I Dossier

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Mercoledì, 17 Maggio 2006 03:01

La porta e la voce (Giovanni Vannucci)

La porta e la voce
di Giovanni Vannucci

Due espressioni, nella pagina del vangelo di Giovanni (10,1-10), colpiscono la nostra attenzione. La prima è la porta: «Io sono la porta»; la seconda è la voce: «Le pecore ascoltano la sua voce». La porta è l’apertura che segna il passaggio tra due spazi distinti; varcare una porta, anche della più umile casa, costituisce qualcosa di grave e di solenne per uno spirito sensibile: attraversando una soglia, abbandona il suo consueto ambiente ed entra in un altro differente.

Questa è la più elementare esperienza che sta alla base delle parole di Cristo, e di tutto il simbolismo della «porta». La porta separa e unisce due ambienti, due spazi, due gradualità dell’essere, due matrici, due mondi distinti da strutture fisiche, psicologiche, mentali. Il varcare la soglia costituisce il passaggio da un modo d’essere a un altro; nell’esperienza religiosa le varie iniziazioni, che accompagnano le tappe della crescita fisica e psicologica dei credenti, sono vissute come il varco da un modo d’essere a un altro; la soglia presenta quel carattere di angoscia, di timore sacro che segna la linea di demarcazione tra un mondo conosciuto e quello sconosciuto che si apre al di là del limite. Giacobbe, dopo l’esperienza della sacralità del luogo ove aveva avuto il sogno iniziatico, esclama: «Questo luogo è tremendo, qui c’è la dimora di Dio e la porta del cielo» (Gen 28,17). L’aspetto angoscioso della porta, come ingresso in uno spazio differente, viene manifestato nel grande portale che introduce negli edifici sacri attorniato da «guardiani della soglia», draghi, leoni, sfingi, personaggi divini o semi-divini.

Questi pochi accenni al simbolo della porta ci aiutano a comprendere il significato della parola di Gesù che leggiamo nel Vangelo: «Io sono la porta, il pastore vero passa per la porta, il prezzolato e il ladro entrano nell’ovile attraverso altre aperture».

«Io sono la porta», il punto di passaggio da uno stato di coscienza vecchio e conosciuto, a un altro nuovo e sperimentabile. Cerchiamo, avanti di aggiungere altro, di comprendere il contenuto dell’affermazione di Cristo: le porte dei templi, i riti di passaggio costruiti e ordinati dall’uomo sono dei simboli, palpabili e misurabili, di un altro itinerario che la coscienza compie dentro il gesto, l’immagine esteriore; itinerario che sfocia in una mutazione qualitativa dell’anima, dell’interiorità. Le porte e i riti sono dei segni di qualcosa che si compie nell’intimo della personalità che varca la soglia dello spazio nuovo. Le strutture architettoniche, le azioni rituali perdono ogni valore quando si viene a vivere il contenuto qualitativo del nuovo spazio.

La frase: «Io sono la porta» può venire interpretata: Io sono la soglia che separa la vecchia coscienza dalla nuova, il significato di tutte le iniziazioni che altro non sono se non riti, cerimonie, costruzioni, dita puntate verso la novità, segni di un significato da scoprire. Io invece sono il significante e il significato, la forma e il contenuto, la materia e lo spirito. Le antiche porte sono tarlate, «quelli che sono venuti prima di me ormai sono ladri e briganti, la loro voce non risveglia le coscienze mature per la novità». Cristo è la porta e l’ovile; l’iniziazione e la nuova vita che essa trasmette; è il pane che dona la vita, non il cesto che lo contiene; è il pane ed è la vita; è la via che conduce alla verità ed è insieme la verità consegnata agli iniziati; è la luce del Santo dei Santi, che ha dilacerato ogni velame. Luce offerta senza interruzione, Luce che accoglie chiunque ne senta il richiamo e deliberatamente lo segua.

Questo rapporto diretto tra la singola coscienza e il Pastore è necessario venga vissuto con intensa generosità da ogni credente, se vogliamo che tutta la Chiesa ritrovi la vita, la Chiesa interiore e quella esteriore, se vogliamo che le porte iniziatiche, le parole di passo, i riti che introducono nella novità perdano la loro pesantezza e siano trasfigurati nella luce del vero e unico iniziatore.

Il passaggio dalla porta che è l’«Io sono» di Cristo fa fiorire Cristo nell’anima e fa ascendere l’anima, la personalità di ognuno, nel suo Io vero, che è Cristo, «non io vivo, ma Cristo vive», Cristo che è il vero Io di ognuno di noi, è il vero Io di tutti gli Io. Con l’«Io sono la porta» le antiche porte cadono, la verità liberatrice dilegua le corposità dei moralismi dogmatici, la ricerca personale della luce mette in seconda linea ogni preoccupazione pastorale e sociale; l’offerta di se stessi a Cristo perché ci unisca a sé ci rende fermi, senza timore di orgoglio, in questo pellegrinaggio verso la nostra deificazione, che ci renderà certi della nostra nascita nella nuova coscienza di Cristo e nella quale sperimenteremo che Cristo è Dio per noi e noi per Dio.

Fino alla novità sbocciata con l’Incarnazione, morte e risurrezione della Parola eterna, i templi erano i depositari dei segreti e delle verità nascoste sotto i simboli, il velo copriva il Santo dei Santi, solo agli iniziati veniva, dopo opportuna ascesi, dischiuso. Con la venuta di Cristo la verità diventa il pane e il vino di tutta l’umanità, è data a tutti perché tutti ne traggano il necessario alimento alla loro ascesa personale. Il velo è squarciato. Dio entra nel cuore degli uomini, lo Spirito discende nella carne degli uomini. E ciascun uomo è capace di prender coscienza di essere stato pensato ed espresso da una parola irripetibile e singolare, parola pronunciata dal Verbo nell’eternità, parola che il Verbo incarnato ripete nel tempo entro il cuore di ogni pecorella: «Le pecore riconoscono la sua voce». Parola che rende la persona umana più grande delle stelle del cielo, più gloriosa di tutte le leggi unificatrici e ordinatrici del cosmo.

Prendere coscienza del nostro Io divino, dell’Io divino di ogni nostro fratello, significa varcare la porta iniziatica che è Cristo, essere assunti dalla sua grazia trasfiguratrice, rispondere personalmente al nome col quale da tutta l’eternità ci chiama, nascere la seconda volta. Il motivo della nostra tragedia, della nostra disarmonia, è il non volerci riconoscere in Lui, il seguire la voce della nostra personalità separata, invece di quella del Buon Pastore che passa per la «porta» che è Cristo.

(Giovanni Vannucci, «La porta e la voce», 4a domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza,  Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 72-74).

Forma specifica della "crisi" che investe l'uomo nella sua esistenza è quella connessa all'età di mezzo e chiamata midlife-crisis, più comunemente "crisi dei quarant'anni".

Tutte o quasi le possibilità sono in mano di interessi privati di enormi dimensioni, a cui, per loro stessa natura, la famiglia umana non interessa affatto se non come terreno di profitto. Contro questa tragica realtà la Chiesa è chiamata a schierarsi, senza timore di inimicarsi i poteri terreni.

Due ecclesiologie a confronto
di Mauro Pizzighini


Oggi tutti i teologi ortodossi, insieme a quelli cattolici, affermano che la chiesa è il corpo di Cristo, intendendo con quest’ espressione «la realizzazione del disegno di Dio di “ricapitolare in Cristo tutte le cose”». Ad esempio, il teologo ortodosso Florovskij afferma che «la teologia della chiesa non è altro che un capitolo, e un capitolo di importanza capitale, della cristologia. E senza questo capitolo la stessa cristologia non sarebbe completa».

Questa è una delle affermazioni principali contenute nel volume che il teologo cappuccino, attuale arcivescovo di Corfù-Zante-Cefalonia e vicario apostolico di Tessalonica, Y. Spiteris ha pubblicato recentemente, mettendo a confronto sia alcune concezioni teologiche di fondo sia alcuni temi specifici, come il primato petrino e l'ecclesiologia ortodossa con quella cattolica. Nel 1992 lo stesso autore aveva scritto La teologia ortodossa neo-greca (EDB, Bologna) insistendo sul contesto storico che aveva condizionato da secoli la vitalità dell’ortodossia greca.

A detta di Spiteris, «il legame con il monachesimo del monte Athos e la peculiare vicinanza strutturale con il patriarca di Costantinopoli hanno qualificato da secoli la chiesa ortodossa greca quanto al ruolo di rappresentanza legittima e privilegiata dell’ortodossia».

