Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Come dire oggi il Risorto

di Giampietro Brunet

«Poco più della metà degli italiani (54%) crede nella risurrezione di ogni uomo alla fine dei tempi»; «credenze specifiche della tradizione cristiana (come l’esistenza di un’anima immortale in ogni uomo o la risurrezione alla fine dei tempi) non risultano condivise da quote consistenti dei soggetti che pur hanno fede nel Dio del cristianesimo e credono in Gesù Cristo». Sono due flash tratti da “La religiosità in Italia” (Milano 1995, p.32s). in tale contesto, come ripresentare, dunque, l’annuncio della pasqua?

«Se Cristo non è risuscitato – scriveva S. Paolo – allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede» (1Cor 15,14). Partendo da questa frase paolina, il vescovo di Piacenza, Luciano Monari, ha affrontato il fulcro del kerygma pasquale: «È risorto come aveva predetto...», commentando all’incirca: il testo parla chiaramente di inutilità («è vana...», cioè senza contenuto). Se Cristo non fosse risorto saremmo nel vuoto ed egli si porrebbe solo come uno tra i tanti personaggi della storia.

L’insieme della predicazione cristiana, insomma, se non fa i conti e non si fonda saldamente sulla risurrezione di Cristo, per quanto ampia e articolata essa sia (Dio-Trinità, creatore e redentore, amore di Dio per noi e comandamento dell’amore per il prossimo, compresi i nemici), sarebbe senza un proprio fondamento e, sostanzialmente, privo di consistenza.

Nella stessa lettera paolina si parla di risurrezione «il terzo giorno, secondo le Scritture». Il riferimento – ha ricordato il vescovo Monari, sulla scorta di tanti studi esegetici in merito – è un testo di Osea dove, nel contesto di una celebrazione della conversione, il popolo viene spronato al rinnovamento. Vi si legge: «Il Signore dopo due giorni ci darà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,2). Ma questo è troppo poco per riuscire a spiegare l’importanza fondamentale che la risurrezione riveste come nucleo centrale della nostra fede.

Nel cuore dell’annuncio cristologico

Senza entrare in questioni dettagliate, su cui i teologi e gli esegeti hanno ampiamente dibattuto, il relatore si è soffermato soprattutto su una domanda: perché Mosè, Abramo e altri personaggi biblici che appaiono in tutta la loro grandezza di «campioni della fede nel Dio vivente» hanno potuto esserlo e noi, al contrario, senza la risurrezione, avremmo una fede vuota? Certo, senza la risurrezione rimarrebbero invariati l'insegnamento etico, le beatitudini, il comandamento dell'amore e gli stessi gesti di potenza che manifestano la venuta del regno di Dio; resterebbe pure significativo l'atteggiamento di Gesù verso i nemici e davanti alla morte stessa. Ma, conclude il vescovo, in tal modo la vita di Gesù e il suo insegnamento si ridurrebbero a un capitolo della storia del pensiero etico-religioso, accanto a Buddha, Socrate Maometto.

Ma, per completezza, accanto al comportamento esemplare di Gesù, occorrerebbe ricordare anche il negativo: il tradimento di Giuda, l'ambiguità di Pilato, il defilarsi dei dodici ecc. Esito di tale modo di procedere - oggi peraltro abbastanza diffuso – sarebbe che «la storia risulterebbe un intrecciarsi di gesti buoni e cattivi, dove forse i buoni sarebbero superiori al loro contrario, ma si tratterebbe solo di una pura superiorità statistica». Cos'è, dunque, a fare la differenza? La risurrezione, appunto.

Se la prima prospettiva fa cogliere la storia umana come un intreccio di bene e di male con oscillazioni ora a favore del bene, ora a favore del negativo, «con la risurrezione di Gesù, abbiamo invece un giudizio definitivo sulla vita di Gesù e, di conseguenza, sull’intera storia dell’uomo». Ecco il crinale storico decisivo dell’annuncio: «Gesù Cristo è risorto», è il «Vivente in eterno».

Se apparentemente la morte in croce di Gesù era percepibile come fallimento, o come la fine di un brutto sogno (così traspare dal discutere tra loro dei due discepoli di Emmaus), in realtà – dice con forza il vescovo biblista - «con la risurrezione di Gesù, Dio ha dato ragione a Gesù, perchè ha firmato col sigillo della sua potenza la vita e la morte di lui».

È ciò che si trova di frequente proprio nei discorsi degli Atti degli apostoli, in particolare, quando Pietro, presso Cornelio, prende la parola e conclude: «Lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse...a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio» (At 10,40-42).

La struttura della riflessione di Pietro contiene il bene e il male: il potere e l’amore si sono affrontati nel dramma della vita e della morte di Gesù. «La risposta della storia è stata a favore del potere politico e religioso ,contro la debolezza dell’amore. Ma Dio ha capovolto e ha affermato la sua volontà di salvezza dando ragione a Gesù. Insomma, il giudizio della storia è stato cassato e, concretamente, proprio all’interno della storia». La risurrezione – aggiunge il vescovo Monari, sulla scorta dell’intera testimonianza del NT – tocca la storia, e come! Qui è coinvolta la vicenda di Gesù di Nazaret, ma con un giudizio che viene da oltre la storia, sanzionandola però irreversibilmente. Certamente questo “giudizio dall’alto”W sottrae qualcosa alla storia: siamo di fronte ad un evento, tocca la storia e le cambia il corso. Anzi, con la risurrezione di Cristo Gesù, si potrebbe quasi dire che un pezzo di umanità, abita ormai stabilmente presso Dio.

Se con Qohelet si guarda la storia che “sta dai tetti in giù” si è portati a concludere che «non vi è nulla di nuovo sotto il sole»; ma se la si guarda dalla parte di questa “potenza dall’alto” che risuscita Gesù di Nazaret, allora si deve concludere che qui siamo davvero di fronte alla più grande, radicale novità mai vista.

Dal punto di vista di Dio

La risurrezione di Gesù Cristo segna dunque questo crinale definitivamente che dà al tempo la dimensione e il sapore del compimento. Non aveva, del resto, Gesù stesso – come riferimento il Vangelo di Marco – inaugurato la sua predicazione con: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo»? a segnare irrevocabilmente questo “compimento” è proprio l’evento della risurrezione: «prima di Cristo...poi di quelli che sono di Cristo», fino a che «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,23).

Quel ricorrente «ma Dio l’ha risuscitato» obbliga ad assumere il punto di vista di Dio. Se, umanamente parlando, la morte in croce del figlio unigenito che Dio dona al mondo (Gv 3,16), appare tragico fallimento, se la debolezza dell’amore sembra sconfitta in modo totale, dal punto di vista di Dio no: Dio dichiara “giusta” la vita e la morte di Gesù di Nazaret e la potenza di Dio che lo risuscita sancisce per sempre la sconfitta della morte e del male.

