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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

L’inesauribile creatività dello Spirito

Carismi antichi e nuovi per una Chiesa "bella”

di Fabio Ciardi


Dall’inizio del secolo scorso, ma soprattutto dopo il Concilio, hanno cominciato a sorgere nuove fondazioni con caratteristiche spesso completamente diverse da quelle tradizionali. Esse nascono da un comune vasto movimento di ritorno alle fonti (bibliche, liturgiche, patristiche, ecumeniche) e da esperienze di ecumenismo pratico.

«Lo Spirito, che in tempi diversi ha suscitato numerose forme di vita consacrata, non cessa di assistere la Chiesa, sia alimentando negli Istituti già esistenti l’impegno del rinnovamento nella fedeltà al carisma originario, sia distribuendo nuovi carismi a uomini e donne del nostro tempo, perché diano vita a istituzioni rispondenti alle sfide di oggi. Segno di questo intervento divino sono le cosiddette nuove Fondazioni, con caratteri in qualche modo originali rispetto a quelle tradizionali» (VC 62).

Nelle molteplici forme di vita evangelica nate lungo la storia della Chiesa lo Spirito sembra sbizzarrire la sua inesauribile creatività. Anche per i nostri tempi egli ci ha riservato nuove sorprese.

Le realtà del XX secolo

All’inizio del ‘900, a Vallendar in Germania, nasce l’Opera di Schönstatt, fondata da padre Kentenich per far presente in una società scristianizzata la vita evangelica secondo l’esempio di Maria, la prima cristiana. Nel 1921, la Legio Mariae, ispirata da un laico, Frank Duff, prende forma in Irlanda dilagando rapidamente nel mondo.

Le ceneri causate dalla seconda guerra mondiale si rivelano il suolo adatto sul quale fioriscono nuove spiritualità, come quella del Movimento dei Focolari che nel 1943 trascende il conflitto mondiale e le sue conseguenze per puntare sull’unità di tutti gli uomini. In Francia, le Equipes Notre-Dame, fin dal ‘39 offrono una spiritualità coniugale, una grande novità a quel tempo.

In Spagna nel 1949 l’esperienza dei Cursillos de cristiandad risveglia l’impegno cristiano attraverso un cammino comunitario. Agli anni ‘50, in Polonia, risalgono le origini del movimento Luce-Vita che supera il divieto fatto alla Chiesa di promuovere organizzazioni per la gioventù. In Ungheria, Regnurn Marianum aiuta la gente a sopravvivere alla violenza del sistema politico. In Italia, padre Lombardi fonda il Movimento per un Mondo Migliore. Contemporaneamente prende vita, con padre Rotondi, il Movimento Oasi per la formazione spirituale e apostolica.

Nell’ambiente universitario di Milano, nel 1954, il carismatico don Giussani è ispirato a dar vita a una iniziativa che sarà la matrice della futura Comunione e Liberazione. Durante il Concilio i Padri riconoscono che è avviata «una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici». Col passare del tempo i protagonisti in prima linea per attuare la nuova visione della Chiesa conciliare sarebbero stati i nuovi movimenti, che negli anni post-conciliari prendono sempre più vigore.

Nel 1964, in Spagna, il giovane laico Kiko Argüello insieme a una giovane ragazza, Carmen Hernàndez, inizia un’esperienza di pastorale nuova per le parrocchie: è il Cammino neo-catecumenale. Nello stesso anno, a Trosly, nel nord della Francia, il canadese Jean Vanier realizza la prima comunità deIl’Arche dove le persone handicappate mentali e altri condividono la vita pienamente, vivendo e lavorando insieme.

Nel 1967, il Movimento carismatico, un fenomeno già presente da vari secoli nelle Chiese protestanti, espIode nella Chiesa cattolica negli Stati Uniti. Oggi tocca la vita di oltre 80 milioni di cattolici in tutto il mondo. Nel contesto delle rivolte studentesche del ‘68, germogliano i primi semi della Comunità di Sant’Egidio: leggendo il Vangelo, Andrea Riccardi e i suoi amici si sentono chiamati a vivere la Chiesa là dove c’è la violenza, l’emarginazione e la povertà.

Con l’avvento del sinodo sui laici del 1987, la Chiesa prende atto delle dimensioni mondiali e interculturali dei movimenti. Giovanni Paolo Il porta oltre 60 movimenti a celebrare la Pentecoste del 1998 insieme a lui, in un fine secolo testimonianza dell’unità nella diversità e nella ricchezza di carismi che lo Spirito Santo elargisce nella Chiesa alle soglie del terzo millennio. «Voi qui presenti siete la prova tangibile di questa effusione dello Spirito».

Le nuove forme

Assieme ai movimenti ecclesiali (quando non addirittura in seno agli stessi movimenti) fioriscono “nuove forme di vita consacrata” e “nuove comunità”. Possiamo ricordare la Tenda del Magnificat, la comunità Nôtre-Dame de l’Alliance, la Communauté de l’Emmanuel, la Fraternité de la Résurrection, la comunità Pain de Vie, la Comunità missionaria di Villaregia...

«L’originalità, delle nuove comunità», leggiamo in Vita consecrata 62, «consiste spesso nel fatto che si tratta di gruppi composti da uomini e donne, da chierici e laici, da coniugati e celibi, che seguono un particolare stile di vita, talvolta ispirato all’una o all’altra forma tradizionale o adattato alle esigenze della società di oggi».

