Religioso Marista
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Il nome della gioia
di Vladimir Zelinskij
Il simbolo della fede dei primi cristiani era brevissimo, di una densità incomparabile. San Paolo lo rende così: “…se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo » (Rm.10, 9). Sembra che il nucleo di questo credo: il Signore è in Gesù abbia nascosto in sè un’energia nucleare che esplodeva nell’effusione dello Spirito Santo una generazione dopo l’altra, parlava nelle conversioni, si rivestiva dalle preghiere, si riempiva delle visioni, si versava col sangue dei testimoni, mandava i predicatori su tutta la terra, cantava nelle liturgie delle catacombe. Come se il potere del nome si sia incarnato nella straordinaria avventura umana che, nonostante le nostre crisi, continua anche oggi, facendo il suo lavoro visibile ed invisibile. Il nome del Signore proclamato una volta non è diventato un deposito chiuso fino all’Ultimo Guidizio, ma rimane una sorgente della rivelazione che nessun spettro dell’aldilà freddo può congelare.
ΚΥΡΙΟΣ ΙΗΣΟΥΣ, Signore Gesù: un Vangelo che con due parole annunzia l’umanità storica del Verbo che venne ad abitare in mezzo a noi, presta la lingua ad esprimere il mistero di Dio che nessuno ha visto e che è venuto sulla terra, e afferma anche che il tempo della loro unione può essere la tua esistenza stessa che santifichi il Verbo nel nome umano. Il Verbo che si è fatta carne si è sottomessa al ritmo della vita umana con la nascita, sofferenza, morte. Il Signore abita fuori delle nostre stagioni, ma Egli è sempre Dio con noi. La Sua età include l’abbisso del passato, ma anche l’immensità dell’avvenire che se perde all’orizonte, ma Egli anche è il “bambino avvolto nelle fasce” (Lc. 2,12) che la Sua Madre ha portato sulle bracce, un condannato che muore sulla croce. L’inizio e la fine, Betlemme e Golgotha sono iscritti in quel presente eterno che è messo nella nostra fede.
Ma dove si trova quel ponte che unisce le due realtà che la ragione umana ha tanto fatica di unire, ma il cuore è capace di credere e la bocca di confessare? Come si può entrare in quell’avventura del credere? La risposta è già nell’invito di Gesù: “prendi parte nella gioia del tuo Signore” (cf. Mt. 25,21). Il ponte è proprio la gioia, anche se può portare le lacrime del vivere con la croce, quella che unisce il nome di un ebreo vissuto 2000 anni al Signore incomprensibile, il suo breve soggiorno fra gli uomini alla speranza di tutti popoli, il nostro presente che ci fuggi alla luce dell’eternità, l’intimità di un’anima alla comunità planetaria dei cristiani. Quel ponte di gioia si chiama Risurrezione.
E se entri davvero nel dolore e nella gioia ch’è nel nome del Morto e del Risorto, se scopri che il nome della gioia è amore,
«…sarai salvo».
Salve Venezia
di Renzo Bertalot
1. Premessa
Non si può ricordare l'ecumenismo che si è sviluppato a Venezia negli anni sessanta senza richiamare i precedenti che lo hanno determinato. Si tratta di richiamare rapidamente l'esperienza fatta all'estero e più precisamente in Canada negli anni 1954-61.
Appena consacrato pastore dal sinodo valdese del 1954 trascorsi i primi sette anni del mio lavoro con la comunità italiana della Chiesa Presbiteriana del Canada, che si trovava a Montreal, nella provincia del Quebec. Era necessario conoscere le due lingue del luogo e mantenere i rapporti ecclesiastici in inglese. Ero uno dei tanti pastori stranieri al servizio degli emigranti europei. I particolarismi e i provincialismi di ognuno cedevano lentamente il passo all'interesse comune per il pane quotidiano e alla spontanea e reciproca solidarietà.
Le comunità di lingua straniera erano luoghi di forte aggregazione. Nonni, figli e nipoti si trovavano insieme in tutte le attività. Con il tramonto dei nonni bisognava inserire le nuove generazioni nel mondo inglese e vederle cavalcare i fusi orari senza apparente difficoltà. La consistenza delle comunità era evidentemente destinata ad assottigliarsi sempre più. A quarant'anni di distanza la mia antica comunità italiana si è trasformata in comunità presbiteriana coreana.
Le comunità di lingua inglese o francese subivano un fenomeno analogo nel senso che ogni anno il settantacinque per cento si trasferiva altrove e veniva sostituito da elementi delle stessa lingua. Così diversa dall’Europa la cura pastorale si trasformava nell’esercizio di un ministero a favore di una continua processione di gente sempre in movimento.
Anche gli studi assumevano aspetti diversi almeno per le minoranze degli immigrati. Con un titolo universitario italiano era possibile iscriversi agli studi per il Master soltanto dopo alcuni esami integrativi. Si poteva allora, dopo aver frequentato i corsi, presentare una tesi per ottenere il Master che, se valutata positivamente, permetteva la continuazione degli studi verso il dottorato di ricerca (Ph.D.). superati gli esami in lingua straniera e quelli generali delle sei cattedre di teologia si era ammessi a presentare una tesi definitiva per il dottorato di ricerca (Ph.D.). ricordo una curiosità oggi ancora lontana dall’orizzonte europeo. Mi fu, tra l’altro, richiesta una dissertazione scritta sulla preghiera nell’Islam. L’esame orale avrebbe avuto luogo all’Istituto Islamico dove non c’era neanche un cristiano. Ora il dottorato di ricerca ammette direttamente alla carriera universitaria o a quella diplomatica. Anche nel mio caso tutto era possibile. E la cattedra c’era! Bastava un sì, ma avevo promesso alla mia chiesa di tornare in Italia dopo i sette anni di missione. E così fu.
Come si sa ogni ritorno comporta gioie e dolori, ma il nostro fu funestato dal più grande dolore che genitori possano conoscere: la perdita di un figlio di soli cinque anni.
2. Ecumenismo veneziano anni sessanta
Negli anni sessanta eravamo in pieno Concilio Vaticano II e le notizie ecumeniche, messe in circolazione, facevano presentire l’aprirsi di un’epoca nuova. Era entrato in gioco un nuovo modo di pensare che aveva rari precedenti storici. Si parlava dell’incontro dei fratelli cristiani sulla base del par cum pari, delle gerarchie delle verità in rapporto al nesso centrale e di una perennis reformatio.
Il Consiglio Ecumenico delle Chiese seguiva con vari osservatori le fasi evolutive della nuova apertura. Allo stesso modo l’Alleanza Mondiale delle Chiese Riformate e una serie notevole di teologi tracciavano le vie per orientare l’incontro delle chiese e incoraggiare confronti ed eventuali divergenze. Le Chiese in Italia si trovarono a fare i conti con un passato difficile, più incline al monologo che al dialogo.