Questo è il gioioso annuncio della pasqua che ancora oggi deve risuonare, uscendo da qualsiasi logica di “autosalvezza”, che è sempre e irrimediabilmente fuori luogo, per assumere al contrario il punto di vista stesso di Dio che dichiara con potenza giusta e vittoriosa, davanti a sè, la vita e la morte di Gesù. «È dunque tutta l’esistenza di Gesù che la risurrezione viene a confermare, mettendovi sopra il sigillo della giustificazione di Dio».

Se prima si diceva che comunque, ad es. le beatitudini, hanno e conservano un loro fascino e una loro validità, ora bisogna dire più integralmente che quello stesso insegnamento ricava dall’evento della risurrezione di Cristo una sua pregnanza ulteriore: è molto diverso – spiega ancora il vescovo Monari – leggere le beatitudini come «il bel sogno di un maestro religioso», o come «un cambiamento della storia che dipende dall’intervento diretto di Dio». Insomma, quelle stesse parole, accolte alla luce della risurrezione, ora recano il sigillo dell’intervento potente di Dio e non sono più solo culturalmente o eticamente affascinanti, ma suggellate dal suo intervento potente nella storia, che le fa uscire dalla logica del desiderio umano e accogliere come «rivelazione del volto di Dio».

Se Cristo è risorto, ciò significa che «lui povero nella storia è il Signore nel regno di Dio» (“beati i poveri”...); «lui afflitto nella storia è stato consolato»; lui «mite, non prepotente nella storia, ha conquistato la terra». E allora le beatitudini non sono più un sogno o un messaggio che auspica un cambiamento, ma esprimono e dicono la radicalità di un cambiamento avvenuto che ha mutato per sempre il volto della storia dell’umanità salvata; sono parole nelle quali Cristo ha messo se stesso e la sua vita e che ora sono rafforzate con potenza dall’alto. Inoltre, quel Gesù che ha messo se stesso in quelle parole e in quegli insegnamenti è un «Vivente». È questo che le rende parole «contemporanee a noi»: rimangono in tutto il loro significato, ma soprattutto in esse il loro autore è presente e attivo ancora oggi (cf. anche DV, SC).

Lo stesso si può dire dei miracoli-segni compiuti da Gesù: «se egli non è risorto, rimangono come splendidi segni di una primavera trascorsa o come mirabili prodigi di una guaritore...ma se egli è risorto, le sue azioni non possono essere ristrette solo al passato. Si veda la conclusione del vangelo di Matteo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque...fate mie discepole tutte le genti”. Si veda anche la guarigione di cui si racconta negli Atti, con la spiegazione di Pietro: “Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo”, il che indica come l’opera e l’azione di Gesù sia ancora efficace» (At. 4). E l’azione di Gesù è efficace perchè la persona di Gesù è viva.


Trasformati dalla potenza del Risorto

«Chi crede in me opererà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perchè io vado al Padre» (cf. Gv 14,12). Anche un testo simile parla della potenza divina del Risorto-Vivente. Gesù insomma, lungi dallo smettere di operare, continuerà a farlo attraverso i suoi; cambia solo il modo del suo operare, così come cambia il modo della sua presenza nella storia.

Tutto questo presuppone – cosa che tutto il NT si premura di esplicitare – che il Risorto è proprio lo stesso Gesù di Nazaret. La risurrezione di Gesù non è il ritorno allo stato di vita precedente, ma passaggio (pasqua) a uno stato di vita nuovo. Anzi, si può dire del Risorto ciò che Paolo dice della risurrezione in genere: Ciò che semini non prende vita se prima non muore. «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile...si semina debole e risorge pieno di forza...si semina un corpo animale e risorge un corpo spirituale». E allora è comprensibile anche il dubbio dei testimoni di fronte alle apparizione del Risorto. Essi sono davanti a lui nella pienezza della sua potenza. La difficoltà sta appunto nel riconoscerlo come lo stesso Gesù della debolezza e della piccolezza. Ecco dunque lo stupore religioso dei discepoli sulle rive del lago di Galilea quando dicono: «É il Signore»; o di Maria di Magdala quando esclama: «Rabbunì»... è proprio lui!

«Al momento della trasfigurazione – sintetizza mons. Monari – alcuni discepoli hanno potuto vedere la gloria di Dio nell’umanità di Gesù; nelle apparizioni pasquali i discepoli devono imparare a vedere l’umanità di Gesù nella sua gloria di Vivente». È per questo che Gesù mostra ripetutamente i segni della passione («con i segni della passione vive immortale» recita la liturgia). Ed è il motivo per cui condivide i pasti con i suoi: mangiare insieme aiuta soprattutto i discepoli a sperimentare la gioia della comunione con lui come l’avevano sperimentata prima della vita trascorsa insieme.

Ecco dunque l’importanza di sottolineare la continuità tra il Risorto e il Crocefisso, imparando a leggere l’unità inscindibile del mistero pasquale. Solo così la croce cessa di apparire come un momento di oscurità o di latenza provvisoria di quella divinità che si era manifestata con i miracoli e si manifesterà appieno con la luce della pasqua di risurrezione. Significativo per cogliere questa inscindibile unità il testo dell’Apocalisse dov’è scritto: «Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e gli inferi». Andando un po’ oltre si potrebbe addirittura dire: «Proprio perchè ho fatto l’esperienza della morte, vivo della vita di Dio; perchè ho subìto la morte come uomo, ma trasformandola nell’obbedienza a Dio nell’amore per “i molti”, sono il Vivente in eterno». Da questo punto di vista la morte non è più un punto nero da dimenticare, ma l’unica condizione per vivere e per cogliere in tutta la sua ricchezza l’evento della risurrezione.

«Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo – scrive Gv 13,1 – sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, li amò sino alla fine». Ecco la Pasqua, questo passaggio che per la Mishnà è «passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dalla morte alla vita». Sono tonalità da far risuonare nell’annuncio gioioso della pasqua. Giovanni evangelista però non ha più il riferimento allo scampato pericolo del libro dell’Esodo, ma innesta un tema nuovo: pasqua come passaggio «da questo mondo al Padre». Gesù, Verbo del Padre, ha assunto una carne umana, è entrato dentro le fibre di questo mondo, assumendone le realtà di limite e debolezza. Ma ora con la sua umanità passa da questo mondo al Padre: è il mistero della divinizzazione di tutta l’umanità portando a compimento l’incarnazione del Figlio di Dio.

Il primogenito dai morti vive per sempre in un corpo glorioso e sarà quello stesso corpo trasfigurato che ogni credente in Cristo abiterà per sempre nel momento del pieno svelamento del mistero di Dio. Mistero per molti versi incomprensibile e ineffabile. Ma realizzato e reale, per il Risorto e per tutti i credenti in lui.

