Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Carismi e ministeri (1Cor 12-14)
di Giacomo Lorusso


Dio chiama l'intera umanità alla salvezza mediante la Chiesa. E per renderla capace di adempiere la propria missione, l' arricchisce con dei doni: i carismi. La comunità di Corinto aveva bisogno di una parola di chiarimento da parte dell' Apostolo circa la cooperazione dei diversi charìsmata, poiché motivo di contrapposizione e di sterili confronti. Nei cc. 12-14 della sua prima lettera Paolo riflette sulla loro natura e articolazione, alla luce del confronto tra glossolalia e profezia. Il suo intento è di far risaltare la specificità di ognuno nel contesto della multiforme azione carismatica dello Spirito, che caratterizza il dinamismo di crescita e sviluppo della Chiesa.

La sezione si articola in tre parti: 1Cor 12,1-30; 12,31-13,13; 14,1-40. In 12,1-30 Paolo sottolinea l'origine pneumatica dei carismi, al servizio dell'unità della Chiesa, mentre in 12,31-13,13 presenta la condizione per un'autentica esperienza carismatica: la carità. La carità, infatti, è l' anima dei carismi, feconda la loro azione ed è sin d'ora partecipazione alla comunione divina. La fede e la speranza sostanziano la carità con la conoscenza parziale - già nel tempo - del Dio amore, stabilendo la ragionevolezza della carità. In 14,1-40 Paolo sviluppa il rapporto tra glossolalia e profezia: la reciprocità dei due carismi, la singolarità e la specificità di ognuno, la loro cooperazione per l' attuarsi della missione della Chiesa.

I carismi e i doni dello Spirito

Il c. 12 ha un codice semantico che lo struttura: il rapporto tra «uno» e «molti». Rispettivamente «uno» qualifica lo Spirito, Cristo, il corpo umano, il corpo di Cristo; «molti» i carismi, le membra del corpo umano e quelle del corpo di Cristo.

Nell'introduzione (vv. 1-3) Paolo dichiara che il suo scopo è quello di colmare l'ignoranza di chi nel passato «seguiva» gli idoli «afoni». A differenza di questi, infatti, il Signore «parla» attraverso i suoi, donando la possibilità di pronunziare il proprio nome e dirlo al mondo, grazie alI' azione dello Spirito Santo. L'accento è sul parlare, sulle condizioni di possibilità del pregare e proclamare il nome di Gesù Cristo.

Alla luce di tale affermazione si capisce come i diversi carismi siano elargiti in vista dell'evangelizzazione, per l'opera dell'unico Pneuma. Nei vv. 4-11 Paolo descrive la meravigliosa sinfonia che si sprigiona dai diversi carismi, voce dell'unico Spirito. In apertura abbiamo tre periodi paralleli, ciascuno dei quali associa la persona divina alla molteplicità degli effetti che ne manifestano I' azione:

- lo stesso Spirito - distribuzione di carismi
- lo stesso Signore - distribuzione dei ministeri
- lo stesso Dio che opera - distribuzione di ciò che è messo in opera ogni cosa in tutti

Non vi è distinzione tra carismi, ministeri e operazioni divine: ritenere di possedere un carisma oppure un ministero in forma esclusivamente personale senza guardarlo nella sua matrice di dono e operazione divina annulla la capacità del carisma o ministero di essere ciò per cui Dio lo ha elargito: dono di salvezza e di comunione con Dio per se e per gli altri. La dimensione personale ( «a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito» ) si coniuga con la dimensione unitaria del soggetto e attore della pluriforme grazia elargita a tutta la Chiesa ( «tutte queste cose opera I 'unico e medesimo Spirito» ).

L'accento va sulla ripartizione dei doni all'interno della Chiesa, più che sulla diversità. L’apostolo adopera charìsmata e non pneumatikà, sottolineando la dimensione gratuita del dono (chàrisma è dono concreto di «grazia» ), più che la semplice manifestazione spirituale. Nessuno ha I' esclusiva dei carismi né in termini di quantità né di qualità. Né possono esistere carismi che abbiano un' origine diversa da quella indicata, giacchè gli idoli sono muti e inanimati. L' azione divina (v. 6: due volte energéõ) è sottolineata dall'affermazione «a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito in vista di ciò che giova» (v. 7), e dalla ripresa del verbo energéõ, «operare», al v. 11. Il dono è messo in opera in vista dell'utilità salvifica (symphéron) per il singolo e per la comunità, ed è ripartito secondo i criteri della liberalità divina ( «ripartisce a ciascuno in particolare come vuole» ). Il tema della ripartizione equa e generosa dei doni è enfatizzata dalla struttura dei vv. 8-10:

-ad uno parola di sapienza                                    per mezzo dello Spirito
-ma ad un altro parola di conoscenza                  secondo lo stesso Spirito
-ad un altro fede                                                      nello stesso Spirito
-ma ad un altro carismi di guarigioni                    nell'unico Spirito
-ma ad un altro operazioni di cose prodigiose
-ma ad un altro profezie
-ad un altro discernimento di spiriti
-ad un altro generi dei modi parlare in lingua
-ma ad un altro interpretazione dei modi di parlare in lingua

Sei su nove sono inerenti al tema del parlare, tre alla dimensione operativa ( «fede» taumaturgica, «guarigioni», «cose prodigiose» ). E tutti sono al servizio dell'unica rivelazione: l'efficacia e la ricchezza dello Spirito che anima la Chiesa.

Descritta la ripartizione dei doni, nei vv. 12-27 Paolo esamina il rapporto di appartenenza vitale che sussiste tra le membra/carismi nel corpo ecclesiale. L'interrogativo di fondo è se vi sia una priorità d'importanza tra i carismi e in che senso si possa parlare di reciprocità.

La metafora del corpo

Ciò sottintende che la Chiesa sia il corpo di Cristo («Così anche è Cristo») e che Cristo stesso abbia un corpo formato da molte membra. Infatti dall’ espressione «così anche Cristo» si passa a «infatti in un solo Spirito noi tutti m vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Non bisogna tuttavia dimenticare che si è nel corpo di Cristo solo se si è «in Cristo» (Rm 12,5). Il binomio unità-pluralità è dichiarato nelle due direzioni: l'unico corpo è costituito da molte membra - le molte membra costituiscono l'unico corpo.

Cristo è la realtà totale della Chiesa, nata dallo Spirito nel battesimo (12,13): «...e in un solo Spirito noi tutti in vista di un unico corpo siamo stati battezzati». Per l'azione dello Spirito, nel battesimo, è generato il corpo che appartiene a Cristo. La complessità della Chiesa è esemplificata attraverso le categorie giudei-greci, schiavi-Iiberi, differenti per cultura e stato sociale, relazioni che presuppongono diversità ma che trovano nel dono dello Spirito una unità perfetta. In 1Cor 6,11 leggiamo: «...ma foste lavati, ma foste santificati, ma foste giustificati mediante il nome del Signore Gesù Cristo e per mezzo dello Spirito del nostro Dio». Il motivo del dissetare il popolo da parte di Dio (cf. Es 15,22) è ripreso in 1Cor 10,4: «Tutti bevvero la stessa bevanda spirituale; bevevano infatti da una roccia spirituale che seguiva; ora la roccia era il Cristo». Il corpo della Chiesa è frutto dell'agire creativo dello Spirito, della sua linfa spirituale di cui ci si disseta.

I vv. 14-20 rilevano il tema della pluralità del corpo che non solo ha molte membra ma è molte membra. Le membra sono il corpo, non solo appartengono al corpo; l'essere del corpo implica l'essere corpo. Il brano si contraddistingue per lo schema «non è I ma è» (negativa + affermativa), che sottolinea l'aspetto della pluralità, grado d'importanza e specificità di ruolo di ciascuno. La distinzione e la relazionalità delle membra tra loro manifestano la realtà del corpo: «Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto il corpo fosse udito, dove sarebbe l'odorato?» (v. 17). Non un membro da solo, ma l’insieme delle membra nella loro articolazione e reciprocità del corpo. L'unità, infatti, contrasterebbe con la dimensione corporale. Al v. 18 si fa risalire tale meravigliosa armonia alla benevolenza divina che ha collocato e strutturato il corpo nella varietà e comunione di tutte le membra «come ha voluto». Senza tale disegno il corpo non potrebbe sussistere. La preferenza data a un solo membro entra in contraddizione con il principio stesso dell'entità «corpo».

I vv. 21-26 pongono l'accento sugli essenziali rapporti che intercorrono tra le membra: «aver bisogno» e «andare incontro al bisogno altrui». Le categorie impiegate sono: proteggere quelle che hanno bisogno di attenzione e rispetto, necessità dell' aiuto reciproco (merimnân = cura/preoccupazione), compartecipazione e solidarietà nelle varie vicende sia positive sia negative che li riguardano. La menzione dell' opera divina richiama la matrice provvidenziale di tale cooperazione (Dio «ha mischiato / unito» ) che esclude ogni velleità di cammini solitari e autonomi (schisma = strappo / divisione).

Paolo ha inserito nel discorso sulle membra due termini altrove adoperati per i comportamenti personali: merimnân e schisma. un accenno ai rischi che il perseguire una logica diversa da quella presente tra le membra del corpo umano determinerebbe nel corpo ecclesiale (cf. 1,10ss e 11,18). Il «debole» che ha bisogno di aiuto è I' asthênes che nei cc. 8-10 qualifica la coscienza del credente, scandalizzato dalla superficialità e controtestimonianza dei «forti», che si nutrono delle carni immolate agli idoli. Ma anche il «più forte» ha bisogno dell'aiuto del «più debole» (vv. 23-24). Il maggiore onore riservato ai «deboli» onora e nobilita anche i «forti»; perciò i carismi e ministeri umanamente meno appariscenti («vili», «indecenti») sono più necessari per il vivere ecclesiale. Tale discorso è ribadito dall' accostamento di merimnân al pronome reciproco allêlôn («l'un l'altro») e dalla successiva esemplificazione della condivisione del dolore o della gioia da parte di tutte le membra (v. 26).

AI v. 27 Paolo fa un'affermazione di identità che riassume le conclusioni del discorso sin qui svolto: i corinzi sono corpo di Cristo e sue «membra», perciò quanto illustrato dalla metafora delle «membra» del corpo umano vale a maggior ragione per i battezzati..

Definiti i rapporti che devono intercorrere all'interno del corpo di Cristo che è la Chiesa, nei vv. 28-30 Paolo pone l'accento sull'operato divino che, come già affermato circa il corpo fisico (vv. 18.25), ha costituito (étheto, v. 18) la Chiesa come tale, articolata in varie «membra», diversi ministeri e carismi. Non vi è appiattimento e uniformità ma organica complessità, poiché non tutti sono apostoli o profeti o maestri, ecc., per la «sovrana fantasia» dello Spirito.

AI v. 28 abbiamo tre portatori di carismi e non la fiera indicazione dei carismi, seguiti da «miracoli» e da altri quattro charìsmata. I primi tre ricordano I' elenco di Ef 4,11 : «Egli ha dato gli apostoli, i profeti, gli annunciatori del Vangelo, i pastori e maestri». Il nostro brano è l'unico a includere I' apostolicità (cf. le espressioni paoline «la grazia a me data» dell'apostolato di 1Cor 3,10; GaI 2,9). Con didàskalos s'intende colui che fornisce un insegnamento pratico e parenetico con riferimento all'interpretazione delle Scritture (cf. 1Cor 4,17; Rm 12,7; 15,4): si passa da colui che pone le fondamenta della vita di fede, al profeta delle parole dello Spirito, all'interprete e catecheta della Parola. Dei carismi alcuni sono una novità rispetto ai vv. 8-10: «Prestazioni di soccorso» come attività più tecnico-organizzativa (antilêmpseis) e «capacità di guidare» la comunità (kybernêseis). Abbiamo anche in questo caso, coerentemente con il resto della sezione, la sottolineatura del tema del «parlare»: i ministeri di «apostoli, profeti, maestri» e il «dono delle lingue», linea ripresa subito dopo nelle domande retoriche, dove cinque su sette riguardano il campo del linguaggio (apostoli, profeti, maestri, parlare in lingue, discernimento).