Nonostante queste difficoltà vi furono incontri ecumenici fruttuosi tra le comunità locali: “fra i primi quello di Venezia per opera del pastore Renzo Bertalot e del teologo don Germano Pattaro” (1). Era giunto il momento di lasciar cadere le iniziative sporadiche ed occasionali per lo più a carattere sociale.
Il Sinodo Valdese del 1962 invitò tutte le comunità a dedicare un anno di studio al problema dei matrimoni misti. Come pastore, appena approdato a Venezia, cerca di mettere in moto un aspetto della metodologia ecumenica, lungamente attestato all’estero, che faceva parte della mia settennale esperienza canadese. È infatti importante che il “diverso da noi” presenti se stesso per evitare fraintendimenti e mistificazioni. Fu quella l’occasione per chiedere udienza al patriarca cardinale Urbani ed ottenere che la posizione cattolica venisse presentata alla comunità valdese da un teologo cattolico. Era la richiesta di un servizio che escludeva polemiche e si limitava a domande di precisazione e di approfondimento. Con molta cortesia l’invito fu accettato e don Germano Pattaro arrivò alla chiesa valdese di Venezia insieme a Mons. D’Este. Si trattava di studio e non certo di programmare un matrimonio misto.
L’incontro ebbe un risultato molto positivo e facilmente si prolungò nel tempo. Nonostante la forte minoranza valdese l’incipiente interesse interconfessionale si allargò sempre più a livello di base favorendo la conoscenza di diverse comunità cattoliche cittadine.
Stava maturando una nuova metodologia ecumenica -Dall'incontro con il "diverso" si passò all'informazione reciproca diretta man mano che da Roma e da Ginevra uscivano documenti orientati verso il confronto e la convergenza. Non c'è formazione senza informazione perché, come già si diceva alla conferenza di Losanna nel 1927, è necessario andare a scuola gli uni dagli altri.
In seguito a questi primi passi le presenze evangeliche agli incontri andavano lentamente allargandosi nella misura in cui si cominciava a transitare dal monologo al dialogo.
Don Pattaro ed io fummo invitati in molte altre località (Brescia, Chiari, Bassano, Treviso, Mestre e Pinerolo) Anche istituti, seminari (S. Massimo, S. Zeno, S. Bernardino di Verona) e università ci ospitarono per incontri con gli studenti o per colloqui internazionali (Roma).
L’editrice cattolica Morcelliana pubblicò una serie di mie conferenze, tenute durante il 1963 e l'AVE di Roma ristampò il Corpus Domini di Ugo Janni che, in Italia prima della seconda guerra mondiale, fu un precursore valdese dell'ecumenismo. In entrambi i casi le prefazioni erano di don Germano. Anche il piccolo Centro Evangelico di Cultura della comunità valdese di Venezia fece una larga diffusione di un opuscolo sulle "componenti del dialogo ecumenico". Era un'occasione per richiamare alla memoria i teologi protestanti più significativi che si erano impegnati nel dialogo e nel confronto con i sacerdoti cattolici. Più tardi, negli anni settanta, fu sollecitata una collaborazione tra la Claudiana (casa editrice protestante) e la LDC (casa editrice cattolica).
Al di là dei documenti ecumenici che uscivano da Roma e da Ginevra, i punti di riferimento di don Germano Pattaro e miei avevano una forte componente estera, ricca di una meditazione ecumenica approfondita e capace di tracciare nuove prospettive per il futuro. (Per don Pattaro: Y.Congar, J.B.Metz, H.U. Balthasar, K. Rahner. La mia scelta andava a favore di K. Barth, P. Tillich, R. Niebuhr, P. Lehmann, J. Dewey).
Bisognava tradurre o travasare la teologia contemporanea al livello delle comunità in base alla metodologia ecumenica emergente. L’accento cadeva sulla conversione a Cristo e non degli uni verso gli altri.
Nonostante l'opposizione a qualsiasi forma di curiosità, di superficialità, di "embrassons nous", di irenismo e di neutralità lo zoccolo duro dell'integrismo opponeva le sue resistenze temendo che l'ecumenismo, come conversione al Signore di quanti lo invocano, portasse ad una perdita della propria identità anziché ad un approfondimento della fede comune (2).
3. L'orizzonte ecumenico
È chiaro che l'interesse ecumenico ha un suo lungo e complesso retroterra. Per chi appartiene ad una forte minoranza, come gli evangelici italiani, il problema si pone fin dai primi anni di scuola, in cui il confronto con gli altri è inevitabile: Le polemiche sono spesso infantili, ma non esauriscono il discorso. Si formano anche amicizie che durano tutta una vita e che diventano molto apprezzabili quando gli antichi compagni di banco si ritrovano ad insegnare nelle università. Infatti agli incontri di studenti seguono anche riunioni di gruppo che discutono temi religiosi. I membri delle comunità evangeliche ne hanno fatto spesso l'esperienza anche se soltanto dopo aver familiarizzato con gli studi teologici ci si rende conto della complessità degli argomenti.
Nel 1943, a Trento,era stata significativa la formazione dei Focolarini. Venne organizzato un movimento in prospettiva ecumenica. Il successo enorme, ottenuto oggi su scala mondiale, rende merito all'impegno dei singoli membri. Se una critica è stata sollevata (così ancora all’assemblea di Graz, Austria, nel 1997) questa consiste nel fatto che, prima del Concilio Vaticano II, non era facilmente pensabile un'organizzazione interconfessionale indipendente dalla supervisione della chiesa.
Anche Venezia, sulla terra ferma, ha avuto (almeno fin dal 1958) i suoi momenti di confronto, soprattutto in riferimento al piano politico (3).
Nel 1963 la prof. Maria Vingiani incontrò don Germano Pattaro a Verona in occasione di esercizi spirituali e lo invitò ad offrirsi come esperto e consulente per la formazione dei gruppi ecumenici che stava progettando. Ancora una volta la via passò, ricalcando l'esperienza precedente, attraverso l'autorizzazione del cardinale Urbani. All'inizio non fu facile, ma il desiderio venne esaudito e il compito fu ancora affidato a don Germano Pattaro. A mia volta venni coinvolto dal teologo veneziano nel suo nuovo incarico. Avevamo così l'occasione di verificare insieme le metodologie ecumeniche che nel frattempo erano maturate a Venezia.