Le caratteristiche di queste nuove esperienze di vita evangelica sono: una forte insistenza sulla vita comunitaria; l’ospitalità e l’accoglienza di quanti vogliono condividere la gioia della vita comune, della preghiera, del servizio; l’ecumenismo inteso come apertura alla grande tradizione cristiana così come viene espressa dalle differenti Chiese; la composizione mista di uomini e donne, che spesso comprende anche gli sposati con l’intera famiglia; la riscoperta dei valori della gioia e dell’amicizia.

Un tipo particolare di “nuove comunità” è quello di indole monastica. Pur scegliendo di appartenere all’ordo monasticus tradizionale, esse intendono realizzare un monachesimo nella Chiesa locale, senza alcuna esenzione canonica dall’autorità episcopale. Basterà accennare alla Comunità di Bose, che è diventata luogo di ispirazione per altre analoghe comunità, alla Comunità di Monteveglio, alla Comunità monastica di Gerusalemme...

Tra le caratteristiche di questo “nuovo monachesimo”, il forte ancoraggio alla Scrittura, il riferimento alle molteplici tradizioni monastiche antiche, comprese quelle orientali, una liturgia comprensibile a tutti, la sobrietà e la semplicità dello stile di vita, l’affiato ecumenico, l’accoglienza e la condivisione della vita con gli ospiti, la riscoperta della laicità e del lavoro...

Il grande “movimento”

Per capire le nuove forme di vita carismatica, evangelica e di consacrazione presenti oggi nella Chiesa occorre tuttavia tenere presente il più ampio ambiente ecclesiale in cui esse sono maturate e la sensibilità nuova venutasi a creare. Esse nascono infatti da un comune vasto “movimento” di ritorno alle fonti (movimento biblico, liturgico, patristico, ecumenico...) e di apertura al mondo contemporaneo che lo Spirito Santo ha impresso a tutta la Chiesa del nostro tempo. Esse sono il frutto di una nuova spiritualità, non più di minoranze, quasi elitistica (legata a ordini e congregazioni religiose) ma aperta a tutti (vocazione universale alla santità); una spiritualità comunitaria ed ecclesiale, subentrata a una spiritualità coltivata in funzione della propria relazione personale con Dio; una spiritualità della vita e dell’impegno nel mondo e nella storia come luogo della presenza e dell’amore di Dio.

Da qui derivano gli aspetti che caratterizzano le nuove esperienze ecclesiali, i movimenti in modo particolare:

1 - La laicità. Anche se nel loro seno vi sono persone consacrate, la maggior parte dei membri dei movimenti sono laici. Viene messa in evidenza soprattutto la consacrazione battesimale e il sacerdozio comune. Si è parlato in proposito di una “Pentecoste laica”.

2 - Nello stesso tempo si presentano come luogo d’incontro e di comunione tra tutte le vocazioni della Chiesa, quasi a ricreare un bozzetto di Chiesa. In esso convergono, almeno potenzialmente quando non praticamente, tutte le vocazioni del popolo di Dio.

3 - La varietà di vocazioni implica - ed è un’altra caratteristica - l’elasticità e la varietà nelle forme di appartenenza e di impegno. Essa è richiesta anche dalla grande diversità di situazioni in cui vivono i fedeli laici e in cui continuano a vivere quando aderiscono al movimento.

4 - La partecipazione attiva alla missione della Chiesa, sgorgante dalla vocazione battesimale, è riscoperta nella sua specificità: portare lo Spirito di Cristo in tutte le realtà sociali, politiche, economiche, culturali, una missione aperta a innumerevoli iniziative personali e comunitarie.

5 - La novità portata dai movimenti è infine data da una profonda carica spirituale, evangelica, comunionale che fa rivivere gli elementi della vita cristiana con insolita genuinità, freschezza e semplicità.

Siamo nell’alveo della grande tradizione della Chiesa, che ha visto sorgere nel suo seno sempre nuovi “movimenti” di spiritualità, di pensiero, di azione («La Chiesa stessa è un movimento», ha detto Giovanni Paolo Il). Nel medesimo tempo siamo davanti a qualcosa di nuovo, della novità dello Spirito. Carismi antichi e carismi nuovi chiamati a una comunione sempre più profonda perché la Chiesa possa splendere in tutta la sua bellezza e compiere la sua missione sacramentale di unità degli uomini tra loro e con Dio.

(da Vita Pastorale, aprile 2006)

Bibliografia

AA. VV., Movimenti ecclesiali contemporanei. Dimensioni storiche, teologico spirituali ed apostoliche, a cura di Favale A., LAS 1991, Roma; I movimenti nella Chiesa. Atti del Congresso mondiale dei movimenti ecclesiali. Roma 27-29 maggio 1998, “Laici oggi” 1999; Castellano J., Carismi per il terzo millennio. I movimenti ecclesiali e le nuove comunità, Edizioni OCD 2001, Roma; Torcivia M., Guida alle nuove comunità monastiche italiane, Piemme 2001, Casale Monferrato; Favale A., Comunità nuove nella Chiesa, Messaggero 2003, Padova.

di Antonio Gentili

Dobbiamo renderci conto che nel cuore dell’uomo vive Dio. Non abbiamo dunque che da riconoscere e coltivare questa presenza, immanente e trascendente a un tempo.

I veri e più pericolosi ostacoli

Benedettine di S. Maria di Rosano

“È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo” (Mt 18,7).

