici), sia come un'antologia di sermoni sulle letture fatte in occasione del Sabato e delle feste (midrashim omiletici). I più importanti sono: i midrashim tannaitici, (riferiscono tradizioni del I-II sec.), soprattutto halakhici (Mekhilta sull'Esodo, Sifra sul Levitico, Sitré su Numeri/Deuteronomio), il Midrash Rabbah (commento del Pentateuco e dei cinque «rotoli» letti nelle feste: Cantico, Ester, Rut, Lamentazioni e Qohelet), il Midrash Tanhuma, la Pesiqta di Rab Kahana, la Pesiqta Rabbati.

Si ritiene che alcune compilazioni tardive (come i Pirqé di R. Eliezer, il Midrash ha-Gadol, il Midrash Tehillim, ecc.) possano avere conservato tradizioni molto antiche.


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