Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

I dieci comandamenti di Gesù
di Daniel Marguerat *



Si contrappone generalmente Gesù alla Legge. L’apostolo Paolo, che afferma «Cristo è la fine della Legge», non per nulla rientra in questa immagine. Gesù non è venuto a porre fine al regno di Mosè, e, con lui, al regno della Legge, di cui i Dieci comandamenti sono come la sintesi? Per comprendere la rilettura delle Dieci Parole da parte di Gesù, bisogna cominciare con il demolire questa immagine. Gesù non ha mai rinnegato la Torâ né sconfessato il Decalogo. Come ogni ebreo, egli lo considerava come il depositario della santa volontà di Dio. Il Vangelo di Matteo ne dà testimonianza: Gesù rimproverò anche ai suoi contemporanei di misconoscere la forza di queste parole (Mt 5, 21-48).


Di dove viene allora l'ambiguità? Cominciamo dal punto da cui è iniziata la polemica con i Farisei: la questione del sabato. La conoscenza più fine e sfumata che abbiamo del giudaismo nel I secolo ci permette oggi di dire che Gesù ha raramente violato la prescrizione del sabato. Quando guarisce un uomo dalla mano inaridita (Mc 3,1-6) o una donna inferma (Lc 13,10-17) o un idropico (14, 1-6), scegliere per questo un giorno di sabato è da parte di Gesù un gesto di deliberata provocazione. Ma salvare una vita faceva parte delle eccezioni alla regola del riposo sabbatico. E quando Gesù esprime questa idea profondamente ebraica che il sabato è fatto per il bene dell'uomo (Mc 2,27; Mekhilta Esodo 31,13), non può che incontrare l’approvazione dei suoi interlocutori. Tra le evidenti trasgressioni del riposo sabbatico, in compenso, figura il gesto dei discepoli che raccolgono qua e là delle spighe nel campo di grano (Mc 2,23-28).

Le scappatoie

I Farisei sapevano bene che la regola del riposo necessitava di eccezioni, che la vita aveva le sue emergenze, e il loro spirito pragmatico li induceva ad adottare delle astuzie. Un esempio: la regola sabbatica non autorizzava, secondo Ger 17,19-27, l'introduzione di pesi attraverso le porte. Ai Farisei non piaceva, perché impediva agli amici di mangiare insieme in giorno di sabato; essi stabilirono il principio dell'eruvin (fusione): un portale chiudeva la porta comune di più case vicine, cosicché ciascuna fosse considerata come parte di uno spazio unico; i pasti comuni diventavano allora leciti! La Torà ci tramanda che i Sadducei disapprovavano formalmente questo metodo, che, secondo loro, legalizzava la trasgressione premeditata e ripetuta del sabato (Eruvin 6, 2).

L'esempio dell'eruvin mostra che, al tempo di Gesù, era aperto un dibattito sul quarto comandamento. Non tutti i gruppi sostenevano lo stesso rigore. Gesù, a sua volta, propone la sua chiave d'interpretazione. Allora, perché ha suscitato scandalo? Si capisce così che la sua pratica più liberale non ha colpito che i più rigidi, o quelli più pii di lui. Ma, soprattutto, a differenza dei Farisei, l'uomo di Nazaret non regolamenta nulla. Egli afferma un dato di fatto: il sabato deve servire alla vita, prima di tutto. Ecco perché sceglie espressamente il sabato per guarire, non per eliminare la regola del riposo, ma per mostrare qual è la finalità di questo tempo che l'uomo deve «considerare come sacro».

La rivendicazione dell'uomo

Gesù ha reinterpretato il sesto comandamento [il quinto nella tradizione cattolica], quello dell'omicidio. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna» (Mt 5,21-22).

L'approfondimento è impressionante: l'interdizione dettata all'individuo di farsi giustizia da solo (tale è il senso del sesto comandamento) non riguarda più soltanto la vita dell'altro, ma il suo onore. Nessuno ignora ormai che gli insulti, anche banali, portano in sé la morte. La mancanza di rispetto diventa omicidio. Dipende da ciascuno di noi, e dal suo linguaggio, che l'altro sia, o cessi di essere, un uomo.

Anche in questo caso, l'interpretazione proposta da Gesù non è inedita nel suo tempo. Si possono leggere, dalla parte dei rabbini, espressioni che testimoniano quella stessa interiorizzazione del comandamento: «Colui che odia il suo prossimo, ecco, appartiene agli omicidi» (Derek Eretz 10).

Gesù sviluppa dunque una potenzialità che non era estranea al giudaismo. Però bisogna vedere che egli procede con un radicalismo ed una profondità inediti. Gesù in realtà non codifica i casi nei quali si applica o non si applica la proibizione di attentare alla vita degli altri. Dio affida alla responsabilità di ciascuno l'umanità e la vita degli altri, senza limiti né condizioni. Qualunque idea di regolamentazione è del resto portata al ridicolo dalla proposta ironica delle sanzioni (meritare l'inferno per aver dato del pazzo a qualcuno!).

Il teologo ebreo Joseph Klausner, nella sua Vita di Gesù del 1933, rimprovererà all'uomo di Nazaret la sua intransigenza: egli l'oppone alla saggezza realistica del grande Hillel, un rabbi contemporaneo di Gesù. Klausner aveva colto bene ciò che costituisce l'originalità del suo Decalogo: Gesù vede l'uomo interamente esposto alla chiamata di Dio, interamente rivendicato dalla Legge. Tutto in lui è chiamato a rispondere. È questo il motivo per cui Gesù si scosta dal realismo di Hillel e dal realismo dei Farisei, che, attraverso una rete di precetti, procuravano al credente spazi di eccezione. L'amore per l'altro è completo, secondo Gesù, oppure non c'è per niente.

Gesù non si comporta diversamente nella questione del corban. L'evangelista Marco ci riporta questa diatriba del Maestro a proposito di questa pratica pia... e perversa (Mc 7,9-13). Essa consisteva nel fare donazione al Tempio, in altri termini a dichiarare corban, dei beni che avrebbero permesso ai figli di sovvenzionare i bisogni dei loro anziani genitori.

L'argomentazione di Gesù è interessante: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre». È quindi la quinta parola del Decalogo, nella sua pura forza, che il Nazareno invoca come istanza critica e che oppone alla pia tradizione del corban. Noi ritroviamo due assiomi già intravisti nell'interpretazione di Gesù. In primo luogo, la parola del precetto è accolta senza condizioni, senza limiti, senza riparo possibile, nemmeno nascosto sotto forma di pietà. In secondo luogo, il principio che conferisce al comando la sua radicalità e demolisce ogni compromesso è l'amore del prossimo. Il bisogno dell'altro è, agli occhi di Gesù, un'urgenza assoluta. La Legge mira a condurre all'amore dell'altro, oppure non è la Legge.

Una Legge ricostituita

I Dieci comandamenti sono dunque accolti da Gesù come la raccolta della volontà santa di Dio. Egli non li contraddirà mai, ma pone le condizioni di una corretta comprensione. La sua rilettura attesta una particolare attenzione a quella che viene chiamata la seconda tavola del Decalogo (i precetti sociali) come la regola del sabato. Ma giustamente: Dio non può essere onorato nel sabato se il prossimo è lasciato nelle sue ristrettezze. Onorare Dio consiste nel prendere cura dell'altro, e questa cura può (ed anche deve) giungere al punto di rompere il riposo sabbatico. Si vede emergere il legame indissociabile che, nella lettura del decalogo, Gesù tesse tra rispetto di Dio e rispetto del prossimo. L'uno non conta senza l'altro, cosa che sarà formalizzata nel riassunto della Torà come il doppio comandamento d’amore (Mt 22,37-40). Il Decalogo diventa così la leva che permette a Gesù di sollevare tutta la Legge: ciò che non è finalizzato al bene dell'altro può cadere. Non serve che ad aumentare l'immagine che il credente si fa di se stesso. Ecco perché Gesù, senza abolirla, manifesta una regale (e sbalorditiva) indifferenza verso la Legge rituale, che codificava la salvaguardia della purezza del singolo. La vera purezza personale, avrebbe potuto dire, è l'onore reso all'altro: la formula potrebbe in ogni caso servire di conclusione al capitolo 7 del vangelo di Marco, in cui egli dibatte con i Farisei sul concetto di ciò che è puro.

