Vita nello Spirito

Giovedì, 23 Novembre 2006 00:45

Il Trono di Dio (Timothy Radcliffe o. p.)

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Da una conferenza tenuta dal R. P. Timothy Radcliffe o. p. al Congresso degli abati dell’Ordine di San Benedetto sul tema del

Il Trono di Dio

Da una conferenza tenuta dal R. P. Timothy Radcliffe o. p. al Congresso degli abati dell’Ordine di San Benedetto sul tema del trono di Dio.

P. Radcliffe dopo aver brevemente ricordato quelli che sono stati, nel corso della sua vita i contatti e gli incontri con l’ordine dei Benedettini, i periodi trascorsi nelle abbazie di varie parti d’Europa, fa una prima riflessione e si pone una domanda: qual è la ragione che spinge tante persone a visitare i monasteri? Cos’è che li attira? La risposta è duplice: la bellezza del luogo o della liturgia, certamente, ma più spesso è il bisogno di cercare e di trovare Dio. Pur essendo l’attuale un’epoca di secolarizzazione, in realtà viviamo giorni segnati da una profonda ricerca religiosa e il monastero è proprio il luogo in cui si può intravedere il mistero di Dio in quanto la vita monastica ha al suo centro, uno spazio, un vuoto nel quale Dio può mostrarsi.

Vi sono tre elementi importanti da considerare: innanzi tutto la vita del monaco non ha particolari mete da raggiungere, sembra non portare da nessuna parte ed è una vita vissuta nell’umiltà, “fatta” di umiltà.

Ciascuno di questi aspetti della vita monastica contribuisce a creare quel vuoto nel quale Dio si fa spazio e il senso di questo vuoto lo si trova nella celebrazione della liturgia, è il canto dell’Uffizio, che lo colma con le lodi di Dio.

Esserci

I monaci sono generalmente molto occupati, ma non è l’attività specifica lo scopo principale della loro vita: lavorano la campagna, ma non sono contadini, insegnano, ma non sono professori, se hanno la responsabilità di un ospedale o di una missione, non sono in primo luogo né medici né missionari.

Il cardinale Hume, benedettino ha scritto: “Non pensiamo di avere una missione o una funzione speciale nella Chiesa, non vogliamo cambiare il corso della storia, siamo semplicemente là dove siamo stati posti” (Hume, In praie of Benedict, p. 23).

Ė proprio questa mancanza di obiettivi espliciti, che mostra come solamente Dio sia la ragione d’essere, segreta e nascosta, della vita monastica. Dio si manifesta come centro invisibile della esistenza del monaco, proprio in quanto egli non cerca di fornire altra giustificazione di ciò che è.

Viviamo in un mondo in cui ciascuno cerca di convincere gli altri che ciò che egli offre è necessario per migliorare la qualità della vita. E allora ci viene presentato l’ultimo modello di forno a microonde, un computer, una vacanza ai Carabi, e via dicendo… Lo stesso avviene per la religione, che viene “reclamizzata” come rimedio per essere felici per avere successo e perfino per arricchirsi. Le sette proliferano in America Latina perché promettono fonti di ricchezza e il cristianesimo si mette allora in lizza, per dimostrare di essere in grado di offrire le stesse sicurezze. E allora dopo aver proposto yoga, aromaterapia, o altre discipline, ecco l’idea illuminante: possiamo persuadere le persone a “provare” il cristianesimo per risolvere tutti i problemi, per trovare la felicità? Non si sa mai… l’idea potrebbe funzionare! Niente di più illusorio! L’essenza della vita cristiana, risiede in tutt’altra cosa e i monasteri incarnano la verità fondamentale: i monaci adorano Dio, non perché è importante, ma perché egli è; trovano in lui la manifestazione e l’essenza di tutto ciò che ha valore, la stella polare delle loro vite.

Anche in questo consisteva il carisma del Cardinale Hume, egli non ha cercato di fare del marketing religioso, né di dimostrare che il cattolicesimo è l’ingrediente segreto di una vita realizzata Egli è stato semplicemente un monaco che recitava le sue preghiere, senza prefiggersi nulla altro che non fosse la glorificazione di Dio. Un Dio che deve mostrare la sua utilità, non vale la pena di essere adorato; un Dio che deve mostrare di essere interessante, è tutto tranne un Dio.