Se al v. 28 si distingueva tra ministeri e carismi, nei vv. 29-30 si elencano soggetti qualificati da carismi. S' inserisce la dimensione personale e quindi implicitamente la categoria dell' arbitrio umano nel servire i carismi e I' edificazione della Chiesa.

Il primato della profezia sulla glossolalia

Anziché rispondere alla domanda su quale dei ministeri sia il «migliore», «più ragguardevole», Paolo indica la via per diventare «ragguardevoli» nella Chiesa: la carità (12,31b-13,13).

Dopo aver celebrato la «via» della carità per diventare «grandi» nel presente e nell'eternità, confutata la «via» della presunzione e del vanto, alla luce del principio della complementarietà e varietà dei doni elargiti dallo Spirito nel «giardino» di Dio che è la Chiesa, nel c.14 l' Apostolo può affrontare la questione delle finalità e del corretto esercizio dei carismi della profezia e glossolalia, per l' edificazione dell' unico corpo di Cristo.

I due carismi sono esaminati nei mutui rapporti, nella loro individualità e alla luce della più generale vita della Chiesa. Il confronto di valore si articola nel modo seguente:

a) la glossolalia inferiore alla profezia (utilità interna): 14,2-5;

b ) insufficienza della glossolalia: 14,6-19;

a') la glossolalia inferiore alla profezia (utilità esterna): 14,20-25.

Sul piano personale la glossolalia è un dono perchè lode al Dio inesprimibile, ma a livello comunitario necessita di chi la interpreti, a differenza del carisma della profezia, che non ne ha bisogno.

Dopo un versetto di transizione ( 14,26), Paolo definisce le regole che devono essere osservate sia dai glossolali sia dai profeti (14,27-33.36-40), unitamente a un' esortazione a evitare nella concreta comunità di Corinto ogni tipo di confusione durante le celebrazioni comunitarie; di qui l'invito alle donne a non chiedere spiegazioni durante gli incontri, ma in casa ai propri mariti (14,33b- 35), poiché tutto deve essere fatto con ordine (katà tàxin) e convenientemente (euschêmònôs).

Conclusioni

I carismi sono eccellenti doni dello Spirito per la crescita della fede personale e comunitaria, e richiedono discernimento e docilità. Tra di essi non è possibile stabilire una gerarchia di onore, poiché sono finalizzati alla reciproca edificazione nel corpo di Cristo. Questo quadro rende vano ogni tipo di rivendicazione tra glossolalia e profezia, giacché il Dio professato è un Dio che parla e rende capaci di parlare efficacemente, a condizione che si viva nella logica dell’amore.

(da Parole di vita, 3, 2002)

Sabato, 06 Maggio 2006 20:42

28. Le devozioni

Sarebbe una perdita dimenticare quelle devozioni che la pietà popolare ha reso tradizionali. In esse, se celebrate con giusto spirito, si trova la ricchezza della preghiera.

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentacinquesima parte

2. L'interiorità

Gustare Dio (è risonanza del Sal. 33, 9) produce un cambiamento determinante per il resto della vita. Il P. Colin ritiene anche che questa esperienza all’inizio del cammino religioso sia un punto di riferimento per tutto il resto della vita:

“Più tardi nello scorrere della vita, quando uno ha gustato Dio, se ne ricorda e vi ritorna con piacere” (Ibid., Doc. 63, n. 3, p.190; Doc. 64, n. 1: “Una volta che essi (i novizi) sono uniti a Dio essi si arricchiranno più in un giorno che attraverso quello che voi potrete fare. Sì, se essi hanno gustato Dio una volta, voi non avrete più che una sola preoccupazione, sarà quella di moderarli”.)

Lo spirito d’interiorità introduce nella vita “in Cristo”, riveste il religioso di lui; è come essere il “corpo del suo corpo e l’anima della sua anima”. Al P. Eymard consigliava:

“Dato che la nostra vita è una vita di azione, rivestendovi di Nostro Signore, voi sarete sempre in pace e la vostra stessa anima sarà sempre occupata come in una dolce preghiera”. (Ibid., Doc. 45, nn. 1-2)

l’interiorità consiste nello stabilire l’anima in un atteggiamento di preghiera. L’ideale non la quantità, bensì l’immergere l’anima in uno stato di preghiera, avvolgerla con lo “spirito di adorazione”, alimentarla con il “gusto per la preghiera”: essa infatti è la linfa che nutre l’albero e l’olio che alimenta la lampada:

“Colui che non ama la preghiera assomiglia ad un albero morto o almeno languente… E’ un albero che produce foglie, forse anche qualche fiore, ma non dei frutti… E’ una lampada che fa del fumo o che è sul punto di spegnersi”. (Ibid., Doc. 132, nn. 8-9)

Il traguardo che il P. Fondatore propone ai Maristi, da una parte, prevede che sia raggiunto con le pratiche di pietà le più normali e senza stravaganze e individualismi (Constit., art. VII, nn. 37 ss., pp. 12ss; Ibid., cap. II, art. II, n. 95, p. 35) e, dall’altra che si percorra il cammino della vita interiore fino all’unione mistica con Dio. Per questo maestro “in rebus divinis viisque spiritualibus peritissimo”, ci si applichi a fondo allo studio della teologia mistica (“Parole di un fondatore”, cap. III, art. V, n. 153, p. 53), già iniziato negli anni dello scolasticato e ritenuto da P. Colin un supplemento indispensabile alla teologia scolastica, senza il quale non si potrebbe conoscere, né dirigersi e neppure dirigere gli altri (“Parole di un fondatore”, op. cit., Doc. 79, n. 7, p. 226).

Tra le pratiche che al P. Colin sembrano le più atte a mantenere e favorire lo spirito dell’Istituto, la meditazione (Constit., cap. II, n. 86, p. 31,; Ibid., art III, n. 107, p. 38) occupa un posto di particolare rilievo: essa è “fon set origo omnium bonorum spiritualium” (Ibid., cap. V, art. I, n. 182, p. 62), a cui si attinge la sapienza della vita.

S. Giovanni Crisostomo ed il suo tempo
Conferenza di S. Em.card. Špidlík





Don Sergio Mercanzin:

Quando un nostro collaboratore ha invitato padre Špidlík a tenere qui una conferenza su Giovanni Crisostomo, ha risposto: “Volentieri, ma ad una condizione: che io sia ancora vivo!”. Non solo è vivo, ma nel frattempo è diventato cardinale! La porpora non gli ha tolto lo humour. Sembra che a qualcuno lui abbia detto: “Che vuoi, c'è chi cade dal motorino e chi diventa cardinale”. Ho incontrato questa mattina un sacerdote greco il quale ha detto che il cardinalato dato al padre Špidlík è un grande riconoscimento all'Oriente cristiano e a tutti coloro che, come lui, lo hanno fatto conoscere ed amare all'Occidente. Mi diceva prima padre Špidlík che alcune chiese ortodosse proprio ufficialmente, ad esempio il patriarca ecumenico Bartolomeo, hanno esultato - glielo hanno detto - per questa nomina, perché hanno visto in questo un riconoscimento altissimo della spiritualità orientale. Padre Špidlík ha insegnato per mezzo secolo a discepoli in tutto il mondo, tra i quali anche il sottoscritto. Ha ricevuto premi da cattolici e da ortodossi, i suoi libri sono tradotti in tantissime lingue, compreso l'arabo. Per presentarlo preferisco, però, citare una intervista che ha dato alla rivista 30giorni. Chiedono a Sua Eminenza: “Lei ama spesso ricordare Serafino di Sarov, forse il più grande mistico russo dell'800”. Risposta: “Il più grande? Meglio non dare premi. Davanti a Dio chi è più grande? Può darsi una mamma che ha educato cinque figli”.

P. Špidlík questa sera ci parla di S. Giovanni Crisostomo.



S. Em.card. Špidlík:

Allora dobbiamo parlare di Giovanni Crisostomo. Una volta ho comprato alla vecchia sede della Libreria Russia Ecumenica una piccola icona dei “Tre gerarchi” che raffigurava S. Giovanni Crisostomo, S. Gregorio Nazianzieno e S. Basilio, tre vescovi, senza iscrizioni che indicassero chi era ognuno dei tre; però si potevano riconoscere. Secondo le regole iconografiche S. Basilio deve avere la barba nera a punta, S. Gregorio Nazianzieno deve avere la barba quadrata e S. Giovanni Crisostomo deve avere una barbetta ed essere semicalvo. Era davvero così?

Beh, le icone lo dicono - o lo ricordano o lo sanno per rivelazione - dunque io non lo metto in dubbio.

Brevi cenni sulla vita di S. Giovanni Crisostomo

Della vita diciamo solo molto brevemente che Giovanni Crisostomo è nato ad Antiochia fra il 345 e il 350, a metà del secolo. In quel tempo c'erano ancora due mondi cristiani, greco e semitico, ma cominciavano a fondersi gli influssi dell'uno e dell'altro. S. Giovanni Crisostomo che è nato ad Antiochia è diventato poi Patriarca di Costantinopoli ed anche la sua educazione in certo senso ha risentito della mescolanza di due atteggiamenti qualche volta abbastanza diversi verso le cose. Gli antiocheni, come semiti, conoscevano meglio la Bibbia perché la leggevano nello spirito, nella mentalità semitica, nella quale era stata scritta. La mamma era vedova ed educava questo figlio che aveva però anche un altro educatore, greco, Libanio, sofista. Giovanni è andato a scuola della Scrittura da questi autori di cultura semitica, tra i quali il futuro vescovo Teodoro di Mopsuestia, uno di questi “duri”. Fu ordinato lettore, ma pensava all'ascesi - questi antiocheni avevano queste montagne, questi asceti, stiliti, reclusi, ecc. Il ragazzo è andato a fare l'ascesi e si è ammalato. Dunque tornò in città e fu ordinato diacono e sacerdote e predicò nella grande chiesa di Antiochia con grande successo - da ciò viene il suo nome Crisostomo (bocca d'oro)! Nel 397 morì il Patriarca di Costantinopoli e lui fu eletto nuovo Patriarca e l'anno seguente consacrato, ma un asceta e un semita a Costantinopoli, non poteva non creare dei conflitti, diciamo come un napoletano a Torino, o un piemontese in Sicilia. Tutto va bene spiritualmente, in spostamenti come questi, ma ci sarà qualche problema! Lui, asceta, arriva in una grande città e comincia a picchiare in testa a tutti i vizi, soprattutto all'imperatrice Eudossia, la quale ha poi convocato il sinodo che ha deposto Giovanni Crisostomo. Ma tutto era stato fatto troppo in fretta, era troppo scandaloso e la deposizione fu ritirata. Ma lui picchiava di più. Dunque arrivò il decreto di esilio, prima in Armenia. Ma là riceveva ancora troppe lettere, troppe visite. Dunque vollero mandare nel Ponto, ma morì sulla strada.

La sua vita non sembra così lunga come si pensa, quando si vede tutto ciò che si è scritto di lui. Quante prediche, quanti trattati - c'è anche lo pseudocrisostomo; chissà chi lo imitava o copiava.