(da Settimana, n. 11-12, marzo, 1997)

Giovedì, 09 Marzo 2006 00:29

Ricordando Zumbi (Marcelo Barros)

Ricordando Zumbi

di Marcelo Barros

In Brasile, novembre è il mese di una memoria tragica e attraente allo stesso tempo. Nel secolo 17°, la tratta degli schiavi era in auge: interi villaggi d'Africa venivano svuotati di uomini, donne e bambini, dapprima razziati come bestie e quindi stipati su navi negriere che li trasportavano nelle Americhe. Nel frattempo, nel nord-est brasiliano, schiavi neri fuggiti dalle piantagioni di canna da zucchero, indios perseguitati e alcuni bianchi contrari al sistema coloniale fondavano un territorio libero – “senza padroni né schiavi” – in cui tutti potevano vivere in maniera più democratica e giusta.

Questo territorio era il Quilombo dos Palmares, una delle molte esperienze di comunità in costante lotta per la libertà. La sua gente riuscì a respingere ripetuti attacchi dell'esercito coloniale. Parve la realizzazione di un sogno: quello di un mondo più giusto e libero.

Ma le forze di repressione potevano contare su finanziamenti e armi sofisticate. Nel 1695, in seguito al tradimento di alcuni membri della comunità, i soldati riuscirono a invadere Palmares. Per evitare un bagno di sangue il leader del Quilombo, conosciuto come Zumbi dos Palmares, si consegnò spontaneamente ai soldati. Il 20 novembre, fu decapitato: la sua testa venne esposta al pubblico nella piazza centrale di Recife, mentre il suo corpo fu fatto a pezzi, poi disseminati per le strade della città. Palrnares fu vinta.

Solo duecento anni dopo, alla fine del 19° secolo, il popolo nero riuscì a liberarsi della schiavitù. Fu una liberazione soltanto legale. Anche oggi, infatti, la concentrazione delle finanze nelle mani di pochi, la scandalosa disuguaglianza sociale e la politica neoliberale perpetuano una realtà di autentica schiavitù, che obbliga i bambini a lavorare e le donne a prostituirsi e a far sì che, nel Brasile d'inizio secolo 21°, pur impiegati nello stesso lavoro, i neri guadagnino il 25% di meno dei bianchi. Nel corso dei secoli, la storia dei quilombos e della resistenza nera non è stata studiata nelle scuole. Fino a poco tempo fa, pochi brasiliani sapevano cosa fosse un quilombo e quale importanza abbiano avute queste isole di libertà nello sviluppo del proprio paese. Negli ultimi anni, però, la grande maggioranza dei discendenti degli schiavi africani hanno preso coscienza delle loro vere radici. E si è anche scoperto che in molte regioni del Brasile esistono comunità che discendono direttamente dai quilombos, mantenendone cultura e dignità.

La costituzione del 1998 riconosce a queste comunità il diritto di possedere la terra dei loro antenati e di vivere secondo la propria cultura. In tutto il paese, il 20 novembre è ricordato come la "giornata nazionale della coscienza nera". In molte città è giorno festivo... liberi dal lavoro, tutti hanno la possibilità di celebrare la multiculturalità del paese.

Senza alcun dubbio, la riscoperta della dignità della persona nera è la più grande eredità che Zumbi ha lasciato al Brasile. In un mondo che tende sempre più a escludere tutto ciò che è "diverso", tale eredità rappresenta un tesoro da non perdere e un trampolino di lancio da cui spiccare il salto verso un mondo migliore, in cui tutti sono accettati per ciò che sono.

(da Nigrizia, novembre, 2005, p. 77)

La fermata a metà strada è frequente. Basta raggiungere un punto di vista un po' più alto per esser presi dalla voglia irresistibile di interrompere il cammino.

Martedì, 07 Marzo 2006 01:34

La liturgia delle ore

La liturgia come azione comune di Cristo e della chiesa si realizza anche nel quotidiano servizio di preghiera della Chiesa, la liturgia delle ore.

Dio prende l'iniziativa di far uscire - esodo - Abramo dal suo passato - terra, patria, casa - gli promette un nuovo futuro: terra, discendenza e benedizione estesa a tutti i popoli.

I Salmi come libro:
introduzione a una lettura continua del Salterio
di Tiziano Lorenzin

Il libro più usato della Bibbia è il Salterio. Fino a prima del concilio vaticano II ogni sacerdote e membro di un ordine monastico aveva l'obbligo di recitarlo integralmente ogni settimana. Eppure forse è il libro più difficile della sacra Scrittura. Proprio la moderna ricerca sui generi letterari, che ha molto contribuito alla comprensione dei salmi, ce li ha resi ancora più estranei. Gli studi di due grandi esegeti del secolo scorso, H. Gunkel (1862-1932) e S. Mowinckel (1884-1965), hanno permesso di stabilire la provenienza liturgica di molti salmi; ma era un altro culto, non il nostro.

E la classificazione dei salmi secondo il tipo (lamentazione, supplica, inno, salmo di ringraziamento, salmo sapienziale) ha rischiato spesso di mettere su uno stesso calderone tante preghiere, facendone perdere i colori originali. Gli studiosi erano più interessati al momento primitivo della produzione del testo e a ciò che lo rendeva simile ad altri testi sorti nella stessa situazione liturgica; molto meno al testo che abbiamo noi oggi, spesso considerato frutto di rimaneggiamenti peggiorativi.

Agli inizi degli anni Ottanta con i commentari di G. Ravasi e di L. Alonso Schokel si incominciò a tenere più in considerazione l'originalità poetica e teologica del singolo salmo. Il libro dei Salmi, tuttavia, era ancora considerato come un'antologia di poesie, una specie di archivio di testi senza alcun ordine oppure un cesto stupendo di frutti, salutari e nutrienti, da gustarsi però singolarmente. E questo tipo di considerazione sembra abbia influenzato anche il modo in cui sono distribuiti i salmi nell'attuale Liturgia delle Ore: salmi di supplica e di lode al mattino, di supplica e di rendimento di grazie la sera, salmi della torà nell' ora media.

Tuttavia, già nel 1972 in Italia si era levata una voce controcorrente, quella di D. Barsotti. Egli scriveva:

Per vivere i salmi come nostra preghiera s'impone prima di tutto che noi consideriamo il Salterio nella sua unità. [ ...] La prima cosa che s' impone per chi vuole affrontare il libro dei salmi, è rendersi conto che il Signore ha voluto che si presentasse a noi questo libro in una certa sua unità, che ci sfugge molto spesso, ma dà a noi la chiave migliore per l'interpretazione religiosa del Salterio.

Barsotti confessa candidamente di aver capito ben poco dei salmi, finche nell'introduzione al Salterio di Chouraqui non trovò questa proposta di una lettura unitaria e progressiva del libro dei Salmi.

