Religioso Marista
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Un documento sottoscritto da personalità islamiche di 47 diversi Paesi alla fine del Ramadan 2007, l’affermazione della centralità dell’amore di Dio e del prossimo per entrambe le religioni.
Al momento della sua pubblicazione, il documento dei 138 musulmani A Common Word è stato accolto dai media nostrani con espressioni di circostanza e timidi consensi, salvo finire archiviato, ben presto, alla stregua di una un’iniziativa curiosa, quasi eccentrica.
Qualche riflessione per il discepolo: quando per fedeltà al maestro si trova a vivere la situazione di chi ha perso tutto (almeno così pare), il passato non c'è più, il presente lo punisce senza che il futuro abbia prospettive.
Per tutte le religioni il concetto di rivelazione è la comunicazione intelligibile trasmessa dalla divinità all’uomo. Questo concetto è un elemento costitutivo della religione che la distingue dalla filosofia. Il termine usato di “comunicazione intelligibile” include la visione, l’ascolto o altre esperienze sensibili portatrici di significato.
di Maria Cristina Bartolomei
Gesù all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più». (Giovanni 8,2-11)
Come ogni racconto evangelico, l'episodio dell'adultera (Gv 8,1-11) ci porta dinanzi a una rivelazione di Dio in Gesù: non si può dunque attribuirgli una particolare intenzione di esplicitazione dell'atteggiamento di Gesù verso le donne, non più di quanto si possa attribuirgli l'adulterio come tema. Sarebbe un fraintendimento leggerlo in tali ottiche; sarebbe una piccineria ritagliare questi elementi come cascami, concentrandovi l'attenzione come su elementi laterali al tema o ai temi centrali. Questo criterio, valido in generale, è particolarmente efficace nel nostro caso.
Proprio e soltanto la sottolineatura del carattere di rivelazione teologica e cristologica di questa pericope consente di cogliere il significato salvifico e di rivelazione che è in esso sotteso.
Lettura teologica
Nell'intenzione del narratore o del redattore, dichiarata con la precisazione: «Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo» (8,6), l'episodio è uno dei casi in cui gli avversari di Gesù cercano di tendergli una trappola, ponendogli quesiti astrusi o concrete questioni, anche drammatiche, tesi a mettere Gesù di fronte all'alternativa di violare la Legge mosaica (o di proporne una interpretazione condannabile) oppure la legge dei romani e, più radicalmente, di tradire il proprio messaggio. Sono i casi, ad esempio, dei quesiti circa la destinazione coniugale ultraterrena della donna rimasta per sette volte vedova o il problema ricorrente della liceità di guarire in giorno di sabato, o quello del tributo a Cesare.
Anche nel caso della adultera, colta in flagrante e condotta da lui, Gesù viene chiamato ad esprimersi nel confronto con la Legge di Mosè che «ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?» (8,5): probabilmente i Romani avèvano infatti già tolto al Sinedrio il diritto di emettere sentenze capitali.
L'episodio può, e correttamente, venir letto su questa linea, cogliendo, come in altri casi, la sovversiva fedeltà della interpretazione della Legge praticata da Gesù; la autorevolezza da lui dimostrata nel proporsi come nuovo criterio del rapporto tra uomo e Dio. Si può sottolineare lo smascheramento della ipocrisia della condanna degli altri; il richiamo al peccato di ognuno, non meno grave anche se più occulto. Si può leggerlo come un'esemplare rivelazione della «filantropia e benignità di Dio» (Tt 3,4), della centralità e preminenza su ogni legge assegnata da Dio all'essere umano, al vivente; del suo essere il «Signore amante della vita» (Sap 11,26) e non della morte; del suo solidarizzare con le vittime.