4. Segretariato Attività Ecumeniche
Intanto il 15 dicembre 1966 veniva costituito ufficialmente il Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) che assumeva un carattere interconfessionale sia pure in assenza di firme evangeliche. Fu un momento decisivo per l'incontro delle chiese in Italia. La presenza evangelica alle riunioni di studio andava aumentando di anno in anno. Un’opera di promozione della prof. Maria Vingiani raggiunse risultati in continua crescita che andavano consolidandosi al di là delle stesse aspettative (4). Il contributo specifico della nostra esperienza veneziana fu espresso con la stesura dei "Principi metodologici" ( ancora attuali) che lo stesso don Pattaro trasmise allo stato di bozza cioè prima che assumesse la veste giuridica definitiva. Le sessioni ecumeniche registrarono un'espansione notevole passando dalla Mendola a Camaldoli, a Napoli e poi nuovamente alla Mendola. La presenza degli ebrei si fece sentire in maniera molto positiva e lentamente andava proponendosi anche l'avvicinamento alle altre "fedi viventi".
L'esperienza dei giovani, che partecipavano agli incontri, aveva richiamato la nostra attenzione sulla necessità di prestare maggiore ascolto al variare dei tempi. Nel parlare alle nuove leve non era saggio dare risposte a domande mai poste (così Paul Tillich). Era urgente promuovere innanzi tutto la formulazione delle domande dei partecipanti e soltanto in un secondo tempo organizzare le relazioni agli incontri.
La caduta del muro di Berlino segnò un momento molto significativo nel lavoro comune di ricerca che, affiancato all'interesse per le altre religioni, aprì prospettive nuove alla meditazione ecumenica.
Intanto Don Pattaro ed io eravamo stati impegnati in vie diverse. Pur essendo sempre accomunati dalla stessa prospettiva ( l'uno spesso a Roma, all'ombra di papa Luciani e l'altro alla prima Società Biblica interconfessionale nata in Italia), fummo costretti dalla cattiva salute del teologo veneziano a rallentare le attività sia come consulenti nazionali del SAE sia come esperti delle varie attività che erano emerse dal lavoro comune.
Il 27 settembre 1986 don Germano si spegneva.
Secondo le parole commemorative del patriarca di Venezia, don Germano aveva ricevuto il dono di una grande intelligenza e ne aveva fatto un servizio.
5. I rapporti con le chiese
L’esperienza internazionale, ampiamente verificata a Venezia, portava con sé la necessità di un continuo aggiornamento degli eventi ecumenici e richiedeva un'attenzione particolare riguardo alle filosofie e alle loro metodologie. Anche la scienza delle traduzioni andava evolvendosi. Per oltre trent'anni fui invitato a tenere corsi negli istituti veneti (S. Massimo, S. Zeno, S. Bernardino di Verona prima e di Venezia poi) di Parma, Bologna e Sorrento. La mia collaborazione ai Marianum di Roma è andata oltre i trent'anni.
L’ecumenismo veneziano ha rappresentato una svolta decisiva per tutto l'evangelismo italiano. L'interesse dei valdesi faceva eco a quello metodista con il past. Mario Sbaffi, a quello del past. Fausto Salvoni della Chiesa di Cristo a quello del past. Mario Affuso della Chiesa Apostolica Italiana e a quello del past. Enrico Paschetto della Chiesa Battista.
Le università di Sassari e di Milano avviarono un corso di formazione ecumenica sulla storia della Riforma protestante. Fui invitato nelle due città a tenere le lezioni che vennero in seguito pubblicate dall'Università di Sassari: "Dalla teocrazia al laicismo. Propedeutica alla filosofia del diritto».
6. La Società Biblica interconfessionale
L'esperienza precedente si riverberava sugli impegni futuri, relativi al lavoro biblico: altri quindici anni in missione in un contesto internazionale e volutamente ecumenico. Dopo vari sondaggi e consultazioni si arrivò al progetto di traduzione della Bibbia in lingua corrente (TILC), sulla scia delle altre nazioni e in conformità ai principi direttivi varati dal Vaticano e dall'Alleanza Biblica Universale il 2 giugno 1968. Trovati i candidati per la traduzione, i revisori e i consulenti il progetto fu approvato separatamente sia dalla Chiesa Valdese sia dalla Commissione Episcopale italiana.
Nel 1976 il Nuovo Testamento in lingua corrente fu consegnato alle rispettive chiese (era allora papa Paolo VI).
I tempi di Dio non sono segnati dal nostro orologio. Fu cosi che, dopo ottocento anni, un altro gruppo di valdesi, accompagnato dai collaboratori cattolici, tornò in Vaticano con traduzioni della Sacra scrittura m volgare, come si diceva allora o in lingua corrente come si dice oggi. Nel 1985 fu consegnata l’intera Bibbia (era allora papa Giovanni Paolo II). Da quel giorno le traduzioni comuni riguardano circa un migliaio di lingue parlate oggi nel mondo. La Società Biblica che rimane la più grande casa editrice del protestantesimo in Italia, stampa le Sacre Scritture approvate dall'Alleanza Biblica Universale e generalmente confermate secondo i principi direttivi, dalle Conferenze episcopali nazionali. Due milioni di copie vennero offerte ai giovani durante il giubileo dell'anno 2000.
Va detto che il lavoro svolto in quegli anni fino all'età della pensione non era un cammino in discesa. Bisognava "mendicare", come disse Lutero in punto di morte, ogni singola collaborazione ed ogni singolo sostegno. Erano gli anni di piombo non particolarmente aperti al dialogo.
Mi fu d'indispensabile aiuto mia moglie incaricata di mantenere i contatti con tutte le denominazioni e tutte le chiese. L'agenda dei lavori e la corrispondenza erano interamente nelle sue mani. Si trattava inoltre di partecipare alle assemblee più importanti organizzate dalla Società Biblica con le varie comunità.
Interessante fu la collaborazione con i pentecostali che, per principio, non possono allontanarsi da una traduzione biblica letterale. La TILC fu perciò adottata come primo commentario per capire le espressioni più ermetiche che potevano prestarsi ad un facile o spontaneo fraintendimento.
Per quanto riguarda la nuova traduzione essa rappresenta l’unico monumento ecumenico italiano del XX secolo, che toccava direttamente la carta costituzionale di tutte le chiese, la Sacra Scrittura. Più tardi si arrivò anche ad un documento comune sui matrimoni misti, firmati dalla C.E.I. e dalla Chiesa Valdese, che , secondo la tradizione protestante, sono temi da decidere innanzi tutto sul piano civile delle singole nazioni.
7. Uno sguardo al futuro
L'attuale comunione reale, ma imperfetta reciprocamente, tende a rafforzarsi non perdendo mai di vista la conciliarità. Si potranno prendere insieme e non più separatamente decisioni sempre più conformi alla visibilità della chiesa, una, santa, cattolica e apostolica evitando tentazioni captative o oblative delle singole identità confessionali. Non si può chiedere alla regina Elisabetta d'Inghilterra di iscriversi al partito repubblicano, né si può chiedere al presidente Ciampi di proclamarsi re d'Italia. Rimane quindi aperto il discorso sub Petro anche se la discussione sul primato torna su tutte le agende e impegna particolarmente gli ortodossi.