I temi da lui affrontati sono diversissimi e io ne approfittavo sempre molto. Perché nella collezione dei Padri, curata dal Migne, ci sono gli indici. Allora quando si cercava un bel testo si trovava più facilmente che negli altri Padri.

Vivere per imitare Dio

Cominciamo dal primo principio che, allora, si cercava: quale è la fondamentale legge morale?

Sappiamo che c'erano due diverse tendenze. Gli stoici dicevano: “vivere secondo natura”, i platonici dicevano: “imitare Dio secondo le possibilità”. Vivere secondo natura è passato fino a S. Tommaso, a Dante, ecc., nella morale cristiana. Ma i primi cristiani avevano un po' paura di questo termine. Questa natura, questo destino! Contro il destino scrivevano molti autori, perché avevano paura del destino. Così come oggi, quando parliamo di diritti naturali, abbiamo anche paura di cosa ci mettono dentro. I platonici dicevano: “imitare Dio secondo la possibilità”. Aristotele all'inizio della sua morale distingue tre tipi di uomini. Prima categoria: gli uomini che vivono la vita utilitaria, mangiano per lavorare e lavorano per mangiare. Non sono mai felici! Il secondo tipo è di coloro che vivono la “vita politica”: i politici che lavorano per gli altri - in quel tempo ancora si credeva che i politici lavorassero per gli altri! Vita apostolica, fanno felici gli altri. Ma la vita più felice è la vita contemplativa: elevare la mente a Dio. Allora la contemplazione è la vita più perfetta. Allora la vita contemplativa. Questo è certo, ma Crisostomo non era così meccanico come altri. Si domanda: chi è quel Dio che vogliamo imitare? Questo è il problema secondo me anche oggi, quando si imitano queste contemplazioni del lontano Oriente. Chi è quel Dio? Per i platonici è un'idea, per i cristiani Dio è Padre, non un'idea, ma una persona. Io ho detto altre volte - devo stare attento per non dire qualche eresia! - che noi latini abbiamo un po' falsificato il Credo. Sapete perché? Abbiamo messo una virgola. Perché noi cantiamo “Credo in unum Deum” e poi “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Ma in quel tempo non c'era nessuno che dubitasse dell'esistenza di Dio. La professione di fede era: “Credo in un solo Dio Padre, che è onnipotente e creatore del cielo e della terra”. Dunque Dio è Padre e Crisostomo insiste “imitare Dio”, Dio è philantropos, amante degli uomini. Lo si può dire degli dei pagani e dei platonici che amano gli uomini? No, non si può dire, mai.

Eros e agape. Amare Dio nel prossimo in S. Giovanni Crisostomo

Voi sapete qual è il trattato classico sull'amore prima del Cristianesimo? Il Symposium di Platone. Symposium: bevono un po' insieme e discutono; questo è la vera teologia, no? Discutono: come si dice “amore” in greco? EroS. Eros è nato dal padre cielo e dalla madre indigenza. Cosa significa questo? Io non ho soldi (indigenza della tasca), ma vedo il padre economo che ne ha la cassa piena, comincio ad amare quella cassa! Cioè l'uomo ama ciò che vede e non ha. Se ho lo stomaco vuoto amo la pastasciutta, se amo il movimento seguo il calcio, la Juve, la Roma ecc. Se amo la musica sono musicista, se amo la filosofia sono filosofo e se amo Dio sono l'uomo più divino che possa esistere. Dunque l'uomo secondo Platone è tanto grande quanto grande è il suo amore. Questo suona molto bene, questo testo poteva essere preso dai cristiani come tale. S. Agostino ha copiato parecchie di queste cose, però qualche cosa non va. L'uomo ama ciò che non ha. Ma che cosa Dio non ha? Ha tutto. Può desiderare allora qualcosa? No! Dunque il dio platonico non può amare gli uomini, non è philantropos, è un'Idea in alto, come se diciamo: “noi amiamo il sole e il sole non ama noi”. Siamo solo noi, da una sola parte, ad amare. Voi sapete quando si usa l'espressione amore platonico, quando un ragazzino ama una diva del cinema e questa non ne sa niente. C'è amore solo da parte del ragazzo. Dunque noi amiamo Dio, ma Dio non ama noi.

Ma noi amiamo Dio perché, come dice S. Giovanni, Lui ci ha amati per primo. Allora queste cose non vanno. S. Paolo e S. Giovanni dicono che Dio è amore; si può dire allora che Dio è eros, desiderio?

No, non si può dire, perciò hanno trovato un'altra parola greca: agape. Dunque abbiamo due nomi diversi per l'amore: eros e agape. Uno significa desiderare e l'altro avere e dare. Il Vangelo spiega questo molto bene con un testo in cui Gesù dice: “Se amate i vostri amici e parenti in cosa siete diversi dai pagani? Anch'essi amano gli amici perché li desiderano. Amate i nemici perché nessuno desidera avere nemici. Se amate i vostri nemici sarete come il Padre vostro in cielo che dà la pioggia per i buoni e per i cattivi”. Dunque “amare” in senso cristiano significa regalare. Allora eros e agape. C'è un vescovo protestante scandinavo, A.Nygren, che ha scritto un libro su questo, “Eros e agape”, e la sua sentenza è più o meno questa, (ha fatto una buona raccolta di testi). Dice: “All'inizio il Vangelo distingue molto bene questi due amori, ma la gente non ha capito bene, ha mescolato tutto insieme e così sono nate la Chiesa cattolica e quella ortodossa. Hanno mescolato questi due amori, senza rendersene conto. Per fortuna è venuta la Riforma che ha detto di non desiderare la beatitudine in cielo, di non cercare i meriti e tutte queste cose - questo è eros. Bisogna avere agape, regalare e non cercare di ricevere qualcosa da Dio”. Cosa dite voi? Qual è il vostro illuminato parere?

Diciamo che distinguere è bene, separare no. Dio è agape, ma noi siamo sia eros che agape. Se non desidero mangiare vado dal medico per curarmi, se non desidero studiare sarò bocciato. Dobbiamo desiderare, ma, inoltre, siamo capaci anche di amare, cioè dare. Dunque Dio ci ama e noi, secondo il suo esempio, dobbiamo essere capaci di questo amore divino. Questo amore divino a chi si rivolge? Si rivolge a chi incontro. Ma possiamo amare Dio? Era tanto difficile affrontare questi temi che poi i Padri non volevano mai scrivere sull'amore. Dicevano: “E' troppo difficile”. Climaco dice “Chi parla d'amore parla di Dio”, meglio lasciar stare. Solo S. Basilio all'inizio della sua Regola dice quattro motivi per i quali amiamo Dio.

Ognuno ama la luce, Dio è la luce infinita. Che cosa è, eros o agape? Ognuno ama la luce e Dio è la luce infinita. E' eroS.

Ognuno ama la bellezza, Dio è la bellezza infinita. Che cos'è? Eros.

Ognuno ama i benefattori, Dio è il nostro più grande benefattore, io amo Dio. che cos'è? Eros.

A questo punto, Basilio dice il quarto argomento. Io ve lo dirò, voi riderete, ma io non so come dirlo altrimenti. Immaginatevi il giudizio finale, a sinistra sono i dannati, a destra gli eletti e Basilio si trova tra i dannati. Viene il diavolo davanti a Gesù Cristo e dice: “Vedi quel Basilio? Tu l'hai creato, io no, ma lui ha seguito me. Tu gli hai dato tanti benefici, io gli ho dato soltanto guai, ma lui ha seguito me. Tu gli hai promesso beatitudine, io l'inferno, ma lui ha seguito me”. Basilio dice: “Va bene finire all'inferno, ma che quel diavolo possa vantarsi così davanti a Gesù Cristo io non lo sopporterei!”. Che cos'è questo? Che l'uomo può dimenticare se stesso e dire che l'interesse di Dio è superiore al mio. Questa noi la chiamiamo “contrizione perfetta” e quella purifica l'anima da tutti i peccati, perché solo Dio è capace di darcela. E' un po' difficile.

S. Giovanni Crisostomo è più concreto e dice: “Possiamo amare Dio? Sì, nel prossimo”. Perché Cristo ha detto “ciò che avete fatto a lui l'avete fatto a me”, e così Dio è philantropos, ama noi. E noi possiamo amare Dio. Allora ha fatto una bella sintesi della cultura greca con un precetto del Vangelo. Questa filantropia divina è una cosa molto importante. Allora, più che l'amore di Dio comincia a parlare dell'amore cristiano. Parla sempre dell'amore cristiano. Ma qual è l'amore cristiano? Lui dice che è soprattutto agape, perché eros è sempre un po' passionale. Amo, amo, amo, poi la passione passa e ti odio! Il vero amore non può passare, è stabile, perché è regalare. Se accetti, bene! Se non accetti, non importa.

Un proverbio tedesco dice: “L'amore che poteva passare non era amore”. Era una passione. Eros è passionale. E' sempre particolare, verso una ragazza e non verso l'altra. “Io amo Gina, non te!”. I monaci dicevano che bisogna amare tutti gli uomini senza distinzione, chi ama uno più dell'altro non è un vero cristiano. Come principio va bene, ma non è facile applicarlo. E' strano quando leggiamo le regole monastiche: è sempre vietato severamente l'amore particolare. S. Basilio dice: “Se c'è tuo fratello nel monastero, devi dimenticare che è tuo fratello. E' un fratello come gli altri”. Tutti uguali.

Anche in seminario si perseguitavano gli amori particolari. Quando due stavano tanto insieme, il Rettore diceva: “Mescolatevi, mescolatevi”. Più tardi, l'unica prudente era S. Teresa d'Avila che diceva: “Nei piccoli monasteri l'amore è uguale, ma nei grandi monasteri se non hai qualche amore particolare non hai amicizia con nessuno”. Questo vale per il mondo che è un monastero troppo grande! Se voglio amare americani e africani, ma dimentico che sto a Roma... Il principio formulato è: amore uguale per tutti. Poi Giovanni Crisostomo dice, l'amore passionale è facilmente attratto dal corpo, mentre l'amore spirituale è più concentrato sul bene dell'anima. Il bene dell'anima è dare il buon esempio, non dare scandalo. Una cosa che i monaci consideravano come grande beneficio dell'amore era rimproverare i difetti, la “correzione fraterna”. Sapete che nei monasteri c'era il capitolo, il monaco si inginocchiava in mezzo e tutti dicevano: “Tu fai questo, tu non hai pulito questo”, e lui: “Ringrazio per il vostro amore”. Più tardi dicevano con più prudenza Teodoro lo Studita: “Deve farlo chi sa farlo con carità, altrimenti succedono guai”, perché è come curare una ferita con il coltello. Non va bene!