Tuttavia limitandosi ad una simile lettura, si trascura di cogliere, un elemento di non piccola portata giacché tutto quanto evidenziato più sopra viene rivelato nell'incontro con una donna e una donna adultera, nell'Israele patriarcale del tempo, sotto una Legge che ne prevedeva la morte. Tale specificità non è casuale. L'incarnazione è la regola e il criterio della rivelazione di Dio. Ciò significa che solo mettendo a fuoco anche e centralmente la peculiarità legata a questa situazione precisa, di una donna colpevole di un particolare peccato, e seguendo a questa luce ciò che viene messo in scena nell'evento narrato, possiamo attingere meno lacunosamente il contenuto rivelatorio cristologico e teologico che qui ci viene offerto.
Lettura cristologica
Una donna viene condotta da Gesù. Questo è l'unico caso di qualcuno portato da Gesù non per essere salvato, bensì condannato. Con il proposito di far perire, possibilmente, anche Gesù e con la stessa forma di esecuzione. Il capitolo ottavo, che si apre col quesito circa la lapidazione dell'adultera, si chiude con la stessa minaccia per Gesù: «Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio» (8,59), tema che ritorna poco dopo quando di nuovo vengono portate delle pietre per lapidarlo come bestemmiatore: «Ma egli sfuggì alle loro mani» (10,31-39).
La donna è una adultera. Un peccato non esclusivamente ma del tutto peculiarmente femminile, legato alla condizione di «moglie-di », di «proprietà di un uomo». Peccato sociale innanzitutto, rottura dell'ordine patriarcale a garanzia del quale ci si appella all'ordine divino. Adultero è infatti anche l'uomo se e in quanto si unisce alla moglie di un altro . Non era considerato adulterio il caso di un marito che avesse relazioni con donne non sposate ne fidanzate (vi era colpa nel violare una vergine non fidanzata in quanto si disonorava il padre di lei, al quale essa apparteneva ancora «in proprietà» ). L'adulterio, commesso dalla donna o da un altro uomo, è socialmente un peccato unidirezionale, un peccato contro il diritto di proprietà dell'uomo sulla donna. Perciò stesso in quel contesto (e molto oltre e molto dopo di esso) esso è visto, per così dire «per direttissima», come peccato contro Dio. Chi viola il diritto unilaterale dell'uomo maschio sulla donna viola il diritto divino. La donna era allora in questa condizione; anche il suo rapporto con Dio e il suo stesso peccare contro Dio passavano per la sua subordinazione all'uomo. Per lei, concretamente, in quella situazione religiosa e sociale, la Legge di Dio e la «legge del maschio» erano conglomerate in un blocco unico, benché la prima in non pochi casi e sensi avesse certamente attenuato e limitato più che certificato la seconda, che restava peraltro dominante, avendo anche la esclusiva della interpretazione ed applicazione di quella divina.
Gesù a cui è posta davanti quella donna è perciò stesso posto di fronte alla coalescenza tra l'originario comandamento divino di serbarsi reciprocamente fedeli nell'amore coniugale e una inculturazione patriarcale che comanda la fedeltà ad una donna che non ha scelta alcuna, in particolare riguardo alle nozze (neppure la miseranda «scelta» del successivo ripudio); tra l' originaria finalizzazione della Legge all'uomo ed una attuazione tradottasi in violenta subordinazione dell'uomo «al sabato». È posto davanti ad un soggetto, la donna, che in quella situazione riassumeva in se ogni forma di estraneità all'area della giustizia, del diritto, della forza; tutta la assegnazione all'area della costrizione, della subordinazione, della identificazione nel mero ruolo sessuale e insieme della sessualizzazione colpevolizzata, della empietà e lontananza da Dio. La messa a fuoco della specificità femminile è resa nitida dalla assenza dell'altro colpevole, dell'adultero, che non è neppure menzionato.
I comportamenti di Gesù sono pienamente significativi e rivelatori in una simile situazione.
Lettura antropologica
Anche se tutto è macchinato per prendere in trappola anche Gesù, la donna gli è comunque condotta a forza perché trovi in lui la sua condanna in nome di Dio.