È evidente che, se l'ordine dei salmi nel Salterio non è puramente casuale, ma è stabilito da un'intenzione precisa, allora è possibile che nei nostri studi abbiamo perso qualcosa. Da più di una decina d'anni cresce sempre più il numero di esegeti convinti che «il più antico commento al senso dei salmi è la maniera stessa del loro arrangiamento nel Salterio» (M.D. Goulder). Si prende, cioè, sempre più in considerazione il titolo tradizionale, che si ritrova già a Qumran nella seconda metà del sec. I a.C.: sefer tehillîm, «libro dei salmi», ma anche nel Nuovo Testamento (biblos psalmõn: Lc 20,42; At 1,20). Il libro, con tutti i suoi elementi canonici, è così un orizzonte verso il quale guarda oggi l'interprete, con la convinzione che nell'assemblaggio finale ciascun salmo è divenuto l' elemento di un tutto, da cui esso riceve senso e a cui pure dona senso.

Il Salterio: il «libro dei canti» del secondo tempio?

Davanti al Salterio ci si potrebbe perciò domandare se noi abbiamo veramente in mano il «libro dei canti» in uso nelle liturgie del secondo tempio di Gerusalemme, come pensava la maggioranza degli esegeti del secolo scorso dopo Mowinckel. L'uso dei salmi al tempo di Gesù e nel cristianesimo primitivo sembra invece affermare il contrario. Sembra certo, infatti, che il Salterio in quel tempo non avesse alcun grosso ruolo liturgico. Alcuni salmi erano adoperati nel tempio all' infuori delle grandi cerimonie: questo è tutto. E il Salterio non era neppure il «libro dei canti» della sinagoga. Anche quei pochi salmi che un tempo erano usati nel tempio non furono accettati subito dalla sinagoga (G. Stemberger).

Tuttavia, il Salterio a Qumran, negli scritti del Nuovo Testamento e nelle testimonianze del giudaismo ellenistico, era il libro dell' Antico Testamento più conosciuto e più usato, più amato e più citato (N. Flueglister). La spiegazione più probabile potrebbe essere che il rotolo dei salmi fosse diventato quella torà che i fedeli del Signore - i poveri che non potevano entrare in possesso del grande rotolo del Pentateuco - meditavano «giorno e notte» come si dice nelle prime righe del Salterio (Sal 1,2). L'ambiente dove i salmi veni- vano recitati e cantati sembra essere stato piuttosto le haburot, fraternità di vita dei rabbini e dei loro scolari, e soprattutto la famiglia. Questo appare dal testo di 4 Maccabei, sorto nel I sec. d.C., dove i sette fratelli così dicono al loro padre:

Quando egli era ancora presso di noi si preoccupava di insegnare la legge e i profeti... Egli cantava anche gli inni di Davide, che dice: «Molte sono le tribolazioni del giusto (Sal 34,20), (4Mac 18,10.15).

Il Salterio torà di Davide

Il libro dei Salmi, forse già dal tempo della redazione di Lc 24,44 ( «Bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mose, nei Profeti e nei Salmi» ), stava al vertice della terza parte del canone ebraico: gli Scritti. Era considerato, cioè, una Scrittura santa da meditare, per scoprire il piano di salvezza di Dio. Doveva essere letto come si leggeva la seconda parte del canone: i Profeti, il cui primo libro, secondo gli ebrei, è Giosuè:

Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, perchè tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; perchè allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo (Gs 1,8).

Come Giosuè trovava nello studio della torà le indicazioni per poter entrare nella terra promessa, anche la comunità dei fedeli, andando, stando e fermandosi «con le parole del Signore» (D t 6,7; cf. Sal 1,1), non smarrirà la strada che porta alla vita. Il Salterio era considerato pertanto un rituale per una liturgia di santità da svolgersi nel grande tempio dell' esistenza concreta di ogni giorno.

Un ulteriore indizio per intendere il libro dei Salmi come torà - una Scrittura da meditare - è la divisione del Salterio in cinque libri come la torà di Mosè.

È una divisione che probabilmente appartiene alla fase finale della redazione. Secondo il midrash, «Mosè diede a Israele i cinque libri, Davide diede a Israele cinque libri» (Midrash Tehillim al Sal 1,1 [III-IX sec. d.C.]).

Quattro formule dossologiche, che si richiamano a vicenda mediante la ripetizione di alcuni termini, indicano la conclusione dei primi quattro libri:

- Sal 41,14: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, da sempre e per sempre. Amen. Amen»;

- Sal 72,18-19: «Benedetto il Signore Dio, il Dio d'Israele, lui solo compie meraviglie.
E benedetto il suo nome glorioso per sempre
e tutta la terra sia piena della sua gloria! Amen, Amen!»;

- Sal 89,53: «Benedetto il Signore per sempre! Amen, Amen!»;

- Sal 106,48: «Benedetto il Signore, Dio d'Israele da sempre e per sempre!
E tutto il popolo dica: Amen».

Le quattro formule nella loro sequenza concludono quattro salmi che costituiscono un arco tematico: persecuzione (Sal 41 ), promessa messianica (Sal 72), venire meno della promessa messianica (Sal 89), compimento della promessa mediante YHWH, il Dio dell' alleanza (Sal 106). Al complesso dei Sal 107-150 manca una formula dossologica, che corrisponda alle quattro precedenti. Alcuni autori considerano il Sal 150 come la dossologia finale; altri, invece, nella composizione dei Sal 146-150 vedono la finale del quinto libro e anche di tutto il Salterio.

Il Salterio, una torà fatta preghiera

Anche le soprascritte che precedono molti salmi, pur essendo tardive e non canoniche, rappresentano un' importante riflessione su come i salmi - in quanto collezione di Scrittura sacra - erano compresi già prima di Cristo. Queste soprascritte rappresentano in effetti l'esegesi più antica atte stata di alcuni salmi. Di particolare importanza è l'espressione spesso ripetuta: «Salmo di Davide», che aiuta a meditare e pregare il salmo con il cuore e la bocca del «soave cantore d'lsraele» (2Sam 23,1), il poeta del Signore, che «cantò inni a lui con tutto il cuore e amò colui che l'aveva creato» (Sir 47,8). Soprattutto alcune soprascritte, che richiamano eventi della vita di Davide, invitano il lettore a rivivere gli stessi sentimenti che furono nel cuore dell' antico re di Israele: paura, coraggio, amore, lamento, invocazione, lode e ringraziamento.

Il Davide con cui il pio fedele si deve identificare è il «servo del Signore», il sofferente esemplare, che anche da peccatore a motivo della sua preghiera è salvato dal suo Dio da tutte le sue difficoltà. Di fronte ai conflitti, alle crisi e vittorie della vita, il Salterio offriva ai suoi lettori un modello di una risposta personale al Signore.

Anche questo fenomeno di davidizzazione del Salterio è un indizio che la collezione dei salmi ha perduto la sua funzione liturgica originale e ora ha un nuovo ruolo, quello di sacra Scrittura sulla quale i figli di Israele meditano in preghiera.

È una torà fatta preghiera.