L'amore particolare del matrimonio in S. Giovanni Crisostomo

Adesso vorrei trattare un argomento sul quale ho fatto un articolo. Lo consideravano come una scoperta, ma poi hanno detto: “Sì, è vero!” L'amore matrimoniale, qual è? Cade in questi termini monastici o no? E' amore “particolare”: si ama la moglie più della vicina, ecc. L'obiezione qual è? Questi monaci, con questi principi, hanno sempre parlato della verginità, mentre della spiritualità del matrimonio non scrivevano niente. Mancava totalmente. Beh, totalmente no. Agostino aveva scritto varie cose ed io ne ho cercato i testi. S. Giovanni Crisostomo che stava in mezzo alla gente, a Costantinopoli, si rendeva conto che doveva esserci una posizione della Chiesa verso il matrimonio. Crisostomo parte dal problema del tempo. Il problema del tempo era in un certo senso simile a quello di oggi. C'erano molti schiavi che alla fine ricevevano la libertà, perché nell'Impero cristiano a questi schiavi, divenuti vecchi, davano cristianamente la libertà. Ma cosa potevano fare questi poveri vecchi? Si radunavano insieme, alcuni dicevano che dovevano avere anche la cittadinanza, perché tutti gli uomini sono uguali. E' interessante che anche Marco Aurelio, che perseguitava i cristiani, diceva questo, ma lo diceva in questo senso: “Siamo tutti della stessa natura e nell'Impero romano tutti devono avere gli stessi diritti”. Questo piaceva anche ai Padri della Chiesa: siamo tutti uguali, prendiamo parte all'uguaglianza degli uomini. Ma quando Crisostomo era ancora studente, c'era Giuliano l'apostata, portatore di una reazione di nazionalismo romano: “Noi siamo romani, non come questi extracomunitari. Non è vero che tutti gli uomini sono uguali. Perché i cristiani dicono che discendiamo tutti da Adamo? Come è possibile se uno è bianco e l'altro è nero, uno è intelligente, l'altro stupido? Tante differenze. Gli uomini sono tutti differenti, è inutile dire che sono uguali”.

Cosa rispondevano i Padri della Chiesa? Hanno preso un principio: Dio ci ha creati tutti uguali, le differenze vengono dal peccato. Dunque se ci sono ricchi e poveri è colpa del peccato, dell'avarizia. Noi dobbiamo superare la differenza tra ricchi e poveri; questo è un obbligo per i cristiani. Stupidi ed intelligenti devono avere diritto all'istruzione, come ai tempi moderni.

C'è però un'altra differenza: ci sono l'uomo e la donna. Da dove viene questa differenza? Dal peccato? L'unico che ha avuto il coraggio di sostenerlo era Gregorio di Nissa. Diceva che dopo essere stati scacciati dal Paradiso hanno ricevuto un vestito di pelle e questo era il sesso. Il sesso sarebbe stato solo dopo il peccato, ma nessuno poteva accettare questo. Dio stesso ha creato l'uomo e la donna. Perché Dio ha fatto questa differenza, per procurare guai? Tutte le guerre cominciano nella famiglia, perché Dio ha fatto questa differenza? La maggior parte dei Padri è “femminista”. Affermavano: “Tutte le differenze sono nel corpo, ma l'anima è uguale. L'anima è l'immagine di Dio e nell'anima l'uomo e la donna sono uguali per la vita spirituale”. Infatti le Regole per le benedettine e i benedettini, basiliani e basiliane, sono uguali, per la donna e per l'uomo, perché la vita spirituale non conosce differenza tra uomini e donne. C'è una biografia, se non vera è molto ben trovata, di S. Marina. S. Marina voleva entrare nel monastero, ma i monasteri femminili erano troppo pieni e non l'hanno accettata, così è entrata in un monastero maschile e nessuno si accorse che era una donna. E' successo però che nel villaggio una donna doveva partorire e gli impiegati dello Stato volevano sapere chi fosse il padre del nascituro. Uno di quei monaci era salito là. Allora li misero tutti in fila e fu indicata proprio Marina. Lei non disse nulla, lavorò il doppio per nutrire il bambino e solo alla sua morte si è scoperto che era vittima di calunnie.

Si sosteneva che la spiritualità maschile e femminile è uguale. Solo S. Giovanni Crisostomo dice: “Hanno lo stesso valore, ma non sono uguali”. La matematica non è né maschile né femminile, ma l'atteggiamento verso la matematica può essere differente nell'uomo e nella donna. Così la vita spirituale: è dello Spirito Santo, ma l'atteggiamento verso di essa può essere differente. Sono dunque diversi! E si chiede: “Perché Dio ha fatto questa differenza?” Secondo l'antica mitologia greca, i giganti si erano ribellati a Giove il quale li aveva tagliati in due e da allora una metà cerca l'altra. Va bene, ma tutte queste sono favole! La risposta di S. Giovanni Crisostomo secondo me è bellissima. Non è ancora abbastanza apprezzata, ma è bellissima: “Affinché l'unione fosse non della natura, ma per mezzo dell'amore, l'amore che unisce due persone differenti”. Quindi il matrimonio è sacramento dell'amore. E' imitazione della SS. Trinità, come il Padre ama il Figlio, così il marito ama la moglie e per mezzo dell'amore si trasferisce sulla terra il grande sacramento del matrimonio. E' bellissimo.

L'amicizia spirituale, il celibato e la verginità

Adesso però potreste dire: “Va' e sposati!” Per me sarebbe facile, perché sono ancora giovane, ma per gli altri non lo so! (Il cardinale ride). Perché non andate in tutti i monasteri dalle suore e dai monaci a dire “Sposatevi perché questo è il sacramento dell'amore”? Offro 50 euro per una buona risposta. Di nuovo Crisostomo ha una bellissima risposta “L'amore è partecipazione di Dio e deve crescere”. E come cresce? Come la Bibbia: dall'AT al NT, dal corporale allo spirituale. All'inizio l'amore è piuttosto corporale, ma deve crescere nella spiritualità e quelli che capiscono che possono amare gli altri spiritualmente, scelgono il celibato. La Bibbia dice: “Chi lo può capire, capisca”.

Dunque verginità e matrimonio sono opposti ma, in un certo senso, la verginità è, in un certo senso, continuazione del matrimonio. Alla fine dei secoli non ci si sposerà più perché tutti avranno l'amore spirituale. Voi sapete che lo stesso pensiero si trova in pensatori moderni che dicono: “All'inizio è attrazione sessuale, ma questa deve svilupparsi in vera amicizia”. Se fra marito e moglie non cresce l'amicizia, il matrimonio fallisce. E' una bella cosa. Una volta dovevo tenere a Milano una conferenza all'Università. L'hanno annunciata: padre Špidlík parlerà della teologia del sesso. Era così pieno che quasi non riuscivo ad entrare! Ma alla fine molti ragazzi mi hanno chiesto: “Ma perché non ci dicono queste cose? Ci dicono solo: questo si può, questo non si può!” Bisogna capire che qui c'è un dinamismo, che se si blocca questa evoluzione è una tragedia. Crisostomo aveva capito molto bene questo, ma non aveva molto tempo per svilupparlo. Soltanto, agli eretici che criticavano il matrimonio rispondeva: “Perché calunni il nido dal quale sei uscito?” Infatti nel rito bizantino c'è la festa della concezione della beata Anna. Dal santo matrimonio di Gioacchino e Anna nasce la Vergine. Questo è amore fra gli uomini.

Il valore del lavoro: Adamo lavorava, prima del peccato, per sviluppare la sua personalità

C'è un altro aspetto moderno che Crisostomo ha sviluppato molto bene: il lavoro. La manifestazione dell'amore è il lavoro. In quel tempo evidentemente il lavoro, soprattutto quello manuale, si stimava poco, erano le opere “servili”, dei servi - per questo di domenica sono proibite. Se zappo la terra per più di tre ore è peccato mortale, se studio fino a diventare matto, questo è bene, di domenica si può fare! C'è distinzione. Ma i cristiani cercavano di riabilitare il lavoro manuale. Crisostomo dice: “Siamo figli di un operaio. S. Paolo lavorava per non essere di peso agli altri. L'uomo è stato posto nel Paradiso per coltivarlo, il mondo è per noi, ma affinché si sviluppi, l'uomo deve lavorare”. La questione è sempre stata: Adamo, nel Paradiso, lavorava? Ma c'era già tutto, perché doveva lavorare? La risposta di Crisostomo è: “Lavorava, perché altrimenti non avrebbe sviluppato la sua personalità”. Il lavoro è necessario per sviluppare la propria personalità. Adamo lavorava e coltivava il Paradiso. Dopo il peccato cosa è successo? Al lavoro si è aggiunta la fatica, e questo è il guaio. La fatica viene dal peccato. Allora dobbiamo scappare da ogni fatica? Crisostomo dice che anche questa è medicinale, ci aiuta a superare le nostre cattive inclinazioni. Uno che lavora vince tutti i vizi. Dunque anche la fatica è molto utile. Chi non lavora non deve mangiare. L'istituzione degli schiavi era il problema del tempo. I Padri non osavano dire – e neanche S. Paolo - che non era giusta, perché tutto il sistema economico era basato su questo. Abolire la schiavitù avrebbe causato il crollo totale dell'economia. Possiamo vedere nella vita di S. Melania, che voleva dare la libertà a tutti i suoi schiavi, che questi si ribellavano. Sarebbe stato come chiudere la FIAT, una grande azienda. Non si potevano lasciare gli schiavi. Quindi si ponevano solo dei limiti: trattateli bene, trattateli come fratelli. Ma la schiavitù non era in discussione. Invece Giovanni Crisostomo, come anche Gregorio di Nissa, dice: “E' contro la natura. Dio ci ha dato due mani, non ci ha dato gli schiavi, gli schiavi ci sono stati dati dalla società corrotta”. Allora sarebbe molto bello che ognuno lavorasse tutte le cose da solo. Le donne che lavorano sono più belle di quelle che mangiano soltanto, gli uomini che lavorano sono più sani. Dunque il lavoro è una cosa molto nobile. E Crisostomo loda ciò che qualche tempo fa ci ha creato problemi, i preti-operai. C'erano molti contadini ordinati sacerdoti, non come oggi il prete che va in fabbrica, ma semplicemente nel villaggio ordinavano prete un contadino. Crisostomo in un'orazione dice: “Quando vedo questi fratelli, che un giorno arano la terra con i buoi e la domenica fanno la liturgia celeste, sono sempre molto commosso nel vedere questi semplici sacerdoti che lavorano con le mani”. I monaci cosa devono fare? C'erano i messaliani che dicevano: “Il lavoro è per i secolari, i monaci devono solo pregare”. Certi schiavi si rifugiavano nei monasteri perché è più facile cantare che zappare la terra. Questi messaliani furono condannati. Conoscete S. Benedetto che ha insegnato: “Ora et labora”. Molti messaliani scappavano anche in Occidente, anche in Italia. Sembra che a Trento ci siano questi martiri che erano arrivati, chissà come, dalla Cappadocia. Rovinarono il tempio dei pagani con grande zelo. Uno di questi vide un monaco ortodosso che lavorava dei cestini. Gli disse: “Io non lavoro”. Il monaco gli diede un libro spirituale, ma la sera, quando fu il momento di mangiare, nessuno lo chiamò. Allora lui tornò e disse: “Padre, oggi non si è mangiato?” “Sì, si è mangiato, ma noi che siamo corporali; tu che sei come un angelo di Dio, pensavamo che non ne avessi bisogno”.

Dunque - “ora et labora” - i monaci lavoravano. E non solo per se stessi, perché non hanno bisogno di tanto. Tutto quello che producono in più è a favore dei poveri. I monasteri sono diventati istituti di beneficenza. Orfanotrofi, ospedali per vecchi, scuole, tutto era opera dei monaci. C'era un grande patrologo, padre Gribomont, ha fatto fare ad uno a Bologna una tesi sul lavoro dei monaci. Il risultato era: qualche volta i monaci erano corrotti, ma i monaci corrotti cosa facevano? Mangiavano più del necessario, bevevano, ma quando l'opera dei monaci passava allo Stato, i “giusti” impiegati statali consumavano molto di più, con tutta l'onesta amministrazione! Che differenza passa tra la vita monastica e quella cristiana? I monaci non sono diversi, vogliono solo osservare tutti i comandamenti. La vita monastica è esempio della vita cristiana e la chiesa orientale è molto monastica. Non si distinguono ordini apostolici e contemplativi. Gli orientali dicono che tutti devono essere contemplativi. Il vescovo non deve perdere la contemplazione, se lo fa deve ancora stare nel monastero. Dunque si potrebbero dire ancora tante cose, ma speriamo che adesso finiamo qui e voi andate a lavorare invece di fare questa contemplazione!