La vita del monaco testimonia proprio questo: non avendo nulla di speciale agli occhi della gente, ha un vuoto nel suo centro ed è in esso che possiamo intravedere la gloria di Dio. In questa realtà il ruolo dell’Abate consiste nell’essere una persona che apparentemente non fa nulla e non si occupa nemmeno di attività specifiche. Mentre gli altri monaci si trovano a svolgere precise mansioni all’insegna della semplicità e dell’umiltà(infermiere, economo, responsabile dell’orto e della cantina, addetto alla stamperia…) l’Abate ha come funzione quella di essere il custode dell’identità più profonda dei monaci proprio nel momento in cui essi sembrano non aver nulla da fare di particolarmente importante.

I visitatori dei monasteri, che ascoltano cantare l’Uffizio, con lo spirito libero, scoprono che questo “vuoto” quest’apparente pigrizia, questa mancanza di ambizione sono in realtà la rivelazione dell’esistenza di Dio, della presenza di Dio al centro della vita dei monaci; sono i canti che nella loro bellezza fanno intravedere il centro segreto delle loro vite.

L’arte, nei nostri giorni, rappresenta una forma di religione. Se la bellezza, come affermava S. Tommaso d’Aquino, è veramente la rivelazione di ciò che è bello e buono, è altrettanto vero che la vocazione della Chiesa è quella di essere luogo di rivelazione di questa bellezza la sola vera ed autentica. Una buona parte della musica moderna anche nelle Chiese, è talmente insignificante, che si potrebbe parlare di una parodia della bellezza. Imperano il cattivo gusto e il kitsch Ciò accade perché anche in questo caso si considera la musica in termini utilitaristici, come qualche cosa di utile per distrarre, intrattenere, invece di vedere ciò che essa esprime.

La vita monastica è in se stessa qualcosa di molto bello, come è bella la Regola che ne scandisce il ritmo: essa non deve essere intesa come un insieme di norme per esercitare il controllo, ma deve far pensare piuttosto alla misura, alla scansione di vite plasmate e formate; in una perfetta analogia con la disciplina musicale. Per sant’Agostino, vivere virtuosamente vuol dire vivere musicalmente, essere in armonia. Secondo lui, amare il proprio prossimo vuol dire “conservare l’ordine musicale”. Ancora una volta è proprio il canto liturgico che manifesta il senso della vita del monaco; la sua bellezza è legata alla temperantia,, deve conservare il giusto ritmo, non essere né troppo veloce, né troppo lento. E a questo punto nasce spontaneamente la similitudine con la Regola, che, analogamente, propone la temperanza, una vita misurata, senza nulla di eccessivo.

Ascoltando i monaci cantare, riusciamo a percepire l’armonia che costituisce la loro vita, e che è scandita dal ritmo e dall’armonia della Regola di san Benedetto. La lode di Israele diventa così un trono per la gloria di Dio.

Non andare da nessuna parte

La vita del monaco incuriosisce anche perché sembra non condurre da nessuna parte; non ci sono gradini da scalare, né promozioni da conseguire; la sola meta da raggiungere è l’umiltà. Ed è ancora la Regola che aiuta in questo cammino. Se nel pensiero corrente una vita senza promozioni, gratificazioni non ha senso, nella vita dei monaci è proprio questa assenza di progressione che dimostra che è Dio il fine ultimo delle loro esistenze. Il canto dell’Uffizio e le celebrazioni monastiche dell’anno liturgico rappresentano la storia del cammino dell’umanità verso il Regno, dall’Avvento alla Pentecoste, culminando nel tempo ordinario. I differenti tempi liturgici devono essere connotati da melodie diverse, da colori diversi, come le stagioni per non essere messi sullo stesso piano degli altri ritmi che scandiscono le nostre vite: l’anno finanziario, l’anno scolastico… I tempi dell’anno liturgico che marcano il ritmo più profondo della vita monastica segnano le tappe nel cammino verso il regno di Dio, verso la libertà. Questa conquista si attua sempre, nonostante errori e scelte sbagliate. Per S. Agostino, la storia della redenzione è come una sinfonia che ha in sé tutte le dissonanze e le stonature delle debolezze umane, ma che accoglie tutti i nostri errori cancella tutte le nostre manchevolezze; la cosa grande è che Dio non cancella le nostre note stonate, ma trova loro una sistemazione nella partitura e il risultato finale è il trionfo della bellezza che si realizza in una struttura in cui tutto è al suo posto.