Posizione strategica dei salmi regali

Gli studiosi, poi, hanno notato che ci sono alcuni salmi che sono messi intenzionalmente nei punti strategici del Salterio e costituiscono delle specie di sutura tra varie collezioni già esistenti. Questi sono alcuni salmi regali. La distribuzione dei salmi regali alI' interno del Salterio sembra corrispondere infatti a un principio deliberato di organizzazione dell'insieme del libro:

- il Sal 2 introduce la raccolta: introduce l'idea dell'alleanza davidica;

- il Sal 41 davidico, che alcuni commentatori classificano tra i salmi regali, conclude
il primo libro: riprende la suddetta promessa; Davide parla infatti della protezione
del Signore;

- il Sal 72 conclude il secondo libro: con le richieste in favore del figlio del re
potrebbe rappresentare la preghiera di Davide per suo figlio Salomone in vista
della sua accessione al trono;

- il Sal 89, anch'esso regale, conclude il terzo libro: in esso si popone una nuova
prospettiva: si ricorda l' alleanza davidica, ma essa è fallita; da qui il grido
angosciato dei discendenti davidici. L'alleanza davidica introdotta nel Sal 2 è
sfociata nel nulla, e il Signore tarda. Ma fino a quando? Con questo appello
termina la prima parte del Salterio (libri I, Il, III).

La risposta si trova nel libro IV (Sal 90-106), al cui centro ci sono i salmi che celebrano la regalità del Signore. È vero - sembrano dire questi salmi - che non abbiamo più un re a Gerusalemme, ma il nostro Dio era re ancor prima di Davide, anzi ancor prima di Mosè, da sempre. Di che cosa abbiamo paura? Il nostro Signore tiene saldamente in mano le redini della storia.

Il Salterio, partitura poetica della vita

Facendo una «lectio continua» dei salmi, si è notato poi una tensione all' interno del Salterio. Nella loro composizione i salmi sono disposti in modo tale da formare un cammino di preghiera - o un procedimento di preghiera - , mediante il quale essi vogliono trasformare gli oranti. L'io che parla alla fine nel Sal 150, è un io diverso da quello all'inizio nel Sal 3.

Si è fatto corrispondere in modo suggestivo i diversi libri del Salterio ai diversi momenti di una giornata, che secondo il costume ebraico comincia con la sera o con la notte.

- Il primo libro (Sal 3-41) descrive la notte; il tono dominante è quello della supplica dell'innocente ingiustamente perseguitato.

- Il secondo libro (Sal 42- 72) descrive il mattino e introduce una nota di maggiore fiducia e un ardente desiderio di vedere Dio.

- Il terzo libro (Sal 73-89) descrive il mezzogiorno, in cui il tono dominante è quello del lamento per le grandi sciagure storiche del popolo ebraico, che però non uccidono mai la speranza in un futuro intervento di Dio.

- Il quarto libro (Sal 90-106) descrive invece la sera, in cui si incomincia a sperimentare la potenza del regno glorioso di Dio.

- Il quinto libro (Sal 107-150) descrive infine il nuovo mattino in cui sgorga dal cuore del popolo un rendimento di grazie e il canto di lode finale alla fedeltà di Dio (A. Chouraqui).

Altri - sempre riconoscendo il carattere redazionale e quindi non accidentale dei cinque libri del Salterio - tentano di rintracciare un percorso lineare di vita spirituale nella lettura continua e contestuale dei 150 salmi. A. Mello, per esempio, nel susseguirsi dei cinque libri riconosce delle preghiere, che, per il fatto di essere suggerite dallo Spirito, hanno la capacità di sostenere l'orante nelle varie fasi del suo cammino spirituale:

- la vocazione (primo libro);

- la giovinezza (secondo libro);

- la crisi (terzo libro);

- l'uscita dalla crisi o la percezione del regno (quarto libro);

- la maturità spirituale (quinto libro).

Alcuni autori, poi, si soffermano a domandarsi perché la tradizione ebraica

antica abbia chiamato tutti i 150 tehillîm «lodi», quando in realtà nella prima parte del Salterio fino al Sal 89 troviamo soprattutto una lunga serie di suppliche individuali e collettive, in cui è espressa tutta l'angoscia di uomini e di donne avvolti nelle tenebre del dubbio, del pericolo, dell'oppressione, della morte e della lontananza di Dio. In una lettura contestuale, tuttavia, questi salmi sono interpretati come grida nella notte, che svegliano l' aurora, da cui sorgerà il Sole di giustizia. E di fatto, dal quarto al quinto libro il tono cambia, fino a trasformarsi nella lode di ogni uomo e donna, anzi, di ogni creatura che respira, nel fortissimo del salmo finale. Questa disposizione dei salmi non è certo casuale. L'editore voleva suggerire alla sua comunità di poveri e perseguitati il vero senso e scopo della vita: la lode al proprio signore.

Evidentemente può lodare il Signore chi ha gli occhi del cuore per riconoscere nella storia della propria esistenza, in quella della comunità e in quella del mondo, le orme dell'agire amoroso di Dio. Questi occhi del cuore possono sbocciare e essere continuamente rischiarati meditando, o meglio, sussurrando notte e giorno uno dopo l'altro i salmi imparati a memoria, come suggerisce il Sal 1 nell'introduzione al Salterio.

Alcune tecniche di collegamento tra i salmi

È una meditazione favorita da alcune importanti relazioni linguistiche e tematiche esistenti tra salmi immediatamente successivi: richiami non casuali, ma intesi dai redattori. Mentre l' orante o lettore passa di salmo in salmo, può cogliere un intreccio di particolarità significative tipiche di un testo unitario. Il pensiero semitico, infatti, rifugge dal cambiamento improvviso della situazione, preferendo superare uno iato con collegamenti di contenuto e di forma con il testo vicino. Questo procedimento ha come effetto di creare una continuità tra i salmi, che non sono più da leggersi come una successione di pezzi eterogenei, ma come lo sviluppo di una preghiera o lo sviluppo di un dramma. Le parole di un salmo risuonano come in un'eco nel seguente e si crea così l'impressione che sia la stessa voce a esprimersi lungo tutti i salmi. Colui che dice nel Sal 3,2: «Signore, quanti sono i miei oppressori», è lo stesso che dice: «Quando ti invoco, rispondimi, Dio, mia giustizia» (Sal 4,2), «Porgi l'orecchio, Signore, alle mie parole» (Sal 5,2), «Pietà di me, Signore: vengo meno» (Sal 5,3), e così di seguito.

Può darsi che questa somiglianza di parole o di motivi fosse stata per i redattori un buon motivo per mettere i salmi uno dopo l'altro (iuxtapositio). Ma può anche darsi il caso che questa concatenazione di parole e di motivi ( concatenatio ) sia dovuta alI' opera stessa dei redattori, che hanno composto o riscritto i salmi proprio perchè avessero la posizione in cui si trovano ora nel Salterio. Questi richiami si trovano di solito alla fine dei salmi e ai loro inizi.