Lettere di fuoco

Il solo passo dei vangeli in cui sono citate parecchie parole del Decalogo, anche se non in ordine, è l'incontro con il giovane ricco (Mc 10,17-22). All'uomo che domanda che cosa bisogna fare per guadagnare la vita eterna, Gesù cita le ultime cinque parole. Come costui afferma che le ha osservate fu dalla giovinezza, Gesù lo ama e gli dice di vendere tutti i suoi beni e darli ai poveri: «e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Si vede indicare qui quello che è sempre stato il fulcro delle Dieci parole: un testo che organizza la libertà e che invita a vivere nell'alleanza. Gesù indica a quest'uomo lo spazio della libertà da conquistare: i suoi beni. Gli è indicato anche il luogo per vivere l'alleanza: seguire il nuovo Mosè che ha voluto restituire alle Dieci parole il loro fuoco.

* Professore di Nuovo Testamento, Facoltà di Teologia, Università di Losanna.

(da Il mondo della Bibbia, n. 51)

I cristiani dopo l'incendio del tempio
di Jean-Pierre Lémonon

L’incendio del Tempio conduce il giudaismo ad una nuova avventura. Deve ormai vivere senza Tempio. La comunità cristiana si trova allora di fronte a un ebraismo che ridefinisce la sua essenza e le sue caratteristiche. Per comprendere le ripercussioni degli avvenimenti del 70 e del 135 su questa comunità, è necessario ripercorrere la storia di una corrente cristiana che, a causa del suo profondo attaccamento alle pratiche ebraiche, scomparve a poco a poco. Questa sensibilità conobbe forme diverse poiché i Padri della Chiesa ricordano a questo proposito due gruppi: i nazirei e gli ebioniti.

Per essere in grado di precisare l' eco avvenimenti del 70 e del 135 comunità cristiana, che si tratti di nazirei-ebioniti o di altre denominazioni cristiane, dobbiamo ricordare in primo luogo le testimonianze di alcuni Padri a proposito di queste due comunità di fede. Poi, al fine di identificare le radici di questi gruppi, dovremo risalire ai primordi del cristianesimo.

Ricostituire la storia del pensiero dei nazirei e degli ebioniti è difficile, poiché non disponiamo di documentazione diretta su questa componente del cristianesimo primitivo. La nostra conoscenza proviene dai Padri della Chiesa che, combattendola vigorosamente, hanno conservato qualche frammento della loro produzione letteraria, come ad esempio il Vangelo secondo gli Ebrei. I Padri sono loro ostili, poiché questi credenti rappresentavano una forma di cristianesimo diversa da quella a cui essi aderivano.

Agli inizi del V secolo, Girolamo è uno degli ultimi testimoni dell' esistenza dei nazirei. Pur riconoscendo la rettitudine della loro confessione di fede, l' eremita di Betlemme rimprovera loro di voler «essere sia ebrei, sia cristiani, [quindi] non sono ne uno, ne l'altro». L'attaccamento alle pratiche ebraiche provoca la virulenta ostilità di alcuni Padri nei confronti degli ebioniti e dei nazirei. Verso il 375, l'infaticabile cacciatore di eresie Epifanio di Salamina scrive su di loro: «La loro origine [degli ebioniti] risale ai tempi che seguirono la presa di Gerusalemme. In effetti, come tutti quelli che avevano creduto in Cristo si erano insediati in quel tempo in Perea, per la maggior parte in una città chiamata Pella, [...] una volta che furono emigrati là e che vi soggiornarono, Ebione colse l'occasione [per insegnare la sua dottrina]. Cominciò con l'abitare Kokabe [...] nella Basanitide [...l. Fu là che cominciò il suo vizioso insegnamento; di lì, a quanto sembra, vennero pure i nazirei, di cui ho parlato sopra». Eusebio di Cesarea, nella Storia ecclesiastica, uno straordinario scrigno della memoria cristiana, conobbe diversi tipi di ebioniti; ma quali fossero le loro convinzioni religiose, le loro pratiche erano da biasimare, perchè sia gli uni che gli altri mettono «tutto il loro zelo a compiere con cura le prescrizioni carnali della Legge» (HE III, 27,3). Eusebio ironizza sul loro nome: «Essi hanno ricevuto il nome di ebioniti, il che mette in rilievo la povertà della loro intelligenza: perchè quello è il termine con cui gli Ebrei indicano i poveri» (HE III, 27,6). La storia della Chiesa antica ricorda il loro attaccamento al Vangelo secondo gli Ebrei e il loro rifiuto delle lettere di Paolo, il nemico per eccellenza di questi gruppi.

Secondo Epifanio ed Eusebio nessuno di questi gruppi si merita il nome di cristiano, perchè, nel migliore dei casi, pur riconoscendo la nascita del Cristo da una vergine, non ammettevano la sua preesistenza. Il loro giudizio era dunque diverso da quello di Girolamo. Di fatto la fedeltà di questi gruppi alle pratiche del giudaismo suscita il corruccio dei Padri. Quindi, se continuiamo a risalire verso i primi secoli cristiani, percepiamo che il rimprovero indirizzato a questi uomini e donne concerne le loro prati - che giudaiche; in compenso, la loro confessione di fede è conforme alla fede comune secondo Origene

(185 - dopo il 251) o Giustino (100 - 165). Effettivamente i Padri si scagliano contro gruppi che praticano i costumi ebraici, pur essendo, al meno in origine, profondamente attaccati a Gesù di Nazaret il Cristo di Dio, colui che nacque da una vergine, che giudicherà il mondo e che ha ricevuto la regalità eterna (secondo i termini di Giustino).

La comunità dei discepoli di Gesù

Come abbiamo letto prima, Epifanio collega la nascita degli ebioniti e dei nazirei alla caduta di Gerusalemme e alI'insediamento di gruppi di discepoli di Gesù a Pella, città della Decapoli. Egli si appoggia ad un' informazione di Eusebio; in effetti, secondo la storia della Chiesa, dagli inizi della guerra giudaica, grazie ad un ordine ricevuto attraverso «una profezia trasmessa per rivelazione ai notabili della zona», la comunità dei discepoli di Gerusalemme o, almeno una parte di questa, sarebbe fuggita da Gerusalemme verso questa città: «I fedeli di Cristo si spostarono a Pella, dopo essere usciti da Gerusalemme in modo che gli uomini santi abbandonassero completamente la metropoli reale degli Ebrei e tutta la regione della Giudea» (HE III, 5,3). L'abbandono fu meno radicale di quello preteso da Eusebio, almeno un ritorno a Gerusalemme avvenne negli anni che seguirono.

Alcune indicazioni del Nuovo Testamento confermano i legami intessuti tra i gruppi denunciati dai Padri e la comunità di Gerusalemme, o almeno la sua frazione più importante. Malgrado lo sforzo unitario che ha condotto a qualche semplificazione, il libro degli Atti non elimina completamente le tensioni che si manifestano dall'origine all'interno della comunità di Gerusalemme, dove si affrontano Ebrei ed Ellenisti (At 6,1). A Gerusalemme le autorità giudaiche perseguitano gli Ellenisti: questo porta alla loro dispersione e alla proclamazione del Vangelo alle nazioni (At 8, 5.26 – 40 ; 11,20). In compenso, a causa del loro attaccamento ai costumi giudaici, gli Ebrei poterono dimorare a Gerusalemme almeno fino alla guerra giudaica. Essi costituirono la matrice della Chiesa di Gerusalemme. Tra loro si trovavano gli avversari più accaniti delle concezioni paoline (At 15,1-2.5). Quindi, Paolo non esita a trattare da «falsi fratelli» (GaI 2,3) quelli che avrebbero voluto circoncidere i pagani e così chiudere la «porta della fede» alle nazioni.

Due racconti riecheggiano l' assemblea che, nel 51, seguì il ritorno di Paolo a Gerusalemme, in seguito alla sua missione in Macedonia e in Acaia. L'Apostolo ebbe la fortuna di vedervi riconosciuta la grazia che gli era stata fatta di annunciare il Vangelo presso le nazioni (GaI 2, 3 - 4). La versione degli Atti degli Apostoli (At 15, 5 - 21) differisce su numerosi punti da quella della lettera ai Galati, comunque i due racconti sono in pieno accordo sul risultato decisivo per l'avvenire della comunità cristiana: non vi era l' obbligo di imporre la circoncisione ai discepoli che venivano dalle nazioni.