Il prolungato discorso di Gesù riguardo all'accoglienza dei bambini, con l'esortazione ad acquistare il loro spirito di semplicità e d'innocenza per entrare nel regno dei cieli, prosegue severo sfociando su un tema particolarmente grave e purtroppo oggi più che mai attuale: lo scandalo.

La parola del Signore risuona con piena autorità, ma non nasconde l'accorata, profonda apprensione del Maestro, che sembra avvertire e prevedere il ripetersi senza fine, nella storia umana, di situazioni incresciose e spesso irreparabili, che, invece di favorire e sostenere la crescita della famiglia di Dio, creano difficoltà, fomentano angosce, dividono i cuori, disgregano le piccole e grandi comunità.

Scandalo equivale ad un pericolo, ad un ostacolo frapposto lungo il cammino dei fratelli e questo troppe volte per soddisfare il proprio piacere e soprattutto il proprio egoismo.

Il castigo stesso che Gesù propone per l'autore di uno scandalo – “Sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare" (Mt 18,6) non lascia dubbi sull'immane colpevolezza di chi osasse essere di scandalo ed esserlo soprattutto nei confronti di chi non ha sufficiente luce per intuire il male e la forza per superarlo. Infatti, un ostacolo diviene tanto più pericoloso se chi lo incontra è in condizione di limitate possibilità fisiche o morali per affrontarlo.

San Beda, volendo restare aderente al contesto del discorso di Gesù, sottolinea proprio questo aspetto e, dopo aver notato che l'avvertimento del Signore può riguardare tutti coloro che scandalizzano qualcuno, non esita a ritenere che tali parole possano essere state dette contro gli stessi apostoli, i quali discutendo tra loro su chi fosse il più grande, sembravano litigare per una questione di primato. "Se avessero insistito in questo errore, dice il santo, avrebbero potuto dare scandalo e perdere coloro che essi conducevano alla fede, poiché questi avrebbero visto gli apostoli troppo spesso in litigio per questioni di primato".

Poi il grande monaco offre anche una splendida precisazione, affermando che giustamente viene chiamato “piccolo" chi non può e non sa rifiutare e affrontare lo scandalo: “Chi è grande non viene mai meno nella fede, qualunque cosa abbia visto e qualunque violenza abbia subito. Per questo dobbiamo soprattutto aiutare coloro che sono piccoli nella fede, affinché non rimangano offesi per colpa nostra, non si allontanino dalla fede e non smarriscano così la salvezza". San Beda avverte in modo acutissimo l'incidenza, positiva o negativa, dell'esempio che spesso si dà a chi vive accanto a noi. La vita comunitaria è una scuola specializzata per affinare gli animi alle delicatezze, alla sollecitudine della carità, fino a prevenire ogni motivo di disagio ed a gareggiare nel rendersi onore, realtà di cui il capitolo 72 della Regola di S. Benedetto può considerarsi lo specchio luminoso.

Il Crisostomo invece, più che sul male fatto, porta la riflessione sullo squili­brio interiore che si crea in chi dà scandalo e provoca turbamenti o disagi nelle comuni relazioni. Egli cerca di convincere questo malato che può guarire, anche se. come afferma il Signore stesso, è inevitabile che gli scandali avvengano. 'E come se un medico dicesse: È inevitabile che tu sia colpito da questa malattia,ma non è affatto inevitabile che tu muoia, se ti curi'. Gli scandali risvegliano gli uomini, li rendono più circospetti e vigilanti, e non solo servono a chi vegli dili­gentemente su se stesso, ma anche a colui che è già caduto, in quanto lo spingono a rialzarsi prontamente, lo rendono più cauto e più difficilmente attaccabile". Nello stesso commento insiste: "Non darti pena di sapere e discutere qual è l'origine del male, ma, riconoscendo che proviene solo dalla tua negligenza, evitalo e fuggilo".

Riflettendo sull'amarissima parola del Signore, che sembra agghiacciare i no­stri cuori, poveri ma desiderosi di bontà, il grande vescovo aggiunge: "Il Maestro preannunzia che gli scandali purtroppo avverranno inevitabilmente, affinché non sorprendano nessun uomo tiepido e negligente. E accresce il nostro timore con l'aggiunta di paragoni e indica la via per cui possiamo fuggire gli scandali. Che via, che modo? Tronca ogni amicizia con i malvagi, anche se ti sono molto cari. Se noi spesso tagliamo le nostre membra quando sono ammalate incurabilmente e potrebbero recare danno anche alle altre, tanto più dovremmo fare ciò con gli amici, se essi ci corrompono".

(da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005, pp.98-99)
Sabato, 07 Giugno 2008 02:05

Chiamata dei dodici (Giovanni Vannucci)

Chiamata dei dodici

di Giovanni Vannucci



I dodici prescelti erano destinati ad apprendere direttamente dal Maestro l’insegnamento essenziale di una verità destinata a rinnovare il mondo.

Il primo di loro fu Simone, che Cristo chiamerà Cefa, Pietra. Pescatore dal cuore generoso e forte, guidato più dal sentimento impetuoso che dalla lucida ragione.

Di Andrea, suo fratello, sappiamo molto dalle leggende che si sono formate attorno al suo nome, ma la Scrittura non dice niente.