Nel volume, l’arcivescovo di Corfù ci fa conoscere le linee sulle quali si muove oggi la riflessione dei teologi greci, quanto all’ecclesiologia. Il tema risulta assai “nuovo” per i teologi ortodossi, da sempre abituati a trattare di Dio, della vita trinitaria, dell’ azione dello Spirito Santo, della divinizzazione e trasfigurazione del cosmo e dell’uomo: Spiteris “scopre” e “disvela” la teologia “sulla chiesa" nella riflessione dei teologi greci di oggi, in un contesto di narrazione storica. Di fatto sono pochi i teologi greci che offrono contributi al rinnovamento dell’ecclesiologia: vengono citati in particolare Nissiotis, Matsoukas e soprattutto Zizioulas, qualificato come un “teologo ortodosso dialogante".

I criteri di ecclesialità

In questo saggio teologico, la novità di particolare interesse è la seconda parte, quella relativa all’esame dei criteri di ecclesialità, così come vengono enunciati e argomentati nelle due tradizioni. Una breve introduzione richiama i tre principi che sottostanno al tema sulla chiesa, sia nella prospettiva russo-slava (Spiteris guarda a questa teologia – afferma il teologo Sartori nell’introduzione al volume – «solo come a uno specchio che aiuta a misurare la "novità” concessa alla grande tradizione ortodossa del pensiero greco»), sia in quella greca: la dimensione trinitaria, quella cristologica e quella pneumatologica.

La seconda parte è la più decisiva s e indica le due principali linee di tendenza specifiche dell’ecclesiologia greca moderna: quella che si radica maggiormente nella Tradizione e contempla la forma "protologica” di chiesa (la “chiesa preesistente") secondo tappe di esistenza "storica" (dalla chiesa degli angeli, a quella dell’ Eden, a quella del Verbo incarnato); la seconda, la più nuova e promettente, che fissa invece l'icona della chiesa nella dimensione “escatologica", proponendo una chiesa che deve ‘svolgersi" nella storia e perciò deve affrontare i problemi della sua organizzazione, in particolare la sua “struttura sinodale" e i suoi ministeri.

Spiteris sottolinea che oggi si dà per scontato che tutte le chiese siano convinte dell’esistenza di una certa "unità fondamentale", derivante dal possedere almeno lo stesso battesimo, che introduce il cristiano nel corpo ecclesiale. Sembrerebbe acquisito nella chiesa occidentale che tale unità esista specialmente con le “chiese sorelle” dell'oriente, mentre invece uno dei motivi della crisi dell’ecumenismo, secondo Spiteris, sta proprio nel fatto che ancora non sia chiarito questo punto fondamentale. Il primo e indispensabile presupposto affinché si possa parlare di dialogo tra la chiesa cattolica e quella ortodossa sta proprio nel grado di ecclesialità che una confessione riconosce all’altra. Si tratta a questo proposito di rispondere ad alcune domande: che cosa rappresenta per la chiesa cattolica la chiesa ortodossa, e viceversa? I fedeli dell'altra chiesa sono in realtà e a pieno titolo cristiani? I sacramenti amministrati nell' altra chiesa sono validi? Quali sono i criteri di appartenenza alla chiesa nelle due tradizioni?

In Oriente l'appartenenza alla vera chiesa ha sempre avuto un aspetto giuridico e un aspetto teologico. In genere il primo scaturiva dal secondo, sebbene nella prassi i due aspetti non siano andati sempre d'accordo. Si deve notare che la maggior parte dei teologi ortodossi attuali di lingua greca sostiene che solo i sacramenti della chiesa ortodossa siano validi. Essi – scrive Spiteris – fanno coincidere in modo “rigidamente” esclusivo i confini della chiesa ‘una” e “santa” con quelli della chiesa visibile e canonica ortodossa. Il criterio di ecclesialità, per i teologi greci, rimane sempre quello della “piena conformità alla fede”: il canone della fede sono i primi sette concili ecumenici, mentre qualsiasi aggiunta o diminuzione a quanto da essi definito è considerata “eresia”, e quindi la chiesa che professa tale “eresia" non possiede sacramenti validi. Tuttavia, sebbene i sacramenti degli eretici e degli scismatici siano di per sé invalidi, secondo le situazioni, le singole chiese possono, "per economia (= disegno di salvezza)”, non ripetere il battesimo in caso di conversione.

Di fronte a questo fatto si constata una diversità di comportamenti nelle varie chiese e anche nella stessa chiesa ortodossa, tant’ è vero che l’applicazione e l'interpretazione dell’ economia hanno spesso occupato teologi, canonisti e storici greci. Si sa che le chiese ortodosse non possiedono un organo di magistero ordinario che le rappresenti tutte e, di conseguenza, esse si rifanno ai primi sette concili ecumenici, alla tradizione, ai padri, ai sinodi locali e ai cosiddetti “libri simbolici”, quelli cioè che contengono le varie dichiarazioni di fede di diverse provenienze.

Cosa dice il Vaticano II?

In Occidente, il criterio di ecclesialità che scaturisce dal Vaticano II si può così descrivere in sintesi: la chiesa di Cristo è una e unica, ad essa sono pienamente incorporati i fedeli cattolici perché possiedono tutti quegli elementi che costituiscono la chiesa come è stata voluta da Cristo. I non cattolici sono più o meno in comunione con la chiesa una e unica a seconda degli elementi ecclesiali da essi posseduti. Questi elementi danno oggettività storica alla chiesa una e santa, sono la ricchezza concreta della chiesa. Indispensabili e centrali sono la fede in Gesù Cristo e il battesimo. Quando poi esiste la successione apostolica e l’eucaristia – com'è il caso degli ortodossi – allora l'ecclesialità, a livello locale, diventa più visibile e vera. L'eucaristia, infatti, costituisce la chiesa come sacramento. Tuttavia queste chiese sono tali non indipendentemente, ma solo in quanto sono in "comunione”, anche se parziale, con l'una sancta nella quale sussiste la chiesa cattolica.

Dov’è la chiesa di Cristo?

Quindi i criteri di ecclesialità suscitano ancora interrogativi, in quanto ogni chiesa, specialmente la chiesa cattolica e quella ortodossa, è convinta di incarnare nella sua totalità l’una e unica chiesa. Il problema ecumenico non risolto è dunque sempre il medesimo, dice Spiteris: come è possibile che esista contemporaneamente la chiesa universale “una” e “unica” nella chiesa cattolica romana e nelle altre comunità «non in pie-na comunione con essa»? Secondo il card. Ratzinger, la differenza tra est e subsistit sta nel fatto che est riguarda solo la coscienza della chiesa cattolica romana di essere la "vera” chiesa di Cristo, mentre il subsistit ha valore ecumenico aprendosi anche verso le altre confessioni cristiane nelle quali riconosce l’esistenza di elementi di ecclesialità appartenenti alla vera chiesa di Cristo.

Dunque il problema oggi è il rapporto tra la chiesa universale e le chiese particolari, soprattutto quelle non cattoliche. Qui non si tratta della salvezza escatologica (“Dio nella sua liberalità e nella sua misericordia può trovare i mezzi per salvare tutti gli uomini”), ma si tratta della salvezza intesa come ‘comunione con Dio’ espressa esistenzialmente col fare parte di una comunità com'è stata voluta da Gesù Cristo. Le varie confessioni cristiane non sono sempre d’accordo nel determinare cosa fa sì che «si aggiungano alla comunità quelli che sono salvati», dal momento che intanto ciascuno crede che la sua comunità sia quella che salva.

Sarebbe auspicabile – afferma Spiteris – che, in questa non reciprocità tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, gli ortodossi potessero almeno ripetere le parole del loro teologo P. Evdokimov (1901-1970): «I non ortodossi, per la loro stessa denominazione, non sono più nella chiesa ortodossa, ma è la chiesa, al di sopra del loro distacco, che continua a essere presente e ad agire in presenza della fede e della retta intenzione della salvezza. Noi sappiamo dov’è la chiesa, ma non è dato di portare il giudizio e di dire dove la chiesa non è».

L'interesse della quarta parte del volume sta nella ripresa storica degli “scontri” decisivi dei secoli che hanno sancito la divisione tra le due chiese, scontri anche teologici ma sempre più di tipo "politico”, perché toccano il ruolo del papato. L’autore del volume in questa parte non chiama più in causa teologi attuali, ma ritorna indietro nel tempo ai momenti in cui si sono formati e sono cresciuti i contrasti che oggi pregiudicano, in negativo, l’eventuale dibattito sul papato. Emerge una precomprensione della chiesa ortodossa contro il papato molto rigida: verrebbe da pensare che sia più facile dialogare con i protestanti che non con i fratelli ortodossi. Comunque si deve tener conto che qui si tratta dell’ortodossia greca, che di fatto è più legata al passato e più conservatrice delle altre.