Malgrado la vittoria di Paolo, i discepoli attaccati alle usanze ebraiche non disparvero per questo. Alcuni che, a torto, si misero sotto il patronato di Giacomo, il fratello del Signore, non si consideravano ancora battuti; saranno ancora fonte di numerose preoccupazioni per Paolo, come indica specialmente l' incidente di Antiochia (GaI 2, 11 - 14) e la situazione in Galazia. I Galati avevano accolto con gioia il Vangelo, ma alcune persone, che si richiamavano ovviamente a Giacomo, cercarono in seguito di imporre la circoncisione ai discepoli. Gli avversari di Paolo attribuivano un valore salvifico alle pratiche ebraiche. Questi discepoli di Gerusalemme condussero missioni nella Diaspora, in particolare in Mesopotamia e in Egitto. Pur confessando Gesù come Messia di Israele e Signore, essi predicavano la circoncisione e il complesso delle pratiche ebraiche. Per questa corrente l'incendio del Tempio ebbe conseguenze notevoli, perchè la distruzione contribuì a ridurre la sua influenza in seno al cristianesimo primitivo. Ormai questi discepoli di Gesù si trovavano in una situazione difficile. In effetti, non soltanto erano destabilizzati dalla fine di un ebraismo eterogeneo, ma si trovavano anche presi in mezzo tra un giudaismo che si stava unificando ed un cristianesimo che, pur abbeverandosi alle Scritture di Israele, fioriva rifiutando le pratiche tradizionali ebraiche.

È quindi sorprendente constatare che il canone neotestamentario taccia sull' evangelizzazione delle regioni della Diaspora, le cui località sono al massimo ricordate nella tavola delle nazioni, citata nel racconto della Pentecoste (At 2, 9 - 10).

Scegliere tra la sinagoga e la comunità cristiana

Nel 62, dopo il martirio di Giacomo, fratello del Signore, il nuovo responsabile della comunità è Simeone, figlio di Clopas, un parente del Signore (HE III, 11). La caduta di Gerusalemme non segna la fine di ogni insediamento dei discepoli di Gesù nella città. In effetti, secondo Eusebio, fino al 130, si scelse come vescovo di Gerusalemme un Ebreo di antico ceppo; la scelta non è per nulla sorprendente poiché «l' intera Chiesa di Gerusalemme era allora composta da Ebrei fedeli: fu così dagli apostoli fino all'assedio che subirono quelli che vivevano in quel tempo, durante il quale i Giudei si separarono di nuovo dai Romani e furono distrutti in guerre terribili» (HE IV, 5,2).

Verso la fine del I secolo, i «maestri della Sinagoga» proposero di applicare ai discepoli di Gesù la dodicesima benedizione che, dagli anni 150 a.C. era, con qualche variante, utilizzata per impedire agli eretici e a tutti quelli che si allontanavano dalla tradizione di Israele di partecipare alle riunioni comunitarie. Così le autorità della sinagoga rendevano impossibile la partecipazione dei discepoli di Gesù alle attività della comunità giudaica. Da parte sua, la tradizione giovannea è una buona testimonianza della polemica diretta contro i discepoli attaccati ai costumi ebraici.

Questi ultimi sono simboleggiati dai fratelli di Gesù che non credono in lui (Gv 7,5) e dagli Ebrei che avevano creduto, ma che comunque non ispiravano fiducia a Gesù (Gv 2,23-25; 8,31-59). In più il racconto giovanneo della guarigione del cieco nato intima a questi discepoli di scegliere il loro campo: essi sono rappresentati dai parenti del cieco che conoscono la verità, ma temono di essere esclusi dalla sinagoga (Gv 9,22).

In seguito alla rivolta di Bar Kokhba nel 135, l'imperatore vieta agli Ebrei «di avvicinarsi anche ai dintorni di Gerusalemme [...]. Così la città [di Gerusalemme] fu ridotta ad essere completamente abbandonata dal popolo giudaico e a perdere quelli che l' avevano un tempo abitata» (HE IV, 6,4). La decisione dell'imperatore ebbe conseguenze nefaste per i discepoli di Gerusalemme e i loro seguaci rimasti attaccati alla città e alle pratiche del giudaismo. Privati del legame con la terra di Israele, questi discepoli videro accentuarsi la loro marginalizzazione. Si indebolirono talmente che furono considerati come stranieri da quelli che, ormai, venivano chiamati «cristiani». Restare attaccati alla sinagoga e confessare Gesù come «Cristo e Signore, il Figlio», non era ormai più possibile, ne dal punto di vista dei cristiani, ne da quello degli Ebrei. Come gli Ebrei, non avevano più uno statuto

E quelli chiamati «cristiani»?

Per i cristiani che avevano accettato la rottura con le pratiche ebraiche la presa di Gerusalemme non fu di capitale importanza. Si rimane spesso sorpresi che la caduta di Gerusalemme non abbia avuto risonanza nei Vangeli. Nondimeno le tracce della presa della città si possono leggere in qualche racconto di Matteo e di Luca (M t 22,7; Lc 19,43; 21,21-24). La distruzione del Tempio è così acquisita quando Matteo redige la comparsa di Gesù davanti alle autorità deI suo popolo (M t 26,61; 27,40), così come quando Luca riporta, nel libro degli Atti, le accuse portate contro Stefano dai suoi avversari (At 6,14).

Lo scarso numero di menzioni non deve sorprendere; il Tempio non era più da molto tempo al centro deI pensiero cristiano. Ormai per le comunità di tradizione giovannea, il vero santuario è lo stesso Signore Gesù Cristo (Gv 2,21). Le comunità paoline, poi, si considerano come il santuario (I Cor 3,16-17; 2 Cor 6,16).

I primi secoli cristiani, da parte loro, interpretarono la caduta di Gerusalemme come conforme alle predizioni di Cristo e vi riconobbero la sanzione deI comportamento dei suoi abitanti: «Tale fu il castigo degli Ebrei a causa della loro iniquità e della loro empietà nei confronti deI Cristo di Dio» (HE III,7,1).

Questa interpretazione, come ognuno sa, contribuì, ahimé, ad una disistima deI giudaismo da parte dei cristiani.

(da Il mondo della bibbia)

Sabato, 01 Aprile 2006 22:03

Apocalisse (Claudio Doglio)

Apocalisse
di Claudio Doglio

La parola «Apocalisse» è la trascrizione italiana del sostantivo greco apokálypsis, che compare all'inizio dell'ultimo libro neotestamentario e ne è divenuto il titolo tradizionale. Questo sostantivo deriva dal verbo greco che significa «azione del togliere ciò che copre o nasconde», cioè «scoprire, svelare». La traduzione corrente con «rivelazione» esprime bene l'azione di chi rimuove il velo per mostrare ciò che era nascosto.

Nella lingua greca classica il sostantivo non compare; si usa il verbo corrispondente, ma sempre con valore esclusivamente umano. Nella versione dei LXX, dato l'uso linguistico greco, il vocabolo apokálypsis è rarissimo (4x).

Nel NT la parola «apocalisse», tradotta abitualmente con «rivelazione», ritorna 17 volte in contesti differenti e con sfumature di significato, che possiamo raccogliere in tre ambiti. Un primo gruppo di citazioni riflette un ambiente liturgico ed eucologico: apocalisse indica la manifestazione di una verità, la comunicazione di un messaggio illuminante che permette di conoscere il progetto eterno di Dio (Lc 2,32; Rom 16,25; 1Cor 14,6.26; Ef 1, 17). Nelle lettere di Paolo, però, lo stesso termine ritorna con una accezione diversa e viene ad indicare una esperienza straordinaria e mistica (Gal 1,12; 2,2; Ef 3,3; 2Cor 12,1.7). Infine, un terzo significato è quello che si è imposto nel tempo, assumendo il valore di manifestazione escatologica, sinonimo di parusia o di compimento finale del piano divino (Rom 2,5; 8,19; 1Cor 1,7; 2Ts 1,7; 1Pt 1,7.13; 4,13).