Essa viene «fatta stare in piedi, nel mezzo» (8,3). In realtà essa è più che mai in catene ed in ginocchio e più che stare nel mezzo è «presa in mezzo». Presa in mezzo da chi l'ha colta e trascinata lì, dagli uomini che la attorniano, dalle maglie della loro interpretazione della Legge, forse prima anche dai due uomini della sua vicenda, il marito e l'amante; tra poco lo sarà dalle pietre. Per lei , la sua soggettività, il suo libero muoversi, la sua parola, i suoi sentimenti, la sua coscienza, la sua colpevolezza, il suo pentimento eventuale, non c'è nessuno spazio. Persino il suo trovarsi n, drammatico ed aperto ad un esito tragico, è solo un pretesto, una occasione per un' altra questione: quella appunto nei riguardi di Gesù.
Il movimento che vediamo svilupparsi, rivelatorio e salvifico, compie proprio questo prodigio. Alla fine, prodottosi il vuoto intorno, la donna è sola con Gesù, messa ora davvero «al centro», non più «posta» ma da se «stante» in piedi. Nella buona solitudine di questo vuoto essa è ora al centro della attenzione di Gesù, ed è in questo stesso movimento posta nel suo proprio centro, rimessa a contatto con il suo vero essere, con la sua sorgente divina. È sola con l'altro; quell'Altro radicale e altrettanto radicalmente interno, che offre e svela la relazione in cui e da cui ogni «se» è costituito. La donna qui è promossa e chiamata a specchiarsi al pari dell'uomo, faccia a faccia, in Dio. Sola con Dio, nel profondo, sorgivo spazio della propria identità e libertà. Come una nuova creazione, come una risurrezione. Essere una donna è, non meno e non diversamente da quanto accade per l'uomo, evento di libertà, di relazione col divino, garantite da uno spazio di inviolabile solitudine, fasciate dal vuoto della «occupazione» da parte del soggetto-uomo.
Dio dà, ridà alla donna il suo spazio, uno spazio in cui viene ristabilita la peculiare relazione tra lei e il divino. Al principio c'è questa relazione fontale che costituisce e non insidia la propria identità e libertà. La Legge viene ricollocata a questa fonte, riacquista qui il suo senso. Il «va' e non peccare più» non è l'aggiunta di un gravame, ma la dichiarazione di una liberazione; non un comando ma una assicurazione e una promessa; non un dovere ma il dono di una possibilità. «lo non ti condanno»: proprio per questo puoi ora non peccare più. E all'iniziale forzoso esser portata, corrisponde specularmente il liberante «va'».
Sullo sfondo remoto si sente una eco di quell'«alzati, amica mia» del Cantico dei cantici (2,10) che si conclude con un verbo, abitualmente tradotto con «e vieni!» ma che più propriamente si dovrebbe tradurre con «e va'!»: «va' verso te stessa» , come propone la traduzione di Andre Chouraqui.
La scrittura di Gesù
Il passaggio a questo punto d'arrivo comporta il farsi di un denso vuoto, operato dalla perentorietà delle parole di Gesù «chi è senza peccato...», contrapposte come la vera pietra della vera Legge, enfatizzate da quell'unicum enigmatico rappresentato da Gesù che scrive coI dito per terra, nella sabbia e che è un caso emblematico della irresolubilità, della «opacità per sovrabbondanza» del simbolo che «ci dà da pensare», secondo la felice formulazione di Paul Ricoeur.
Gesù scrive col dito nella sabbia: per mostrare la sua estraneità a tutto il groviglio di presupposti che stava dietro la domanda-trappola; per prendere distanza da tutta la istruzione del processo, prima ancora che dalla sanguinosa conclusione propostagli! Queste e altre plausibili ipotesi si possono fare. Ad esse non è illecito far seguire, secondo il modello di interpretazione rabbinica della Scrittura, la sempre possibile «altra spiegazione». Nel nostro caso, una spiegazione che tiene conto della peculiarità della situazione e della funzione in essa di tale gesto. «L'unica volta che Gesù ha scritto, ha scritto nella sabbia!», si sono rammaricati non pochi: «Che peccato che si sia trattato di una scrittura così labile, e che non si sia neppure serbata memoria dei segni tracciati».