Faccio un esempio. Il Sal 7 conclude con la promessa di lode: «Loderò il signore per la sua giustizia e canterò il nome di Dio, l' Altissimo» (v. 18). Il Sal 8 viene recitato come proseguimento di questa lode, come sottolinea il suo inizio: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra» (v. 2). Questa frase termina pure il Sal 8, preparando la promessa di lode finale del Sal 9,2-3: «Loderò il Signore con tutto il cuore e annunzierò tutte le tue meraviglie. Gioisco in te ed esulto, canto inni al tuo nome, o Altissimo». In questo modo, mediante la concatenazione attraverso la ripetizione del temine chiave «nome» nei tre salmi, il Sal 8 è espressamente considerato un inno di lode del perseguitato (Sal 7) e del povero (Sal 9), che nonostante le loro tribolazioni conservano in se stessi la «vera immagine di Dio» (cf Sal 8,6-9).

Un esempio di giustapposizione può essere il collegamento tra i Sal 1, 2 e 3: il Messia che spezza le nazioni con scettro di ferro e le frantuma come vasi d'argilla in Sal 2,9 è in realtà un sapiente che realizzerà tutto questo con le sole armi della saggezza (Sal 1), e questa sarà la sapienza della croce, in quanto vincerà le genti mettendosi alloro servizio come un servo del Signore (Sal 3).

A volte, poi, due salmi successivi sono strutturalmente e linguisticamente così simili, da essere giustamente chiamati «salmi gemelli». Un esempio chiaro sono i due salmi alfabetici 111 e 112.

Altre volte, più salmi sono messi uno dopo l'altro secondo uno schema liturgico o di genere letterario, in modo che la loro sequenza porti un messaggio teologico. Ad esempio, i tre Sal 90, 91, 92 guadagnano a essere letti senza discontinuità, perchè sono organizzati secondo la sequenza: supplica - oracolo di salvezza - azione di grazie (i tre elementi del genere letterario della supplica). Il lamento sulla brevità della vita umana (Sal 90,3-12), che è «come l'erba» (vv. 5-6), e la domanda dei servi di YHWH, di essere «saziati» da lui (vv. 13-17), non restano senza risposta. A chi si aggrappa a lui, Dio promette di «saziarlo di lunghi giorni e di manifestargli la sua salvezza» (Sal 91,16). Il Sal 92, poi, spiega che questo uomo è simile a una palma (sempre verde) e al cedro (simbolo di longevità), che «nella vecchiaia portano ancora frutti» (vv. 13-15), mentre i malfattori sono come l'erba che viene falciata (v. 8). Questi tre salmi sviluppano un'antropologia teologica disposta su tre gradini: dal lamento davanti alla caducità dell'uomo (90,3-6), attraverso la confidenza nella protezione dell' Altissimo nel Sal 91, fino alla ringraziamento per il governo di Dio su empi e giusti (Sal 92).

Un altro esempio è l'unità di composizione parziale dei Sal 3-7: cinque salmi collegati tra loro da uno schema temporale, che li rende la preghiera per tutti i tempi. Il Sal 3 è una preghiera del mattino (v. 4), il Sal 4 una preghiera della sera (v. 9), il Sal 5 ancora una preghiera del mattino (v. 6), il Sal 6 una preghiera della notte (v. 7), il Sal 7 una preghiera del giorno (v. 12). La notte richiama la morte, la sofferenza, la paura del nemico, l'insonnia di una malattia. In ogni situazione, soprattutto in quelle difficili, il giusto trascorre il tempo in preghiera: è l'uomo fatto preghiera, come si diceva di Francesco di Assisi.

Conclusione. Con l'espressione programmatica: «Lettura continua del Salterio» s'intende dire che la nuova prospettiva della ricerca esegetica considera il libro dei Salmi non come un ripostiglio di testi singoli o un'antologia di poesie raccolte a caso, ma una composizione formata da raccolte successive di collezioni parziali, sorta con l'aiuto di specifiche tecniche di composizione e con un programma teologico particolare.

I redattori e gli editori hanno posto i singoli salmi uno dopo l'altro secondo determinati concetti, in modo che i singoli salmi in questo modo ricevessero un'ulteriore dimensione di significato e di importanza.

(da Parole di vita, 5, 2004)

Venerdì, 03 Marzo 2006 00:21

La numerazione dei Salmi (Tiziano Lorenzin)

La numerazione dei Salmi
di Tiziano Lorenzin

Chi in questi anni usa abitualmente il Salterio per pregare le Lodi o i Vespri, ricorda a memoria il numero di alcuni salmi: il Sal 22 è Il Signore è il mio pastore, il Sal 50 è il Miserere. Se però prende in mano La Bibbia di Gerusalemme, si accorge che il Sal 22 è diventato il Sal 23; che il Miserere non è più il Sal 50, ma il Sal 51. Come mai? Richiamo un po' di storia dell'edizione del Salterio.

L'esistenza di una divisione del testo biblico in versetti - non solo per i salmi - è documentata dalla Mishna e dal Talmud babilonese. Nel Codice di Aleppo (ebraico, della prima metà del X sec. d.C.), i salmi sono scritti su due colonne; ma non c'è numero o lettera tra un salmo e l'altro. Si usava designare i vari salmi non con il numero, ma con la citazione delle sue prime parole.

La numerazione dei versetti nel Salterio ebraico fu inserita solo a partire dalla grande Bibbia rabbinica di D. Bomberg, pubblicata a Venezia nel 1547-1548, nella quale numeri ebraici (cioè lettere) sono apposti ogni cinque versetti.

Il dato curioso è che l'attuale numerazione dei salmi fu adottata a partire dalla traduzione latina della Bibbia, la Volgata.

È il Salterio ebraico, pubblicato da J. Froben nel 1563, la prima sezione della Bibbia ebraica che si presenta con numerali arabi al margine di ogni versetto. La diversità poi di numerazione dei salmi dipende dal fatto che la liturgia latina segue la numerazione introdotta nella Volgata, probabilmente da S. Langton, nel tredicesimo secolo. Questa, a partire dal Sal 9 si discosta dalla quella ebraica, perché nel Salterio ebraico il Sal 9 è diviso in due (Sal 9 e Sal 10), per cui quasi fino alla fine del Salterio il numero dei salmi che recitiamo nella nostra Liturgia delle ore è di un numero inferiore a quello della Bibbia ebraica. Comunque dal Sal 148 i numeri dei salmi ritornano a coincidere. E il numero totale dei salmi rimane di 150 sia nel testo ebraico che nelle versioni greca (L XX) e latina (Volgata).

Ecco le differenti numerazioni:

Testo ebraico

Volgata (LXX)

1-8

1-8

9-10

9

11-113

10-112

114-115

113

116,1-9

114

116,10-19

115

117-146

116-145

147,1-11

146

147,12-20

147

148-150

148-150

Le Bibbie moderne, tradotte dai testi originali, seguono la numerazione dell'ebraico, ma di solito mettono tra parentesi anche la numerazione della Volgata, che a sua volta segue la numerazione dell'antica versione greca dei Settanta.