Nell'uso moderno «Apocalisse» è divenuto un termine tecnico, insieme all'aggettivo derivato «apocalittico», per indicare un particolare genere letterario, una mentalità religiosa e un vasto insieme di testi canonici e apocrifi. Ma nel linguaggio corrente, giornalistico o cinematografico, la parola apocalisse, con significato distorto ed erroneo, ha finito per indicare cataclisma, enorme disastro e fine del mondo.

(da Parole di vita, 1, 2000)

Antichità cristiana…
fino al medioevo
di Franco Gioannetti

Nel Nuovo Testamento Gesù ha un atteggiamento di intimità con il Padre. È con lui in atteggiamento di dialogo sia da solo che nel tempio, che nella sinagoga. Non lo teme, è con lui al Tabor, all’orto degli ulivi, al Calvario.

Per noi costituisce l’esempio di intimità con il Padre.

Egli è “immagine del Dio invisibile” (Col 1 /15), è “splendore della gloria” del Padre (Ebrei 1 /3), egli è l’unica via di accesso al Padre (Gv 14 / 2).

In lui si contempla il volto divino (2Cor 4 / 6) Gesù, la sua umanità, l sua morte e resurrezione sono il fondamento della mistica cristiana.

Giovanni 6/56 e 15/4-16 invita a tendere all’unione con Cristo; Paolo dirà in Galati 2/20:

“Non sono più io che vivo ma Cristo che vive in me”.

La Patristica svilupperà la dottrina della divinizzazione, tenendo presente l’intuizione neoplatonica del Dio assoluto che può essere conosciuto nella contemplazione dove trovano un fondamento naturale per la mistica.

Saranno i Padri del deserto a rafforzare l’idea che la mistica sia il normale compimento di una vita di grazia.

S. Basilio Magno afferma che l’amore di Dio sorge spontaneo nel cuore dell’uomo.

L’amore di Dio, dice, è come un germe della natura stessa.

La mistica cristiana ha come fondamento Cristo morto e risorto e quindi la sua vita nell’uomo.

Dionigi Aeropagita tenta di descrivere lo sviluppo della coscienza mistica e la natura dell’unione dell’amore con Dio.

Nel Credo professiamo che la Chiesa è santa, mentre Gesù a colui che lo chiamò "Maestro buono " rispose: "Nessuno è buono se non uno solo, Dio ".

Martedì, 28 Marzo 2006 02:23

Il sogno di Dio (Alex Zanotelli)

Il sogno di Dio
(cfr Ap, 12-13)
di Alex Zanotelli *

Dio sogna un mondo diverso da quello che abbiamo tra le mani. E chiama tutti a realizzarlo qui e ora, smascherando l'impero del denaro, cambiando la politica, rinnovando la Chiesa, facendo comunità e vivendo sobriamente. Può Dio accettare situazioni assurde come quella di Korogocho, dove migliaia di persone vivono accatastate, prive di tutto, minacciate dall'aids, mentre a meno di tre km ci sono ville da nababbi? Uno dei migliori biblisti americani, Walter Brueggemann, nel suo libro The Prophetic imagination, riassume in tre proposizioni il senso del sogno di Dio sull’umanità:

- Dio sogna per il suo popolo un'economia di eguaglianza: significa che i beni di questo mondo devono servire a buona parte delle persone e non a una minoranza. L'economia è al primo posto (e qui bisogna dar atto a Marx di aver visto giusto), perché il primato dell'economia [purtroppo] è chiarissimo.

- Per ottenere questo, però, c’è bisogno di una politica di giustizia, cioè di un tipo di politica che batta la tendenza delle società umane a strutturarsi nella disuguaglianza. E qui Marx si è sbagliato: l'uomo non è cattivo perché la società lo fa cattivo: la cattiveria è dentro l'uomo, fa parte dell'uomo.

- Ma per avere una politica di giustizia c'è bisogno di un popolo che faccia un’esperienza religiosa dove Dio è libero … Un Dio che essendo libero (Jhwh è il rifiuto di darsi un nome) non è il Dio del sistema, ma il Dio delle vittime di ogni sistema, il Dio degli oppressi, delle vedove, degli orfani, di chi non conta.

Ecco il cuore del sogno di Dio. Questo sogno viene affidato a Mosè, che è chiamato a tornare in Egitto ad affrontare l’Impero che, come ogni impero - faraonico, babilonese, romano, come l'odierno impero del danaro -, è l'opposto del sogno di Dio. Ogni impero è basato su un'economia di opulenza, dove poche persone hanno tutto.

«Che cos'è il regno di Dio? » ho domandato un giorno, durante la celebrazione, a una vecchietta che vive sulla discarica di Korogocho. «Caro Alex », mi ha risposto, «Il Regno di Dio è saziarsi». Ed è vero. La prima cosa che Dio vuole è che ognuno di noi abbia di che vivere con dignità. In Egitto c'era il 10% della popolazione che viveva nell’abbondanza a spese di molti morti di fame. A Roma la stessa proporzione: questa la realtà imperiale. Un'economia di opulenza richiede una politica di oppressione. Ecco perché le armi sono parte integrante di ogni Impero. Ogni anno si spendono 900 miliardi di dollari in armamenti. Ogni Impero esige, poi, una religione in cui Dio è prigioniero del Sistema. […] È questa l’analisi che ci aiuta a fare la letteratura apocalittica (la nuova forma che la profezia assume in contesto imperiale) da Daniele all'Apocalisse.

L'Apocalisse ha aiutato le piccole comunità cristiane dell’Asia minore a leggere l’Impero di Roma, la grande Bestia che sale dal mare, espressione suprema di tutti gli imperi della storia. La Bestia cavalca nella storia i vari imperi. Nell'Apocalisse la Bestia cavalca la grande prostituta che è Roma. È importante notare che mentre la prostituta è uccisa, la Bestia fugge per cavalcare «altro» nella storia. Il profeta vuole dire che questa Bestia che cavalca Roma non può essere identificata con l'Impero. Roma è la grande prostituta, ma la Bestia una realtà più grande dell'Imperium. L'Apocalisse ha tolto la facciata di virtù della Roma imperiale, rivelandola per quello che era: violenta, oppressiva ...

Questo ci può aiutare a rileggere oggi l'Impero del Denaro […] Ma non esiste una posizione neutra per leggere la realtà. Il contesto è altrettanto importante del testo. È chiaro che il profeta dell'Apocalisse non ha analizzato Roma da Roma. Questo profeta legge l'Impero dalla parte degli oppressi, dei crocifissi del potere imperiale. Il profeta dell'Apocalisse parte da qui: in primo luogo dal Crocifisso, da quel Gesù crocifisso fuori le mura, fatto fuori dal potere politico romano insieme con l'aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, vittima dell'Impero. È poi da tutti gli altri crocifissi. E noi cristiani non abbiamo altra scelta, se non quella di leggere la realtà a partire dal Crocifisso, dai crocifissi, dalle vittime, dagli ultimi. Ecco perché siamo sempre «dall’altra parte» . Se noi, come il profeta dell'Apocalisse, riusciamo a leggere la realtà dalla parte di chi paga per questo Sistema, dalla parte del Crocifisso e delle vittime dell'Impero, è chiaro che l'Impero economico è oggi la grande Bestia. E quella Bestia che aveva cavalcato Roma, la grande prostituta, ora cavalca l'Impero del Denaro. È ancora lei che cavalca nella storia.

Questo potere economico oggi ha stravinto, come è detto in questo testo: «Aveva potere su ogni tribù, popoli, nazioni e tutti l’adoravano». Oggi sembra che tutti si inchinino davanti a questo strapotere, davanti ai grandi dell'economia. E così noi diventiamo parte integrante del Sistema. Nelle lettere che il profeta scrive. a nome del Signore, alle sette comunità, alle sette chiese (e quindi a tutta la Chiesa) egli manifesta il suo timore che le comunità cristiane stiano lentamente adattandosi alla cultura dominante. È lì il vero, grande pericolo. Non ha paura della persecuzione, che invece rafforza la comunità. Il nostro grande pericolo è che anche noi diventiamo parte integrante dell’idolatria dominante, dell’economia imperante, per cui finiamo col non dire più nulla a nessuno.

