Islam cristianesimo una parola comune
Questa lettera rappresenta innanzitutto un richiamo a tutti i cristiani del mondo per dire che la convivenza è possibile. È ciò che è avvenuto durante quindici secoli di vita comune, in cui il dialogo e la coesistenza hanno dominato, nonostante ci siano stati momenti bui, e soprattutto nonostante l’attualità di questi ultimi quindici anni che è segnata dalla violenza e dall’incomprensione. Ma non bisogna far sì che gli ultimi quindici anni ci facciano dimenticare quindici secoli. È un richiamo, un anno dopo il discorso di Ratisbona e un anno dopo il mio incontro con il Papa, per dire che siamo più che mai convinti della necessità del dialogo e del vivere insieme.
Si accusano spesso l’élite e la maggioranza dei musulmani di essere silenziose. Questo è un modo per dire che noi osiamo prendere la parola per smarcarci dalle infime minoranze che praticano la violenza. E, al tempo stesso, è un gesto di apertura e una sfida per il futuro, che dovrebbe fondarsi su una migliore comprensione e collaborazione tra le due comunità religiose.
In questo senso, vanno tenuti presenti tre aspetti fondamentali. Innanzitutto quello politico, che fa riferimento ai responsabili delle istituzioni ufficiali. Noi, in quanto società civile e in quanto credenti, dobbiamo rivolgerci a questi politici per dire loro che non ci può essere pace senza giustizia, e che occorre mettere in atto politiche giuste. E soprattutto che non si deve addossare alla religione quello che è proprio della politica.
Oggi la responsabilità del disordine e della violenza nel mondo appartiene evidentemente alla sfera politica. Noi, in quanto società civile, in quanto credenti, religiosi, ricercatori, intellettuali… dobbiamo spiegare a coloro che decidono e all’opinione pubblica internazionale che i problemi del mondo contemporaneo sono innanzitutto politici. Non è questione né di preghiera, né di digiuno, né di pellegrinaggi, ma è una questione di giustizia.
In secondo luogo, sappiamo che esiste una logica del confronto e dello scontro e che viene diffusa una propaganda infondata e negativa, contraria ai valori di tutti. Questo è dovuto anche all’ignoranza. Per questo sarebbe meglio parlare di scontro di ignoranze. Dunque, se in primo luogo si tratta di un problema politico - e i politici devono assumersi le loro responsabilità democraticamente -, in secondo luogo è un problema di mancanza di conoscenza e di ignoranza, che richiede innanzitutto che dobbiamo incontrarci, per imparare a conoscerci - a vivere insieme, a lavorare insieme, non unicamente a discutere insieme -, a promuovere uno scambio reciproco su ciò che noi siamo, poiché colui che non mi conosce finisce col deformarmi.
In terzo luogo, ci troviamo tutti di fronte alle stesse sfide. Ogni concorrenza tra islam e cristianesimo sarebbe oggi vana e inutile perché dobbiamo tutti fronteggiare delle sfide comuni.
A cosa serve chiedersi chi ha più fedeli, in un’epoca in cui è la vita stessa che è minacciata sul pianeta? Tutto questo non ha senso. È una battaglia di retro-guardia. Quello che è importante oggi non è se le moschee o le chiese siano più o meno piene. La cosa più importante è sapere qual è il cuore dell’essere umano, e se è pieno di apertura e di stima oppure di odio.
Una delle sfide principali di cui dobbiamo farci carico e che sta a cuore a tutti coloro che tengono ai valori spirituali, è l’uscita della religione dalla vita. Siamo di fronte oggi a un sistema dominante, che si appoggia sulla mercificazione del mondo, sull’ateismo e sul liberalismo selvaggio e, allo stesso tempo, liquida e marginalizza i valori morali, spirituali e religiosi. È la più grande sfida comune in quanto religioni: ridare all’umanità senso, riferimenti, valori...
Noi siamo certamente per il progresso, la modernità, l’economia di mercato, ma non a qualsiasi prezzo. Non al prezzo della disumanizzazione.
Un’altra sfida comune è quella della democrazia. Oggi le relazioni internazionali non sono democratiche, in quanto le potenze di questo mondo vogliono imporre il loro sistema e il loro punto di vista con la forza. Il che crea disperazione e reazioni cieche. D’altro canto, la democrazia in molti Paesi del sud è debole. Anche noi Paesi arabi siamo in ritardo su questo problema.
Noi, popoli e società civili, siamo presi tra due fuochi: il sistema internazionale non è democratico e all’interno delle nostre società le pratiche democratiche non sono sufficienti. Certo, esiste la libertà di espressione e una società civile, delle istituzioni e delle elezioni, ma noi consideriamo che tutto questo debba essere migliorato e approfondito.
Infine, un altro problema cruciale è il fatto che ci viene impedito di pensare diversamente, che ci viene negato il diritto alla differenza. I discorsi dominanti nel mondo, che si tratti di quello xenofobo o razzista del nord o di quello fanatico del sud, dicono sostanzialmente: «Sii come me o ti odierò». È assurdo. Si tratta di estremismi che sono contro il diritto alla differenza. L’Europa e l’Occidente rifiutano di riconoscere questo diritto alla differenza. È la linea dominante. Come pure quella di gruppi minoritari e fanatici nel sud che allo stesso modo si ergono contro questo diritto alla differenza.
Noi credenti, dunque, cristiani o musulmani, dobbiamo affrontare queste sfide comuni, cominciando dal fronteggiare il problema dell’uscita della religione dalla vita. Anche se prolifera quello che viene chiamato «ritorno del religioso», tutto questo non è autentica spiritualità. Quello che domina è il liberalismo selvaggio, il lassismo, la permissività e l’ateismo o il ritorno dell’integralismo, che non è evidentemente l’autentica spiritualità. È il primo problema: i valori, la morale, il senso della vita e della morte…
Poi c’è un problema politico: non vedo autentici modelli democratici, e noi Paesi arabi siamo particolarmente in ritardo su questo punto. Infine, il rifiuto del diritto alla differenza, specialmente da parte dei media, che sono il riflesso del sistema dominante; molti preferiscono dare la parola o agli estremi o a dei contro-esempi completamente improduttivi per fare in qualche modo da contrappeso agli estremisti, ovvero a dei credenti non autentici o a dei fanatici atei, a gente che ha perso la fede, quando invece la grandissima maggioranza della gente del Sud vuole continuare a vivere la propria fede nella modernità e nel progresso. Alcuni vogliono tagliarci fuori dalle nostre radici e dalla fede, mentre altri vogliono tagliarci fuori dal movimento del mondo, dal progresso e dalla modernità. Noi invece vorremmo essere la comunità del giusto mezzo, quella che è capace di assumere al tempo stesso autenticità e modernità.
Mustapha Cherif
(da Mondo e Missione, g ennaio 2008)