Spiteris conclude quest’ultima parte affermando che si tratta del confronto tra due “universalismi”. Nella prospettiva ecumenica occorre essere consapevoli che «l’ideologia non può essere teologia e molto meno annuncio di salvezza». Noi cattolici siamo chiamati a distinguere il “servizio di Pietro” dal “papato” caricato da ideologie medioevali utili per quell’epoca, mentre ai fratelli ortodossi si potrebbe chiedere: non è forse giunto il momento di rivedere la loro posizione sul papato, liberandola dall’ideologia politico-imperiale che aveva spinto i loro antenati a rinnegarlo? Direbbe Congar: «Dov’è oggi il potere del “basileus”?».

(da Settimana, 1, 2004, p. 12)


Carismi e ministeri (1Cor 12-14)
di Giacomo Lorusso


Dio chiama l'intera umanità alla salvezza mediante la Chiesa. E per renderla capace di adempiere la propria missione, l' arricchisce con dei doni: i carismi. La comunità di Corinto aveva bisogno di una parola di chiarimento da parte dell' Apostolo circa la cooperazione dei diversi charìsmata, poiché motivo di contrapposizione e di sterili confronti. Nei cc. 12-14 della sua prima lettera Paolo riflette sulla loro natura e articolazione, alla luce del confronto tra glossolalia e profezia. Il suo intento è di far risaltare la specificità di ognuno nel contesto della multiforme azione carismatica dello Spirito, che caratterizza il dinamismo di crescita e sviluppo della Chiesa.

La sezione si articola in tre parti: 1Cor 12,1-30; 12,31-13,13; 14,1-40. In 12,1-30 Paolo sottolinea l'origine pneumatica dei carismi, al servizio dell'unità della Chiesa, mentre in 12,31-13,13 presenta la condizione per un'autentica esperienza carismatica: la carità. La carità, infatti, è l' anima dei carismi, feconda la loro azione ed è sin d'ora partecipazione alla comunione divina. La fede e la speranza sostanziano la carità con la conoscenza parziale - già nel tempo - del Dio amore, stabilendo la ragionevolezza della carità. In 14,1-40 Paolo sviluppa il rapporto tra glossolalia e profezia: la reciprocità dei due carismi, la singolarità e la specificità di ognuno, la loro cooperazione per l' attuarsi della missione della Chiesa.

I carismi e i doni dello Spirito

Il c. 12 ha un codice semantico che lo struttura: il rapporto tra «uno» e «molti». Rispettivamente «uno» qualifica lo Spirito, Cristo, il corpo umano, il corpo di Cristo; «molti» i carismi, le membra del corpo umano e quelle del corpo di Cristo.

Nell'introduzione (vv. 1-3) Paolo dichiara che il suo scopo è quello di colmare l'ignoranza di chi nel passato «seguiva» gli idoli «afoni». A differenza di questi, infatti, il Signore «parla» attraverso i suoi, donando la possibilità di pronunziare il proprio nome e dirlo al mondo, grazie alI' azione dello Spirito Santo. L'accento è sul parlare, sulle condizioni di possibilità del pregare e proclamare il nome di Gesù Cristo.

Alla luce di tale affermazione si capisce come i diversi carismi siano elargiti in vista dell'evangelizzazione, per l'opera dell'unico Pneuma. Nei vv. 4-11 Paolo descrive la meravigliosa sinfonia che si sprigiona dai diversi carismi, voce dell'unico Spirito. In apertura abbiamo tre periodi paralleli, ciascuno dei quali associa la persona divina alla molteplicità degli effetti che ne manifestano I' azione:

- lo stesso Spirito - distribuzione di carismi
- lo stesso Signore - distribuzione dei ministeri
- lo stesso Dio che opera - distribuzione di ciò che è messo in opera ogni cosa in tutti

Non vi è distinzione tra carismi, ministeri e operazioni divine: ritenere di possedere un carisma oppure un ministero in forma esclusivamente personale senza guardarlo nella sua matrice di dono e operazione divina annulla la capacità del carisma o ministero di essere ciò per cui Dio lo ha elargito: dono di salvezza e di comunione con Dio per se e per gli altri. La dimensione personale ( «a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito» ) si coniuga con la dimensione unitaria del soggetto e attore della pluriforme grazia elargita a tutta la Chiesa ( «tutte queste cose opera I 'unico e medesimo Spirito» ).

L'accento va sulla ripartizione dei doni all'interno della Chiesa, più che sulla diversità. L’apostolo adopera charìsmata e non pneumatikà, sottolineando la dimensione gratuita del dono (chàrisma è dono concreto di «grazia» ), più che la semplice manifestazione spirituale. Nessuno ha I' esclusiva dei carismi né in termini di quantità né di qualità. Né possono esistere carismi che abbiano un' origine diversa da quella indicata, giacchè gli idoli sono muti e inanimati. L' azione divina (v. 6: due volte energéõ) è sottolineata dall'affermazione «a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito in vista di ciò che giova» (v. 7), e dalla ripresa del verbo energéõ, «operare», al v. 11. Il dono è messo in opera in vista dell'utilità salvifica (symphéron) per il singolo e per la comunità, ed è ripartito secondo i criteri della liberalità divina ( «ripartisce a ciascuno in particolare come vuole» ). Il tema della ripartizione equa e generosa dei doni è enfatizzata dalla struttura dei vv. 8-10:

-ad uno parola di sapienza                                    per mezzo dello Spirito
-ma ad un altro parola di conoscenza                  secondo lo stesso Spirito
-ad un altro fede                                                      nello stesso Spirito
-ma ad un altro carismi di guarigioni                    nell'unico Spirito
-ma ad un altro operazioni di cose prodigiose
-ma ad un altro profezie
-ad un altro discernimento di spiriti
-ad un altro generi dei modi parlare in lingua
-ma ad un altro interpretazione dei modi di parlare in lingua

Sei su nove sono inerenti al tema del parlare, tre alla dimensione operativa ( «fede» taumaturgica, «guarigioni», «cose prodigiose» ). E tutti sono al servizio dell'unica rivelazione: l'efficacia e la ricchezza dello Spirito che anima la Chiesa.

Descritta la ripartizione dei doni, nei vv. 12-27 Paolo esamina il rapporto di appartenenza vitale che sussiste tra le membra/carismi nel corpo ecclesiale. L'interrogativo di fondo è se vi sia una priorità d'importanza tra i carismi e in che senso si possa parlare di reciprocità.

La metafora del corpo

Ciò sottintende che la Chiesa sia il corpo di Cristo («Così anche è Cristo») e che Cristo stesso abbia un corpo formato da molte membra. Infatti dall’ espressione «così anche Cristo» si passa a «infatti in un solo Spirito noi tutti m vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Non bisogna tuttavia dimenticare che si è nel corpo di Cristo solo se si è «in Cristo» (Rm 12,5). Il binomio unità-pluralità è dichiarato nelle due direzioni: l'unico corpo è costituito da molte membra - le molte membra costituiscono l'unico corpo.

Cristo è la realtà totale della Chiesa, nata dallo Spirito nel battesimo (12,13): «...e in un solo Spirito noi tutti in vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Per l'azione dello Spirito, nel battesimo, è generato il corpo che appartiene a Cristo. La complessità della Chiesa è esemplificata attraverso le categorie giudei-greci, schiavi-Iiberi, differenti per cultura e stato sociale, relazioni che presuppongono diversità ma che trovano nel dono dello Spirito una unità perfetta. In 1Cor 6,11 leggiamo: «...ma foste lavati, ma foste santificati, ma foste giustificati mediante il nome del Signore Gesù Cristo e per mezzo dello Spirito del nostro Dio». Il motivo del dissetare il popolo da parte di Dio (cf. Es 15,22) è ripreso in 1Cor 10,4: «Tutti bevvero la stessa bevanda spirituale; bevevano infatti da una roccia spirituale che seguiva; ora la roccia era il Cristo». Il corpo della Chiesa è frutto dell'agire creativo dello Spirito, della sua linfa spirituale di cui ci si disseta.