Ma la resistenza si paga sempre. Essa implica il martirio, che non è soltanto il martirio fisico ma anche e soprattutto quello psicologico. È eroico oggi, nel cuore dell'Impero, fare resistenza, vivere in maniera alternativa. Questo richiede una conversione personale ma anche strutturale (la dimensione economico- politica della conversione).

Dobbiamo imporre all’economia di attenersi a decisioni prese democraticamente. Altrimenti la democrazia è una vuota parola. Dobbiamo ridimensionare il nostro stile di vita, dobbiamo imparare a vivere più semplicemente... È chiaro che compiti tanto gravosi non possono essere affrontati individualmente. Ci si deve aggregare in comunità di resistenza. È attraverso le nuove tecnologie informatiche è possibile rimanere in connessione con le lotte del Sud del mondo, fare un'informazione fuori dal coro, che denunci le ingiustizie e organizzi la speranza. Inoltre, dobbiamo aiutare la Chiesa a cambiare... la Chiesa deve trovare il coraggio di dire la verità sul Sistema: deve coniugare fede ed economia; deve mettere in evidenza la nonviolenza attiva, che è stata inventata non da Gandhi ma da Gesù.

È importante che dietro a ogni piccola iniziativa ci sia una comunità dove ritrovarsi, per aiutarsi nell'analisi sociale (per i credenti è importante la Parola!). Non potete resistere a tutto, impegnarvi su tutti i fronti, sul nucleare come sugli immigrati, sulla pace come sul commercio o sull’informazione..., è impossibile! Ogni comunità dovrebbe assumersi un impegno preciso, per poi connettersi con le altre comunità. Perché è dal basso che nascere qualche cosa di nuovo e tocca a noi farlo nascere. È la grande lotta contro il Drago dell'Apocalisse, non per ucciderlo ma per cambiarlo. L’Agnello può trasformare il Drago, finché Babilonia diventi la città di Dio, la sposa dell'Agnello. Non ci sono Imperi da abbattere, non ci sono nemici da uccidere, ma solo da trasformare. È l'immenso compito di cambiare un mondo che ci sta inesorabilmente portando alla monte […].


* Prefazione,
in G. MARTIRANI, Il drago e l’agnello, Ed. Paoline, Milano, 2001, 15-17

Come la povertà sfida l’annuncio della fede

di Gustavo Gutiérrez

 

Vorrei presentarvi alcune riflessioni sulla sfida che rappresenta la povertà nel mondo di oggi per l'annuncio del Vangelo, cioè per la missione centrale della Chiesa. Potremmo dire che la povertà è un segno dei tempi: a volte tendiamo a dare ai segni dei tempi solo una connotazione positiva, ma ve ne è anche una negativa, ed è per questo che si tratta di discernere tali segni, individuando quanto è in linea con quello che la Rivelazione ci dice dell'amore di Dio e quanto gli si oppone. Vorrei ispirarmi a una frase di un grande missionario, Bartolomé de Las Casas, che diceva, pensando agli indios, cioè ai più insignificanti: del più piccolo e del più dimenticato Dio ha una memoria molto viva e fresca.
Presenterò le mie considerazioni in tre punti:

1) la sfida che rappresenta la povertà oggi per l'annuncio della fede cristiana e il tentativo di risposta della Chiesa negli ultimi anni, a partire da un contesto latinoamericano, attraverso l'opzione preferenziale per i poveri;
2) le diverse dimensioni di questa opzione;
3) l'evangelizzazione nel mondo di oggi.

1) La sfida della povertà all'annuncio della fede

La povertà si presenta come un fatto di massa, qualcuno ha detto come un fenomeno di civiltà. Per molto tempo i poveri erano considerati come casi individuali, ed erano inoltre fisicamente vicini. Oggi - attraverso la rivoluzione tecnologica, la globalizzazione, l'economia neoliberista, la crescita della popolazione nel mondo, la nuova presenza di vecchie religioni dell'umanità - possiamo dire che la povertà si presenta come un fatto universale enorme e profondo. E sorge allora una domanda: come dire al povero, oggi, che Dio lo ama? La vita quotidiana del povero sembra essere precisamente la negazione dell'amore. Come dire ai poveri non solo che Dio li ama, ma che, partendo dalla rivelazione biblica, Dio li ama in maniera preferenziale, prioritaria? A questa domanda cerca di rispondere quella che abbiamo formulato come opzione preferenziale per il povero (pur nella consapevolezza che tale domanda è molto più ampia della nostra capacità di risposta). L'espressione deriva da una prima riflessione condotta in America Latina negli anni '60 e nasce come tale tra Medellín e Puebla. Esaminiamola parola per parola.

Povero, povertà. Parlando dell'opzione per il povero è chiaro che ci riferiamo al povero reale, perché il povero spirituale è un'altra cosa. Povertà spirituale è sinonimo di infanzia spirituale, che è l'affidarsi di un credente a Dio, il porre la propria vita nelle sue mani. È l'ideale di un cristiano: i poveri spirituali sono i santi. Quando parliamo di opzione per il povero parliamo invece del povero reale. Sarebbe facile optare per i santi, sono così pochi! Stiamo parlando invece di milioni di persone. Ma bisogna essere un povero spirituale per fare un'opzione per il povero reale.

La povertà è cambiata nell'ultimo decennio, in alcuni casi già nell'ultimo secolo, ma è un cambiamento che non ha raggiunto tutti. Ricorderò solo due cambiamenti importanti nella nostra percezione della povertà. Il primo è che la povertà è un fatto complesso. La parola povero evoca immediatamente l'aspetto economico, che infatti è un aspetto della povertà. Ma il povero nella Bibbia non è solo quello che non dispone di risorse economiche. Nella Bibbia, ed anche in questa riflessione teologica, povero è colui che è insignificante. E si può essere insignificanti, non persone, per ragioni economiche, certamente, ma anche per ragioni culturali, razziali, per il colore della pelle, per ragioni di genere (la condizione femminile è di sicuro una condizione di insignificanza). Molte volte, poi, tutti questi aspetti o alcuni di essi si riuniscono in una sola persona. Tutte queste persone sono quelle che chiamiamo "insignificanti" (naturalmente tra virgolette, perché non c'è essere umano che per Dio sia insignificante).

C'è poi un secondo cambiamento. Per molto tempo, e in alcuni casi anche ora, la povertà è stata vista come un fatto naturale, quasi come una fatalità. Alcuni nascevano poveri, altri ricchi. E da lì ad affermare che questa era la volontà di Dio il passo era breve, e infatti è stato fatto, molte volte. Per questo si parlava di due tipi di dovere: per i ricchi generosità, per i poveri umiltà e gratitudine. È chiaro che non si può giudicare il passato con le categorie attuali: a quell'epoca non esisteva l'idea, presente invece oggi nell'umanità, che la povertà ha delle cause, e che queste cause sono le strutture sociali ed economiche e anche le categorie mentali (l'idea per esempio che un tipo di cultura è superiore a tutte le altre e che queste un giorno dovranno incorporarsi ad essa). Parlare di cause è riconoscere che la povertà è il risultato delle nostre azioni e, di conseguenza, che non è la volontà di Dio, bensì una costruzione dell'essere umano. E se siamo noi ad aver creato la povertà, vuol dire che possiamo anche disfarla, eliminarla. La povertà non è un destino, ma una condizione; non è una disgrazia, ma un'ingiustizia. Questa coscienza si è andata diffondendo nell'umanità, portando di conseguenza a comprendere che oggi non è sufficiente l'aiuto immediato al povero, ma che bisogna anche andare contro le cause della povertà. Questa coscienza è avanzata con molta lentezza in ambienti cristiani, e tuttora per molte persone l'impegno con i poveri è solo l'aiuto immediato e diretto al povero. Un aiuto pur sempre necessario: se incontro un povero con una grande necessità non posso dirgli "non preoccuparti, io sto lottando contro l'ingiustizia, ma poi ritorno". Perché quando ritorno sarà già morto! L'aiuto immediato è importantissimo ma non è più sufficiente. Perché è cambiata la nostra percezione di quello che è la povertà.