Ma la labilità della scrittura nella sabbia non è qui un elemento accidentale. È essenziale, invece. Gesù infatti non sta scrivendo ma, più propriamente, cancellando . Sta cancellando una immagine di Dio, una immagine della Legge, una immagine della colpa, della punizione, della giustizia, dei rapporti tra essere umano e altro essere umano e anche dei rapporti specifici tra uomo e donna. Sta cancellando su quella sabbia che sembra rappresentare simbolicamente, insieme, la polverizzazione della pietra e delle pietre da lui operata nello stesso gesto e la inconsistenza agli occhi di Dio di quelli che per gli occhi umani appaiono criteri di giudizio indiscussi, indiscutibili e solidi come la roccia.
Da un lato abbiamo la Legge scolpita nella pietra, pietra che - interpretata e applicata dal cuore umano - sta per essere usata per schiacciare Gesù così come per lapidare la donna. Dall'altro lato abbiamo la vivente incarnazione della parola divina, che spirava nella Legge, nella persona di Gesù. La scrittura di essa nella pietra è ora superata dalla scrittura nella carne e nella vita. Essa entra in contatto con la terra e l'umanità con delicatezza, rispetto, tenerezza. Con non più violenza e perentorietà di un lieve scrivere nella sabbia; ma quel dito che scrive umilmente e lievemente per terra, al tempo stesso, con quel gesto leggero, cancella tutto ciò che sembrava così duro, così potente, così invincibile, così definitivo, agganciato per sicurezza ad un malcompreso divino. Lo cancella con la forza del «dito di Dio» tale da ridurre in polvere con un solo tocco quella che sembrava una schiacciante montagna.
Quando Gesù ha finito di scrivere nella sabbia ha finito di cancellare le sbarre socioreligiose che imprigionavano la donna e insieme imprigionavano Dio in una immagine di tradizione fatta da uomini (cf Mc 7,8-13).
Gesù è chino, non si presenta agli aspiranti lapidatori. Quando essi si allontanano, Gesù «si alza», entra in colloquio con la donna, le si manifesta. E con ciò decide di rivelarsi a tutti gli aspiranti lapidatori di tutti i tempi come «colui che si è rivelato nell'incontro con la donna adultera». La finale rivelazione che viene offerta da accogliere include questo rapporto di Dio con la donna; con la donna presa nella duplice tenaglia del peccato, di quel peccato in specie, e della condanna.
Epilogo
La conclusione assomiglia al risveglio da un incubo. «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?»: il forzato trovarsi posta dinanzi a Gesù come ad un ultimo, definitivo giustiziere, viene trasformato nella grazia dell' incontro col Dio vivente, che fa svanire tutti i fantasmi oppressivi della «religione del maschio». Fa svanire con ciò anche il rischio di restare imprigionata nella mera ribellione a tale «religione del maschio», nell' atteggiamento reattivo, del pan per focaccia, che può essere una potente spinta, tra l'altro, anche all'adulterio, in concomitanza col motivo, a quell' epoca addirittura tipico, dell'assenza dell' amore nel matrimonio.
Invece della reattività coatta, la rivoluzione della libertà: «Va', e non peccare più».
Lieto fine? Fino ad un certo punto. Certo buona notizia, ma non senza contraddizione. Dove sarà mai potuta andare quella donna sfuggita alla morte? Sarebbe aspettativa «miracolistica» pensare che essa abbia poi potuto essere riaccolta dal marito (o accolta nella casa dello sposo: se, come è verosimile, l'adulterio era avvenuto nel tempo tra la conclusione degli sponsali e l'inizio della coabitazione) che restava per allora la modalità d'essere accettata nella vita sociale e nella comunità religiosa.