I vv. 14-20 rilevano il tema della pluralità del corpo che non solo ha molte membra ma è molte membra. Le membra sono il corpo, non solo appartengono al corpo; l'essere del corpo implica l'essere corpo. Il brano si contraddistingue per lo schema «non è I ma è» (negativa + affermativa), che sottolinea l'aspetto della pluralità, grado d'importanza e specificità di ruolo di ciascuno. La distinzione e la relazionalità delle membra tra loro manifestano la realtà del corpo: «Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l'odorato?» (v. 17). Non un membro da solo, ma l’insieme delle membra nella loro articolazione e reciprocità del corpo. L'unità, infatti, contrasterebbe con la dimensione corporale. Al v. 18 si fa risalire tale meravigliosa armonia alla benevolenza divina che ha collocato e strutturato il corpo nella varietà e comunione di tutte le membra «come ha voluto». Senza tale disegno il corpo non potrebbe sussistere. La preferenza data a un solo membro entra in contraddizione con il principio stesso dell'entità «corpo».

I vv. 21-26 pongono l'accento sugli essenziali rapporti che intercorrono tra le membra: «aver bisogno» e «andare incontro al bisogno altrui». Le categorie impiegate sono: proteggere quelle che hanno bisogno di attenzione e rispetto, necessità dell' aiuto reciproco (merimnân = cura/preoccupazione), compartecipazione e solidarietà nelle varie vicende sia positive sia negative che li riguardano. La menzione dell' opera divina richiama la matrice provvidenziale di tale cooperazione (Dio «ha mischiato / unito» ) che esclude ogni velleità di cammini solitari e autonomi (schisma = strappo / divisione).

Paolo ha inserito nel discorso sulle membra due termini altrove adoperati per i comportamenti personali: merimnân e schisma. un accenno ai rischi che il perseguire una logica diversa da quella presente tra le membra del corpo umano determinerebbe nel corpo ecclesiale (cf. 1,10ss e 11,18). Il «debole» che ha bisogno di aiuto è I' asthênes che nei cc. 8-10 qualifica la coscienza del credente, scandalizzato dalla superficialità e controtestimonianza dei «forti», che si nutrono delle carni immolate agli idoli. Ma anche il «più forte» ha bisogno dell'aiuto del «più debole» (vv. 23-24). Il maggiore onore riservato ai «deboli» onora e nobilita anche i «forti»; perciò i carismi e ministeri umanamente meno appariscenti («vili», «indecenti») sono più necessari per il vivere ecclesiale. Tale discorso è ribadito dall' accostamento di merimnân al pronome reciproco allêlôn («l'un l'altro») e dalla successiva esemplificazione della condivisione del dolore o della gioia da parte di tutte le membra (v. 26).

AI v. 27 Paolo fa un'affermazione di identità che riassume le conclusioni del discorso sin qui svolto: i corinzi sono corpo di Cristo e sue «membra», perciò quanto illustrato dalla metafora delle «membra» del corpo umano vale a maggior ragione per i battezzati..

Definiti i rapporti che devono intercorrere all'interno del corpo di Cristo che è la Chiesa, nei vv. 28-30 Paolo pone l'accento sull'operato divino che, come già affermato circa il corpo fisico (vv. 18.25), ha costituito (étheto, v. 18) la Chiesa come tale, articolata in varie «membra», diversi ministeri e carismi. Non vi è appiattimento e uniformità ma organica complessità, poiché non tutti sono apostoli o profeti o maestri, ecc., per la «sovrana fantasia» dello Spirito.

AI v. 28 abbiamo tre portatori di carismi e non la fiera indicazione dei carismi, seguiti da «miracoli» e da altri quattro charìsmata. I primi tre ricordano I' elenco di Ef 4,11 : «Egli ha dato gli apostoli, i profeti, gli annunciatori del Vangelo, i pastori e maestri». Il nostro brano è l'unico a includere I' apostolicità (cf. le espressioni paoline «la grazia a me data» dell'apostolato di 1Cor 3,10; GaI 2,9). Con didàskalos s'intende colui che fornisce un insegnamento pratico e parenetico con riferimento all'interpretazione delle Scritture (cf. 1Cor 4,17; Rm 12,7; 15,4): si passa da colui che pone le fondamenta della vita di fede, al profeta delle parole dello Spirito, all'interprete e catecheta della Parola. Dei carismi alcuni sono una novità rispetto ai vv. 8-10: «Prestazioni di soccorso» come attività più tecnico-organizzativa (antilêmpseis) e «capacità di guidare» la comunità (kybernêseis). Abbiamo anche in questo caso, coerentemente con il resto della sezione, la sottolineatura del tema del «parlare»: i ministeri di «apostoli, profeti, maestri» e il «dono delle lingue», linea ripresa subito dopo nelle domande retoriche, dove cinque su sette riguardano il campo del linguaggio (apostoli, profeti, maestri, parlare in lingue, discernimento).

Se al v. 28 si distingueva tra ministeri e carismi, nei vv. 29-30 si elencano soggetti qualificati da carismi. S' inserisce la dimensione personale e quindi implicitamente la categoria dell' arbitrio umano nel servire i carismi e I' edificazione della Chiesa.

Il primato della profezia sulla glossolalia

Anziché rispondere alla domanda su quale dei ministeri sia il «migliore», «più ragguardevole», Paolo indica la via per diventare «ragguardevoli» nella Chiesa: la carità (12,31b-13,13).

Dopo aver celebrato la «via» della carità per diventare «grandi» nel presente e nell'eternità, confutata la «via» della presunzione e del vanto, alla luce del principio della complementarietà e varietà dei doni elargiti dallo Spirito nel «giardino» di Dio che è la Chiesa, nel c.14 l' Apostolo può affrontare la questione delle finalità e del corretto esercizio dei carismi della profezia e glossolalia, per l' edificazione dell' unico corpo di Cristo.

I due carismi sono esaminati nei mutui rapporti, nella loro individualità e alla luce della più generale vita della Chiesa. Il confronto di valore si articola nel modo seguente:

a) la glossolalia inferiore alla profezia (utilità interna): 14,2-5;

b ) insufficienza della glossolalia: 14,6-19;

a') la glossolalia inferiore alla profezia (utilità esterna): 14,20-25.

Sul piano personale la glossolalia è un dono perchè lode al Dio inesprimibile, ma a livello comunitario necessita di chi la interpreti, a differenza del carisma della profezia, che non ne ha bisogno.

Dopo un versetto di transizione ( 14,26), Paolo definisce le regole che devono essere osservate sia dai glossolali sia dai profeti (14,27-33.36-40), unitamente a un' esortazione a evitare nella concreta comunità di Corinto ogni tipo di confusione durante le celebrazioni comunitarie; di qui l'invito alle donne a non chiedere spiegazioni durante gli incontri, ma in casa ai propri mariti (14,33b- 35), poiché tutto deve essere fatto con ordine (katà tàxin) e convenientemente (euschêmònôs).

Conclusioni

I carismi sono eccellenti doni dello Spirito per la crescita della fede personale e comunitaria, e richiedono discernimento e docilità. Tra di essi non è possibile stabilire una gerarchia di onore, poiché sono finalizzati alla reciproca edificazione nel corpo di Cristo. Questo quadro rende vano ogni tipo di rivendicazione tra glossolalia e profezia, giacché il Dio professato è un Dio che parla e rende capaci di parlare efficacemente, a condizione che si viva nella logica dell’amore.

(da Parole di vita, 3, 2002)

Sabato, 06 Maggio 2006 20:42

28. Le devozioni

Sarebbe una perdita dimenticare quelle devozioni che la pietà popolare ha reso tradizionali. In esse, se celebrate con giusto spirito, si trova la ricchezza della preghiera.

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentacinquesima parte

2. L'interiorità

Gustare Dio (è risonanza del Sal. 33, 9) produce un cambiamento determinante per il resto della vita. Il P. Colin ritiene anche che questa esperienza all’inizio del cammino religioso sia un punto di riferimento per tutto il resto della vita:

“Più tardi nello scorrere della vita, quando uno ha gustato Dio, se ne ricorda e vi ritorna con piacere” (Ibid., Doc. 63, n. 3, p.190; Doc. 64, n. 1: “Una volta che essi (i novizi) sono uniti a Dio essi si arricchiranno più in un giorno che attraverso quello che voi potrete fare. Sì, se essi hanno gustato Dio una volta, voi non avrete più che una sola preoccupazione, sarà quella di moderarli”.)