I poveri stessi conservano spesso la vecchia mentalità: "che posso farci? È la cattiva sorte, sono nato povero". Nella mia parrocchia ho lottato per venti anni, e con un successo relativo, contro l'idea che hanno spesso le donne: "noi donne siamo nate per soffrire". Per questo sopportano tutto, con grande contentezza degli uomini: sono nate per soffrire? Che soffrano! Nell'insegnamento della Chiesa questa prospettiva è entrata con una certa lentezza: prima Giovanni XXIII con la Pacem in terris, poi Paolo VI con la Populorum progressio e infine Giovanni Paolo II, che è il papa che più parla delle cause della povertà.

Preferenza. Ho letto ed ascoltato interpretazioni piuttosto curiose di questa parola, per esempio che nell'espressione "opzione preferenziale per i poveri" la parola preferenziale si deve alla volontà di ammorbidire l'opzione. Storicamente non è vero. Una delle sue fonti è l'espressione pronunciata da Giovanni XXIII l'11 settembre del '62, un mese esatto prima dell'inizio del Concilio: che la Chiesa è e vuole essere la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri. La parola "preferenza" non possiamo comprenderla se non la mettiamo in relazione con l'universalità dell'amore di Dio. Dio ama tutte le persone, nessuno escluso: povero, ricco, bianco, nero, tutti sono amati da Dio. Ma, allo stesso tempo, Dio preferisce gli ultimi, i più poveri. C'è tensione, non contraddizione. Una madre con più figli di diversa età proteggerà specialmente il più piccolo. E la domanda eterna dei più grandi è: tu ami più mio fratello. E la risposta eterna è: no, io amo tutti ugualmente. L'amore di Dio è un amore per tutti e una protezione speciale per chi più ne ha bisogno. Dire "per me solamente i poveri sono importanti" non è da cristiani. Dire "io amo tutti allo stesso modo", neppure. Se parlo di preferenza, sto dicendo che non escludo nessuno. E se dico "primo", vuol dire che penso a un secondo, perché se non c'è un secondo non direi "primo". Preferenza significa che qualcosa è prioritaria, ma che non è l'unica. C'è una tensione, è vero, ma le tensioni sono feconde, come quella che esiste tra contemplazione e azione, entrambe necessarie. Così è anche per l'universalità e la preferenza. Il teologo Karl Barth diceva negli anni '40: Dio prende sempre la parte del più povero, dell'oppresso, del più debole. Negli anni '40 non c'era bisogno di richiamarsi alla Teologia della Liberazione per rendersi conto di questo, bastava leggere la Bibbia.

Il tema della preferenza porta con sé una domanda: perché i poveri devono essere prioritari? Si possono dare molte ragioni. Per esempio, sulla base di un'analisi sociale, economica, culturale del mondo di oggi, di fronte alla presenza di moltissimi poveri, di una così grande sofferenza nell'umanità, posso pensare che è opportuno optare per i poveri. È una ragione legittima, ma non quella decisiva. Posso essere spinto dalla compassione umana, ma neppure questo è decisivo. E non lo è neanche il fatto di avere un'esperienza diretta del mondo povero. Molte volte, fuori dall'America Latina, sento persone che dicono di capire perché parlo dei poveri: perché sono latinoamericano. Io dico sempre: per favore, non comprendetemi così presto! Perché la prima ragione per cui parlo dei poveri è perché tento di essere fedele al Dio di Gesù. Un'altra ragione che si dà a volte è che i poveri sono tanto buoni e tanto generosi. Quando sento questo, penso sempre che la persona che lo dice lavora con i poveri da sei mesi: se lavorasse con loro da sei mesi e mezzo già non lo direbbe più. I poveri sono esseri umani e tra loro vi sono quindi i buoni e i generosi e quelli che rappresentano un pericolo pubblico. La ragione per occuparsi dei poveri non è perché il povero è buono, ma perché Dio è buono. Questa è la ragione decisiva per un credente. È un'opzione teocentrica. La ragione è la bontà di Dio, la bontà gratuita, che non dipende cioè dai meriti di una persona. Così un padre ama i suoi figli. E Dio ci ama gratuitamente perché siamo i suoi figli e le sue figlie. Non è la qualità morale o religiosa del povero che deve motivare l'opzione, ma l'amore gratuito di Dio.

Opzione. L'origine di questa parola si può trovare a Medellín: la povertà come impegno è solidarietà con il povero e protesta contro la povertà. Gesù ha preso su di sé i peccati di questo mondo: per amore del peccato? No, per amore del peccatore e per rifiuto del peccato. Si ama chi soffre la povertà, ma la povertà, in quanto condizione inumana, non è amata da Dio. L'opzione per i poveri comprende questa doppia dimensione. A volte si pensa che è il non povero a dover fare l'opzione per il povero. Non è così. L'opzione per il povero è compito di ogni cristiano, povero e no. A volte il non povero soffre di un certo complesso, ritenendo che l'essere poveri sia di per sé una cosa buona. Ma l'insignificanza non è un ideale: non bisogna cercare di essere insignificanti, bisogna cercare di essere impegnati al loro fianco. Penso a mons. Romero: Romero non era un insignificante. Come poteva esserlo un arcivescovo? Ma era impegnato, fino al punto da dare la sua vita. L'ideale cristiano è l'impegno, ma accompagnato dalla coscienza che questa situazione di povertà, di insignificanza sociale non è in accordo con la volontà di Dio.


 

2) Dimensioni della prospettiva dell'opzione preferenziale per i poveri.

Per prima cosa
, l'opzione per il povero si ripercuote sul lavoro di evangelizzazione. Dopo Medellín, molti gruppi cristiani, comunità religiose, gruppi di laici, si spostarono nelle aree povere delle proprie città e Paesi. Ma non c'è solo una ridistribuzione di forze pastorali a vantaggio di questi settori. C'è qualcosa di più, e cioè l'assumere la prospettiva del povero nell'annuncio del Vangelo in qualunque settore sociale. Anche per le persone che vivono in Paesi dove i poveri sono una minoranza si tratta di lavorare a partire dal povero. Non sempre si tratta di andare fisicamente nelle aree povere, c'è anche la possibilità di andare mentalmente, di vedere cioè la storia umana, e il presente, e le sfide del terzo millennio a partire dai poveri. È, in maniera molto semplice, chiedersi, come fa il libro dell'Esodo, dove vanno a dormire i poveri nel mondo che viene. Che ne è di loro nel mondo che si sta costruendo?

Oggi esiste un interesse molto grande per la teologia della geografia dei vangeli, soprattutto di Marco. La Galilea è una provincia disprezzata, dove la gente parla anche con un accento diverso (per questo Pietro viene scoperto). E se Gesù va a morire in Giudea, dove c'è Gerusalemme, è tuttavia in Galilea, in questa terra disprezzata, che annuncia il Regno. È da qui che parte l'evangelizzazione. Oggi noi dobbiamo scegliere la nostra Galilea. Il mondo del povero deve essere il punto di partenza della nostra evangelizzazione. Non ci sarà magari aiuto fisico, diretto, nelle zone povere, però sì ci dovrà essere questa prospettiva.

Le persone di Chiesa, gli operatori pastorali, qualunque sia la loro origine sociale, sono persone che hanno la loro residenza in un mondo che non è del povero. Il mondo del povero si presenta come un campo di lavoro, non di residenza. Il mondo del povero è conflittuale, complicato, anche pericoloso. Dobbiamo convertirci e portare il nostro mondo nel mondo del povero, avere lì la nostra casa e da lì uscire ogni mattina ad annunciare il Vangelo ad ogni persona.