Giacomo, il fratello di Giovanni, è menzionato nei Vangeli, insieme a Pietro e Giovanni, come testimone della risurrezione della figlia di Giairo, della trasfigurazione e dell’agonia nel Giardino del Getsemani (Mc 5,37; 9,2; 14,33). Chiamato insieme a Giovanni col soprannome di Boanerges, figlio del tuono, forse per il carattere impetuoso e ardente. Negli Atti è ricordato il suo martirio per opera di Erode Agrippa, probabilmente l’anno 42 d.C. (At 12,2). Una tradizione che rimonta al secolo VII d.C. afferma che l’Apostolo annunciò il Vangelo in Spagna; il suo corpo sarebbe sepolto a Compostella.

Giovanni, il discepolo prediletto, colse l’aspetto segreto del Maestro che seguì con mente aperta e avida, con cuore fermo e fedele. È l’unico discepolo che seguì Cristo sul Calvario.

Filippo, folgorato dalla grazia (Gv 1,43), nell’Ultima Cena chiede a Cristo: «Signore, mostraci il Padre, e non avremo bisogno di altro» (Gv 14,8).

Bartolomeo è nelle liste dei dodici dei primi tre Vangeli; di lui nulla sappiamo. La tradizione posteriore del quarto secolo lo presenta come annunciatore del Vangelo in varie regioni dell’Asia minore; sarebbe morto martire nell’Armenia, scorticato vivo.

Tommaso lotterà tutta la lunga notte della vita con l’angelo del dubbio e ne meriterà all’alba la benedizione. Il suo compito fu di essere il documentatore della Risurrezione del Maestro, tanto più convinto quanto più restio a lasciarsi convincere (Gv 20,24-28).

Matteo, l’obbediente che abbandona i suoi traffici per seguire il Maestro (Mt 9, 9).

Giacomo figlio d’Alfeo, chiamato Giacomo il Minore, preposto alla Chiesa di Gerusalemme, fu sottoposto al martirio nell’anno 62 d.C. dalle autorità di Gerusalemme. A lui è attribuita la Lettera che porta il suo nome.

Taddeo, chiamato anche Giuda e Lebbeo, designato anche come fratello del Signore (Mt 13,55), e fratello di Giacomo il Minore (Lc 6,16). Alla Cena chiese a Gesù: «Signore, come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?». Il Maestro rispose: «Se uno mi ama, custodisce la mia parola, e il Padre mio l’amerà e verremo a lui e in lui dimoreremo» (Gv 14,22-23). A lui è attribuita l’ultima delle lettere cattoliche.

Simone il Cananeo, che vien tradotto «lo zelante».

Giuda, il più tragico di tutti gli Apostoli; il suo destino fu di consegnare il Maestro nelle mani dei suoi carnefici.

Ai dodici Gesù dà due direttive: «Non andate fra i Gentili e non entrate in nessuna città dei Samaritani» (Mt 10,5). Gli Apostoli, uomini di limitata cultura, non ancora saldi nell’assoluto della fede, sarebbero stati facilmente sconfitti nelle dispute che avrebbero incontrato presso gli abitanti di quelle terre. «Andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Annunciate che il Regno dei cieli è vicino. Sanate chi è ammalato, richiamate alla vita i morti, allontanate i demoni. Tutto ciò l’avete ricevuto in dono, datelo anche voi in dono» (Mt 10,6-8).

Indubbiamente Gesù ha dato qualcosa di suo ai dodici. Le forze che ha risvegliato in ciascuno di loro sono forze dell’anima, che Lui ha risvegliato con lo stesso suo potere, e che per giungere all’effettuazione richiedono uno stato di tensione continua, di vibrazione appassionata; per questo invia i dodici ai poveri, agli emarginati, a coloro che, non aspettando più nulla, sono pronti ad accogliere il miracoloso annunzio della venuta del Regno. Nelle classi ricche e colte, fra gente raffinata e istruita avrebbero risvegliato una curiosità più o meno benevola, ma nelle classi infime, fra i diseredati avrebbero risvegliato una sopita speranza di salvezza, di miracolo. Chi più degli smarriti, degli emarginati da Israele era pronto ad accogliere la novità della predicazione evangelica? Il potere ricevuto di compiere delle guarigioni, di liberare gli ossessi, di ridare fiducia ai peccatori, vien dato ai dodici, perché offrendolo alla povera gente, questa ritrovasse la fede, la fiducia, l’intensificazione della vita. «Questo potere l’avete ricevuto in dono, come dono non vostro offritelo. Non portate provvisioni di oro, d’argento, di rame nelle vostre cinture, né sacca per il viaggio, né due tuniche, ne calzari o bastoni da viaggio» (Mt 10,8-10).

«Chiamata dei Dodici», XIa domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, ed. CENS, Milano 1984, pp. 120-122.

GIM Pesaro

«Il Vangelo di Giovanni è molto chiaro: il sogno di Dio è quello di formare casa dentro la storia e Dio condivide il suo sogno in noi. La storia si trasfigura se noi facciamo gesti di familiarità e di casa come il perdono che può fermare il male».

Non ha dubbi Antonietta Potente: la sua affermazione suona così semplice eppure così straordinaria. È nata in Liguria nel 1958, ha vissuto gli anni della politica durante gli studi superiori, poi ha deciso repentinamente di entrare nell’unione delle suore Domenicane San Tommaso d’Aquino.

Ecumenismo pastorale

Un terreno d'incontro
su Bibbia e matrimonio

di Valdo Bertalot *

 

Le discussioni cattedratiche sull’ecumenismo sono e restano teoria, se non si calano nella realtà di tutti i giorni. Così è avvenuto in primo luogo a proposito della collaborazione nella traduzione e diffusione della Bibbia e poi per quanto riguarda a dichiarazione comune tra Chiesa cattolica, Valdesi e Metodisti circa il problema dei “matrimoni misti”.