Lo spirito d’interiorità introduce nella vita “in Cristo”, riveste il religioso di lui; è come essere il “corpo del suo corpo e l’anima della sua anima”. Al P. Eymard consigliava:

“Dato che la nostra vita è una vita di azione, rivestendovi di Nostro Signore, voi sarete sempre in pace e la vostra stessa anima sarà sempre occupata come in una dolce preghiera”. (Ibid., Doc. 45, nn. 1-2)

l’interiorità consiste nello stabilire l’anima in un atteggiamento di preghiera. L’ideale non la quantità, bensì l’immergere l’anima in uno stato di preghiera, avvolgerla con lo “spirito di adorazione”, alimentarla con il “gusto per la preghiera”: essa infatti è la linfa che nutre l’albero e l’olio che alimenta la lampada:

“Colui che non ama la preghiera assomiglia ad un albero morto o almeno languente… E’ un albero che produce foglie, forse anche qualche fiore, ma non dei frutti… E’ una lampada che fa del fumo o che è sul punto di spegnersi”. (Ibid., Doc. 132, nn. 8-9)

Il traguardo che il P. Fondatore propone ai Maristi, da una parte, prevede che sia raggiunto con le pratiche di pietà le più normali e senza stravaganze e individualismi (Constit., art. VII, nn. 37 ss., pp. 12ss; Ibid., cap. II, art. II, n. 95, p. 35) e, dall’altra che si percorra il cammino della vita interiore fino all’unione mistica con Dio. Per questo maestro “in rebus divinis viisque spiritualibus peritissimo”, ci si applichi a fondo allo studio della teologia mistica (“Parole di un fondatore”, cap. III, art. V, n. 153, p. 53), già iniziato negli anni dello scolasticato e ritenuto da P. Colin un supplemento indispensabile alla teologia scolastica, senza il quale non si potrebbe conoscere, né dirigersi e neppure dirigere gli altri (“Parole di un fondatore”, op. cit., Doc. 79, n. 7, p. 226).

Tra le pratiche che al P. Colin sembrano le più atte a mantenere e favorire lo spirito dell’Istituto, la meditazione (Constit., cap. II, n. 86, p. 31,; Ibid., art III, n. 107, p. 38) occupa un posto di particolare rilievo: essa è “fon set origo omnium bonorum spiritualium” (Ibid., cap. V, art. I, n. 182, p. 62), a cui si attinge la sapienza della vita.

S. Giovanni Crisostomo ed il suo tempo
Conferenza di S. Em.card. Špidlík





Don Sergio Mercanzin:

Quando un nostro collaboratore ha invitato padre Špidlík a tenere qui una conferenza su Giovanni Crisostomo, ha risposto: “Volentieri, ma ad una condizione: che io sia ancora vivo!”. Non solo è vivo, ma nel frattempo è diventato cardinale! La porpora non gli ha tolto lo humour. Sembra che a qualcuno lui abbia detto: “Che vuoi, c'è chi cade dal motorino e chi diventa cardinale”. Ho incontrato questa mattina un sacerdote greco il quale ha detto che il cardinalato dato al padre Špidlík è un grande riconoscimento all'Oriente cristiano e a tutti coloro che, come lui, lo hanno fatto conoscere ed amare all'Occidente. Mi diceva prima padre Špidlík che alcune chiese ortodosse proprio ufficialmente, ad esempio il patriarca ecumenico Bartolomeo, hanno esultato - glielo hanno detto - per questa nomina, perché hanno visto in questo un riconoscimento altissimo della spiritualità orientale. Padre Špidlík ha insegnato per mezzo secolo a discepoli in tutto il mondo, tra i quali anche il sottoscritto. Ha ricevuto premi da cattolici e da ortodossi, i suoi libri sono tradotti in tantissime lingue, compreso l'arabo. Per presentarlo preferisco, però, citare una intervista che ha dato alla rivista 30giorni. Chiedono a Sua Eminenza: “Lei ama spesso ricordare Serafino di Sarov, forse il più grande mistico russo dell'800”. Risposta: “Il più grande? Meglio non dare premi. Davanti a Dio chi è più grande? Può darsi una mamma che ha educato cinque figli”.

P. Špidlík questa sera ci parla di S. Giovanni Crisostomo.



S. Em.card. Špidlík:

Allora dobbiamo parlare di Giovanni Crisostomo. Una volta ho comprato alla vecchia sede della Libreria Russia Ecumenica una piccola icona dei “Tre gerarchi” che raffigurava S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzieno e S. Basilio, tre vescovi, senza iscrizioni che indicassero chi era ognuno dei tre; però si potevano riconoscere. Secondo le regole iconografiche S. Basilio deve avere la barba nera a punta, S. Gregorio Nazianzieno deve avere la barba quadrata e S. Giovanni Crisostomo deve avere una barbetta ed essere semicalvo. Era davvero così?

Beh, le icone lo dicono - o lo ricordano o lo sanno per rivelazione - dunque io non lo metto in dubbio.

Brevi cenni sulla vita di S. Giovanni Crisostomo

Della vita diciamo solo molto brevemente che Giovanni Crisostomo è nato ad Antiochia fra il 345 e il 350, a metà del secolo. In quel tempo c'erano ancora due mondi cristiani, greco e semitico, ma cominciavano a fondersi gli influssi dell'uno e dell'altro. S. Giovanni Crisostomo che è nato ad Antiochia è diventato poi Patriarca di Costantinopoli ed anche la sua educazione in certo senso ha risentito della mescolanza di due atteggiamenti qualche volta abbastanza diversi verso le cose. Gli antiocheni, come semiti, conoscevano meglio la Bibbia perché la leggevano nello spirito, nella mentalità semitica, nella quale era stata scritta. La mamma era vedova ed educava questo figlio che aveva però anche un altro educatore, greco, Libanio, sofista. Giovanni è andato a scuola della Scrittura da questi autori di cultura semitica, tra i quali il futuro vescovo Teodoro di Mopsuestia, uno di questi “duri”. Fu ordinato lettore, ma pensava all'ascesi - questi antiocheni avevano queste montagne, questi asceti, stiliti, reclusi, ecc. Il ragazzo è andato a fare l'ascesi e si è ammalato. Dunque tornò in città e fu ordinato diacono e sacerdote e predicò nella grande chiesa di Antiochia con grande successo - da ciò viene il suo nome Crisostomo (bocca d'oro)! Nel 397 morì il Patriarca di Costantinopoli e lui fu eletto nuovo Patriarca e l'anno seguente consacrato, ma un asceta e un semita a Costantinopoli, non poteva non creare dei conflitti, diciamo come un napoletano a Torino, o un piemontese in Sicilia. Tutto va bene spiritualmente, in spostamenti come questi, ma ci sarà qualche problema! Lui, asceta, arriva in una grande città e comincia a picchiare in testa a tutti i vizi, soprattutto all'imperatrice Eudossia, la quale ha poi convocato il sinodo che ha deposto Giovanni Crisostomo. Ma tutto era stato fatto troppo in fretta, era troppo scandaloso e la deposizione fu ritirata. Ma lui picchiava di più. Dunque arrivò il decreto di esilio, prima in Armenia. Ma là riceveva ancora troppe lettere, troppe visite. Dunque vollero mandare nel Ponto, ma morì sulla strada.

La sua vita non sembra così lunga come si pensa, quando si vede tutto ciò che si è scritto di lui. Quante prediche, quanti trattati - c'è anche lo pseudocrisostomo; chissà chi lo imitava o copiava.

I temi da lui affrontati sono diversissimi e io ne approfittavo sempre molto. Perché nella collezione dei Padri, curata dal Migne, ci sono gli indici. Allora quando si cercava un bel testo si trovava più facilmente che negli altri Padri.

Vivere per imitare Dio

Cominciamo dal primo principio che, allora, si cercava: quale è la fondamentale legge morale?

Sappiamo che c'erano due diverse tendenze. Gli stoici dicevano: “vivere secondo natura”, i platonici dicevano: “imitare Dio secondo le possibilità”. Vivere secondo natura è passato fino a S. Tommaso, a Dante, ecc., nella morale cristiana. Ma i primi cristiani avevano un po' paura di questo termine. Questa natura, questo destino! Contro il destino scrivevano molti autori, perché avevano paura del destino. Così come oggi, quando parliamo di diritti naturali, abbiamo anche paura di cosa ci mettono dentro. I platonici dicevano: “imitare Dio secondo la possibilità”. Aristotele all'inizio della sua morale distingue tre tipi di uomini. Prima categoria: gli uomini che vivono la vita utilitaria, mangiano per lavorare e lavorano per mangiare. Non sono mai felici! Il secondo tipo è di coloro che vivono la “vita politica”: i politici che lavorano per gli altri - in quel tempo ancora si credeva che i politici lavorassero per gli altri! Vita apostolica, fanno felici gli altri. Ma la vita più felice è la vita contemplativa: elevare la mente a Dio. Allora la contemplazione è la vita più perfetta. Allora la vita contemplativa. Questo è certo, ma Crisostomo non era così meccanico come altri. Si domanda: chi è quel Dio che vogliamo imitare? Questo è il problema secondo me anche oggi, quando si imitano queste contemplazioni del lontano Oriente. Chi è quel Dio? Per i platonici è un'idea, per i cristiani Dio è Padre, non un'idea, ma una persona. Io ho detto altre volte - devo stare attento per non dire qualche eresia! - che noi latini abbiamo un po' falsificato il Credo. Sapete perché? Abbiamo messo una virgola. Perché noi cantiamo “Credo in unum Deum” e poi “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Ma in quel tempo non c'era nessuno che dubitasse dell'esistenza di Dio. La professione di fede era: “Credo in un solo Dio Padre, che è onnipotente e creatore del cielo e della terra”. Dunque Dio è Padre e Crisostomo insiste “imitare Dio”, Dio è philantropos, amante degli uomini. Lo si può dire degli dei pagani e dei platonici che amano gli uomini? No, non si può dire, mai.