Domanda

Innanzi tutto un grazie per l'esposizione chiara, provocante e luminosa. Avrei una piccola osservazione. Quando lei ha detto, molto giustamente, che Dio è pienezza e non ci può essere desiderio, indigenza, quindi eroS. Cosa che non è vera per noi creature che non abbiamo questa pienezza di essere. Tutto a posto, secondo le categorie di Atene: Dio è immutabile e anche santo, Dio non muta. Tuttavia Dio ha deciso di mandarci suo Figlio, di farsi uomo, di confrontarsi con gli uomini, di permettere che gli uomini lo rifiutino, di aspettare con amore. In questo senso, non per sua innata indigenza, ma per una sua decisione, pur essendo sovrano di tutto, lui dipende dalla cooperazione, dall'atteggiamento dell'uomo, quindi soffre finché l'uomo non lo accetta pienamente. In questo senso, un po' di desiderio c'è anche in Dio che vorrebbe che io fossi meglio di quel che sono. A proposito dell'eresia di cui lei parlava, quando stavo in Zambia c'erano dei gruppi che attendevano alle pulizie, c'era un gruppo che puliva solo la Chiesa. “Noi siamo spirituali”, dicevano, ma anche loro usavano i servizi igienici!

Risposta

Qui ci sono due problemi molto seri: come Dio può ascoltarci quando preghiamo? Filone di Alessandria, grande filosofo ebreo, ha portato all'università la traduzione dell'Antico Testamento in greco, per mostrare ai filosofi che anche noi abbiamo la saggezza. I filosofi ridevano: “Che ridicolo! Dio promette una cosa, gli Ebrei sono cattivi e lui si arrabbia; gli offrono dei buoi e lui si pacifica; dice: va bene, lo farò”. Ma Dio è immutabile! Come è possibile questo?”

Filone, buon ebreo devoto, non sapeva però cosa rispondere, diceva solo: “Se Dio non è libero, neanche noi lo siamo; siamo una macchina”. E' una risposta ad hominem. Ad Alessandria viveva Origene che diceva: “Tutto questo proviene dal nostro modo di pensare. Noi siamo nel tempo; qualcosa è prima, qualcosa è dopo, ma Dio vede tutto presente. Per lui questa cosa del prima e del dopo non esiste”. C'è un libro spirituale italiano che si chiama “Don Camillo”. Lì c'è questo problema, esposto in modo semplice. Gesù dice a don Camillo: “Senti, don Camillo, tu cammini spensierato, attraversi il binario e cadi in terra. Arriva il treno, tu preghi: oh Signore, fa che il treno passi sull'altro binario. Il treno passa là e tu ringrazi il Signore che ti ha salvato. Ma non poteva saltare da un binario all'altro, era già partito sull'altro binario!” Don Camillo non sa cosa rispondere e Gesù gli dice: “Sei tanto stupido? Non sai che prima che il treno partisse io ho visto la caduta, ho sentito la tua preghiera e ho arrangiato le cose in questo modo, sia secondo l'orario che secondo questo dialogo fra di noi”. E' una bella risposta.

Conferenza tenuta presso la Libreria Russia ecumenica, il 9 dicembre 2003.

a cura del Centro Russia Ecumenica
00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30
tel 06-6896637


Sabato, 06 Maggio 2006 19:45

Stabat Mater (Renzo Bertalot)

Il fìat di Maria non è solo l'espressione della sua fede nell'incontro con la Parola, ma anche spiega la profondità del dolore di una madre che dovrà confrontarsi con il crollo apparente delle promesse divine annunziate.

Ogni battezzato deve vivere la sua vita come un’unica e preziosa celebrazione liturgica, facendo continuamente trasparire dalle sue azioni la verità della fede cristiana.

Lezione Prima
MYSTERIUM SALUTIS E GLI STUDI TEOLOGICI



I venti secoli della teologia cristiana si possono raggruppare intorno a quattro grandi prospettive:

1. L’ideale gnostico-sapienziale della teologia (fino al IV sec.)

Il fine che persegue la gnosi (= conoscenza) è di risolvere, non tanto in modo speculativo, quanto concreto e globale, il problema umano totale.

Il mezzo essenziale a questo scopo è una. “conoscenza” superiore delle cose e dell’uomo. Questa conoscenza è di natura religiosa. La conoscenza gnostica suppone l'accordo di tutta la vita, al quale ci si prepara con la purificazione morale e ascetica.

I problemi attuali dell'ecclesiologia

di Giovanni Tangorra


La Chiesa del Vaticano II si è rivolta al presente, all'uomo di oggi coni suoi interrogativi e le sue angosce, cercando di trasmettergli il proprio messaggio di salvezza. È stato un lavoro intenso finalizzato al rinnovamento del volto ecclesiale ma, paradossalmente alla chiusura del concilio, ci si è accorti che il problema principale restava proprio la Chiesa. L'opera di aggiornamento con cui si indicava ciò che essa avrebbe dovuto essere era stata svolta con una riflessione a tutto campo ma molte idee restavano ancora a livello di intuizioni. Allo stato attuale, mentre nel mondo si disegnano nuovi scenari, con crisi economiche e politiche di livello internazionale, il cattolicesimo conosce situazioni contraddittorie. C'è chi ripropone un tradizionalismo nostalgico e chi prospetta una fuga verso direzioni più radicali, ma anche un numero sempre più cospicuo di indifferenti che auspicano un cristianesimo senza Chiesa. Questi e altri problemi impongono nuove sfide e la necessità di mettere in chiaro alcuni nodi ecclesiologici, più o meno evidenti, cui occorre porre mente e cuore.

Il nodo del soggetto

Nel passato il cristianesimo costituiva l'ovvio, la pressione sociale era meno esigente e il ruolo della Chiesa non veniva messo in discussione. I cittadini potevano apprendere i rudimenti della fede, praticare i sacramenti e conoscere le leggi della Chiesa persino nei programmi delle scuole pubbliche. La situazione odierna è radicalmente diversa e la Chiesa si trova nell’esigenza di aprirsi uno spazio nel grande mercato delle opzioni religiose. È realistico pensare che il futuro non sarà contrassegnato da un ritorno della situazione di privilegio goduta nel passato ma da un deciso incremento del pluralismo che rischierà di rendere marginale l'identificazione stessa dei battezzati. Il rimedio può essere trovato solo in un deciso richiamo alla responsabilità del soggetto, all'elaborazione personale delle scelte puntando sulla capacità umana di prendere autonomamente le proprie decisioni. Il cristianesimo che si imponesse per costume o per tradizione è inevitabilmente destinato all'estinzione. Il primo compito sarà perciò quello di passare «da una Chiesa di popolo a una Chiesa formata da coloro che, in contrasto con il loro ambiente, sono impegnati per una decisione di fede personalmente, chiaramente e riflessamente responsabile». Chi lo dice è Karl Rahner che aggiunge: «O la Chiesa del futuro sarà una tale Chiesa oppure non sarà più» (1).

Questa esigenza è percepita negli stessi documenti ufficiali che con sempre maggior convinzione parlano della necessità di creare un «cristianesimo adulto». Negli Orientamenti pastorali per l’attuale decennio, i vescovi italiani scrivono: «Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, pensata, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo» (n. 50). Il suggerimento è quello di puntare sulla formazione, favorendo «esperienze di vita, personali e comunitarie, fortemente ancorate al Vangelo per dare un avvenire alla trasmissione della fede in un mondo in forte cambiamento» (n. 45). Il fine non è naturalmente l'autocompiacimento ma la realizzazione autentica di una Chiesa di testimoni, per «far sì che le comunità divengano segni eloquenti, a motivo della loro vita “diversa”. Ciò non significa credersi migliori, né comporta l'esigenza di separarsi dagli altri uomini, ma vuol dire... costituirci testimoni» (ivi).

Prima però di interessare l'individuo e le sue convinzioni, la svolta del soggetto deve compiersi a livello di Chiesa, sbloccando l'ecclesiologia giuridica che riduce i rapporti del credente con una realtà intesa in senso impersonale. È questa considerazione, infatti, che irrigidisce l'appartenenza a una specie di gregariato, rischiando di ridurre la fede ad un assenso su una serie di dogmi, la liturgia al conformismo rituale e le relazioni intraecclesiali a un rapporto di competenza-contrapposizione tra clero e laici. In un quadro così delineato si nutre la falsa convinzione che la Chiesa possa andare avanti da sola, per la forza dei suoi strumenti ma la conseguenza inevitabile sarà quella di produrre un corpo anonimo, depersonalizzato.

Fu una situazione di questo tipo a portare un ispiratore del concilio come Yves Congar a lavorare intensamente per una revisione del concetto di Chiesa che si spostasse dalle «cose» alle «persone». Ecco un testo, fortemente autocritico, che può essere indicato come punto di partenza di tutto il suo progetto ecclesiologico: «La teologia cattolica ha considerato poco le realtà cristiane vissute nel soggetto religioso. Essa ha considerato la Chiesa come un'istituzione esistente oggettivamente - ciò che essa è in modo sicuro - molto poco come assemblea dei fedeli e comunità vivente risultante dalla loro azione» (2). Questa osservazione ha portato il teologo francese a condividere il disagio istituzionale delle nuove generazioni e a giudicarlo positivamente, sostenendo che il futuro della Chiesa dipenderà proprio da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti» (3).

Il nodo della comunione

Il Vaticano II ha posto solo i primi passi di un'ecclesiologia diversa, chiamata di «comunione» L’intento era quello di rinvigorire la Chiesa sul piano spirituale e di cercare una forma organizzativa meno centralizzata e più sinodale. Gli anni successivi sono stati caratterizzati dalla ricezione di questo tema con dichiarazioni solenni come quella del Sinodo straordinario dei vescovi che, convocato in occasione del ventennio del concilio, ha sostenuto di dover considerare la comunione come «l'idea centrale dell’eccclesiologia conciliare» (4). Cosa però comporti concretamente l’assunzione di questo modello concettuale e quale tipo di ordinamento ecclesiale si stabilisce sul suo fondamento, sono aspetti che gli ecclesiologi non hanno ancora pienamente risolto. Per questo non mancano anche le perplessità e le attenzioni. Grazie a questo modello l'ecclesiologia è comunque costretta ad approfondire nuovi percorsi, tre dei quali qui meritano di essere sottolineati: la fraternità, la corresponsabilità e la sinodalità.

La fraternità ecclesiale va vissuta attraverso un concorso di sentimenti affettivi ma anche con gesti concreti ispirati all’amore, alla giustizia, all'incontro, allo stare in-sieme, allo scambio, all'ospitalità, al servizio, tutti valori che corrispondono all'indole comunitaria che caratterizza il mistero ecclesiale. La coscienza di una tale comunione non può che avere un respiro universale ma è anche vero che, per sua natura, essa ha bisogno di strutturarsi in modo concreto, partendo dal centro pulsante del mistero ecclesiale che è l'eucaristia. L'autonomia delle Chiese locali e lo sviluppo legittimo delle loro diversità rientra quindi a pieno titolo fra i compiti di una ceclesiologia di comunione. Ogni Chiesa deve potere esprimere la sua novità, l'elemento differenziante con cui concretizza e dà forma al tempo di Dio, con parole ed eventi sperimentati nella dimensione dell'hic et nunc.