Nell'evoluzione delle metodologie occorrerà non perdere di vista il concreto e coerente nesso cristologico perché su questa base si potranno identificare gli elementi separanti da quelli compatibili con l'unità nella diversità.
Bisognerà evidenziare il sempre nuovo e invariabile fondamento della fede liberandolo dalle forme non più attuali e dovute alla variabilità del tempo e dello spazio, alle incrostazioni storiche e alla variegata sensibilità teologica dei continenti. Così già si è espressa la Dichiarazione Comune sulla giustificazione per fede firmata tra cattolici e luterani nel 1999.
Una moratoria sui valori ultimi che impediscono il dialogo interreligioso non dovrà cedere al secolarismo vuoto e colmo di idolatrie nascoste, ma potrà impegnarsi a coltivare con oculatezza quella secolarizzazione che cela in se stessa un segreto messianico: il Signore che provvede alla salvezza degli uomini "secondo vie a lui solo note". All'assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tenutasi a Canberra nel 1991, siamo stati resi attenti ai doni dello Spirito che possono essere presenti anche nelle altre religioni, perciò dobbiamo anche saper imparare da loro.
Insieme dovremo saper affrontare i temi della giustizia, della pace, e della salvaguardia del creato, già proposti alla nostra attenzione dall'assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, tenutasi a Vancouver nel 1983.
Il profeta Isaia ci ricorda che il Signore "sarà il giudice delle genti e l'arbitro dei popoli. Trasformeranno le loro spade in aratri e le loro lance in falci. Le nazioni non saranno più in lotta tra di loro e cesseranno di prepararsi alla guerra" (Isaia 2,4).
Note
1. Valdo Vinay, Storia dei Valdesi III, Claudiana, Torino 1980, p. 465.
2. Cfr. Roberto Giraldo: Inaugurazione anno accademico 2002-2003.
3. Cfr. Maria Vingiani: Un’esperienza di ecumenismo locale. Memoria storica. In Atti del Sae, Edizioni Dehoniane, Bologna 1988: “A Venezia si era tutto spento per la mia partenza e l’avvicendamento dei pastori locali...”.
4. Cfr. Renzo Bertalot: Per dialogare con la Riforma, L.I.E.F., Vicenza 1989. dalla dedica: “All’infaticabile Maria Vingiani, con l’augurio che il servizio del SAE continui per lungo tempo”.
(da Aa.vv., Fede e cultura, Quaderni di Studi Ecumenici n. 8, I.S.E. Venezia, 2004, pp. 155-165)
La vita, la sofferenza, la morte
nella visione ortodossa
di Vladimir Zelinskij
Cominciamo con la premessa: l’ortodossia è tutt’altro che una confessione eudemonica. Non crede che la felicità terrena, il successo di qualsiasi tipo, la vita tranquilla e non turbata risulti dalla fede cristiana e dall’amore per Cristo. Anzi, la sofferenza, inseparabile da questa vita, viene considerata come partecipazione alla croce. “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa”, dice san Paolo (Col. 1, 24). Non direi, certo, che tutti gli ortodossi - compresi i ministri del culto - vivano così, ma il bene spirituale della sofferenza subita e sopportata da noi, sia fisicamente che moralmente, è come se fosse inscritta nel nucleo della fede ortodossa.
Basta ricordare gli innumerevoli eremiti, i padri del deserto, le Tebaide dell’Egitto e della Russia del Nord, ma anche l’ascetismo quotidiano dei semplici credenti che rispettano più o meno fedelmente i lunghi e assai pesanti digiuni, come, ad esempio, l’attuale Quaresima (uno di quattro digiuni dell’anno liturgico, più tutti i mercoledì ed i venerdì). Nella Chiesa ortodossa non c’è una differenza fra la spiritualità dei monaci e quella dei laici; tutti sono chiamati al sacrificio che si esprime nella rinuncia a certi desideri del corpo, ma anche dell’anima. (Il digiuno riguarda non solo il cibo senza proteine, cibo di cui non è raccomandabile mangiarne a sazietà, ma tutta la parte corporale, vita coniugale compresa, al pari di qualsiasi divertimento, le visite, gli spettacoli, i programmi televisivi - tranne le notizie -, ecc. Tutto questo per partecipare – anche in modo simbolico - al cammino di Cristo che va verso la Sua crocifissione e Risurrezione). Il digiuno è lo scopo in sé; ma anche il modo di alleggerire il corpo affinché lo spirito possa spiegare le ali. È chiaro che la mentalità formata dallo spirito ascetico accoglie anche la sofferenza. Si ricorda spesso le parole della Lettera agli Ebrei :
Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore, e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da Lui; perché‚ il Signore corregge colui che Egli ama e sferza chiunque riconoscere come figlio (12, 5).
La correzione del Signore, cioè la sofferenza che cade su di noi, è un segno di benedizione, essa compie il lavoro della purificazione che ci prepara all’incontro col Dio crocefisso e, forse, ci salva dalle prove nell’aldilà. Questo pensiero o consiglio si può trovare in tantissimi scritti dei padri della Chiesa, nei padri spirituali recenti e contemporanei, i quali rimangono sempre attuali. Anche nella percezione ortodossa dell’inesauribile immagine di Cristo troviamo i due tratti più sottolineati e più importanti per la devozione popolare: Cristo Risorto nella Sua gloria celeste e Cristo che si umilia, si spoglia della sua gloria, il quale “disprezzato dagli uomini... si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”, come dice Isaia (53). La fede ortodossa chiama a imitare Cristo non tanto dall’esterno quanto a vivere in Cristo nel proprio intimo, nel proprio cuore, fosse anche nella propria sofferenza. Condividere i patimenti con Cristo è un modo di vivere la comunione spirituale, quasi un sacramento dell’anima.
La fiducia nella Provvidenza
Un altro componente importante per la fede ortodossa - quando essa è veramente creduta e seguita - è la fiducia totale nell’azione di Dio, nella Sua Provvidenza. Non ci sono le circostanze sfavorevoli che non vanno d’accordo con i nostri piani, ma c’è sempre la mano del Signore che ci guida, che ci corregge, che ci porta alla salvezza, spesso attraverso dure prove. Anche quando si tratta di sofferenze insopportabili, secondo la fede nella stessa Provvidenza, a nessuno Dio manda la croce che non sarebbe capace di prendere sulle proprie spalle. Se il dolore fisico o morale è così forte, allora anche tu sei ancora più forte per affrontarlo. La cosa più importante è di non perdere mai la fiducia. In qualsiasi caso non sono io, ma è il Signore della vita e della morte, della gioia e della sofferenza, che decide e il cristiano è chiamato ad ubbidire.