C'è poi una dimensione teologica. Nel dialogo con alcuni settori di teologia accademica - il termine non mi piace molto perché sembra avere una sfumatura peggiorativa, mentre si tratta di un lavoro serio (nella mia vita io ho cercato di fare teologia accademica) - una cosa che risulta difficile è convincere molti teologi dell'emisfero nord che la povertà è una sfida alla fede. Per loro, infatti, si tratta solo di un problema sociale. Comprendono bene, questi teologi, che quello che viene dalla società moderna (la ragione critica, le libertà moderne, l'affermazione dell'individuo) è una sfida alla teologia. Ma la povertà no. In realtà la povertà, se è un fenomeno di civiltà, se è così tanto profonda, rappresenta una grande sfida all'annuncio della fede.
La domanda della teologia moderna potrebbe essere quella formulata dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: come parlare di Dio in un mondo adulto? Si tratta del mondo moderno, un mondo che non ha bisogno di Dio per spiegare, per esempio, i fatti naturali. Il "come" non significa che non se ne possa parlare: è una domanda. Allo stesso modo, possiamo dire che quello che mette in discussione l'annuncio del Vangelo è il mondo della povertà. Perché la povertà in ultima istanza significa morte: morte prematura e morte ingiusta. I primi missionari domenicani delle Indie, oggi America Latina, dicevano: gli indios muoiono prima del tempo. Ed è questo che succede ai poveri oggi. Malattie che l'umanità è già riuscita a debellare continuano ad uccidere persone nei Continenti poveri. Alcuni anni fa è apparso in Perù, e non se ne è più andato, il colera, che non esisteva più da molto tempo. E ha ucciso molti poveri, che non hanno possibilità di bere acqua pulita. Nei quartieri residenziali non è morto nessuno: anche il colera aveva fatto l'opzione preferenziale per i poveri. Questa è morte fisica, ma c'è anche la morte culturale. Gli antropologi dicono che la cultura è vita: quando io disprezzo una cultura, uccido culturalmente chi fa parte di questa cultura. Quando non si riconosce la pienezza dei diritti umani di una persona in qualche modo la si sta uccidendo. Questa è la povertà.

La povertà in ultima istanza è morte, ma noi cristiani dobbiamo essere testimoni della vittoria sulla morte, della risurrezione. Come essere testimoni della resurrezione, allora, in un pianeta, in un continente segnato dalla morte prematura e ingiusta? La resurrezione è la vittoria sulla morte, è l'affermazione che la vita e non la morte è l'ultima parola della storia. E per vita intendo sia quella spirituale che quella fisica. Questo mette in discussione l'annuncio del Vangelo.

Pensare la fede a partire dal povero non è l'unica maniera, è una maniera. La prospettiva del povero è sommamente importante, ma è una prospettiva. Il contenuto della Rivelazione è talmente ricco che non finiamo mai di comprenderlo. Ma credo che questa prospettiva ci aiuti. Da 25-30 anni parliamo della trasformazione della storia, della promozione della giustizia come di un elemento intrinseco all'evangelizzazione. Non è stato sempre così. Considerare la promozione della giustizia come qualcosa di intrinseco all'evangelizzazione è un fatto teologicamente nuovo. Quando ero studente si diceva che tutto quello che riguardava il sociale era previo all'evangelizzazione, ma non era evangelizzazione. Un po' come le dimostrazioni filosofiche dell'esistenza di Dio, che non sono ancora teologia, ma preambula fidei. Il lavoro di promozione della giustizia era ritenuto importante, ma non era considerato evangelizzazione. Oggi è visto come intrinseco. Giovanni Paolo II l'ha ripetuto fino alla stanchezza.

La terza dimensione della prospettiva dell'opzione per i poveri è quella della spiritualità, della sequela di Gesù. La parola spiritualità è recente nella Chiesa: viene da ambienti francesi del XVII secolo. Fino a quel momento si parlava piuttosto di sequela di Gesù. Spiritualità viene dallo Spirito, con la maiuscola, non dallo spirito come sinonimo di anima. Non è un comportamento in accordo con la parte più nobile dell'essere umano, ma è secondo lo Spirito Santo. L'opzione per il povero presenta anche questa dimensione. Optare in maniera preferenziale per i poveri è un cammino spirituale, una sequela di Gesù. E io direi che anzi questo è il livello più profondo dell'opzione preferenziale per il povero. Ho imparato da un mio grande maestro, Dominique Chenu, che non c'è da domandarsi quale teologia stia dietro a una spiritualità, bensì quale spiritualità stia dietro a una teologia. La sequela di Gesù è inseparabile dalla riflessione, e soprattutto è inseparabile dall'annuncio. Nessuno può seguire Gesù senza annunciare il Vangelo. E io direi che nessuno può seguire Gesù senza pensare alla fede. E l'essere umano che pensa la sua fede sta facendo teologia.

Allora, perché evangelizzare? Possiamo dare molte ragioni valide. Perché è un mandato del Signore, ed è una ragione di capitale importanza. Perché abbiamo sentito la vocazione. Ma credo che la ragione primaria del perché comunichiamo il Vangelo è perché vogliamo condividere la gioia che produce il sapere che siamo amati da Dio. La fonte di gioia di un cristiano è sapersi amato da Dio. E chi vive una gioia vuole comunicarla. Questa è l'evangelizzazione: un'esperienza spirituale di gioia. Non parlo di una gioia facile, ma di una gioia pasquale, che passa per la sofferenza e la morte, in senso metaforico, ma che alla fine è gioia.

3) L'evangelizzazione nel mondo di oggi

Voglio menzionare un testo del Vangelo che mi sembra molto bello, un testo che si trova in tutti e quattro i vangeli e che dunque bisogna prendere molto sul serio (Giovanni, si sa, è come un franco tiratore, va per suo conto): il testo dell'unzione di Betania. Ho l'impressione che questo testo sia un po' come la sintesi del Vangelo. Gesù sta mangiando in casa di Simone il lebbroso (che non era più tale, altrimenti non sarebbe stato in città) e viene una donna anonima che rovescia un profumo sulla testa di Gesù. Ricordate la reazione: "questo è uno spreco, si sarebbe potuto vendere il profumo per 300 denari" (un denaro era il salario di un giorno di un lavoratore). Ma Gesù prende le sue difese: questa donna ha fatto un'opera buona. La parola greca che traduciamo con buona è una parola che ha varie traduzioni: vuol dire tanto buona come bella. E Gesù dice: questa donna ha fatto un'opera buona, bella, nei miei confronti. L'obiezione che viene avanzata è a partire dal messaggio di Gesù: "meglio sarebbe stato distribuire il denaro tra i poveri". È un punto del messaggio di Gesù che viene usato contro la donna. Ma Gesù dice: i poveri saranno sempre con voi. Questo richiama il cap. 15 del Deuteronomio, dove troviamo tre affermazioni: 1 che non ci siano poveri tra di voi: è questo l'ideale, 2. se ci sono poveri, aprite la mano e il cuore, 3 sempre ci saranno, e perciò dovrete sempre aprire la mano e il cuore. Se l'affermazione di Gesù viene isolata dal contesto delle due precedenti affermazioni, ne perdiamo il senso: potrete sempre fare qualcosa per i poveri, ma questa donna ha fatto un'opera buona, un'opera gratuita. Gesù in questo momento è povero, indifeso ed è in certa maniera già condannato a morte. Questa donna non può impedirlo e può semplicemente augurargli vita: il profumo è questo, è l'idea antica dell'imbalsamazione. In questo caso la donna esprime un amore gratuito.

Una volta, preparando il Natale nella mia parrocchia a Lima, una signora molto anziana mi disse: "sa, padre, io sono di una famiglia molto povera (e continuava ad esserlo in realtà) e quando ero bambina a Natale ricevevamo riso, pane, zucchero". Ma un Natale un sacerdote le regalò una bambola, per la prima volta nella sua vita: "non ho più dimenticato il viso di quel sacerdote". La bambola era inutile, rispetto alle sue necessità di base: non si mangia una bambola, non serve a niente se non a giocare. Ma lei non se ne è più dimenticata. Il povero è una persona che ha dei bisogni fisici: tetto, salute, alimenti, ma che ha anche bisogno di amicizia, di tenerezza e di gratuità.

Da una parte c'è un linguaggio che in termini biblici potremmo chiamare profetico: è il linguaggio della giustizia, dell'incontro con Dio nel povero. Ma dall'altro c'è il linguaggio della gratuità, di quello che non è immediatamente utile. Nel mondo dei poveri il senso della gratuità è molto forte. Mi impressiona molto a Lima vedere gente che entra in chiesa e resta lì seduta, mezz'ora, un'ora, due ore. I poveri sono ricchi di tempo. Noi siamo persone di orologio e di agenda: se qualcuno voleva parlare con me tiravo fuori l'agenda e fissavo l'ora, e qualunque ora dicessi andava bene. Chi non ha lavoro di tempo ne ha d'avanzo. Poi mi resi conto che prendere l'agenda era come aggredire le persone. E lasciai l'agenda. Fissavo le visite e me le appuntavo a casa.