(da Parole di Vita, 5, 2004)

La contraddizione
tra guerra e Cristianesimo
di Primo Mazzolari

Il cristiano che non si scopre in contraddizione col Vangelo di pace, o non si è mai guardato in Colui che — essendo “segno di contraddizione” — svela i pensieri degli uomini, oppure ama ingannare se stesso. La misura della nostra elevazione spirituale viene fornita dalla maggiore o minore consapevolezza delle nostre contraddizioni, la quale ci distoglie dal sentirci soddisfatti e dal legare lo Spirito al nostro corto passo e ai nostri brevi traguardi.

Non è forse una contraddizione

che dopo venti secoli di Vangelo gli anni di guerra siano più frequenti degli anni di pace?

che sia tuttora valida la regola pagana: “ si vis pacem, para bellum”?

che l'omicida comune sia al bando come assassino, mentre chi, guerreggiando, stermina genti e città sia in onore come un eroe?

che nel figlio dell'uomo, riscattato a caro prezzo dal Figlio di Dio, si scorga unicamente e si colpisca senza pietà il concetto di nemico per motivi di nazione, di razza, di religione, di classe?

che l'orrore cristiano del sangue fraterno si fermi davanti a una legittima dichiarazione di guerra da parte di una legittima autorità?

che una guerra possa portare il nome di “ giusta ” o di “ santa ”, e che tale nome convenga alla stessa guerra combattuta dall'un campo o dall'altro per opposte ragioni?

che si invochi il nome di Dio per conseguire una vittoria pagata con la vita di milioni di figli di Dio?

che venga bollato come disertore e punito come traditore chi, ripugnandogli in coscienza il mestiere delle armi, che è mestiere dell'uccidere, si rifiuta al “ dovere ” ?

che sia fatto tacere colui, che per sé soltanto, senza la pretesa di coniare una regola per gli altri, dichiara di sentire come peccato anche l'uccidere in guerra?

che si dica di volere la pace, e poi non ci si accordi sul modo, appena sopraggiunge il dubbio che ne scapiti la potenza, l'orgoglio, l'onore, gli interessi della nazione?

che si predichi di porre la vita eterna al disopra di ogni cosa, e poi ci si dimentichi che il cristiano è l'uomo che non ha bisogno di riuscire quaggiù?

Crediamo che questi pochi accenni bastino per dar rilievo alla nostra sostanziale contraddizione, per metterci in vergogna davanti a noi stessi, e per sentirci meno sicuri in un argomento ove la nostra troppa sicurezza potrebbe degenerare in temerarietà o in un delittuoso conformismo alle opinioni dominanti.

(tratto da Primo Mazzolari, Tu non uccidere, Vicenza, 1955)

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti


Trentatreesima parte
A noi interessa ora cogliere il nesso tra lo spirito e il carisma della Società di Maria nel pensiero del P. Colin, seguendo principalmente le Costituzioni da lui redatte e approvate dal Capitolo Generale del 1872.

Se il carisma è l’intuizione profonda, donata dallo Spirito Santo al Fondatore dell’Istituto, e il discernimento della fede per comprendere le esigenze del Vangelo e ciò che è richiesto per rispondergli, lo spirito dell’Istituto è lo “stile di vita” che permette di tradurre pienamente il carisma in un preciso contesto di motivazioni teologiche e spirituali che scaturiscono dal carisma.

Il P. Colin paragona lo spirito dell’Istituto al carattere dell’individuo; Entretiens Spirituels, Doc 102, n.3, “Esigete che un individuo non segua il suo spirito, il suo carattere, un certo modo di reagire, una certa ampiezza nel giudicare. Ebbene, esigete che un individuo non segua il suo spirito, il suo carattere, voi esigete da lui l’impossibile… Questo spirito, questo carattere, è Dio che glieli ha dati. Egli ne deve trarre il miglior partito possibile e non preoccuparsi del resto. Una società ha egualmente il suo Spirito, chi glielo ha dato? Se questo Spirito è contenuto nella Regola, è evidente che è stato Dio a darglielo”.

Lo spirito si esprime in una regola di vita, che costituisce il patrimonio proprio a cui fare continuo riferimento per realizzare la fisionomia dell’Istituto nella Chiesa: è il modo specifico di realizzare il Vangelo con le sottolineature derivanti dagli aspetti del mistero di Cristo impliciti nel carisma dalla regola di vita si distingue il regolamento, costituito dall’insieme delle norme e delle consuetudine che regolano dall’esterno il modo di vivere del religioso. (Cfr. L. Guccini, Carisma persona e comunità nella vita religiosa, Bologna, s.d., pp. 26-27.)

Il P. Colin, pur avvertendo l’importanza del regolamento per l’organizzazione dell’apparato istituzionale e delle opere della Società di Maria, nelle varie Costituzioni da lui redatte ha voluto raccogliere in un articolo speciale il suo pensiero sullo “spirito dell’Istituto”. Lo “spiritus” delineato in tale articolo esprime la genialità cristiana specifica della Società con cui si traduce la fede e il carisma religioso: contiene la “spiritualità” dell’Istituto, l’anima di tutte le norme. (Parole di un fondatore, Doc. 174, n. 1: “Una Società deve avere il suo spirito; lo spirito di una Società è come l’anima che anima i corpi; se lo spirito è buono, tutto va bene”.)

“Spirito” è anche riferimento costante all’azione dello Spirito Santo che rende traducibile praticamente il carisma attraverso la fedeltà alla vocazione dell’Istituto e dei suoi membri.

ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)

(Passi scelti)

IL MALE

(III - 70a)

Considera dunque. Il Santo, che benedetto egli sia, produsse dieci corone, diademi sacri, in alto, con le quali egli si incorona e si riveste. Egli è in esse ed esse sono in lui; come la fiamma è legata al tizzone, là non esiste separazione. In corrispondenza di queste, esistono però altre dieci corone, che non sono sacre, e si trovano in basso. Esse sono legate alla “sporcizia dell'unghia” di una santa corona, che è chiamata sapienza; perciò anch'esse sono chiamate sapienza. Si insegna inoltre che questi dieci tipi di sapienza discesero nel mondo e furono tutti assimilati dall'Egitto, all'infuori di uno che si diffuse in tutto il mondo. Queste sapienze sono specie di ed è perciò che gli egiziani furono esperti di stregonerie più del resto degli abitanti del mondo.

(I - 194a)

Rabbi Izchaq disse: Le “sette vacche grasse” (Gen. XLI, 26) sono i sette gradi, superiori agli altri; mentre le “sette vacche magre” (Gen. XLI, 27) sono altri gradi, in basso. I primi appartengono alla santità; i secondi all'impurità. Le “sette spighe” (Gen. XLI, 7). Rabbi Yehudà disse: le prime sette spighe sono buone perché si trovano a destra, a proposito della quale parte è scritto: “E Dio vide che era buono” (Gen. I, 4); le spighe magre si trovano invece al di sotto delle prime. Le sette spighe buone si trovano dalla parte della purezza, mentre le sette magre dalla parte della impurità. E tutti questi gradi si trovano gli uni sopra gli altri, e tutti furono visti dal Faraone in sogno.