No, la sua vita era segnata, cambiata per sempre. Quella non era stata una rianimazione, una rivivificazione, ma una vera risurrezione. Quella donna era stata restituita a se stessa oltre una morte. Non più alla stessa vita di prima, in nessun senso. E, come sempre, non solo per se stessa era stata salvata, non solo per se stessa viveva, non solo per lei era quella grazia. Dove sia andata coi suoi piedi di carne, come sia vissuta non ci è dato immaginare. Ma il «va' » rivoltole ha tutta la pregnanza di un ben diverso invito. Al di là dei successivi accadimenti della sua vita, da quel momento in poi la sua vicenda e figura stanno andando: a portare questo sconvolgente annuncio su Dio. Buon e salvifico annuncio destinato in primo luogo a quanti allora lasciarono cadere le pietre.
La comunità credente certamente l'ha accettata, anche se ha fatto fatica a lasciarla andare troppo liberamente in giro portando con se un simile evangelo, non sapeva bene dove collocarla, ha dovuto trovarle un posticino di risulta, come ci istruiscono le vicende testuali della pericope. E forse, pur consentendo a lei di circolare, non ha però fatto circolare dentro di sé tutta la portata di questa rivelazione di Dio. Ma essa non cessa di venirci incontro dal Vangelo secondo Giovanni , con la mitezza della potenza del «dito di Dio» leggero sulla sabbia, con la grazia spaurita dei sandali di quella donna, che su quella sabbia si muovono andando a portare tale annuncio di pace.
di Clementina Mazzucco
La donna ha tratto vantaggio o svantaggio dall'avvento del cristianesimo? La risposta non è affatto scontata e ancora oggi suscita discussioni.
Per tentare un approccio critico e storico alla questione dobbiamo innanzitutto tener conto del contesto sociale e culturale in cui il cristianesimo nasce e si diffonde. Il mondo greco e romano è dominato da una pesante struttura patriarcale che esclude la donna dagli affari pubblici e dall'istruzione, la rinchiude in casa, la tiene sotto tutela, non le concede parità nel diritto e neanche nel matrimonio (ad esempio, di fronte all'adulterio e al divorzio). Fenomeni di emancipazione che si verificano in età ellenistica (per il mondo greco) e sotto l'impero (nel mondo romano) restano limitati ad alcune sfere sociali e non incidono sostanzialmente sulle istituzioni e sulla mentalità: la misoginia non l'hanno certo inventata i Padri della Chiesa, ma ha alle spalle una tradizione molto antica e costante.
L’atteggiamento di Gesù, quale ci viene trasmesso dai Vangeli, spicca, su questo sfondo, perché risulta in forte contrasto col costume e con la cultura del tempo, anche con la tradizione religiosa ebraica, che, in più, faceva gravare sulla donna tutta una serie di pregiudizi derivanti dalle norme di purità. Gesù mostra di riconoscere l'uguaglianza dei sessi nel matrimonio, non considera l'adulterio colpa infamante solo per la parte femminile, non relega la donna al ruolo domestico (come si evince dall'episodio di Marta e Maria), non esalta la donna, neppure sua madre, esclusivamente in quanto madre, non rifiuta di avere donne come interlocutrici e discepole e affida ad alcune (la Samaritana, Maria, ecc.) messaggi fondamentali: addirittura a un gruppo di loro dà il compito di testimoniare, per prime, la sua risurrezione.
Rispetto alla posizione di Gesù la tradizione cristiana successiva (ma già i discepoli stessi) mostra qualche difficoltà di comprensione e accettazione, col risultato che si assiste ad orientamenti contraddittori. Già in Paolo riconosciamo questa duplicità: accanto ad affermazioni molto nette a favore dell'uguaglianza tra maschio e femmina e della parità tra marito e moglie, troviamo nelle sue lettere (sue o attribuite a lui) precetti che suonano discriminanti e mortificanti per la donna (l'imposizione del velo e del silenzio in chiesa, l'invito alla sottomissione della moglie al marito, ecc.). E nella prima lettera di Pietro si riaffaccia il vieto pregiudizio della naturale debolezza femminile.