Da questi orientamenti assai generali proviene anche la visione ortodossa della “spiritualità bioetica”. Il problema, come anche il termine stesso, è nuovo per l’ortodossia e praticamente importato dall’estero, cioè dalle confessioni occidentali, dalle cosiddette Chiese sorelle. Sappiamo che tra queste Chiese sorelle negli ultimi anni sono venuti fuori tanti problemi nuovi e si sono aggravati i vecchi, ma se esiste un unico spazio dove non c’è discussione, non c’è opposizione, almeno con la Chiesa cattolica, è per l’atteggiamento nei confronti della vita e della morte. La differenza è nei dettagli. Se, per esempio, la difesa della vita fin dal concepimento nella Chiesa cattolica cerca di appoggiarsi sul ragionamento scientifico, che, come si crede, debba essere normativa per tutti, per la sensibilità ortodossa è più importante sottolineare la partecipazione immediata di Dio nella creazione della vita nuova. L’amore manifestato nella creazione dell’essere umano prevale sulla logica del programma dello sviluppo dell’embrione. Dal punto di vista razionale s’impone sempre la domanda: perché dobbiamo dare la preferenza ad un mucchio di cellule davanti ad una persona adulta che ha i suoi problemi, di salute o di finanza? Perché, infatti, se le cellule staminali possono curare malattie finora incurabili? L’ortodossia potrebbe rispondere così: colui che in qualsiasi caso è più forte - poiché ha avuto la sua vita, anche se non piena (e, come diceva uno dei personaggi di Dostoevsky, “ha già mangiato la mela”) - è chiamato a non impedire a un essere umano infinitamente più debole (che non ha vissuto, ch’è ancora innocente), di entrare nella vita,. La venerazione della vita nascente fa parte della fede ortodossa la quale crede che ognuno di noi sceglie da solo il peccato di Adamo, ma Dio ci crea senza peccato.
Prima di tutto, la vita, la morte, la sofferenza non sono "problemi" per i quali dobbiamo trovare una buona soluzione ortodossa accanto alle soluzioni cattoliche, protestanti o laiche, ma appartengono piuttosto al mistero del rapporto umano col Creatore. Il termine "bioetica", però, ci costringe già a una certa scelta, ad un primato semi-nascosto della razionalità morale dell'uomo e della sua certezza di rispondere al mistero della vita. Per questo motivo il modo di vedere rivolto al mistero della creazione, che è proprio dell'ortodossia, si perde davanti alla necessità di risolvere questi "problemi" che in verità non sono niente altro che un'espressione tecnica e razionale della volontà di dominare ciò che Dio aveva creato.
Questa lunga introduzione al nostro tema serve a preparare il terreno per capire o per sentire prima la posizione spirituale al cui interno si pongono e si risolvono le sfide dell’etica della vita nella prospettiva ortodossa. L'attività della mente umana è profondamente segnata dalle cose che sono, secondo San Giovanni, "nel cuore di ogni uomo". Ogni conoscenza ottenuta nel lavoro intellettuale riflette in sé il Verbo che "era al principio con Dio", ma nello stesso tempo l'uomo cerca di fare della sua conoscenza uno strumento di dominazione su tutto ciò che è stato creato e messo a sua disposizione.
Questo confronto nascosto nello spirito umano e nella sua conoscenza si manifesta così fortemente in nessun altro luogo come in quelle scienze che assumono l'uomo stesso e tutto ciò che lo riguarda come oggetto. Prima di fare un atto iniziale della conoscenza scientifica l'uomo, nel suo spirito, fa la scelta per lo scopo della sua ricerca. Ogni volta bisogna fare la scelta fra due chiamate: l’amore di Dio che ci interpella - con il silenzio nello spirito - e la tentazione di essere come Dio, di imitare il Suo potere sulla creazione - che si fa vivo con il rumore del mondo. Cosa può scegliere il pensiero dello studioso: l’ascolto della Parola o la rivalità con la Parola? La fede, infatti, è una risposta alla Parola immessa nella vita di una persona - dunque anche nella vita degli altri - ma la Parola, in questo caso, significa azione di Dio nella vita umana.
Per esempio, per quanto riguarda lo statuto dell’embrione, il pensiero laico insiste nell’affermare che il concepito non è ancora un io e non può essere trattato come tale; diventerebbe un io alla fine della gravidanza. “Il bambino concepito oggi non è lo stesso che sarebbe concepito fra un mese, - dice un genetista, - quindi nessuno di noi può pensare l'aborto come soppressione del proprio io e di un io in genere... La difficoltà ad accettare l’aborto è commisurata con la nostra difficoltà ad accettare il carattere casuale della nostra esistenza, l'assoluta contingenza del nostro io”.
Il cuore del problema è qui. Se noi siamo "gettati" in un pasticcio di contingenze dal nostro concepimento fino alla nostra morte, che, giustamente, dovrebbe essere chiamato "assurdo" - assurdo totale e senza speranza, che ci può portare solo alla morte - o se noi entriamo nel mistero altrettanto assoluto che si trova al fondo della nostra esistenza. Questo mistero è aperto, rivelato; esso ci apre alla presenza di Dio, non come una certa idea della Trascendenza, ma come Provvidenza, come Persona che rimane con noi ogni istante della nostra vita. Soprattutto nel momento della creazione della vita nuova e nella sofferenza. Non credo che la bioetica sia capace di oltrepassare questa scelta iniziale. Nessuna norma morale può costringerci a scegliere la vita in qualsiasi circostanza se questa vita non è riempita dalla stessa Presenza che noi portiamo in noi stessi, dalla stessa Presenza in cui crediamo e che ci si dà come vita eterna...
Dio e il concepimento: il primo incontro
Il fondamento della venerazione della vita nell'ortodossia è strettamente biblico. L'uomo scopre Dio nell'atto della sua propria creazione: prima della propria nascita l'uomo incontra lo sguardo dell'amore. La fede, tra l'altro, significa memoria accesa del mio inizio, quando io non avevo ancora alcuna memoria umana. Così dice il famoso Salmo 139(138) :
Sei Tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le Tue opere, Tu mi conosci fin nel profondo... non Ti erano nascoste le mia ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i Tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro.