Eros e agape. Amare Dio nel prossimo in S. Giovanni Crisostomo

Voi sapete qual è il trattato classico sull'amore prima del Cristianesimo? Il Symposium di Platone. Symposium: bevono un po' insieme e discutono; questo è la vera teologia, no? Discutono: come si dice “amore” in greco? EroS. Eros è nato dal padre cielo e dalla madre indigenza. Cosa significa questo? Io non ho soldi (indigenza della tasca), ma vedo il padre economo che ne ha la cassa piena, comincio ad amare quella cassa! Cioè l'uomo ama ciò che vede e non ha. Se ho lo stomaco vuoto amo la pastasciutta, se amo il movimento seguo il calcio, la Juve, la Roma ecc. Se amo la musica sono musicista, se amo la filosofia sono filosofo e se amo Dio sono l'uomo più divino che possa esistere. Dunque l'uomo secondo Platone è tanto grande quanto grande è il suo amore. Questo suona molto bene, questo testo poteva essere preso dai cristiani come tale. S. Agostino ha copiato parecchie di queste cose, però qualche cosa non va. L'uomo ama ciò che non ha. Ma che cosa Dio non ha? Ha tutto. Può desiderare allora qualcosa? No! Dunque il dio platonico non può amare gli uomini, non è philantropos, è un'Idea in alto, come se diciamo: “noi amiamo il sole e il sole non ama noi”. Siamo solo noi, da una sola parte, ad amare. Voi sapete quando si usa l'espressione amore platonico, quando un ragazzino ama una diva del cinema e questa non ne sa niente. C'è amore solo da parte del ragazzo. Dunque noi amiamo Dio, ma Dio non ama noi.

Ma noi amiamo Dio perché, come dice S. Giovanni, Lui ci ha amati per primo. Allora queste cose non vanno. S. Paolo e S. Giovanni dicono che Dio è amore; si può dire allora che Dio è eros, desiderio?

No, non si può dire, perciò hanno trovato un'altra parola greca: agape. Dunque abbiamo due nomi diversi per l'amore: eros e agape. Uno significa desiderare e l'altro avere e dare. Il Vangelo spiega questo molto bene con un testo in cui Gesù dice: “Se amate i vostri amici e parenti in cosa siete diversi dai pagani? Anch'essi amano gli amici perché li desiderano. Amate i nemici perché nessuno desidera avere nemici. Se amate i vostri nemici sarete come il Padre vostro in cielo che dà la pioggia per i buoni e per i cattivi”. Dunque “amare” in senso cristiano significa regalare. Allora eros e agape. C'è un vescovo protestante scandinavo, A.Nygren, che ha scritto un libro su questo, “Eros e agape”, e la sua sentenza è più o meno questa, (ha fatto una buona raccolta di testi). Dice: “All'inizio il Vangelo distingue molto bene questi due amori, ma la gente non ha capito bene, ha mescolato tutto insieme e così sono nate la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Hanno mescolato questi due amori, senza rendersene conto. Per fortuna è venuta la Riforma che ha detto di non desiderare la beatitudine in cielo, di non cercare i meriti e tutte queste cose - questo è eros. Bisogna avere agape, regalare e non cercare di ricevere qualcosa da Dio”. Cosa dite voi? Qual è il vostro illuminato parere?

Diciamo che distinguere è bene, separare no. Dio è agape, ma noi siamo sia eros che agape. Se non desidero mangiare vado dal medico per curarmi, se non desidero studiare sarò bocciato. Dobbiamo desiderare, ma, inoltre, siamo capaci anche di amare, cioè dare. Dunque Dio ci ama e noi, secondo il suo esempio, dobbiamo essere capaci di questo amore divino. Questo amore divino a chi si rivolge? Si rivolge a chi incontro. Ma possiamo amare Dio? Era tanto difficile affrontare questi temi che poi i Padri non volevano mai scrivere sull'amore. Dicevano: “E' troppo difficile”. Climaco dice “Chi parla d'amore parla di Dio”, meglio lasciar stare. Solo S. Basilio all'inizio della sua Regola dice quattro motivi per i quali amiamo Dio.

Ognuno ama la luce, Dio è la luce infinita. Che cosa è, eros o agape? Ognuno ama la luce e Dio è la luce infinita. E' eroS.

Ognuno ama la bellezza, Dio è la bellezza infinita. Che cos'è? Eros.

Ognuno ama i benefattori, Dio è il nostro più grande benefattore, io amo Dio. che cos'è? Eros.

A questo punto, Basilio dice il quarto argomento. Io ve lo dirò, voi riderete, ma io non so come dirlo altrimenti. Immaginatevi il giudizio finale, a sinistra sono i dannati, a destra gli eletti e Basilio si trova tra i dannati. Viene il diavolo davanti a Gesù Cristo e dice: “Vedi quel Basilio? Tu l'hai creato, io no, ma lui ha seguito me. Tu gli hai dato tanti benefici, io gli ho dato soltanto guai, ma lui ha seguito me. Tu gli hai promesso beatitudine, io l'inferno, ma lui ha seguito me”. Basilio dice: “Va bene finire all'inferno, ma che quel diavolo possa vantarsi così davanti a Gesù Cristo io non lo sopporterei!”. Che cos'è questo? Che l'uomo può dimenticare se stesso e dire che l'interesse di Dio è superiore al mio. Questa noi la chiamiamo “contrizione perfetta” e quella purifica l'anima da tutti i peccati, perché solo Dio è capace di darcela. E' un po' difficile.

S. Giovanni Crisostomo è più concreto e dice: “Possiamo amare Dio? Sì, nel prossimo”. Perché Cristo ha detto “ciò che avete fatto a lui l'avete fatto a me”, e così Dio è philantropos, ama noi. E noi possiamo amare Dio. Allora ha fatto una bella sintesi della cultura greca con un precetto del Vangelo. Questa filantropia divina è una cosa molto importante. Allora, più che l'amore di Dio comincia a parlare dell'amore cristiano. Parla sempre dell'amore cristiano. Ma qual è l'amore cristiano? Lui dice che è soprattutto agape, perché eros è sempre un po' passionale. Amo, amo, amo, poi la passione passa e ti odio! Il vero amore non può passare, è stabile, perché è regalare. Se accetti, bene! Se non accetti, non importa.

Un proverbio tedesco dice: “L'amore che poteva passare non era amore”. Era una passione. Eros è passionale. E' sempre particolare, verso una ragazza e non verso l'altra. “Io amo Gina, non te!”. I monaci dicevano che bisogna amare tutti gli uomini senza distinzione, chi ama uno più dell'altro non è un vero cristiano. Come principio va bene, ma non è facile applicarlo. E' strano quando leggiamo le regole monastiche: è sempre vietato severamente l'amore particolare. S. Basilio dice: “Se c'è tuo fratello nel monastero, devi dimenticare che è tuo fratello. E' un fratello come gli altri”. Tutti uguali.

Anche in seminario si perseguitavano gli amori particolari. Quando due stavano tanto insieme, il Rettore diceva: “Mescolatevi, mescolatevi”. Più tardi, l'unica prudente era S. Teresa d'Avila che diceva: “Nei piccoli monasteri l'amore è uguale, ma nei grandi monasteri se non hai qualche amore particolare non hai amicizia con nessuno”. Questo vale per il mondo che è un monastero troppo grande! Se voglio amare americani e africani, ma dimentico che sto a Roma... Il principio formulato è: amore uguale per tutti. Poi Giovanni Crisostomo dice, l'amore passionale è facilmente attratto dal corpo, mentre l'amore spirituale è più concentrato sul bene dell'anima. Il bene dell'anima è dare il buon esempio, non dare scandalo. Una cosa che i monaci consideravano come grande beneficio dell'amore era rimproverare i difetti, la “correzione fraterna”. Sapete che nei monasteri c'era il capitolo, il monaco si inginocchiava in mezzo e tutti dicevano: “Tu fai questo, tu non hai pulito questo”, e lui: “Ringrazio per il vostro amore”. Più tardi dicevano con più prudenza Teodoro lo Studita: “Deve farlo chi sa farlo con carità, altrimenti succedono guai”, perché è come curare una ferita con il coltello. Non va bene!