È un fatto che soprattutto le affermazioni paoline negative (insieme ai princìpi diffusi nell'ambiente) eserciteranno influenza sugli intellettuali e pastori cristiani: sarà sempre più frequentemente ripetuta l'opinione che alle donne non spetta di insegnare, specialmente insegnare a uomini, che le donne non possono battezzare né svolgere ministeri ecclesiastici negli ordini sacri, che la moglie deve obbedienza al marito, e così via. D'altra parte, però, i Padri non potranno neppure dimenticare che, sul piano etico e spirituale, ma non solo, i due sessi erano stati riconosciuti perfettamente uguali, in Cristo, e non mancheranno di ricordarlo. Il tema della parità tra marito e moglie nei confronti dell'obbligo della fedeltà coniugale, dell'adulterio, del ripudio, tema che rappresenta un'assoluta novità rispetto alle consuetudini della società pagana, diventa un luogo comune nei loro scritti e un obiettivo vigorosamente difeso contro le sempre rinascenti tendenze maschiliste dei mariti, anche dei mariti cristiani.
Non di rado l'atteggiamento critico di molti Padri è intensificato dalla polemica contro alcuni movimenti ereticali, nei quali le donne avevano invece ruoli rilevanti, arrivando a ricoprire incarichi missionari e a celebrare i sacramenti. Tuttavia si può ammettere che in generale il fenomeno di una consistente e vivace presenza femminile nelle comunità cristiane dei primi secoli è molto più ampio di quanto le fonti stesse, tutte o quasi tutte «di parte maschile», mostrino esplicitamente. E si può ipotizzare che le reazioni sempre più restrittive da parte della gerarchia ecclesiastica fossero provocate da quella che appariva una sorta di «invadenza» femminile. Del resto, non erano solo le autorità maschili cristiane a sentirsene preoccupate: anche gli avversari pagani ne avevano una forte impressione e, per denigrare la fede cristiana, ne parlavano sarcasticamente come di una religione «di donnette». Donnette che non dovevano svolgere solo compiti subordinati e passivi se Porfirio, un filosofo pagano della seconda metà del III secolo, ironizzava sul «dominio» che matrone e donne esercitavano di fatto nella Chiesa influendo perfino sulle nomine sacerdotali.
In effetti, gli indizi, spesso indiretti e secondari, che si possono raccogliere dalla documentazione pervenuta, mostrano che il cristianesimo, soprattutto quello dei primi tre secoli, ha offerto alle donne una grande occasione per prendere coscienza di se come persone pari in dignità agli uomini, per ricoprire ruoli nuovi e impegnativi e per modificare profondamente anche i ruoli tradizionali.
Già le comunità paoline conoscono donne profetesse, donne diacono, donne apostole, anche se per lo più non è facile capire quali fossero le funzioni attribuite alle varie cariche. E, se rimane sporadica la menzione di una donna «apostolo« (ma sono numerose le figure femminili che «collaborano» in modo significativo alla missione di apostoli, come chiaramente fa capire Paolo), di profetesse si ha notizia anche in seguito e diaconesse erano istituite sicuramente nel III e IV secolo, almeno in Oriente. Nelle lettere più tarde del Nuovo Testamento e in scritti patristici successivi si segnala la costituzione di un ordine di vedove con prerogative e mansioni di grande rilievo nella comunità, tanto da essere messe talora sullo stesso piano dei vescovi. Quasi subito anche la scelta della verginità divenne un elemento di distinzione e di prestigio, che poi crebbe sempre di più arrivando a prevalere sul ruolo delle vedove, a partire soprattutto dal IV secolo. E si vede bene che sono soprattutto le donne a fare questa scelta, una scelta che conferiva autorevolezza, libertà e spesso una vera e propria forma di emancipazione (autonomia decisionale, disponibilità finanziarie, possibilità di dedicarsi agli studi, ad attività sociali, ecc.). La stessa cosa avveniva per le vedove, talora oggetto di brusche reprimende e imposizioni per i presunti abusi della loro condizione. Sia nel caso della vedovanza sia della verginità, così come si configurano nel mondo cristiano, si tratta di istituzioni che erano sconosciute alle società pagana ed ebraica.