Se oggi la Bibbia è considerata il testo ecumenico per eccellenza, nel secondo millennio ha rappresentato, soprattutto dal 1500, un elemento di divisione fra le Chiese per quanto riguarda il suo ruolo nelle Chiese stesse e nella testimonianza cristiana da rendere al mondo. Essa è divenuta parte dell’affermazione dell’identità confessionale, come per esempio nelle espressioni “Sola Scriptura”, “Bibbia e Magistero”. Ma nel XIX e XX secolo essa ha posto le basi del dialogo fra le Chiese, contribuendovi enormemente. Infatti, se molti affermano che il XX secolo è il secolo della Chiesa o meglio dell’ecumenismo, ciò è vero perché il XIX secolo è stato soprattutto il secolo della Bibbia.

Nel XIX secolo assistiamo a un profondo rinnovamento degli studi biblici, proseguito e sviluppatosi ulteriormente nel XX, che ha rivoluzionato il nostro approccio ai testi. La ricerca e l’applicazione di nuovi metodi di analisi letteraria, l’affermazione di nuove scienze come l’archeologia del Vicino Oriente antico e la linguistica hanno contribuito a delineare molto più precisamente il contesto storico, geografico e culturale della Bibbia. Tale impegno di ricerca ha visto progressivamente prima il convergere e poi la reciproca comunicazione e collaborazione da parte di studiosi appartenenti alle diverse confessioni cristiane. Dunque nel XIX secolo sono state poste storicamente le premesse per un incontro comune intorno allo studio della Bibbia: essa non era più solo un elemento di divisione, ma diveniva oggetto di una ricerca “scientifica” possibilmente condivisibile.

Nell’intervista a Brunetto Salvarani, Direttore del CEM, ripercorriamo le tappe della nascita e dello sviluppo di questo centro che, da 40 anni, opera per la formazione di una nuova mentalità basata sui valori dell’interculturalità, fondamentali per un sano sviluppo della società multietnica di oggi.

Il dualismo tra corpo e anima,
peccato del cristianesimo

di Wanda Deifelt

Il parlare di Dio, o teologia, avviene a partire dall'esperienza. La teologia femminista ha da molto tempo posto l'accento sul fatto che possiamo parlare della divinità solo a partire dall'esperienza, così come questa si relaziona alla condizione umana e alla sua finitezza, ai suoi aneliti e alle sue speranze (...).

Il XX secolo ha presentato nuove sfide e possibilità a questo parlare di Dio che, in gran misura, differisce dalla descrizione tradizionale di ciò che significa fare teologia. La sfida - venuta specialmente dalle teologie della liberazione, nera, femminista, womanist (la teologia femminista nera, ndt), mujerista (la teologia femminista delle ispaniche negli Stati Uniti, ndt), dalit, mimjung (teologia coreana, ndt) e indigena - può essere riassunta come una messa in discussione del modello universale di rivelazione implicito nel parlare di Dio a partire dal cristianesimo (...).

Il parlare di Dio

Poiché il nostro parlare di Dio può avvenire solo attraverso i limiti del nostro linguaggio, che è impregnato dalla nostra cultura, nessuna teologia riesce ad abbracciare la totalità della rivelazione divina. Teologi e teologhe hanno persino proposto di non parlare di teologia, ma di teo-antropologia, dal momento che il parlare di Dio può avvenire solo nel parlare umano.

La teologa Sallie McFague, nel suo lavoro pioniere, ha mostrato che Dio può essere descritto solo attraverso un linguaggio metaforico. Il linguaggio umano non riuscirà mai a descrivere la divinità nella sua totalità perché nessuna esperienza umana riesce a incapsularla. La nostra percezione è sempre parziale e così è anche il nostro linguaggio: parziale. (...)

I limiti del parlare umano

Per parlare della divinità, il parlare umano ha bisogno di riconoscere che vi sono limiti e possibilità. È impossibile ignorare i nostri limiti e fingere di riuscire a comprendere e a proclamare il messaggio riguardo al divino nella sua totalità. Questa arroganza umana, quando è associata a potere e ad autorità, può essere tradotta come peccato. Essa riduce il parlare di Dio a un'unica cosmovisione, escludendo tutte le altre in nome di un assoluto. È il peccato di universalizzare un'esperienza rendendola normativa. È ridurre l'infinito al finito. Teologhe womanist, mujeristas e femministe, così come i teologi della liberazione, denunciano da molto tempo i pericoli dell'universalizzazione perché questa rafforza un discorso normativo e limitato, perpetuando relazioni di potere asimmetriche. La riduzione del divino a una metafora, a un unico nome, è idolatria. Un linguaggio razzista, classista,sessista e omofobico ripete un ordine mondiale in cui ideologie razziste, sessiste, classiste e omofobiche sono divinamente sanzionate. Non solo la divinità è ridotta a una visione del mondo particolare. Ma, ancora più pericoloso, questo particolare è visto come l'unica manifestazione divina. Accentua una e nega le altre. È evidente il ruolo che contesto e cultura svolgono nella creazione e manutenzione delle metafore. Analizziamo la traiettoria di una metafora in particolare: Dio come padre. È una metafora biblica, legittima, impiegata da Gesù (...).