La creazione dell'uomo è un atto d'amore che continua, che ha inizio ma non ha fine. Nella scoperta di questo amore l'uomo trova se stesso, il proprio "io" prima dell'"io", il nucleo della sua personalità come figlio che Dio ha creato per sé. Ma per chi è "figlio di Dio", il significato più profondo e originario dello statuto di figlio è di essere creato, amato, chiamato alla vita. La figliolanza divina, dunque, è la caratteristica più importante dell'essere umano, e la persona già esiste nell'amore, nel pensiero, nella memoria di Dio ancor prima della nascita della sua coscienza. Ma anche dopo il suo tramonto, anche nella sofferenza davanti a Dio. In più: quando la nostra personalità non ha trovato ancora il suo proprio "io" (o l'ha già perso), cioè finché questo "io" dell’essere nascente, appena creato, non ha costruito il suo modo di essere per sé - chiuso, in parte separato da Dio a causa del suo peccato - la presenza dell'amore si manifesta nel modo più visibile e più misterioso.
Dove si trova questo “io” autentico? Non crediamo che si tratti dell’“io” del cogito cartesiano, ma dell’“io” che proviene dal sum di Dio. Dio è il Creatore che s’intrattiene con le Sue creature. L’uomo esiste perché esiste Dio che ha messo la goccia della Sua presenza, della Sua luce a fondamento della nostra esistenza. “Veniva nel mondo la luce vera che illumina ogni uomo” (Gv. 1,9). Se crediamo davvero in queste parole, non possiamo prenderle come metafora. La luce che entra nella nostra esistenza produce il vero deposito della nostra personalità. Quell’”io” creato da Dio è qui. Con la creazione di ogni essere umano (ed in un altro senso: di tutto ciò che “respira”) l’“io” vero (che non conosce il suo destino, non conosce ancora niente, tranne l’amore di Dio che l’ha chiamato dal nulla e costruisce il suo futuro corpo), si sviluppa secondo il suo piano, secondo il “programma” messo in noi insieme con la luce, nel Suo atto creatore. Dopo la nascita, dopo l’infanzia, con la perdita della nostra innocenza quando entriamo nel mondo diviso fra l’“io” e gli altri oggetti, nel mondo in cui ogni “io” vuol diventare il padrone di tutto ciò che si presenta davanti ai propri occhi, l’“io” del Verbo, l’“io” iniziale della luce che ci illumina si ritira nell’ombra. Diciamo che esso si addormenta, ma che può essere risvegliato al momento della sofferenza, a volte estrema, nell’ora dell’agonia e della morte. In quel momento osiamo dire: "Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi" (1 Gv.4, 16) e se tale è la nostra fede, come possiamo non vedere in ogni atto di concepimento un sacramento della creazione del microcosmo che nasce dal nulla e dall'amore ed in ogni sofferenza la partecipazione alla croce? Dio e la morte: l'ultimo incontro Se la vita è sacra come opera prediletta da Dio fin dall'inizio, essa non perde alcuna parte del proprio valore neanche alla fine. Al contrario, il nostro "tempo finale" è il momento più significativo nel nostro cammino, il cui senso nascosto o rivelato è il nostro dialogo con Dio. La morte ci offre l'ultima possibilità di dire la nostra parola definitiva a Dio, ma anche Lui può cogliere il momento dell'estenuazione fisica per la sua ultima entrata nella nostra anima non ancora separata dal corpo. L'ortodossia ha un atteggiamento speciale verso la morte o piuttosto verso il modo in cui l'uomo va incontro alla propria fine. "I giorni sono fissati", ma la testimonianza più sicura ed autentica della fede è l'umiltà e la gratitudine con cui l'uomo accetta la propria morte, nel modo in cui non gli risulta difficile e pesante. Per l’anima ortodossa la morte troppo facile, troppo breve (o "dolce" come diciamo oggi), è sempre esposta al sospetto, perché questa "dolcezza" ruba all'uomo - ma anche a Dio - il mistero del loro ultimo incontro sulla terra. Il senso di questo mistero è l'annuncio dell'amore divino attraverso la penitenza umana. Questo annuncio, tranne per il suo contenuto sconosciuto, aperto solo all'anima morente, è portato dai due sacramenti che la Chiesa propone: l'estrema unzione e la comunione (ed in caso della necessità anche il battesimo). È con l'annuncio, che significa anche perdono, che l'uomo va all’incontro con Dio nella "vita del secolo futuro".
Ma la morte non è solo la fine della nostra vita. La morte fa anche parte della nostra esistenza quotidiana, anzitutto come avvenimento spirituale della p r e p a r a z i o n e e la memoria della morte non è separabile dalla vita della fede. Ogni liturgia ortodossa ripete almeno tre volte la supplica per una morte "senza vergogna" e "pacifica". "Senza vergogna" vuol dire che l'uomo non deve essere lasciato con il disonore della sua vita spiritualmente perduta. "Senza vergogna" e, se possibile, anche senza sofferenza in senso fisico, “però non, come voglio io, ma come vuoi Tu” (Mt. 26,39). Come ha detto Paul Claudel, esprimendo un pensiero veramente patristico: Il Cristo è venuto non per liberarci dalla sofferenza ma per riempirla di se stesso. Questo riempimento,per la fede, significa la Croce. L'uomo non deve scappare dalla sua croce che è un altro momento della comunione che porta alla salvezza. E come può egli rinunciare alla croce nel minuto più solenne, più "cristico" della sua vita? Quale posto possiamo trovare per l'eutanasia in questa visione della morte? Senza parlare della "morte dolce" del povero corpo umano che ha perso già tutto (la coscienza, la possibilità di muoversi, di parlare, di rispondere almeno con i propri occhi), l'ortodossia confessa la sua fede nell'anima che continua a vivere in modo molto fermo e semplice; come abbiamo detto, la Chiesa dà i sacramenti a questo corpo. Sappiamo poco della vita dell’anima morente, ma crediamo alla vita di questa anima. Il sacramento è un vincolo con le "cose... che non si vedono" (Ebr. 11,1). Perché queste cose nascono già qui, sulla nostra terra, nella nostra anima e fino all'ultimo momento non sappiamo dell’esito della propria vita. Sappiamo che il corpo è ancora animato, che lo spirito dell'uomo non ha ancora finito il suo cammino e, dunque, anch'esso ha il diritto, il dovere, la sete di unirsi con il suo Signore nel sacramento del Suo Corpo e del Suo Sangue. E il Signore può risvegliare quest'anima, portarla alla vita; fino all'ultimo instante il miracolo della guarigione è possibile.
