Il monaco, uomo dell'Avvento
di P. D. Donato Ogliari osb
Nel descrivere il monaco come "colui che si affretta verso la patria celeste" (RB 73,8), Benedetto lo inserisce in una prospettiva escatologica. Tale prospetti-va è anche una delle caratteristiche dell'Avvento. Esso, infatti, è un tempo che, da un lato, si fonda su un “ricordo" - la venuta di Gesù nella carne e dall'altro su una "promessa futura" - la definitiva venuta del Cristo nella gloria.
Questa doppia valenza rappresenta un forte richiamo a vivere i nostri giorni tenendo lo sguardo rivolto in avanti, e ad evitare di ripiegarlo sulle nostre preoccupazioni quotidiane.
Nella Liturgia monastica delle Ore vi sono alcune antifone dell'Avvento che ci spronano a vivere protesi verso un futuro che si annuncia carico di salvezza. Si pensi, ad esempio, alle seguenti: "Levate capita vestra: ecce appropinquabit redemptio vestra" (Lc 21,28); "Leva Jerusalem oculos et vide potentiam regis: ecce Salvator venit solvere te a vinculo" (Levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina; Alza gli occhi econtempla la potenza del tuo re, o Gerusalemme: ecco, il Salvatore viene a liberarti dalle catene).
1. Il monaco: proteso verso il futuro
Su tale sfondo, il monaco è dunque invitato a vivere il periodo avventuale con lo sguardo vigile, premuroso di scrutare il presente per cercarvi le tracce di Colui che viene a visitarci e che si offre alle nostre esistenze come "sole che sorge" (Lc 1,78), giorno dopo giorno. Come il sole, infatti, non cessa di risplendere anche quando il cielo è coperto di nubi, così il Signore si rende presente in noi e in mezzo a noi ogni giorno in maniera inedita, indipendentemente dalla nostra capacità di scorgerlo e di accoglierlo.
Questo è il motivo per cui la dimensione escatologica che l'Avvento ripropone ogni anno con insistenza - dimensione che caratterizza dal di dentro la stessa vita monastica - si raccorda intimamente con la celebrazione del Natale. È quest'ultimo, infatti, che riempie e avvalora, alla luce dell'evento dell'Incarnazione, la diuturna ricerca di Dio da parte del monaco. Il suo essere "proteso in avanti" verso il futuro nel quale lo stesso Dio gli viene incontro e lo cerca, non può che nutrirsi di una fede "incarnata" nella storia, una fede che gli fa "affrettare" il passo per riconoscere, nel dipanarsi dei giorni, la visita del Signore che ci raggiunge e ci invita ad accoglierlo nella fede e nell'amore, nella disponibilità interiore e nell'attiva generosità.
Come sappiamo, rispetto all'unicità dell'incarnazione e della Parusia, san Bernardo di Chiaravalle amava definire questa quotidiana visita del Signore come un medius adventus, un "avvento di mezzo", reiterato eppur sempre nuovo. Similmente Pietro di Blois descriveva questo avvento intermedio come un incontro che si compie nell'anima ogni qualvolta essa si apre a Dio. E se vissuto nella fede e nell'amore, tale incontro non solo va a incidere sulla "micro-storia" di chi si lascia da esso coinvolgere, ma finisce anche col ripercuotersi sulle nostre comunità, sulla Chiesa e sul mondo intero.
2. Il monaco: vigile e gioioso
Nell'invitarci a vivere la tensione escatologica e l'attesa dinamica che ad essa fa riscontro, l'Avvento ci suggerisce anche alcuni atteggiamenti congeniali per accostarci proficuamente al mistero del Deus semper veniens. Tra di essi vi sono la vigilanza e la gioia, atteggiamenti che sono propri di coloro che non vogliono essere sorpresi nella notte dall'arrivo dello Sposo (cf Mt 25,1-13) o del Padrone (cf. Mc 13).
In questi due atteggiamenti è racchiuso il senso del nostro cammino. Un cammino da compiere con cuore "vigile" e nello stesso tempo con passo "lesto e gioioso" verso l'incontro che si spera di realizzare un giorno ma che, in qualche modo, ci è dato di anticipare quaggiù, dove la nostalgia di Dio motiva e illumina la nostra attesa.
C'è un'antifona gregoriana, tra quelle proposte per l'Avvento, che esprime bene questo aspetto così "monastico" dell'attesa vigilante e insieme dinamica. E l'antifona: "Jerusalem surge, et sta in excelso: et vide iucunditatem, quae veniet tibi a Deo tuo" (Communio - III settimana), formata da due emistichi tratti dal libro del profeta Baruc: "Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull'altura (5,5a): osserva la gioia che ti viene da Dio (4, 36b)".
In questo imperativo "sta in piedi sull'altura", possiamo leggere un'esortazione rivolta al monaco affinché stia ritto, ossia perseverante in quella fede che consente di guardare alle cose di quaggiù nella prospettiva che proviene dall'alto, dal Signore stesso. E ciò anche quando sopraggiungono lo scoraggiamento e le delusioni, o quando le difficoltà personali e comunitari e sembrano non lasciare tregua e il futuro si profila incerto. Anche allora, quando si tocca con mano la precarietà del cammino e le emergenze che in esso affiorano, il monaco "sta in piedi", e non permette che il suo animo sia raggiunto da un senso di disfatta.
In alcuni passaggi della propria storia personale o di quella comunitaria, lo "star in piedi sull'altura" potrebbe assomigliare molto allo "stare" di Maria sul Calvario, presso la Croce di Gesù. Potrebbe, cioè, essere un forte richiamo a perseverare sotto il peso dell'incertezza.