Il numero di volte in cui questa metafora appare in ogni vangelo mostra l'influenza del contesto sociale e come questa metafora si è andata assolutizzando. Dio è chiamato padre solamente 4 volte nel vangelo più antico, in Marco. In Luca appare 15 volte e 42 volte in Matteo. Nel vangelo più recente, quello di Giovanni, già appare 109 volte. Quello che è in gioco non è la legittimità di questa metafora come uno dei molteplici modi di parlare di Dio.. Quello che va messo in discussione è, in primo luogo, la sua assolutizzazione. In secondo luogo, l'uso della metafora per perpetuare il patriarcato. Siamo arrivati al punto che oggi causa furore l'impiego di qualunque metafora femminile per riferirci a Dio. Si può chiamare Dio roccia, ma è considerato offensivo chiamare Dio madre (...).

Le possibilità del parlare umano

(...) Il linguaggio di Dio è parlato in molti dialetti. Il cristianesimo, in particolare, non sempre ha festeggiato la ricchezza esistente in questi dialetti. Al contrario, li ha percepiti come minacce e tentativi di delegittimare la purezza della dottrina. Purtroppo, una pratica comune nel modello della Cristianità è stato di adattare la rivelazione divina dell"'Io sono Colui che è" al prototipo del "tu sei chi sono io". In questa pratica colonialista c'è una completa inversione del modello che celebra la diversità e abbraccia i dialetti. Questo modello ha accentuato l'omogeneità. L'identicità ha portato al conformismo e alla passività. Il modello dell'uniformità afferma che è necessario istituire gerarchie per supervisionare la purezza della dottrina. In nome della verità, la gerarchia cessa di vedere le molteplici manifestazioni del divino, i modi sorprendenti in cui Dio interviene nella storia e rivela il suo amore per l'umanità. Ironicamente, diventa idolatra.

Il gioco tra contesto sociale, linguaggio e immagine di Dio avviene in tensione creativa. Fa uso di un linguaggio metaforico che lotta con la necessità di parlare del divino e l'incapacità di farlo. Si vive un'esperienza di già e non ancora. Io posso parlare di Dio solo in un linguaggio che è familiare, relazionale e culturalmente localizzato. Ma tento di superare i limiti della mia propria esperienza e del mio proprio linguaggio proprio attraverso l'incontro con gli altri e le altre. Questa alterità è l'alterità divina, ma è anche l'alterità celebrata nell’incontro quotidiano con altri esseri umani e con il nostro ambiente. La Teologia della Liberazione ha insistito sul fatto che possiamo parlare di Dio solo a partire dall'esperienza della solidarietà divina con l'umanità, del Dio che si rivela nel linguaggio della gente semplice. La teologia femminista aggiunge che possiamo parlare di Dio solo come lo ha fatto Gesù, attraverso parabole (...).

Il linguaggio dei corpi

In America Latina, nella teologia femminista, il corpo umano è diventato un modo parabolico per parlare di Dio (...). Tre storie, presentate qui di seguito, ci aiutano a intendere la concretezza quotidiana dei corpi ed esemplificano la nozione di corporeità difesa dalla teologia femminista (...).

Leonildo, un agricoltore del Movimento dei Senza Terra in Viamao, Rs, si pone a fianco del suo campo di riso e dice: "tutto quello che c'è qui siamo stati noi a piantarlo". La sua voce denuncia l'emozione di produrre l'alimento con le sue stesse mani, usando le risorse di cui la comunità dispone, nella terra che ha conquistato. I giorni passati negli accampamenti lungo la strada, nelle baracche coperte di teli di plastica neri, fanno parte del passato. Ma c'è solidarietà con le migliaia di uomini, donne e bambini che ancora non hanno terra e soffrono la violenza della fame, dell'esclusione sociale e delle aggressioni armate. Una parte del riso prodotto va ad aiutate altre famiglie che sono ancora accampate.

La lotta per la terra in Brasile è un esempio storico della vulnerabilità delle persone semplici. I conflitti agrari hanno provocato migliaia di morti. Sono i corpi dell'agricoltura, dell'agricoltore e del bambino che vivono nei campi - soggetti a una violenza continua, al pericolo di essere assassinati da pistoleiros assoldati e alla mercé del lavoro infantile - che diventano parabola per la teologia femminista. Non è il corpo idealizzato, ma il corpo concreto: maltrattato dalla fame, dall'eccesso di lavoro, dalla lotta per la dignità. È anche il corpo che celebra le piccole conquiste. Questo corpo è parabola per parlare della rivelazione divina: Dio in mezzo a noi. (...) Affermare che Dio è in mezzo a noi è celebrare l'incarnazione. La divinità si fa umana, prende corpo, per annunciare speranza e resurrezione. La divinità opta per la vulnerabilità. Dio stesso si fa bambino vulnerabile per vivere tra di noi. I corpi vulnerabili diventano il verbo della manifestazione divina.