Resta la questione spinosa della tensione fra località e universalità. Il noi dei fedeli in un luogo stabilisce un'identità plurale delle Chiese sparse nel mondo ma lo Spirito, che è garanzia della pienezza locale, è anche colui che rifiuta gli esclusivismi e le autonomie faziose. Il ministero petrino svolge un ruolo chiave ma dovrà anche apparire come garanzia di un'unità molteplice, in grado di tutelare «le varietà legittime e insieme vegliare affinché ciò che è particolare non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva» (Lumen gentium 13). Forme e modi sono però qui ancora da cercare e il tema è uno di quelli che conosce il maggior fermento. Un vero nodo ecclesiologico.

Un elemento che ha incoraggiato la riscoperta della Chiesa locale è stata la nuova sensibilità per rapporti ecclesiali che si vogliono meno formali e più veritieri sul piano umano. Questa singolare congiunzione di antropologia ed ecclesiologia ha contribuito non poco a intensificare ulteriormente il movimento della localizzazione per ricreare vecchie organizzazioni bloccate come la parrocchia e per inventare cellule ancora più piccole come il movimento, l'associazione o il gruppo che fossero capaci di offrire un'esperienza più significativa della vocazione fraterna della Chiesa con la realizzazione di rapporti realmente interpersonali. Un riconoscimento particolare andrà ai nuovi soggetti, in macro come quello delle unità pastorali, e in micro, come le comunità di base. Parlando sempre in termini di futuro il citato Rahner scrive: «La Chiesa sarà sorretta, necessariamente, dalla fede libera dei suoi membri e dalle comunità di base che non si limitano a ricevere le cure della Chiesa ufficiale, ma costituiscono la chiesa in modo responsabile, autonomo e attivo» (5).

L'ecclesiologia della comunione dispiega inoltre una teologia della corresponsabilità, portando ogni Chiesa locale (ogni gruppo, ogni cristiano) ad elaborare processi autonomi di decisione e collaborazione, perché è solo nella libertà reale che si può comunicare e produrre un autentico consenso. Il problema punta qui su una questione centrale: come accordare il principio dell'autorità con il principio dei carismi? Come risolvere i conflitti che, nonostante la buona volontà, ancora si presentano su questo terreno?

La soluzione potrà essere cercata operando su due fronti: creare una classe di ministri ordinati capace di pensare in un'ottica di cooperazione e promuovere in modo concreto il laicato. Sul primo è da condividere questa intensa opinione di J.M. Tillard. «Il ministro non manifesta la sua natura se non nell'atto di tutta la comunità in cui esso si trova esercitato. Considerarlo semplicemente nella sua attività propria, isolata dalla sinfonia delle attività che lo Spirito suscita, significa condannarsi a non comprenderlo» (6). Occorre allora superare le scorrette forme di esercizio dell'ufficio ministeriale, il clericalismo, l'atteggiamento autoritario, la supponenza, che fanno del prete un separato dal resto dell'ecclesia. Uscire dalla sterile contesa sulle competenze del potere implicherà l'attuazione di una collaborazione vasta del popolo di Dio, favorendo e non semplicemente «rassegnandosi» alla maturazione di una coscienza adulta dei fedeli (laici o altri) anche nel vasto campo del fare.

Parlare di sinodalità significherà, infine, imparare ad acquisire uno stile ecclesiale che sa dare alla collegialità, intesa nelle sue diverse forme, la forza di un sogno sacramentale. Il modello sinodale non nega l'autorità ma afferma che essa non può «fare» e «decidere» senza impegnare gli altri, mettendo in pratica, nelle diverse questioni della vita ecclesiale, il principio relazionale. A livello universale c'è il nodo della collegialità episcopale e delle sue diverse espressioni come le conferenze episcopali, mentre a livello di Chiesa locale il riferimento è ai rapporti fra vescovo, presbiteri e laici. Possono un vescovo o un parroco prendere decisioni che interessano la vita delle comunità in modo autarchico, senza comunicare, informare, consultarsi? Tutto impone la necessità di costruire un'ecclesiologia relazionale che sul piano dell'organizzazione diventi un'ecclesiologia sinodale dove nessuno può essere escluso.

Il vero passo in avanti, inaugurato dal concilio, è qui consistito nella creazione di strutture finalizzate a una collaborazione vasta per dare ai fedeli la possibilità di esprimersi a livello personale, di gruppo, di Chiese locali, di Chiese particolari e di Chiesa universale. Un'intensificazione e una seria attuazione di queste strutture di comunione, che ancora stentano ad essere attuate nella pratica, non può che essere una via profetica per chi vuole attuare in modo serio il modello di una ecclesiologia sinodale. Va letto in questa prospettiva l'auspicio di Giovanni Paolo II che al n. 21 della Tertio millennio adveniente, parlando dei sinodi, scrive: «Questi sinodi costituiscono già per se stessi parte della nuova evangelizzazione: nascono dalla visione del concilio Vaticano II sulla Chiesa; aprono un ampio spazio alla partecipazione dei laici, dei quali definiscono la precisa responsabilità nella Chiesa; sono espressione della forza che Cristo ha donato a tutto il popolo di Dio, facendolo partecipe della propria missione messianica, profetica, sacerdotale e regale».

I nodi da sciogliere su questo tema sono numerosi ma si concentrano nel tipo di rapporto che deve stabilirsi fra comunione e istituzione. La fisionomia giuridica diventa rilevante per il rischio insito alla teologia della comunione di rimanere sul piano della pura interiorità o di esaurirsi in intenzioni di carattere nominalistico. Sembra evidente, infatti, che senza un riconoscimento empirico della sinodalità, la communio non avrebbe alcuna garanzia realizzatrice e verrebbe affidata alla buona volontà dei singoli, riportandola sul piano delle intenzioni.

Il nodo ecumenico

Alla chiusura del concilio la consapevolezza dello scandalo della divisione e il desiderio dell'unità sono stati i sentimenti più condivisi che si sono tradotti in una serie di passi concreti, nella convinzione che il dialogo fosse la via migliore per avanzare nell'unione, dialogo da condurre nel rispetto dell'altro sul piano della prassi e della dottrina. Alcuni osservatori ritengono che se sul primo si sono fatti passi da gigante, almeno a livello ufficiale, il secondo conosce una fase di ristagno. Si tratta di un luogo comune che occorre sfatare perché la lettura dei documenti ecumenici mostra un'incredibile convergenza su numerose questioni in altri tempi ritenute irriconciliabili Lo testimonia il documento “Chiesa e giustificazione. La comprensione della Chiesa alla luce della dottrina della giustificazione”, firmato a Wurzburg nel 1993 (7). Il riavvicinamento teologico raggiunto è senza precedenti: cattolici e luterani, dopo quattro secoli di lotte non solo ideologiche, si sono ritrovati a condividere il principio fondamentale del Vangelo che è salvezza per l'uomo, senza che comporti una negazione del ruolo della Chiesa. Per la profondità con cui sono state affrontate le tematiche ma anche per il rigore con cui si è stati in grado di offrire una comunicazione capace di realizzare un punto di contatto, questo documento si presenta come una sorta di «carta» sulla quale costruire concretamente l'unità. Gli stessi vescovi firmatari si sono chiesti se questo e gli altri documenti, ormai, «non costituiscano un consenso sufficiente per permettere alle nostre Chiese di avviare passi concreti, diventati sempre più urgenti verso l'unità visibile». Mai le precedenti commissioni ufficiali si erano spinte a tanto.

L’attesa di questi passi concreti è dunque il nodo ecumenico che occorrerà sciogliere. Nella citata Tertio millennio adveniente Giovanni Paolo II ha inserito una profezia prevedendo un improvviso gesto di accelerazione ecumenica tale da far sperare di giungere alla soglia del duemila «se non proprio tutti uniti, almeno più prossimi a supérare le divisioni del secondo millennio». Espressione profetica è anche quella in cui Luigi Sartori indica una possibile strada: «Occorre partire dalla comunione nello Spirito Santo per far uscire le Chiese dall'angustia dell'egocentrismo, e recuperare già in partenza un'apertura pienamente ecumenica, ossia universale» (8). È allora necessario saper uscire dai pretesti per dare mano coraggiosamente a possibili progetti di riunificazione che in ogni caso siano però leali e non accomodanti. Più che un'impasse, il cammino ecumenico dà l'impressione di dibattersi in uno strano circolo vizioso: quando si vive la comunione della prassi ci si lamenta dei ritardi causati dal consenso teorico ma quando si riesce a raggiungere un consenso su questa materia si sostiene che non basta la comunione dottrinale se non si raggiunge una presa di coscienza ecclesiale. Insomma i tempi sono sempre considerati immaturi e nessuno riesce a spezzare questo cerchio fatale. Non può essere qui la causa di quell’inverno ecumenico cui tutti vanno parlando?

Il nodo dell'impegno nel mondo

La Chiesa conciliare ha preso particolare coscienza del fatto che la sua missione è «in ordine all'elevazione della dignità umana e alla preparazione di condizioni più umane» (Ad gentes 12). Ma anche questo punto nel dibattito successivo si è tramutato in un nodo ecclesiologico, acceso dalle diverse interpretazioni che fanno capo alle diverse scelte della teologia della liberazione. Si tratta di chiarire con maggiore precisione i contenuti della missione, il rapporto che c’è tra salvezza e liberazione, il valore evangelico di attività come la responsabilizzazione sociale e la costruzione terrestre. Le soluzioni offerte sembrano non accontentare nessuno con conflitti che a volte appaiono insanabili: da una parte c'è una Chiesa che, avendo emarginato il problema della sua identità a livello dell’eterno, si esaurisce nell'impegno sociale, dall’altra chi critica questo modello richiedendo un maggiore nutrimento a livello di spiritualità. I primi si appellano al Cristo solidale e liberatore, i secondi denunciano un adattamento all'opinione dominante. Così in un libro di Luigi Accattoli si può leggere: «Se dovessi scegliere tra una comunità cristiana che riduce tutta la sua attività comunitaria all'impegno per la giustizia e un’altra che lo trascura totalmente e si limita a predicare la risurrezione di Cristo e la fine del mondo, scegliere la seconda» (9).

Seguendo il principio guida di una Chiesa che non vive per sé ma per-gli-altri le cose non dovranno mai essere poste sul piano delle alternative: la responsabilità nei confronti della fede (l'amore per Dio) e sempre, nello stesso tempo, anche una responsabilità nei confronti del mondo (amore per il prossimo).

L'una si comprende nell'altra, ma si dovrà anche riconoscere il principio locale, dando alla situazione il diritto di pensare le priorità. La presenza di una duplice anima non dovrebbe nemmeno essere motivo di guerre ecclesiali: azione e contemplazione, impegno e preghiera si ispirano a due modelli teologici specifici, quello dell’incarnazione e quello dell’escatologia.

Un punto irrinunciabile sarà quello di uscire dalla spiritualizzazione del concetto di salvezza perché la missione conferisca piena dignità teologica a contenuti riguardanti la vita, la salute, la fraternità, la giustizia e la libertà. Ma anche la spinta escatologica verso il regno richiama la responsabilità nella costruzione di questo mondo: «Il cristiano è "collaboratore" per questo regno promessoci di pace e di giustizia universale (cf. 2Pt 3,13). L’ortodossia della sua fede deve sempre "avverarsi" nella ortoprassia della sua azione escatologicamente orientata, in quanto la verità promessa e una verità che deve essere "fatta"» (10).