Ma è soprattutto la letteratura martirologica che mostra la grande rivoluzione in senso egualitario che doveva essersi realizzata nelle prime comunità cristiane: in questi documenti, che si presentano come prodotti delle comunità stesse, la presenza femminile tra i cristiani che vengono arrestati, confessano la loro fede, subiscono torture e vengono giustiziati, è un fenomeno comune che suscita stupore solo da parte degli spettatori e torturatori pagani. Talora, anzi, alcune figure di donne svolgono ruoli da protagoniste, ne si tratta solo di persone di condizione sociale elevata: a Cartagine, accanto a Perpetua, giovane madre di buona famiglia, c'è l'umile Felicita; a Lione, ad accentrare su di se tutti gli sguardi è la schiava Blandina. E non sembra possa essere un caso che, proprio nel contesto del cristianesimo primitivo e dell'esperienza del martirio sia nato uno dei carissimi documenti scritti da mano di donna che l'antichità ci abbia trasmesso: è il diario redatto da Perpetua in carcere poco dopo il 200 e poi fatto inserire dalla comunità all'interno del racconto del suo martirio, destinato ad essere diffuso in tutta la Chiesa. Ancora lei IV e nel V secolo, in Africa, veniva letto e commentato nelle assemblee liturgiche.
Ma anche all'interno della famiglia l'adesione delle donne alla fede cristiana non è senza conseguenze rinnovatrici. Fin dagli inizi (già con Paolo) si ha il problema dei matrimoni misti perché sono specialmente, e in misura maggiore, le mogli a convertirsi; anche in seguito sono spesso le donne le più mature e impegnate sul piano morale e religioso e quelle che esercitano la più forte influenza sull'educazione religiosa dei figli. Questo fatto produce profonde incrinature nelle inveterate teorie di una obbligatoria e naturale sottomissione della moglie al marito, di un ruolo femminile concentrato nella generazione di figli e nell'amministrazione della casa. Pur restando prevalenti i compiti domestici e familiari, è altamente valutato il ruolo di educatrice, nei confronti dei figli, e di collaboratrice, nei confronti del marito, anche sul piano morale e spirituale, e in più le viene aperto tutto un ampio settore di attività caritativa ed assistenziale al di fuori della famiglia. Per la donna cristiana, anche per la donna sposata, non può più essere il massimo elogio quello che fu inciso su un epitafio per una matrona romana:
«Domi mansit, lanam fecit, rimase a casa, lavorò la lana ».
Quando usiamo il termine «Dio» bisogna sempre chiedersi a quali immagini facciamo riferimento. Ad una proiezione – che abbiamo interiorizzato – della figura paterna? All’Essere perfettissimo? Al motore immobile? All’essere parminedeo, uno, eterno, immutabile?
di Don Marino Qualizza
a) Immacolata concezione
b) Maternità divina
c) Verginità perpetua
d) Assunzione nella gloria
Forse coloro che scrivono poesie anonime sui muri delle nostre città sono accattoni con una vena poetica.
Il preconcetto sociale c'induce a non distinguere tra raccoglitori di rifiuti riciclabili, mendicanti e ladri. Tendiamo a guardare ai primi due come potenziali terzi. In verità, il ladro ruba, il mendicante chiede la carità, il raccoglitore di rifiuti lavora.