Quando Daniela parla del suo lavoro di educazione popolare presso la comunità quilombola le brillano gli occhi. È afrodiscendente e si è legata a questa comunità all'interno di Sào Lourenco do Sul, Rs. Quilombolas sono schiavi e schiave che sono fuggiti dai loro padroni (al tempo della schiavitù) e hanno dato vita a una comunità libera. La comunità vive quasi isolata e il riscatto di storie, musiche, danze e spiritualità è diventato una passione per Daniela. Insegnare a giovani e a bambini a danzare la capoeira è riscattare la loro cultura, la loro dignità e il loro valore. Rivendicare se stessa come donna nera e provare orgoglio per il colore della pelle significa delegittimare secoli di ideologia razzista. Per Daniela è una gioia che non può essere trattenuta dentro di sé, ma deve essere celebrata nella comunità. Il corpo come parabola non si restringe al corpo individuale. C'è una collettività, la comunità, il senso di appartenenza che permea le reazioni umane. La comunità quilombola è una parabola per questo corpo sociale. (...) Ma il caso di Daniela mostra anche il limite della parabola: anche il corpo sociale ha bisogno di critica, di decostruzione. Così come la comunità si trova geograficamente isolata, anche lei è isolata dall'immaginario socio-culturale e religioso del suo ambiente circostante. La sua esperienza di lotta non è valorizzata dalla comunità più ampia fino a quando lei stessa non la valorizzi. (...).

Nella fabbrica di riciclaggio di rifiuti, in Gravataì, Rs, Nilda racconta che, prima di avere un padiglione per separare i rifiuti, cercava materiale nella discarica. Il camion scaricava la spazzatura e lei, insieme ad altre persone, controllava quello che lì veniva gettato. La necessità di sopravvivere - di trovare carta, plastica, vetro e metallo da vendere - l'obbligava a contendere i rifiuti a topi e mosche. Il Movimento nazionale di raccoglitori di rifiuti l'ha aiutata ad assicurare la propria sopravvivenza, con dignità. "Prima vivevo in mezzo alla spazzatura e mi sentivo come la spazzatura della società. Ora lavoro qui, insieme ad altre donne. Questo ha dato coraggio a tutte noi".

La degradazione di corpi, ridotti ad oggetti, nega la sacralità della vita e della creazione. Che un essere umano possa sentirsi come rifiuto della società mostra l'urgenza di affermare la dignità dei corpi vulnerabili. E mette anche seriamente in discussione il modo in cui il cristianesimo ha trattato il corpo umano (...)

Il corpo come parabola della divinità

(...) Il lavoro di teologhe femministe come Rosemary Ruether ci aiuta a intendere che la creazione è una manifestazione della divinità. L'ecofemminismo enfatizza l'interconnessione della parte con il tutto e l'interdipendenza che questo comporta. Il divino ci è noto come creatore, un Dio il cui potere e la cui dinamicità si manifestano in una continua creazione e ricreazione.

(...) Il cristianesimo ha bisogno di riconoscere il ruolo catastrofico che gioca nella nostra cultura e società, alimentando un dualismo tra natura e cultura, mondo materiale e spirituale, individuo e comunità, corpo e anima. (...) Queste dicotomie non solo rafforzano le gerarchie ma impediscono un approccio integrale. La saggezza degli agricoltori - i quali sanno che, se non ci prendiamo cura della terra, la prossima generazione non sopravvivrà - non ha un posto in una economia globalizzata e neoliberista che ha occhi solo per l'individuo, i suoi interessi immediati e il profitto di un gruppo di persone facoltose. La coscienza ecologica dell'interdipendenza si estende anche ad altri esseri umani. Se la creazione è il corpo di Dio, il corpo sociale è quello in cui viviamo questo amore in atti concreti di giustizia e riconciliazione. Dio ha creato l'uomo e la donna a sua immagine. Questo ha stabilito un modello di relazione che non sempre viene considerato. Affermare che gli esseri umani sono creati a immagine di Dio è trattare un altro essere umano con la stessa riverenza che in un incontro con la divinità, i nostri incontri con gli altri esseri umani sono ben lontani da questo. Non solo non trattiamo l'altro e l'altra con lo stesso rispetto e la stessa dignità che riserviamo all'incontro con il divino, ma ci comportiamo con indifferenza, mancanza di rispetto e molte volte in maniera da umiliare l'altro. Trattiamo altri corpi come spazzatura. (...).

L'offerta divina della vita si estende alla totalità della creazione e non solo a un segmento, quello degli esseri umani. Il divino si rivela nella creazione e la creazione ha bisogno di attenzioni. Come esseri umani, siamo i custodì responsabili della nostra dimora, il nostro oikos (...).

Un linguaggio della corporeità ci porta al qui e ora ed esige una migliore attenzione al presente. Usare il corpo come metafora, come parabola per parlare della divinità, richiede che la teologia si preoccupi non solo della salvezza, ma anche del benessere dei corpi (...)

(da Adista, n. 22, 19.03.2005, pp.10-12)

Anche Ninive è la città
in cui Dio prende dimora

di Pierangelo Sequeri

Per trovarsi nel punto d’incontro fra il cristianesimo e la città, bisogna anzitutto sentirsi concittadini, nella città dell’’uomo. Si tratta di sentire lo spazio e il tempo del mondo come spazio e tempo nostro, a pieno titolo. Un cristiano non è un sopravvissuto, nel mondo che cambia (sempre cambia il mondo), in transito da un mondo che era il suo e ora non lo è più. Al quale vorrebbe ritornare, ma non può. Sembra banale. Invece è uno dei nodi dell’inconscio ecclesiastico più difficili da elaborare.

Bisogna anzitutto credere che questo è il tempo favorevole, questo è il mondo che poggia sulla creazione di Dio, questa è la città nella quale il Figlio assimila gli amori e gli umori dell’uomo vivente per renderne eloquente la verità perfetta custodita dal Padre e le opere che attestano le passioni indomabili di Dio per la creatura. Nazareth è la nostra città, e poi Corinto, Efeso, Laodicea, l’Atene dei filosofi e la Roma dell’impero. La città in cui Dio prende dimora è la nostra città. Persino Ninive è città di Dio, alla cui sorte Dio si appassiona. Non lo saranno Milano e Napoli, Madrid e Parigi, New York e Los Angeles?