Un elemento chiarificatore riguarda i destinatari. Se il regno viene come compimento e come speranza, allora il compito si rivolge di preferenza proprio a coloro che vivono l'incompiuto e che sono senza speranza, diventando sazietà per chi ha fame, consolazione per chi piange, liberazione per chi è oppresso, giustizia per chi è perseguitato (Lc 6,20-25). Per la Chiesa ciò vuol dire prendere posizioni concrete che devono condurla decisamente dalla parte dei poveri. Nei citati Orientamenti, i vescovi italiani scrivono; «Il cristianesimo non può accettare la logica del più forte, l'idea che la presenza di poveri, sfruttati e umiliati sia frutto dell'inesorabile fluire della storia: Gesù ha annunciato che saranno proprio i poveri a regnare, a precederei nel regno dei cieli. Sono essi i nostri "signori". Su questo punto il cristianesimo non può scendere affatto a compromessi: il povero, il viandante, lo straniero non sono cittadini qualunque per la Chiesa, proprio perché essa è mossa verso di loro dalla carità di Cristo e non da altre ragioni» (43).

La Chiesa non è spazio chiuso, non è luogo extraterritoriale, ma è nel mondo, vive del mondo. Esaurire il campo della sua responsabilità solo all’interno di attività propriamente sacrali significherebbe tradire il senso della missione. Anche questa è una linea ecclesiologica per il futuro. Lo Spirito spinge a farsi protagonisti della trasformazione del mondo perché questo si liberi dalla corruzione, dall'odio delle guerre e dall'ingiustizia, progredendo verso la maturità del regno di Dio che verrà per il dono di Cristo Salvatore. Ogni epoca ha i suoi testimoni, la nostra che è così sensibile alla storia ha bisogno di testimoni e di protagonisti concretamente impegnati nel campo di una salvezza intesa in senso integrale.

La soluzione di tutti questi nodi ecclesiologici è certamente in linea con lo spirito del concilio. Molti altri problemi potevano essere affrontati, primo fra tutti quello della comunicazione, da non intendersi solo sul piano etico-pastorale ma su quello ben più urgente di un certo modello di Chiesa. Occorreva però fare delle scelte e i temi elencati costituiscono certamente una sfida sufficientemente motivata per fondare gli sforzi di una Chiesa che intenda proiettarsi nel futuro.

Note

(1) K. RAHNER, Trasformazione strutturale della chiesa come compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973, 32.

(2) Y. CONGAR, Vrai et fausse rèforme, Cerf, Paris 1968, 16.

(3) Id., L’Avenir de l’Eglise, in L’Avenir. Atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, 212.

(4) Relatio finalis, II C, 1 (85), in Enchiridion Vaticanum, 9/1779-1818, EDB, Bologna 1987.

(5) K. RAHNER, Sollecitudine per la chiesa, in Nuovi saggi VIII, Paoline, Roma 1982, 391.

(6) J. M. TILLARD, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 201.

(7) Cf. Il Regno-documenti 19 (1994).

(8) L. SARTORI, Brevi note di bilancio prospettico, in Studi ecumenici XI (1993) 230.

(9) L. ACCATTOLI, La speranza di non morire, Paoline, Cinisello Balsamo 1992, 85.

(10) J. B. METZ, Sulla teologia del mondo, Queriniana, Brescia 1974, 89.

Venerdì, 05 Maggio 2006 00:47

I cristiani e la guerra (Massimo Toschi)

I cristiani e la guerra
di Massimo Toschi

In un tempo di grande stanchezza per la nostra chiesa e anche per la società, siamo chiamati a vivere il tema della fede come resistenza e della resistenza della fede. Questo ci costringe a guardare con coraggio dentro noi stessi, le nostre scelte, le nostre omissioni. Troppe volte abbiamo fatto passare come resistenza ciò che invece aveva il volto cinico di un adeguamento astuto al mondo. Basterebbe guardare al fatto che la profezia si è svuotata, nella chiesa, in proclamazione di astratti principi e che la dignità della politica si è frantumata in una logica di opportunismo e di piccola furbizia.

Attualizzazione di una pagina di Bonhoeffer

Scrivendo a dieci anni dall’avvento di Hitler in Germania, Bonhoeffer si pone il problema di chi resiste di fronte all’ostensione del male, nella sua abissale malvagità. Si cercherà di leggere questo testo, provando a farne un’attualizzazione rispetto alla situazione di oggi, con tutti i limiti di un’operazione di questo genere. In modo particolare prenderemo come riferimento le guerre di oggi, a partire dalla guerra del Kosovo. Questo testo, presente in Resistenza e resa, presenta una tipologia di coloro che pensano di resistere.

1. Bonhoeffer denuncia innanzitutto il fallimento degli "esseri razionali", di chi cioè crede che la ragione sia qualcosa al di sopra delle parti, capace di regolare e di trovare soluzioni adeguate al conflitto delle parti.

Sono coloro che quando il conflitto diventa supremo, non hanno più parole da dire né gesti da compiere, ma si arrendono, diventandone partecipi e giustificatori, ai meccanismi sottili della forza e del dominio. Sono gli illusi che pensano di contenere la guerra con la forza della ragione, e si trovano a predicare le ragioni della forza.

2. C’è poi il fallimento del "fanatismo etico". Sono coloro che si accontentano dell’astratta declamazione dei principi, dei loro principi, senza assumersi la fatica e la responsabilità di analizzare i reali meccanismi di violenza e di dominio. Essi non sanno guardare lontano, oltre le pareti della loro ideologia, non si piegano su chi si trova nella prova, ma si ritengono soddisfatti di comprimere il mondo nelle loro idee.

Sono inevitabilmente destinati a stare nel coro di chi canta le lodi dei più forti. Essi arrivano sempre dopo gli eventi e cercano di affermare ad alta voce le loro ideologie, nella convinzione che questo basti a cambiare il mondo.

3. C’è poi l’uomo di coscienza", che da solo pensa di combattere contro le contraddizioni e le complessità della storia. "S’accontenta di avere una coscienza salva, invece che una buona coscienza, finché non mente alla propria coscienza per sfuggire alla disperazione".

Sono coloro che non sanno misurarsi con la durezza della realtà, che arrivano a manipolare la realtà, per avere la coscienza tranquilla. Pur di custodire la coscienza, si preferisce credere a ciò che altri ci fanno credere. Basti ricordare, nel nostro paese, un certo solidarismo a buon mercato e consolatorio, che è stata l’altra faccia di una guerra fatta credere come umanitaria.

4. Viene poi indicata "la via del dovere": "Ciò che viene ordinato viene inteso come la cosa più certa; la responsabilità dell’ordine è di chi l’ha impartito, non di chi lo esegue. Ma attenendosi strettamente al dovere, non si giunge mai al rischio di agire sotto la propria responsabilità, che è la sola maniera di colpire in pieno il male e per superarlo".

È la via di chi nasconde le proprie responsabilità dietro al rispetto comodo e astuto delle alleanze e degli impegni presi, che usa dei conflitti e della guerra per accreditarsi come colui che è capace di rispondere agli obblighi dati. La tipicità di questo atteggiamento si trova in coloro che fanno dell’obbedienza alle alleanze il paravento dietro cui porre il loro opportunismo politico, che li esenta dalla fatica di trovare vie impervie e originali alla pace.

5. Ci sono poi coloro che si vogliono "sporcare le mani, per trovare una qualunque soluzione ai conflitti": "Chi è disposto a sacrificare lo sterile principio al compromesso fruttuoso, la sterile saggezza della moderazione al radicalismo fruttuoso, badi che la sua libertà non lo porti alla rovina. Egli accetterà il male per allontanare il peggio e non sarà più in grado di riconoscere che proprio il peggio, che egli vuole evitare, potrebbe essere il meglio. Qui sta la matrice originaria di tante tragedie".

Dietro questa descrizione stanno i difensori del minor male, che in questo modo hanno giustificato i mali peggiori. Sono i padri e i figli di una cultura di guerra, che pensano che la guerra sia l’unico strumento capace realisticamente di produrre la pace. E dunque hanno inventato degli aggettivi nobili per dare dignità di pace alla guerra: dalla guerra giusta alla guerra umanitaria. Volendo resistere alla guerra, ne hanno fatto l’unico strumento per realizzare la pace, rendendo così credibile ogni guerra, anche la più terribile.

6. C’è infine chi pretende di resistere "chiudendosi nello spazio della sua interiorità, lasciando che la storia prosegua il suo corso, con il risultato o di rimanere schiacciato sotto la responsabilità per quello che non fa e potrebbe fare o di assumere la logica del fariseo, che trova la sua autogiustificazione nelle sue leggi religiose".

Basti pensare all’uso che si è fatto delle infinite veglie di preghiera per la pace, all’uso civile di liturgie riparatrici quando c’è un grande lutto nel paese, quasi che si potesse usare la preghiera per coprire le nostre omissioni e le nostre responsabilità. La preghiera in queste situazioni sembra darci una coscienza tranquilla, che ci permette di riprendere il cammino senza che nulla cambi nella nostra vita, senza sentire la responsabilità di cambiare nel profondo la storia.

Il vero resistente

Il testo si conclude con una domanda: chi resiste? La risposta di Bonhoeffer è netta: "Soltanto colui che non ha come ultima istanza la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma è disposto a sacrificare tutto questo, quando viene chiamato a un’azione responsabile e obbediente, nella fede e in un vincolo esclusivo con Dio: il responsabile, la cui vita non vuole essere che una risposta all’interrogativo e alla chiamata divini".

Il vero resistente, allora, è colui che vive in modo radicale la chiamata di Dio e la sua obbedienza a lui. È proprio questa sottomissione assoluta alla signoria di Dio che genera una fecondità storica, che dona al credente di compiere azioni che operano nella storia secondo il realismo dell’Evangelo, non temendo l’opposizione del mondo.

Ma ci sono testimoni di questa resistenza? La domanda di Bonhoeffer rimbalza su di noi, senza offrire risposte consolatorie. Anzi la sua conclusione è ancora più drammatica: "Siamo stati testimoni muti di azioni malvagie, ci siamo lavati con molte acque, abbiamo imparato l’arte della mistificazione e del discorso ambiguo, l’esperienza ci ha resi diffidenti verso gli uomini e spesso abbiamo loro mancato nella verità e nella libera parola; conflitti insopportabili ci hanno reso arrendevoli e forse persino cinici. Serviamo ancora a qualcosa? Ci sarà rimasta tanta forza di resistenza interiore contro le situazioni imposteci, ci sarà rimasta tanta spietata sincerità verso noi stessi da poter ritrovare la strada della semplicità e della rettitudine?".

La fede come resistenza

Scrive Pietro: "Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà la grazia agli umili… Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi. E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo, egli stesso vi ristabilirà, dopo una breve sofferenza vi confermerà e vi renderà forti e saldi" (1 Pt 5,5-10).

La citazione tratta dal Libro dei Proverbi è ripresa anche da Giacomo, che la colloca in un passaggio che riguarda le cause della guerra e all’interno di un’alternativa secca: "Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio" (Gc 4,4).

Dunque c’è una prima resistenza ed è quella di Dio davanti ai superbi e i cristiani partecipano e sono chiamati a rendere visibile questa resistenza. Essa ha il suo centro nella passione del Signore: è in Gesù che Dio resiste ai superbi, è la croce il luogo di questa resistenza: "A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia" (1 Pt 2,21-23).

La resistenza di Gesù si manifesta nella perfetta obbedienza al Padre e al tempo stesso nella resistenza assoluta alla logica violenta della forza, in qualunque modo giustificata e legittimata. Proprio l’obbedienza al Padre chiede questo, proprio la comunione con il Padre genera questo.