L'amore particolare del matrimonio in S. Giovanni Crisostomo

Adesso vorrei trattare un argomento sul quale ho fatto un articolo. Lo consideravano come una scoperta, ma poi hanno detto: “Sì, è vero!” L'amore matrimoniale, qual è? Cade in questi termini monastici o no? E' amore “particolare”: si ama la moglie più della vicina, ecc. L'obiezione qual è? Questi monaci, con questi principi, hanno sempre parlato della verginità, mentre della spiritualità del matrimonio non scrivevano niente. Mancava totalmente. Beh, totalmente no. Agostino aveva scritto varie cose ed io ne ho cercato i testi. S. Giovanni Crisostomo che stava in mezzo alla gente, a Costantinopoli, si rendeva conto che doveva esserci una posizione della Chiesa verso il matrimonio. Crisostomo parte dal problema del tempo. Il problema del tempo era in un certo senso simile a quello di oggi. C'erano molti schiavi che alla fine ricevevano la libertà, perché nell'Impero cristiano a questi schiavi, divenuti vecchi, davano cristianamente la libertà. Ma cosa potevano fare questi poveri vecchi? Si radunavano insieme, alcuni dicevano che dovevano avere anche la cittadinanza, perché tutti gli uomini sono uguali. E' interessante che anche Marco Aurelio, che perseguitava i cristiani, diceva questo, ma lo diceva in questo senso: “Siamo tutti della stessa natura e nell'Impero romano tutti devono avere gli stessi diritti”. Questo piaceva anche ai Padri della Chiesa: siamo tutti uguali, prendiamo parte all'uguaglianza degli uomini. Ma quando Crisostomo era ancora studente, c'era Giuliano l'apostata, portatore di una reazione di nazionalismo romano: “Noi siamo romani, non come questi extracomunitari. Non è vero che tutti gli uomini sono uguali. Perché i cristiani dicono che discendiamo tutti da Adamo? Come è possibile se uno è bianco e l'altro è nero, uno è intelligente, l'altro stupido? Tante differenze. Gli uomini sono tutti differenti, è inutile dire che sono uguali”.

Cosa rispondevano i Padri della Chiesa? Hanno preso un principio: Dio ci ha creati tutti uguali, le differenze vengono dal peccato. Dunque se ci sono ricchi e poveri è colpa del peccato, dell'avarizia. Noi dobbiamo superare la differenza tra ricchi e poveri; questo è un obbligo per i cristiani. Stupidi ed intelligenti devono avere diritto all'istruzione, come ai tempi moderni.

C'è però un'altra differenza: ci sono l'uomo e la donna. Da dove viene questa differenza? Dal peccato? L'unico che ha avuto il coraggio di sostenerlo era Gregorio di Nissa. Diceva che dopo essere stati scacciati dal Paradiso hanno ricevuto un vestito di pelle e questo era il sesso. Il sesso sarebbe stato solo dopo il peccato, ma nessuno poteva accettare questo. Dio stesso ha creato l'uomo e la donna. Perché Dio ha fatto questa differenza, per procurare guai? Tutte le guerre cominciano nella famiglia, perché Dio ha fatto questa differenza? La maggior parte dei Padri è “femminista”. Affermavano: “Tutte le differenze sono nel corpo, ma l'anima è uguale. L'anima è l'immagine di Dio e nell'anima l'uomo e la donna sono uguali per la vita spirituale”. Infatti le Regole per le benedettine e i benedettini, basiliani e basiliane, sono uguali, per la donna e per l'uomo, perché la vita spirituale non conosce differenza tra uomini e donne. C'è una biografia, se non vera è molto ben trovata, di S. Marina. S. Marina voleva entrare nel monastero, ma i monasteri femminili erano troppo pieni e non l'hanno accettata, così è entrata in un monastero maschile e nessuno si accorse che era una donna. E' successo però che nel villaggio una donna doveva partorire e gli impiegati dello Stato volevano sapere chi fosse il padre del nascituro. Uno di quei monaci era salito là. Allora li misero tutti in fila e fu indicata proprio Marina. Lei non disse nulla, lavorò il doppio per nutrire il bambino e solo alla sua morte si è scoperto che era vittima di calunnie.

Si sosteneva che la spiritualità maschile e femminile è uguale. Solo S. Giovanni Crisostomo dice: “Hanno lo stesso valore, ma non sono uguali”. La matematica non è né maschile né femminile, ma l'atteggiamento verso la matematica può essere differente nell'uomo e nella donna. Così la vita spirituale: è dello Spirito Santo, ma l'atteggiamento verso di essa può essere differente. Sono dunque diversi! E si chiede: “Perché Dio ha fatto questa differenza?” Secondo l'antica mitologia greca, i giganti si erano ribellati a Giove il quale li aveva tagliati in due e da allora una metà cerca l'altra. Va bene, ma tutte queste sono favole! La risposta di S. Giovanni Crisostomo secondo me è bellissima. Non è ancora abbastanza apprezzata, ma è bellissima: “Affinché l'unione fosse non della natura, ma per mezzo dell'amore, l'amore che unisce due persone differenti”. Quindi il matrimonio è sacramento dell'amore. E' imitazione della SS. Trinità, come il Padre ama il Figlio, così il marito ama la moglie e per mezzo dell'amore si trasferisce sulla terra il grande sacramento del matrimonio. E' bellissimo.

L'amicizia spirituale, il celibato e la verginità

Adesso però potreste dire: “Va' e sposati!” Per me sarebbe facile, perché sono ancora giovane, ma per gli altri non lo so! (Il cardinale ride). Perché non andate in tutti i monasteri dalle suore e dai monaci a dire “Sposatevi perché questo è il sacramento dell'amore”? Offro 50 euro per una buona risposta. Di nuovo Crisostomo ha una bellissima risposta “L'amore è partecipazione di Dio e deve crescere”. E come cresce? Come la Bibbia: dall'AT al NT, dal corporale allo spirituale. All'inizio l'amore è piuttosto corporale, ma deve crescere nella spiritualità e quelli che capiscono che possono amare gli altri spiritualmente, scelgono il celibato. La Bibbia dice: “Chi lo può capire, capisca”.

Dunque verginità e matrimonio sono opposti ma, in un certo senso, la verginità è, in un certo senso, continuazione del matrimonio. Alla fine dei secoli non ci si sposerà più perché tutti avranno l'amore spirituale. Voi sapete che lo stesso pensiero si trova in pensatori moderni che dicono: “All'inizio è attrazione sessuale, ma questa deve svilupparsi in vera amicizia”. Se fra marito e moglie non cresce l'amicizia, il matrimonio fallisce. E' una bella cosa. Una volta dovevo tenere a Milano una conferenza all'Università. L'hanno annunciata: padre Špidlík parlerà della teologia del sesso. Era così pieno che quasi non riuscivo ad entrare! Ma alla fine molti ragazzi mi hanno chiesto: “Ma perché non ci dicono queste cose? Ci dicono solo: questo si può, questo non si può!” Bisogna capire che qui c'è un dinamismo, che se si blocca questa evoluzione è una tragedia. Crisostomo aveva capito molto bene questo, ma non aveva molto tempo per svilupparlo. Soltanto, agli eretici che criticavano il matrimonio rispondeva: “Perché calunni il nido dal quale sei uscito?” Infatti nel rito bizantino c'è la festa della concezione della beata Anna. Dal santo matrimonio di Gioacchino e Anna nasce la Vergine. Questo è amore fra gli uomini.