Chiese Rabbi Yosè: E forse che Dio mostrò a quel malvagio tutte queste cose?

Gli rispose Rabbi Yehudà: Il Faraone vide delle immagini di quelli. Perché i gradi si trovano gli uni sugli altri ed egli vide quelli in basso. E sappiamo bene che l'uomo, in base alla propria indole, riesce a vedere nel sogno e la sua anima risale nella conoscenza. Ognuno può vedere secondo il grado cui gli è dato di giungere; perciò il Faraone poté vedere come gli era consentito e non di più.

(III - 80b)

Rabbi Izchaq prese a dire: “Ohi, paese dalle ali spiegate...” (Is. XVIII, 1). È possibile che il fatto che esso sia “un paese dalle ali spiegate” costituisca motivo di irritazione, sicché è scritto: “Ohi, paese...”? Ma così intese Rabbi Izchaq: Quando il Santo, che benedetto egli sia, creò il mondo, cercò di rendere manifesto il significato profondo da dentro il segreto e la luce da dentro le tenebre, perché tali elementi erano compresi gli uni negli altri. Perciò dall'interno delle tenebre scaturì la luce e dall'interno del segreto scaturì il significato profondo e manifesto. L'uno scaturì dall'altro; così dal bene scaturì il male e dalla pietà il giudizio severo. Ma precedentemente tutti questi elementi erano compresi gli uni negli altri: l'istinto buono e l'istinto cattivo, la parte destra e quella sinistra, il popolo di Israele e gli altri popoli, il bianco ed il nero. Ed ognuno di questi elementi dipendeva dall'altro.

(II - 103a)

Considera dunque. E scritto: “Dall'Eden esce un fiume per bagnare il giardino” (Gen. Il, 10). Questo fiume non cessa mai di fecondare, di produrre e di dare frutti. Ma c'è un'altra divinità, che non ha mai potere autonomo né desiderio. Essa non produce e non dà frutti perché se così facesse, cancellerebbe tutto il mondo. Perciò chi consente a tale elemento di produrre nel mondo, è chiamato malvagio e non potrà mai vedere l'aspetto della presenza divina (Shekhinà), come è scritto: “Tu non sei un Dio, che ama la malvagità, il male non dimora presso di Te” (Sal. V, 5).

(II - 112a)

Considera dunque. Chi trova un compagno simile a se stesso, che si comporta nel mondo come lui, gli si affeziona, lo ama e gli fa del bene. Non così agisce il male, quando trova qualcuno che ha abbandonato il campo della santità, su cui presiede il Santo, che benedetto egli sia, e si è messo ad agire come lui, affezionandosi così al male. Infatti cerca subito di distruggerlo e di cancellarlo dal mondo. Quando la donna, sospetta di adulterio, si è effettivamente comportata secondo i dettami del male, affezionandosi ad esso, guarda in che modo il male la contraccambia: “Il ventre le si gonfiò e la coscia le cadde” (Num. V, 27). Non così avviene con il Santo, che benedetto egli sia. Chi infatti abbandona il male e si affeziona al Santo, che benedetto egli sia, subito ne viene riamato e ne riceve ogni bene che è nel mondo.

(I - 190a-190b)

Disse Rabbi Izchaq: Quando la forza del male viene a sedurre l'uomo, questi si attacchi alla Torà e si allontani da esso. Considera dunque. Abbiamo appreso che quando lo spirito del male sta dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, per sedurre il mondo con le azioni malvagie, il Santo, che benedetto egli sia, è mosso a pietà per il mondo e dà agli uomini un consiglio per sfuggire al male, sicché esso non possa dominare su di loro né influenzare le loro azioni. Ed in che consiste tale consiglio? Nell'occuparsi della Torà, sfuggendo così al male. Da dove lo sappiamo? Dal verso che dice: “Poiché un lume è il precetto ed una luce l'ammaestramento, e gli ammonimenti morali sono la via della vita” (Prov. VI, 23). E cosa dice il verso successivo?: “Essi ti preservano dalla donna malvagia, dalle lusinghe della straniera” (Prov. VI, 24). Questa è il dominio dell'impurità, il male, che si trova sempre dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, per accusare gli uomini dei loro peccati. Il male sta sempre in basso per traviare gli uomini e sta sempre in alto per ricordare i peccati degli uomini, per accusarli delle loro azioni, sicché siano concessi in suo potere, come fece per Giobbe. Nei periodi in cui il Santo, che benedetto egli sia, esercita il giudizio sugli uomini, il male sorge ad accusarli ed a ricordare i loro peccati. Ma il Santo, che benedetto egli sia, si muove a pietà verso il popolo di Israele e dà agli uomini un consiglio per sfuggire al male. Ed in che esso consiste? Nel suono del corno di Capo d'Anno e nel capro espiatorio nel Giorno dell'Espiazione, sul quale si pongono i peccati, sicché esso si allontani dagli uomini e se ne vada per conto suo

Considera dunque. Cos'è scritto? “I suoi piedi scendono verso la morte, i suoi passi conducono al baratro” (Prov. V, 5). E del mistero della fede, cos'è scritto? “Le sue vie sono vie soavi e tutti i suoi sentieri conducono alla pace” (Prov. III, 17). Tali sono le vie ed i sentieri della Torà e tutti sono una sola cosa. Così la pace e così la morte e tutti i sentieri della Torà sono contrari a quelli (del male). Beata la sorte dei figli di Israele, che aderiscono al Santo, che benedetto egli sia, come si conviene; e questi, a sua volta, dà loro un consiglio per sfuggire a tutti gli spiriti malvagi che sono nel mondo. I figli di Israele sono infatti, quali popolo santo, il suo retaggio e la sua parte: siano beati in questo mondo e nel mondo futuro! Considera dunque. Quando lo spirito del male discende e vaga per il mondo, esso osserva la condotta degli uomini, che pervertono le loro strade. Allora risale in alto e li accusa; e se non ci fosse il Santo, che benedetto egli sia, che ha pietà per l'opera delle sue mani, di uomini non ne rimarrebbero nel mondo.

Cosa è scritto? “Quantunque essa parlasse ogni giorno della cosa con Giuseppe, questi non le dava ascolto di giacere con lei e perfino di starle vicino”(Gen. XXXIX, 10). “Quantunque essa parlasse ogni giorno”, il male ogni giorno risale in alto ed accusa, pronunciando dinanzi al Santo, che benedetto egli sia, tante calunnie e tante maldicenze per distruggere la gente del mondo. Cosa è scritto? “Questi non le dava ascolto di giacere con lei e perfino di starle vicino”. Il Santo, che benedetto egli sia, non gli dà ascolto, perché ha pietà del mondo. Che significa la espressione “di giacere con lei”? Significa che il male vuole ricevere il potere di dominare il mondo, perché non può dominare sinché non ne abbia ottenuto il permesso.

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