Il punto sommo di questa armonia è rappresentato dall’Eucarestia, In essa le più profonde dissonanze nella nostra relazione con Dio, sono raccolte trasfigurate in bellezza, in un gesto di amore e di dono Continuando nell’immagine, si può dire che la sinfonia annuale del pellegrinaggio verso il Regno, ha bisogno di essere accompagnata dalla musica quotidiana dell’Eucarestia.

Lo spazio interiore

L’elemento fondamentale della vita monastica è l’umiltà Essa costituisce il mezzo per creare quello spazio vuoto nel quale Dio possa prendere dimora. Cos’è l’umiltà in un’epoca in cui la nostra società sembra invitarci a coltivare il contrario? Non consiste certamente nel ripetere a se stessi di non valere nulla, di essere come vermi della terra. e non è nemmeno come qualcosa di esclusivamente personale e privato, una presa di coscienza della propria miseria, della propria inadeguatezza. San Benedetto ci insegna che cos’è la vera umiltà e indica la strada più corretta per raggiungerla e viverla: costruire una comunità nella quale essere liberati dallo spirito di competizione, dalla rivalità, dalla lotta per il potere. Ė un nuovo tipo di comunità, strutturata nel rispetto e nell’obbedienza, in cui non vi è nessuno che occupi il centro; il centro è uno spazio vuoto, riempito dalla gloria di Dio. L’umiltà non è il sentimento estremo, deprimente, di coloro che odiano se stessi, ma il sentimento di coloro che si riconoscono creature e che accolgono l’esistenza come un dono. Non consiste nel disprezzare se stessi e pensare che si è delle nullità, ma nello scavare il cuore della comunità per liberare uno spazio in cui il Verbo possa venire a piantare la sua tenda. Ancora una volta, è nella liturgia, quando si sentono i monaci cantare le lodi di Dio, che ci si può rendere conto della bellezza dell’umiltà e della libertà che essa dona. Non si può cantare all’unisono se ciascuno cerca di mettersi in evidenza e si sforza di cantare più forte del suo vicino. Cantare armoniosamente in comune, imparare a dare ciascuno la propria nota e a trovare il giusto posto nella melodia, insegna a diventare fratelli. La musica guarisce l’anima e la comunità.

Qual è il ruolo dell’Abate in tutto ciò? Esprimendosi sempre in termini musicali, si può dire che egli non domina il canto, non soffoca la voce degli altri monaci, ma lascia che l’armonia si muova liberamente.

Il grado più alto dell’umiltà per un monaco, è quando egli scopre che non solo non è il centro del mondo, ma non è nemmeno il centro di se stesso. E il vuoto in cui Dio pianta la sua tenda, non è solamente al centro della comunità, ma è al centro del suo stesso essere. La vocazione principale dei monaci è forse quella di mostrare la bellezza di questo vuoto, di essere individualmente e comunitariamente dei templi in cui la gloria di Dio può prendere dimora. Il canto delle lodi intese come creazione artistica, fa eco alla prima creazione perché è attraverso l’opera d’arte che possiamo farci l’idea di ciò che è stata la creazione del mondo. Per S. Agostino è nella musica, nella quale il suono esce dal silenzio, che possiamo in qualche modo capire ciò che per l’universo vuol dire non poggiare su nulla, essere contingente e, per noi, essere delle creature: “L’alternanza del suono e del silenzio nella musica è intesa da S. Agostino come una manifestazione dell’alternanza del venire dell’esistenza e del passaggio al non-essere che deve caratterizzare un universo creato a partire dal nulla” (Catherine Pickstock Music: Soul and city and cosmos after Augustine in Radical Ortodoxy, ed. John Millbank, Londra, 1999, p. 276, n. 131).

Ed ancora, per citare Steiner, la musica “è l’orma che si rinnova senza cessa del momento originale, il primo fiat inaccessibile” (G. Steiner, Real Presences, Londra, 1989, p. 202, 210). Ė l’eco del big bang come dice Tavener, il pre-eco del silenzio divino. 

(da La Vie Spiritelle, Cerf, giugno 2002. Tradotto e adattato da M. Grazia Hamerl)

Letto 1542 volte Ultima modifica il Giovedì, 23 Settembre 2010 23:19
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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