Il valore del lavoro: Adamo lavorava, prima del peccato, per sviluppare la sua personalità

C'è un altro aspetto moderno che Crisostomo ha sviluppato molto bene: il lavoro. La manifestazione dell'amore è il lavoro. In quel tempo evidentemente il lavoro, soprattutto quello manuale, si stimava poco, erano le opere “servili”, dei servi - per questo di domenica sono proibite. Se zappo la terra per più di tre ore è peccato mortale, se studio fino a diventare matto, questo è bene, di domenica si può fare! C'è distinzione. Ma i cristiani cercavano di riabilitare il lavoro manuale. Crisostomo dice: “Siamo figli di un operaio. S. Paolo lavorava per non essere di peso agli altri. L'uomo è stato posto nel Paradiso per coltivarlo, il mondo è per noi, ma affinché si sviluppi, l'uomo deve lavorare”. La questione è sempre stata: Adamo, nel Paradiso, lavorava? Ma c'era già tutto, perché doveva lavorare? La risposta di Crisostomo è: “Lavorava, perché altrimenti non avrebbe sviluppato la sua personalità”. Il lavoro è necessario per sviluppare la propria personalità. Adamo lavorava e coltivava il Paradiso. Dopo il peccato cosa è successo? Al lavoro si è aggiunta la fatica, e questo è il guaio. La fatica viene dal peccato. Allora dobbiamo scappare da ogni fatica? Crisostomo dice che anche questa è medicinale, ci aiuta a superare le nostre cattive inclinazioni. Uno che lavora vince tutti i vizi. Dunque anche la fatica è molto utile. Chi non lavora non deve mangiare. L'istituzione degli schiavi era il problema del tempo. I Padri non osavano dire – e neanche S. Paolo - che non era giusta, perché tutto il sistema economico era basato su questo. Abolire la schiavitù avrebbe causato il crollo totale dell'economia. Possiamo vedere nella vita di S. Melania, che voleva dare la libertà a tutti i suoi schiavi, che questi si ribellavano. Sarebbe stato come chiudere la FIAT, una grande azienda. Non si potevano lasciare gli schiavi. Quindi si ponevano solo dei limiti: trattateli bene, trattateli come fratelli. Ma la schiavitù non era in discussione. Invece Giovanni Crisostomo, come anche Gregorio di Nissa, dice: “E' contro la natura. Dio ci ha dato due mani, non ci ha dato gli schiavi, gli schiavi ci sono stati dati dalla società corrotta”. Allora sarebbe molto bello che ognuno lavorasse tutte le cose da solo. Le donne che lavorano sono più belle di quelle che mangiano soltanto, gli uomini che lavorano sono più sani. Dunque il lavoro è una cosa molto nobile. E Crisostomo loda ciò che qualche tempo fa ci ha creato problemi, i preti-operai. C'erano molti contadini ordinati sacerdoti, non come oggi il prete che va in fabbrica, ma semplicemente nel villaggio ordinavano prete un contadino. Crisostomo in un'orazione dice: “Quando vedo questi fratelli, che un giorno arano la terra con i buoi e la domenica fanno la liturgia celeste, sono sempre molto commosso nel vedere questi semplici sacerdoti che lavorano con le mani”. I monaci cosa devono fare? C'erano i messaliani che dicevano: “Il lavoro è per i secolari, i monaci devono solo pregare”. Certi schiavi si rifugiavano nei monasteri perché è più facile cantare che zappare la terra. Questi messaliani furono condannati. Conoscete S. Benedetto che ha insegnato: “Ora et labora”. Molti messaliani scappavano anche in Occidente, anche in Italia. Sembra che a Trento ci siano questi martiri che erano arrivati, chissà come, dalla Cappadocia. Rovinarono il tempio dei pagani con grande zelo. Uno di questi vide un monaco ortodosso che lavorava dei cestini. Gli disse: “Io non lavoro”. Il monaco gli diede un libro spirituale, ma la sera, quando fu il momento di mangiare, nessuno lo chiamò. Allora lui tornò e disse: “Padre, oggi non si è mangiato?” “Sì, si è mangiato, ma noi che siamo corporali; tu che sei come un angelo di Dio, pensavamo che non ne avessi bisogno”.

Dunque - “ora et labora” - i monaci lavoravano. E non solo per se stessi, perché non hanno bisogno di tanto. Tutto quello che producono in più è a favore dei poveri. I monasteri sono diventati istituti di beneficenza. Orfanotrofi, ospedali per vecchi, scuole, tutto era opera dei monaci. C'era un grande patrologo, padre Gribomont, ha fatto fare ad uno a Bologna una tesi sul lavoro dei monaci. Il risultato era: qualche volta i monaci erano corrotti, ma i monaci corrotti cosa facevano? Mangiavano più del necessario, bevevano, ma quando l'opera dei monaci passava allo Stato, i “giusti” impiegati statali consumavano molto di più, con tutta l'onesta amministrazione! Che differenza passa tra la vita monastica e quella cristiana? I monaci non sono diversi, vogliono solo osservare tutti i comandamenti. La vita monastica è esempio della vita cristiana e la chiesa orientale è molto monastica. Non si distinguono ordini apostolici e contemplativi. Gli orientali dicono che tutti devono essere contemplativi. Il vescovo non deve perdere la contemplazione, se lo fa deve ancora stare nel monastero. Dunque si potrebbero dire ancora tante cose, ma speriamo che adesso finiamo qui e voi andate a lavorare invece di fare questa contemplazione!

Domanda

Innanzi tutto un grazie per l'esposizione chiara, provocante e luminosa. Avrei una piccola osservazione. Quando lei ha detto, molto giustamente, che Dio è pienezza e non ci può essere desiderio, indigenza, quindi eroS. Cosa che non è vera per noi creature che non abbiamo questa pienezza di essere. Tutto a posto, secondo le categorie di Atene: Dio è immutabile e anche santo, Dio non muta. Tuttavia Dio ha deciso di mandarci suo Figlio, di farsi uomo, di confrontarsi con gli uomini, di permettere che gli uomini lo rifiutino, di aspettare con amore. In questo senso, non per sua innata indigenza, ma per una sua decisione, pur essendo sovrano di tutto, lui dipende dalla cooperazione, dall'atteggiamento dell'uomo, quindi soffre finché l'uomo non lo accetta pienamente. In questo senso, un po' di desiderio c'è anche in Dio che vorrebbe che io fossi meglio di quel che sono. A proposito dell'eresia di cui lei parlava, quando stavo in Zambia c'erano dei gruppi che attendevano alle pulizie, c'era un gruppo che puliva solo la Chiesa. “Noi siamo spirituali”, dicevano, ma anche loro usavano i servizi igienici!

Risposta

Qui ci sono due problemi molto seri: come Dio può ascoltarci quando preghiamo? Filone di Alessandria, grande filosofo ebreo, ha portato all'università la traduzione dell'Antico Testamento in greco, per mostrare ai filosofi che anche noi abbiamo la saggezza. I filosofi ridevano: “Che ridicolo! Dio promette una cosa, gli Ebrei sono cattivi e lui si arrabbia; gli offrono dei buoi e lui si pacifica; dice: va bene, lo farò”. Ma Dio è immutabile! Come è possibile questo?”

Filone, buon ebreo devoto, non sapeva però cosa rispondere, diceva solo: “Se Dio non è libero, neanche noi lo siamo; siamo una macchina”. E' una risposta ad hominem. Ad Alessandria viveva Origene che diceva: “Tutto questo proviene dal nostro modo di pensare. Noi siamo nel tempo; qualcosa è prima, qualcosa è dopo, ma Dio vede tutto presente. Per lui questa cosa del prima e del dopo non esiste”. C'è un libro spirituale italiano che si chiama “Don Camillo”. Lì c'è questo problema, esposto in modo semplice. Gesù dice a don Camillo: “Senti, don Camillo, tu cammini spensierato, attraversi il binario e cadi in terra. Arriva il treno, tu preghi: oh Signore, fa che il treno passi sull'altro binario. Il treno passa là e tu ringrazi il Signore che ti ha salvato. Ma non poteva saltare da un binario all'altro, era già partito sull'altro binario!” Don Camillo non sa cosa rispondere e Gesù gli dice: “Sei tanto stupido? Non sai che prima che il treno partisse io ho visto la caduta, ho sentito la tua preghiera e ho arrangiato le cose in questo modo, sia secondo l'orario che secondo questo dialogo fra di noi”. E' una bella risposta.

Conferenza tenuta presso la Libreria Russia ecumenica, il 9 dicembre 2003.

a cura del Centro Russia Ecumenica
00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30
tel 06-6896637


Sabato, 06 Maggio 2006 19:45

Stabat Mater (Renzo Bertalot)

Il fìat di Maria non è solo l'espressione della sua fede nell'incontro con la Parola, ma anche spiega la profondità del dolore di una madre che dovrà confrontarsi con il crollo apparente delle promesse divine annunziate.

Ogni battezzato deve vivere la sua vita come un’unica e preziosa celebrazione liturgica, facendo continuamente trasparire dalle sue azioni la verità della fede cristiana.

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