I nodi essenziali, sui quali registrare oggi il gesto cristiano della testimonianza ecclesiale, li indicherei così.

Il radicamento di Dio nell’assimilazione dell’umano.

Il mistero di Nazareth, anzitutto: il grande tema che l’ecclesiologia deve di nuovo incorporare fino al midollo. Nazareth è l’emblema della profonda immedesimazione del Figlio, che fa tutt’uno con l’incarnazione e la rivelazione del Padre. Un tempo lunghissimo. Tempo di seminagione del profumo di Dio e di assimilazione degli umori dell’uomo: come vive e come muore, come gioisce e come soffre, come si dispera per il pane e come si entusiasma per i figli, come piange di risentimento per le ferite di coloro che gli sono cari e come si scopre improvvisamente capace di compassione e di cura per l’estraneo che non ha mai conosciuto. Abbiamo cercato di abbreviare - abbiamo osato considerare superfluo - il mistero di Nazareth. Finiamo per parlare un gergo religioso, pur altissimo e devoto, in cui non si può più intendere la Parola di Dio che mira al cuore. Per poter annunciare l’eterna verità di Dio bisogna essere profondamente contemporanei alle avventure e alle fatiche del vivere che prende la sua forma qui e ora E’ l’evento discriminante della novità cristiana.

Le opere che sigillano la verità della rivelazione.

La scena originaria dell’annuncio porta indicatori la cui priorità non deve più essere revocata in dubbio. La parola dell’annuncio è resa univoca e trasparente dal ministero della liberazione dal male, accompagnato dalla rimozione dell’esclusione dalla cura di Dio. Le opere di Gesù sono i segni della rivelazione, non semplicemente lo spazio dell’applicazione morale della coerenza religiosa. Sono il codice dell’annuncio che rende precisa l’inaudita verità di Dio, che in Lui si rivela. Ciò che vale per la rivelazione vale per la fede, «I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i poveri sono consolati, i demoni sono cacciati». La confessione della fede rimane vuota se l’evidenza della prossimità di Dio rimane cieca. «Non chi dice Signore, Signore». La franca confessione dell’Evangelo di Dio, che ha l’identità del Figlio Gesù come referente assoluto, patisce la rimozione del sacro e la propaganda religiosa allo stesso modo. La purificazione evangelica della religione -delle religioni - ha qui il banco di prova dell’annuncio della fede che salva. Come siamo toccati, tutti - e anche ora - dalla nascita e dalla risurrezione di Gesù? Come siamo riscattati dalle passioni di Dio e dall’avvilimento del Figlio?

La religione nel crogiolo dell’assoluto di Gesù.

Sempre, nella religione, si formano e riformano clericalismi, rabbinismi, fondamentalismi, esoterismi, gnosticismi, durezze di cuore, divisioni mortali, autoesaltazioni di ogni genere, derive superstiziose e contaminazioni di ogni sorta. Alcune sono riconoscibili come il frutto del peccato dell’uomo. Altre sono insidiosamente incistate nell’invocazione del nome di Dio. La religione che si accontenta di provare semplicemente la propria coerenza con se stessa, rende testimonianza a se stessa, non a Dio.

Nei decenni trascorsi, premuta dalla rappresentazione di una secolarizzazione che avrebbe condotto la religione al declino come forma civile, anche la teologia cristiana ha cercato la possibilità di un’interpretazione e di una pratica non religiosa del cristianesimo, contrapponendo la fede evangelica alla forma religiosa. La tesi, pur con i suoi eccessi, ha riportato alla luce la verità di una dialettica che era stata indubbiamente oscurata. Rimane però il fatto che la pura alternativa della fede alla religione scrive la parola di Dio sulla sabbia di un’interiorità inafferrabile e taglia semplicemente fuori l’universale umano della relazione con Dio. Non c’è proprio nessun altro modo di andare a toccare le nervature della carne, e l’intimità dello spirito in cui l’esistenza si trova toccata nell’intimo è riscattata e plasmata secondo la verità destinata. Per dodici apostoli che chiamò, il Figlio considerò come “suoi” cinquemila uomini alla volta. Per non contare le donne e i bambini. Li istruì sulla verità di Dio che riguardava la loro vita e la sua destinazione, facendo in modo che non mancassero del pane e non dovessero vergognarsi delle loro ferite. lndividuò fra essi, non solo fra i discepoli, figure straordinarie, la cui “fede” additò all’ammirazione dei suoi e di tutti. La Cananea, la Samaritana, il lebbroso riconoscente, Zaccheo il pubblicano. Qualcuno - come il ladro crocifisso o il centurione romano - scoprì di essere “dei suoi” senza averlo previsto. Non stiamo rimpicciolendo troppo, a motivo di uno sguardo ecclesiologico forse indebolito dall’età, la vasta comunità di coloro che «guardano con fede a Gesù» (Lumen gentium, 9) nelle città che abitiamo - del resto sempre provvisoriamente?

Il culto è una manifestazione sociale che si realizza attraverso un’azione rituale; se non è tutto questo, non è culto. Non è un atto privato di venerazione, e non è improvvisato. Una qualche forma di culto è presente in ogni religione; e il simbolismo rituale presenta certi tratti comuni che si possono riscontrare in molte religioni.

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