Non si tratta di un'impostazione puramente teologica ma dell'esperienza reale, attestata da moltissimi testimonianze di santi e di gente comune. Persino uno scrittore così lontano dall'ortodossia come Lev Tolstoi, nella sue descrizioni veramente geniali della morte (la morte del principe Andrei in "Guerra e Pace", il racconto "La morte d'Ivan Il'ic" ed altri testi ancora) ha saputo vedere, indovinare nei minuti terminali della vita un'ultima illuminazione (che noi chiameremmo "la grazia") e che si mostra infinitamente più importante di tutta la vita precedente. L'eternità entra in questa fessura che la morte che si avvicina apre in quella corazza attraverso cui passa la nostra esistenza quotidiana mentre il nostro "io" autentico ed eterno (che non è quello cartesiano!) appare nudo davanti al suo Dio - finora, forse, ancora sconosciuto. Mi ricordo una testimonianza straordinaria di Padre Serghij Bulgakov (1871-1944, grande teologo, filosofo, pubblicista). Egli è riuscito a descrivere la propria agonia, dalla quale era sopravissuto. Nel suo saggio “La sofiologia della morte” P. Bulgakov parla con incredibile realismo spirituale della presenza di Cristo nella sua sofferenza. “Io stavo per morire e Cristo stava per morire in me. Con lo stesso grido al Padre: “Perché mi hai abbandonato?” Era un autentico momento della comunione con Cristo nella Sua morte sulla croce. Ma questa sofferenza con Cristo è anche il messaggio della salvezza”.
“Sulla mia fine decido “io!”
Togliersi la propria vita, con il suicidio - anche il suicidio come semplice fuga dalle sofferenze - è stato considerato dall'ortodossia come il fallimento umano più grave, il peccato senza possibilità di penitenza. Fino ai nostri giorni la Chiesa non poteva neanche fare il funerale religioso per colui che deliberatamente si era tolto la vita. La pratica ecclesiale dei nostri giorni è in realtà meno severa, ma la norma che riflette i principi ed è fissata negli antichi canoni rimane la più ferma ed inflessibile.Ma, forse, lo stesso malato, il condannato a morte, ha il diritto di decidere la propria fine? La comunità umana, però, non deve mai essere sua complice. Per la fede ortodossa Dio agisce anche nella morte della persona umana, e noi non abbiamo nessun diritto per cacciarlo via, poiché "la potenza di Dio infatti si manifesta pienamente nella debolezza" ("Cor. 12, 9).
C'è un altro aspetto spirituale non meno importante. La malattia e la morte, nella visione cristiana, sono visti come castigo a causa del peccato. L'uomo deve combattere la malattia, ma egli non è capace e non sarà mai capace di abolire la morte con i suoi sforzi. La sua unica possibilità cristiana è la morte con Cristo e in Cristo e, a volte, come Cristo, nell'agonia e con terribili sofferenze. "Soffro molto, ma con amore", disse il morente Papa Giovanni XXIII. Una tale morte "con amore" ed in Cristo è vista dall'ortodossia come una morte santa. Il concepimento e la morte sono due figure dell'incontro con Dio che dona la vita terrena e quella nell'eternità. E se l'uomo non può evitare la prima, per lui non deve mancare neanche la seconda. Anche con tutte le sofferenze imposte alla fine. In più: lui è chiamato a questo ultimo incontro con la Croce di Cristo. La vita umana ha due confini: il sacramento della creazione ed il mistero della Croce. Lo spazio entro questi confini appartiene alla sua libertà, rispettata anche da Dio, ma in questi confini sacri comincia già la libertà di Dio e l'uomo deve rispettarla a sua volta.
L’ideologia della morte che sta diffondendo nella società odierna si può esprimere con uno slogan: “Sulla mia fine decido “io!”. No, l’uomo può decidere solo sul suo suicidio, la fine della vita appartiene a Colui che l’ha creata. “Decido io”; con il mio “io” piccolo ed orgoglioso è la traduzione nuova della vecchia promessa “sarete come Dio”. Unica “dolcezza” che ci è consentita nella morte è il rispetto della libertà di Dio e la totale fiducia nella Sua sapienza.
Non si tratta di condannare la scienza che cerca di proteggere l’uomo dalle sofferenze; anzi, nonostante tutte le tentazioni, a volte anche diaboliche, la conoscenza umana porta in sé una luce, costituisce un riflesso della saggezza iniziale del mondo, di quella saggezza posta in tutta la creazione fin dalla sua origine. Si tratta di quella concezione della saggezza che il pensiero ortodosso ha sempre valorizzato e caratterizzato il trascendente ed inaccessibile ed il mondo creato. Nella saggezza Dio si dona alla Sua creazione, la riempie con le Sue energie, la investe della Sua presenza. Nella saggezza Dio continua sempre il Suo atto creatore, continua la Sua fecondazione con i suoi "pensieri", continua la Sua opera di formazione delle creature con il Suo amore. "Il Signore ha fondato la terra con la sapienza, ha consolidato i cieli con l'intelligenza" (Pr. 3,19). E lo spirito umano vede, percepisce questa saggezza della creazione, che non è altro che la manifestazione dell'amore stesso di Dio nella bellezza della Sua opera. Quando la conoscenza umana si rivolge alla saggezza, l'ascolta, la riceve e l'apre in sé, tale conoscenza diventa santa. Ma quando la conoscenza contesta la saggezza di Dio, la caccia via o la deride, essa diventa una serva del diavolo.
In questo senso ogni scienza ha una vocazione inerente all’essere un insegnamento per l'uso della saggezza o per il dialogo umano con "l'amor che move il sole e l'altre stelle". La scienza può diventare una visione "dei segreti della gloria di Dio nascosta negli esseri e nelle cose", come dice S. Isacco, il Siriano. Certo, più spesso essa preferisce violarli e utilizzarli come fa il quartier generale di un esercito che utilizza i segreti militari del nemico. Ma tutti questi segreti, che vengono anche strappati e decifrati, non sono nient'altro che piccolissimi pezzi dell’inesauribile mistero dell'amore - che è un'altro nome della saggezza. E se noi possiamo parlare di saggezza della bioetica, essa comincia dove inizia il cristianesimo: la Parola si è fatta carne. Con l'atto dell'Incarnazione non soltanto il grembo della Santa Madre di Dio - che era stata santificata - ma anche tutta la carne del mondo riceve la sua benedizione, la sua Parola nascosta in ogni creatura. La Parola è dappertutto, nei semi delle piante come nell'embrione umano. Questa Parola non tace, Ella cerca di parlare con noi, ci chiama, vuole entrare in dialogo con noi. "Il mistero dell'Incarnazione della Parola - dice S. Massimo, il Confessore - contiene in sé tutti i significati delle creature..."
L'Incarnazione però è il passo decisivo nella storia della salvezza, storia che non si ferma qui. Questa storia prosegue con la vita, sulla terra, della Parola incarnata, della sua trasfigurazione, della sua morte sulla Croce, della Sua Risurrezione...: "Chi conosce il mistero della Croce e della Tomba” - continua S. Massimo - conosce anche la "ragione delle cose" che nell'ambito della bioetica si apre nell'Incarnazione, cioè nell'adozione di tutto il genero umano nella persona di Cristo. E tutto ciò di cui abbiamo parlato prima: l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica, nella storia di Cristo acquista un senso nuovo...