Dio resiste ai superbi perché è il Dio della pace e dei poveri, il Dio crocifisso, che giudica i pensieri dei superbi e ne smaschera i mezzi violenti con la consegna del Figlio sulla croce. Dio resiste alla logica del mondo inaugurando con l’evento della croce il tempo del perdono, della condivisione, della pace.

Resistere è vivere la mitezza là dove la violenza è più grande; è testimoniare la pace al cuore dei conflitti, è stare nella casa dei poveri di fronte al dominio dei potenti. Questa è la via di Gesù, iniziata a Nazareth e compiuta sulla croce. Quando Pietro ci indica di seguire le orme di Gesù, indica esattamente questa strada: una strada a caro prezzo.

La resistenza dei credenti

I discepoli del Signore non hanno una loro resistenza da fare, ma partecipano e vivono dell’unica resistenza che Dio ha compiuto in Gesù di fronte al mondo e al suo principe.

Resistenza come sequela

Se la resistenza di Dio si compie in Gesù, la sequela indica per il credente la misura concreta della resistenza cristiana. Pietro indica in una condizione umiliata, nella vigilanza e nella sobrietà le caratteristiche della sequela, là dove Dio dona la grazia della resistenza nella fede. Tutto questo per discernere dove la mondanità e lo spirito del mondo prendono il sopravvento e cercano di catturare il cuore dei credenti, conformandoli al buon senso comune e a una riduzione etica della fede.

I giorni della guerra hanno mostrato un forte adeguamento dei credenti alla ragione politica, spesso giocata sulla menzogna e sulla manipolazione ideologica. Oppure hanno reso visibile un pacifismo ideologico del giorno dopo, che non cerca di prevenire le guerre e i conflitti, ma si contenta moralisticamente di condannarli, spesso con ambigue intenzioni.

Abbiamo percepito in questo tempo un’assenza di profezia e un’assenza di politica, segno concreto di un sale che perde il sapore, di una chiesa che non sa più riconoscere la sua casa tra i poveri e tra le vittime.

Siamo stati operatori di solidarietà, ma non di pace. La pace scandalosa dell’Evangelo è stata messa tra parentesi. È stata consegnata nella mani di generali e politici, con il risultato che ci è toccato di vedere degli agnelli diventati come lupi e dei lupi che pretendevano di apparire agnelli.

Non abbiamo seguito le orme di Gesù, ma quelle dei soldati e dei bombardieri. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è che hanno perso la fede e la politica, sono aumentate all’infinito le sofferenze dei poveri e delle vittime, è cresciuto l’odio, sono germogliati motivi per nuovi conflitti.

Resistenza come ascolto di Dio

La resistenza al mondo, ai superbi del mondo, è frutto dell’ascolto di Dio. È’ nell’ascolto del Signore che si genera la forza per resistere: "Il Signore Dio mi ha dato una lingua da iniziati, perché io sappia indirizzare allo sfiduciato una parola. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché lo ascolti come gli iniziati. Il Signore Dio mi assiste… per questo rendo la mia faccia dura come pietra" (Is 50,5-7).

È perché il servo ha ascoltato, che la sua faccia si è fatta dura di fronte ai violenti del mondo. È la sottomissione a Dio che rende possibile la resistenza di fronte ai potenti. Quando i cristiani si perdono in ragionamenti vuoti che servono a legittimare la guerra e la violenza, mostrano che non sono figli dell’ascolto di Dio, che non sono plasmati da questo ascolto, che preferiscono stare alla tavola dei potenti per elaborare nuove etiche che diano buona coscienza ai signori del mondo, piuttosto che essere incatenati nei pretori, solidali davvero con le vittime della terra. Si vuole essere interlocutori credibili, si cerca di esser efficaci, in realtà si rimane prigionieri nel coro di una cultura di guerra.

Resistenza come ascolto delle vittime

Alla fine di questo secolo, di cui la guerra è la cifra più profonda, possiamo dire che ogni guerra che in esso è avvenuta ha sempre trovato un cristiano pronto a difenderne le ragioni in nome di una astratta etica, che non è mai stato capace di guardare nel profondo il volto delle vittime. Basti pensare alla teoria degli "errori" durante la guerra nel Kosovo, che permetteva alla guerra "umanitaria" di mantenere la sua coerenza anche se si uccidevano civili inermi, che non avevano nessun legame con obiettivi militari, che avevano tutto il diritto di vivere e la cui uccisione è condannata da ogni diritto anche di guerra. Ma le vittime non hanno volto, non hanno nome. Nei filmati sono apparse sempre come una scomoda coreografia di una guerra capace di colpire obiettivi con la massima precisione. Quei filmati in realtà nascondevano tutta la tragedia degli inermi che morivano, delle sofferenze che si aprivano nella vita di molti.

Hanno cercato di spiegarci che tutto questo era, come si dice nella cultura della guerra, un male necessario, che per una pace giusta si dovevano sopportare anche questi errori e che anche i credenti dovevano riconoscere le ragioni di questa guerra. Qualcuno, molto autorevole, è arrivato a parlare dell’ingerenza umanitaria in Kosovo e dunque dell’azione della Nato come la realizzazione storica del "buon samaritano".

Ma i discepoli del Signore che si fa vittima sono chiamati ad ascoltare non le parole dei sapienti della guerra, ma il grido muto delle vittime: perché in quel grido c’è il grido del Signore sulla croce, là dove è vittima in mano di altri: "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio". Dio chiamerà suoi figli gli operatori di pace, perché ameranno i nemici e faranno la pace a misura del Figlio che si fa vittima, resistendo alla tentazione della violenza per sconfiggere il male alla radice, e inaugurando il tempo del perdono. Dio diventa vittima perché le vittime siano ascoltate; i cristiani riconoscono la via della pace secondo Dio e non secondo il mondo quando stanno dalla parte delle vittime, di tutte le vittime.

Resistenza come martyria

La resistenza cristiana ha il suo punto alto nella testimonianza del Vangelo fino alla consegna della vita. Oggi il martirio in molte parti del mondo è la misura di una resistenza cristiana che si affida alle armi del Signore: l’annuncio del Vangelo, la pace, la condivisione di vita e di destino con i poveri e con le vittime.

Da Romero ai sette monaci dell’Atlas, appare una nuova fecondità storica del Vangelo, che non si esprime in un progetto o in una ideologia, che non si affida ai mezzi forti del mondo, ma che si incarna nella vita e nella morte violenta di coloro che resistono alla logica del mondo non cercando un dominio religioso, ma consegnando la vita per tutti, in primo luogo per i nemici, come ha fatto il Signore.

Questa linea di resistenza così è presentata da mons. Claverie, vescovo martire di Orano, in una drammatica omelia in cui affronta il decisivo problema dei cristiani in Algeria, chiamati a scegliere se partire o restare: "È il momento di restare, anche in silenzio ed impotenti, al capezzale di coloro che amiamo: una semplice offerta di presenza, per stare vicini a chi soffre anche solo tenendolo per mano. Questo attesta la nostra volontà di amare gratuitamente… i calcoli troppo umani rischiano di pervertire il meccanismo interiore della missione cristiana: la chiesa non è nel mondo per conquistarlo e neppure per salvarsi, insieme ai suoi beni e al suo personale. Essa è, con Gesù, legata all’umanità sofferente".

Conclusioni

Quando si parla di resistenza cristiana, non si vuole dunque indicare un modo di difendere spazi di società o un progetto per influenzare l’economia e il governo del mondo, ma stili e di forme di presenza ecclesiale che, nella loro debolezza e fragilità, cercano solamente di resistere alla mondanità, nelle sue molteplici forme, con la forza inerme e creatrice del Vangelo.

Non c’è una dottrina della resistenza cristiana, ma ci sono cristiani che, per grazia di Dio, al cuore dei conflitti, là dove sistemi ingiusti pretendono di esercitare il loro dominio, resistono testimoniando che l’amore è più forte della morte: secondo il paradosso evangelico del seme che muore per produrre frutto, del farsi poveri per arricchire tutti, del diventare maledizione perché tutti siano benedetti, del dare la vita per i nemici, del perdonare fino a settanta volte sette. Quando questo accade, diventa visibile la resistenza di Dio nei confronti dei superbi.

Talora questi cristiani non sono riconosciuti dalle chiese, talora le chiese non cercano la sottomissione a Dio e la resistenza alla mondanità, ma al contrario si sottomettono alla mondanità e induriscono il loro cuore di fronte alla Parola di Dio; ma questo non può giustificare nessuno dal venir meno alla vocazione di una resistenza secondo lo Spirito, perché i poveri e le vittime, per continuare a sperare, domandano cristiani che cercano solamente il Regno di Dio e non si arrendono alle culture e ai poteri dominanti.

La democrazia, la giustizia sociale ed economica, l’identità culturale e l’ambiente diventano luoghi teologici nei quali esercitare la profezia della fede, il discernimento della resistenza cristiana. Non si tratta di costruire una nuova dottrina sociale cristiana, ma di generare credenti che nello Spirito sappiano leggere i segni dei tempi, rendano visibile la fecondità storica del cristianesimo secondo un’originalità mai definita una volta per tutte ma continuamente alimentata dall’azione della grazia, e per questo siano capaci di una testimonianza, coraggiosa ed efficace secondo il Vangelo, dell’amore di Dio e del più piccolo dei fratelli.

Non ricette etiche ma la via della testimonianza

Le parole di Bonhoeffer erano dette quando Hitler era vincente in Europa e nel mondo, ma hanno straordinario valore anche per noi, in un tempo in cui la chiesa in Occidente sembra indicare più la via delle ricette etiche che quella della bella testimonianza.

C’è una stanchezza dei credenti, che è figlia di un ruolo etico che la società sembra sempre più domandare, e di un riconoscimento dell’azione ecclesiale, a cui si chiede una legittimazione etica della politica. Il risultato è "lo svuotamento della parola della croce", è il venir meno della testimonianza coraggiosa dei credenti, che sempre più stanno nel coro.

Spesso le parole e i gesti delle chiese sulla guerra e sull’economia hanno più il sapore di vecchie e stanche dottrine, sia pure aggiornate, che l’assunzione davanti al Crocifisso dei drammi della storia. Volendo incidere sui grandi poteri e modificarne i comportamenti, si percorre la via dell’ideologia e non quella della profezia. Il risultato è l’elaborazione di una dottrina sociale, che ha la pretesa di umanizzare l’economia e la guerra, con l’effetto di giustificarne i meccanismi profondi.

La resistenza cristiana

La resistenza cristiana è una resistenza nella pazienza e nella mitezza, che ha il volto della condivisione della vita con chi soffre e con chi è vittima. Una condivisione che ha il prezzo più alto e rappresenta una perfetta assimilazione al mistero di Gesù, il testimone fedele.

P. Christian, priore di Tibhirine, pochi giorni prima del sequestro, indica le parole costitutive della resistenza cristiana: pazienza, povertà, presenza, preghiera, perdono. Così conclude: "Perdono è il primo nome di Dio nella litania dei 99 nomi, Ar Rahman, Ar Rahma. E la pazienza è l’ultimo nome dei 99, Es Sabour. Ma Dio è al tempo stesso povero. Dio è al tempo stesso presente, è al tempo stesso preghiera. Ecco la pace che Dio dona. Non è come la dona il mondo".

Queste parole sono l’ultima consegna di Christian prima del suo martirio e il martirio dà ad esse la parresia del Vangelo.

(da Missione Oggi, dicembre, 1999)

La fede, come riconoscimento dell'esistenza di un altro, passa dall'esperienza di una relazione-rivelazione dove l'affermazione di Dio come Creatore non è cronologicamente prima né esclusivamente cristiana.

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