C'è un linguaggio profetico, della giustizia, e un linguaggio della gratuità che è contemplativo: senza contemplazione, preghiera, non c'è vita cristiana; senza impegno storico neppure. Unire questi due linguaggi è la maniera, credo, di comunicare il Vangelo. Con questo, abbiamo risposto alla domanda di come dire al povero che Dio lo ama? La domanda è molto più grande del nostro tentativo di risposta, troppo profonda è la sofferenza dell'innocente per pensare che possiamo rispondere una volta per tutte. Ma questa prospettiva cerca di dire qualcosa al riguardo.

(da Adista, n. 90, 13-12-2003. Il testo è tratto da una registrazione e non è stato rivisto dall'autore)

Martedì, 28 Marzo 2006 02:04

L’illuminatore (Giovanni Vannucci)

L’illuminatore
di Giovanni Vannucci


L’illuminazione del cieco nato ci rivela il drammatico cammino che la Luce vera - Cristo luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) - compie per aprire la vista interiore nella coscienza. La chiave per comprendere questo episodio, storico e metastorico insieme, è nell’identificare noi stessi col cieco nato, nel sentirci partecipi della vicenda esemplare della sua illuminazione, narrata dall’evangelista Giovanni (Gv 9, 1-41).

Consideriamo i punti salienti della narrazione. Gesù, dopo aver detto di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8, 12), incontra un cieco fin dalla nascita; ai discepoli che l’interrogano se quella sciagura fosse la conseguenza dei peccati del cieco o di quelli dei suoi genitori risponde: «No, quest’uomo è cieco perché sia illuminato, e la luce divina splendendo in lui riveli l’azione creatrice di Dio». Così, avvertiti i discepoli del significato di ciò che stava per compiere, della duplice luce fisica e spirituale che avrebbe dato al cieco, fa con la saliva e la polvere un po’ di fango e lo applica agli occhi del cieco; quindi lo invia a lavarsi in una vasca dal nome simbolico «l’Inviato da Dio». Il cieco va e, dopo essersi lavato gli occhi, comincia a vedere. Il miracolo è compiuto senza la minima partecipazione del soggetto, egli collabora con la semplice obbedienza.

La luce che si è accesa improvvisamente in quegli occhi si rivela luce che acceca gli altri, in particolare gli avversari di Cristo. I vicini di casa non sanno se egli sia o no lo stesso uomo che, seduto, domandava l’elemosina; egli afferma di esserlo: «Cosa è avvenuto che non ci vedevi e ora ci vedi?». Racconta il fatto nei suoi particolari; udito il nome di Gesù, i vicini lo conducono dai Farisei; il giorno in cui Gesù aveva ridato la vista a quegli occhi spenti era di Sabato, il racconto del cieco illuminato non può essere negato, i Farisei affermano che, essendo stato compiuto di Sabato, costituiva un’offesa dei comandamenti di Dio, chi l’aveva attuato non poteva che essere un riprovato da Dio. Il miracolato risponde: «Se egli sia reprobo o no, io non posso dirlo, una cosa è certa: prima ero cieco e ora vedo... Non si è mai sentito dire che alcuno abbia aperto gli occhi a un cieco; se non fosse amico di Dio, non avrebbe potuto far nulla». Risposero i Farisei: «Sei nato nei peccati e ci vuoi ammaestrare?». E lo cacciarono fuori. Essi, nella loro proterva chiusura, temono che la luce esteriore non si traduca in quella luce così temibile che è la luce di Dio accesa in lui, e lo cacciarono fuori dalla sinagoga, lo scomunicarono. Allora Gesù gli si rivolge: «Credi nel Figlio di Dio, nella luce di Dio in me incarnata?». Il miracolato, che aveva in sé sentita confusamente, nella luce fisica, quella spirituale, sperimenta ora l’apertura dell’occhio interiore, riconosce la presenza della luce divina in Gesù e gli s’inginocchia davanti.

Così si compie l’illuminazione del cieco: sperimenta che la luce fisica non è che simbolo e stimolo della luce spirituale. Gesù rivela il significato dell’illuminazione del cieco: la sua luce divina illumina chi a essa si offre in umiltà, acceca chi è chiuso nel proprio orgoglio di vedente. Acceca chi vede, chi non sa e crede di sapere; illumina chi è cieco, chi non sa e non riconosce la sua ignoranza; questa è la giustizia, il giudizio che compie la luce nell’uomo: «Son venuto nel mondo perché i vedenti non vedano, e i non vedenti vedano». I Farisei presenti a queste parole gli chiedono: «Forse anche noi siamo ciechi?». «Non lo sareste, risponde Gesù, se riusciste a vedere la vostra cecità. Non la vedete perché la scambiate per luce, per questo respingete la luce. La vostra cecità più si fa cieca, quanto più si crede luce».

Questo è il giudizio nel mondo della Luce divina: suscita e assume quella luce creata che a lei si arrende; rende più ottenebrata quella luce creata che stima se stessa assoluta e divina; respinge le tenebre nelle tenebre. Ognuno di noi nasce dalla luce, quando nasce sulla terra è l’estrema densificazione, nella carne, della luce iniziale, da sé nulla vede. La Luce divina ci è offerta e ognuno può scegliere: o accettarla fondendosi nel suo ritmo di ascesa; o rifiutarla ottenebrandosi in un proprio ritmo chiuso e incomunicabile. Nel primo caso si ha l’assunzione, nel secondo la distruzione dell’uomo.

Nell’alto, nel mondo di Dio, si ha la vibrazione massima della Luce divina, nel basso si ha la densificazione massima della stessa luce. La coscienza che diviene consapevole della densità della sua tenebra e comincia ad aspirare alla luce vera, inizia quel processo di ascesa che la farà incontrare con la sorgente della luce e della vita. Si libererà dall’esistenza, entrerà nel luminoso mondo dell’essenza, dell’Essere. Il punto della massima densificazione della luce ha una doppia possibilità, quella di accettare la densificazione come luce, quella di iniziare un movimento contrario di ascesa. Nell’ascesa sarà sorretto dalle forze fecondatrici della Parola eterna che discende e ascende, che aggrega la materia e la trasfigura nello spirito.

Queste affermazioni sottintendono l’inutilità di sapere solo intellettualmente che la Luce, la Parola creatrice sono in noi, e insieme la necessità di permettere alla Luce e alla Parola divine di compiere in noi la loro opera di vita e di trasfigurazione. I Farisei pensavano in termini di ideologia, di continuità di interpretazioni, di dogmi e di riti; il cieco illuminato, nel suo cedersi alla Luce vera, non poteva che essere oggetto di scandalo e di rifiuto. Per i primi la Rivelazione era una ripetizione di formule e di consuetudini, di credenze; per l’Illuminatore la Rivelazione è, ed è attiva e operosa in ogni istante, purché l’anima riconosca le sue tenebre, e sappia morire continuamente ad ogni idea, ad ogni definizione, ad ogni rapporto immaginario con un Dio di sua proiezione. La Luce non può illuminarci che nel silenzio di una mente profondamente seria.

in Giovanni Vannucci, «L’Illuminatore», 4° domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 54-56.

Martedì, 28 Marzo 2006 01:55

Introduzione

Introduzione alla storia della salvezza



1. Il posto del corso nel piano degli studi teologici

La teologia dogmatica dell’ultimo cinquantennio ha subìto un profondo mutamento: è passata dal sistema positivo-scolastico, saldamente sostenuto dalla filosofia aristotelico-tomista e basato sul concetto aristotelico di “scienza”, ad una considerazione più attenta della storia della salvezza come trama del sistema teologico. Per S. Tommaso l’oggetto formale della teologia è «Dio sotto l’aspetto della sua deità».

Viene celebrata nei Patriarcati di Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Russia, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia e nelle Chiese di: Cipro, Grecia, Polonia, Albania, Repubblica Ceca, Slovacchia, America, Monte Sinai, Finlandia, Giappone.

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