Possiamo esprimere la risposta ortodossa ai problemi vita, della morte e della sofferenza con l'esortazione di S. Paolo: "in ogni cosa rendete grazia" o nella traduzione letterale: "Fate eucarestia in tutte le cose" (1Tes. 5,18). Questa impostazione eucaristica di fronte alla sfida della conoscenza che sta crescendo senza sosta si fa nell'unione della lode, dell'ammirazione, del mistero. "Fare eucarestia": nella vita di un essere umano significa non soltanto il rispetto della vita, ma la sua venerazione e la sua santificazione, come un miracolo intelligente, fatto da Dio, come l'espressione della Sua saggezza. Accettare la saggezza (che è un altro volto dell'amore) in qualsiasi persona umana (anche nell'andicappato, nel vecchio morente, senza parlare dell'embrione creato dalla saggezza stessa nel grembo della madre) come noi la accettiamo e la riceviamo nei doni consacrati è la sola risposta cristiana alle sfide della sofferenza e della morte, ma anche per la festa della vita.
Non è possibile definire l’uomo senza ricorrere alla comprensione della preghiera. Ma egualmente non possiamo comprendere la vera natura e lo scopo della preghiera senza comprendere la vocazione totale dell’uomo. Chi è l’uomo che prega?
Vivere per servire: ecco un ideale davvero bello per un cristiano! Ogni autentico servizio, infatti, ha la sua radice nel mistero di Cristo che per salvarci "pur essendo di natura divina..., spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo" (Fil 2, 6-7)
Rabbi Bär di Radoschitz supplicò un giorno il suo maestro, il Veggente (soprannome dato a Rabbi Giacobbe Isacco) di Lublino: "Indicatemi un cammino universale al servizio di Dio!".
Le Chiese dell'oriente cristiano
La Chiesa ortodossa
di Mervyn Duffy
A livello di governo ecclesiale, l’Ortodossia è una comunione di chiese che, tutte, riconoscono il patriarca di Costantinopoli come primus inter pares, o “primo fra uguali”. Sebbene egli non abbia l’autorità di intervenire negli affari delle chiese locali al di fuori del suo patriarcato, è considerato primo in dignità e centro simbolico di tutte le chiese ortodosse. Così il Patriarcato di Costantinopoli (conosciuto anche come Patriarcato Ecumenico) gode di una certa priorità fra le varie chiese ortodosse. Questo status è considerato come un servizio per promuovere la conciliarità e la mutua responsabilità. Questo ruolo include il convocare le chiese e il coordinare la loro attività, e talvolta intervenire in situazioni per tentare di trovare soluzioni a specifici problemi.
Lo scisma tra quelle che ora sono conosciute come chiese ortodosse e chiese cattoliche è il risultato di un secolare processo di allontanamento. Eventi come le scomuniche nel 1054 fra il Patriarca di Costantinopoli e il legato papale furono soltanto momenti salienti di questo processo. Inoltre, ogni chiesa ortodossa ha una propria storia di contrasti con Roma. Non c’è mai stata, per esempio, una separazione formale tra Roma e il patriarcato di Antiochia, anche se Antiochia condivise la comune percezione bizantina dello scisma. Oggi è largamente condivisa l’opinione che non ci siano stati fattori teologici in gioco in questo graduale allontanamento fra oriente e occidente. Tra questi ci fu l’interruzione di una regolare comunicazione in seguito a sviluppi politici e all’incapacità di entrambe le chiese di comprendere rispettivamente il Greco e il Latino. Inoltre erano in gioco questioni dottrinali, che riguardavano soprattutto la natura della chiesa. Le più importanti di esse riguardavano l’eterna processione dello Spirito Santo (questo in merito all’aggiunta del filioque al credo della chiesa occidentale) ed il significato del ruolo del vescovo di Roma come primo vescovo nella chiesa.
Due notevoli tentativi di ristabilire la comunione tra i cattolici e gli ortodossi avvennero durante il secondo concilio di Lione nel 1274 e nel concilio di Firenze-Ferrara nel 1438-1439. Sebbene unioni formali fossero state proclamate in entrambi i casi, alla fine esse furono rifiutate dalla popolazione ortodossa. I molti secoli di mutuo isolamento hanno avuto fine soltanto in questo periodo a noi contemporaneo. Un dialogo internazionale ufficiale tra le due chiese ha avuto inizio soltanto dal 1980.
Da dove viene il mondo? Noi, da dove veniamo? Dove andiamo? Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?
È necessario un reale superamento dell'estremismo islamico, che non può essere fatto di semplici parole, ma prendendo in seria considerazione tutte le sue componenti, cominciando da una rilettura critica della storia islamica in vista di una prospettiva nuova.
Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti
Trentaquattresima parte
Lo spirito o spiritualità marista, come scaturisce dal carisma, si incarna in quattro atteggiamenti: l’interiorità, la povertà, la precarietà e la comunione. Ne delineiamo i contenuti.
1. L’interiorità
La dimensione più profonda in cui vive lo spirito marista è la “vita vera interna”; essa – nella mente di P. Colin – “ Istituti caracter quasi proprius esse debet”. ( Constit., art. VIII, n. 37, p.14) .
Benché la Società di Maria sia un istituto dedicato primariamente all’azione e alla vita apostolica e non ordinato unicamente alla preghiera (“Parole di un fondatore” , op. cit., Doc. 132 , nn. 12-13), tuttavia il P. Fondatore ha pensato che fosse necessario che il Marista attingesse costantemente dall’esempio di Maria lo “spiritus intimae cum Deo unionis” (Constit., art. X, n.49, p. 18). Donde l’importanza per il Marista della complementarietà: “contemplazione-azione”.
Gli Entretiens ci rilevano il metodo che il P. Colin voleva applicato fin dai primi mesi della formazione in vista di stabilire questo fondamento dello spirito marista. Secondo il Fondatore, nei primi due o tre mesi si dovrebbe mirare solo ad unire i novizi a Dio, a portarli allo spirito di preghiera:
“Una volta che ci fosse l’unione con Dio, il resto andrebbe da solo . quando il buon Dio è nel cuore egli agisce in tutto; senza quello, tutto ciò che voi fate è del tutto inutile; avrete ben a piantare, ad affaticarvi, manca il principio vivificante. Ma quando un novizio ha gustato Dio una volta, tornerà a Lui continuamente; è come una risorsa che egli ha nella sua anima ed alla quale è necessariamente ricondotto come al centro; amerà intrattenersi con Lui”. (Parole di un fondatore, op. cit., doc. 63, n.2)
Questo testo è molto significativo sia per conoscere il metodo pedagogico del Fondatore, sia per la grande esperienza spirituale che denota in lui: l’unione a Dio e l’esperienza viva della sua presenza diventano come la chiave della vita spirituale.