Per il monaco questo impegno si esprime soprattutto nella generosità della preghiera e nella dedizione al lavoro, vissuto in una maniera seria e responsabile che non lasci appigli all'ozio, nemico del progresso spirituale. Ma è un impegno che prende forma e si dispiega anche nelle relazioni con gli altri nell’apertura della condivisione, al dialogo fraterno e al perdono reciproco. Solo così una comunità può riconoscere le "visite" che il Signore le rende quotidianamente e attirarsi le sue grazie.
Infine, nelle medesima antifona Jerusalem surge, ci viene anche rivolto l’invito ad "osservare la gioia che viene da Dio" o come dice il versetto 5b (a completamento del v. 5°): a guardare verso oriente ("...guarda verso oriente"), ossia a tenere gli occhi fissi su Gesù che come sole sorge per illuminare le genti (cf Lc 2,32). In Lui, e nell'esperienza della sua misericordia, che abbondantemente riversa su di noi, la gioia e l'esultanza del cuore trovano il loro accordo più vero e profondo.
3. Il monaco: afferrato dalla speranza
fruire di quella "prossimità salvifica" che è frutto dell'incarnazione del Figlio di Dio nella storia, non può non far vibrare il nostro animo di una speranza sempre nuova, capace di illuminare ogni volta da capo il nostro cammino.Se la fede ci permette di aderire cori certezza alla Verità, che è Cristo - quel Cristo al quale abbiamo detto il nostro "sì" nel battesimo e che abbiamo deciso liberamente di seguire abbracciando la vita monastica -, la speranza agisce sulla nostra volontà spronandoci a riconsegnarci a Lui ogni giorno con gioia. Una riconsegna che ha come presupposto la certezza che in Cristo si manifesta la fedeltà a Dio e la sua azione liberatrice nei nostri confronti.
La speranza non è una virtù facoltativa, da relegare in un angolino e da rispolverare quando si ha l'acqua alla gola. Come le altre virtù teologali, anch'essa è saldamente radicata in Dio, ed è quindi intimamente e quotidianamente connessa col cammino cristiano-monastico. La speranza è quel seme foriero di vita che preme nel buio della terra in attesa di germogliare; è quella molla segreta o quella "tensione escatologica" che dà impulso alla ricerca quotidiana di Dio nelle pieghe della storia,
Eucharistia, n. 20).Che l'Avvento sia un tempo in cui forte è il richiamo alla speranza, è illustrato anche dall'antifona Ad te levavi animam meam, tratta dal Sal 24,1-3 e posta - quasi a dargli il "La" - in apertura del periodo avventuale: "A te, Signore, elevo l'anima mia, Dio mio, in te confido: non sia confuso! Non trionfino sudi me i miei nemici! Chiunque spera in te non resti deluso". È il canto della fiducia che si dipana nell'intreccio tra speranza, da una parte, e la reale possibilità di cadere preda della confusione e della delusione dall'altra. Affinché ciò non si verifichi la speranza viene fatta propria e vissuta dal credente come un'attesa fiduciosa nella potenza salvifica del Signore, antidoto sicuro di fronte al momentaneo o apparente trionfo dei nemici, ossia del male in tutte le sue forme.
4. Il monaco: lungimirante nella pazienza
il passo, egli sa anche "attendere" quello che spera, nella consapevolezza che l'oggetto sperato non può essere forzatamente anticipato.Ad esempio, è fuor di dubbio che ogni monaco nutra il profondo desiderio di vivere radicalmente la bellezza della sua vocazione, di darsi completamente al Signore seguendolo senza riserve, di spendersi perché la sua comunità si edifichi sempre di più nell'amore, nel sostegno reciproco, nella condivisione fraterna ed amicale, e perché possa risplendere come segno di comunione in un mondo lacerato e profondamente segnato dalla logica dell'individualismo e del tornaconto. Eppure, nonostante un siffatto desiderio alberghi nel cuore di ciascun monaco, questi tocca con mano il divario esistente tra l'ideate da perseguire e la realtà del suo quotidiano. Ciò significa che se da una parte egli assume l'impegno di perseguire l'oggetto che intravede nella speranza, dall'altra egli è anche capace di at tendere con pazienza il suo avverarsi. Il monaco, cioè, perseverando nel dono di sé alla luce di quella "sapienza interiore" che anima e sorregge la sua non si arrende di fronte alle contraddizioni della vita e non cede alle contrarietà e alle tribolazioni che potrebbero frenare il suo cammino di fede e di ricerca di Dio.
La pazienza insita nella speranza non fa dunque a pugni con essa e non le tarpa le ali, poiché non è sinonimo di arrendevolezza ma piuttosto di tenacia, una tenacia irrorata di fiducia o - come dice I 'Apostolo - una "virtù provata" che dà spessore alla speranza: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza" (Rm 5,3-4).
In ultima analisi - e il tempo di Avvento è lì a ribadircelo con forza - la speranza cristiana è sempre in grado di aprirsi un varco luminoso verso la luce del Cristo, il "sì" fedele di quel Dio che è Padre e per il quale nemmeno le tenebre "sono oscure e la notte è chiara come il giorno" (Sal 138,12).
Come la notte di Natale, appunto, quando la Luce divina si è aperta un varco e ha fatto irruzione nell'oscurità del mondo depositando nella storia umana il segno indelebile di una Presenza che non verrà mai meno.
(da Il sacro speco di S. Benedetto, 6, 2005)