Ecumene

Giovedì, 25 Settembre 2008 00:02

Il buddhismo dalla porta del cuore. L’esperienza del gesuita Albert Poulet-Mathis (Matteo Nicolini-Zani)

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L’esperienza del gesuita Albert Poulet-Mathis

Il buddhismo dalla porta del cuoredi Matteo Nicolini-Zani *







Le riflessioni di uno dei pionieri dell’incontro con le religioni dell’Oriente: « Impariamo ad aprirci per amare anche ciò che ci divide».

«Vivere il dialogo tra religioni è capire che quanti ti circondano stanno dentro la tua vita»


«Qual è il tuo cognome cinese?», mi chiede Changchi, il monaco che mi accoglie al monastero buddhista Zen di Fagu-shan a Taiwan. «Mi chiamo Ma, Ma xiushi (fratel Ma)», rispondo io. «Ah, a quanto pare voi religiosi cristiani vi chiamiate tutti Ma! Noi abbiamo un caro amico, Ma shenfiu (padre Ma), un prete cattolico che ci ha visitato molte volte... Così lui è il vecchio Ma e tu sei il giovane Ma.. ».

Con questo buffo episodio - che gioca intorno ai frequenti casi di omonimia dovuta al ristretto numero di cognomi in uso in cinese - sono stato involontariamente avvicinato a un «caro amico» dei buddhisti presso il cui monastero sto per iniziare un breve soggiorno: il padre gesuita Albert Poulet-Mathis. Mi sento così anch’io misteriosamente accompagnato nella mia iniziazione alla conoscenza della vita monastica buddhista da questo «caro amico» che non avevo mai incontrato, ma di cui avevo avuto alcune notizie. Di lui mi avevano infatti parlato Paulin Batairwa, il missionario saveriano che mi ha introdotto al monastero di Fagu-shan e che è un po’ il giovane discepolo di padre Albert, e Gianni Criveller, missionario del Pime, che mi aveva sollecitato pochi giorni prima a non ripartire da Taiwan senza aver cercato di incontrare questo grande conoscitore delle comunità buddiste taiwanesi.

L’occasione di incontro è arrivata pochi giorni dopo, ancora una volta grazie all’intermediazione di padre Paulin. Nel suo ufficio presso il Tian Educational Center dei gesuiti a Taipei, bevendo una tazza di buon tè, padre Albert, nonostante i suoi ottant’anni e la sua salute malferma, ha acconsentito a una chiacchierata insieme, nello stile del dialogo che scoprirò essere più tardi il suo stile proprio: semplice e profondo. Ho potuto così ascoltare le sue riflessioni sulla necessità di un dialogo diverso da quello teologico e più profondo, sulla sua tardiva ma ispirante scoperta degli scritti di Henri Le Saux su questo tema, sulla positività del contributo monastico al dialogo interreligioso... Poche parole, in effetti, ma pronunciate sullo sfondo di una lunga esperienza, e che io cercavo di ascoltare compaginandole con ciò che vedevo intorno: scaffali pieni di volumi in tutte le lingue sulle religioni e il dialogo interreligioso, insieme a un gran numero di fotografie di diversi uomini spirituali da lui incontrati a Taiwan e nei molti paesi dell’Asia da lui visitati (soprattutto maestri buddisti), oltre che a doni da loro fatti a Ma Tianci (suona così il nome cinese di padre Albert) in segno di amicizia e gratitudine.

AI termine della nostra chiacchierata padre Albert mi ha fatto dono di un volume in cinese fresco di stampa, che sarebbe stato presentato al pubblico di lì a qualche giorno, dal titolo eloquente: il tuo Gesù, il mio Buddha: il dialogo interreligioso in profondità, con un titolo parallelo in inglese altrettanto significativo: Open the Doors, Let’s TaIk (Apri la porta, parliamo!). Scritto da Chen Shixian, un giovane amico buddista di padre Albert conosciuto dieci anni prima, questo libro raccoglie - integrandole con proprie riflessioni - le interviste da lui fatte al gesuita francese lungo circa due anni di incontri settimanali di confronto e di dialogo, con la partecipazione anche di padre Paulin. Non è da trascurare il fatto che questo libro rappresenti la prima pubblicazione da parte del maggior editore cattolico di Taiwan (Kuangchi Cultural Group) di un volume scritto da un buddhista sul dialogo interreligioso. Certamente un «significativo e promettente segno di interesse crescente nella promozione del dialogo interreligioso», come scrive Poulet-Mathis nei suoi ringraziamenti alla fine del libro.

La lettura di questo testo è diventato così per me il prolungamento di quell’incontro di fine novembre, e mi ha permesso di scoprire l’esperienza di un operaio del dialogo , «soltanto un piccolo prete francese» - come si autodefinisce nel libro (p. 205) - che ha dato però un grande contributo all’incontro profondo tra cristianesimo e religioni orientali.

Impegnato fin dal suo arrivo a Taiwan nel 1959 nello studio delle vie spirituali orientali e nella conoscenza delle comunità che sull’isola le percorrono, padre Poulet-Mathis ha lavorato instancabilmente per la promozione del dialogo e la pace tra le religioni, oltre che all’interno della Chiesa taiwanese e degli organismi della Compagnia di Gesù, anche come segretario dell’ufficio per le questioni ecumeniche e interreligiose (Oeia) in seno alla Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc) dal 1977 al 1992, e come consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso dal 1980 al 1995. Questo ha fatto sì che «ciò per cui padre Poulet-Mathis è noto a Taiwan non sia tanto la sua identità di prete cattolico, quanto piuttosto il suo contributo al dialogo e alla collaborazione tra le religioni, per aver aperto la porta al dialogo interreligioso» (p. 30), con la sua disponibilità al rispetto, alla fiducia e all’amicizia. Tanto da essere stato definito pubblicamente in una cerimonia il «rappresentante delle religioni di Taiwan».

La reticenza a parlare di sé e soprattutto a presentare delle riflessioni sistematiche sul tema del dialogo interreligioso pervade tutto il volume quasi come una costante. Non si troverà dunque nessuna vera e propria riflessione teologica nelle sue pagine, ma una cancellata di ricordi, di incontri, di figure: «Io considero particolarmente importante il valore delle relazioni interpersonali» (p. 152),confessa. E quasi nascoste nelle pieghe di questi eventi si scoprono allora preziose intuizioni.

Innanzi tutto la consapevolezza che la Chiesa cattolica è inserita in un contesto plurireligioso: «Nel mondo non può esserci soltanto il cattolicesimo, dunque esso deve aprirsi» e «imparando ad aprici agli altri, ameremo ciò che tra noi è comune e rispetteremo ciò che fra noi è diverso» (pp. 134e 152). Per aprirsi - uno dei verbi che ricorrono più volte nelle confessioni di padre Albert - i cristiani devono uscire incontro agli esponenti delle altre religioni, cosa che lui stesso non si è mai stancato di fare, stringendo relazioni durature con uomini spirituali in luoghi che non avevano mai visto prima la visita di un prete cattolico. Sempre e soltanto con l’umile atteggiamento di voler imparare.

Suoi maestri nella conoscenza del buddhismo sono stati ad esempio il venerabile Shengyan, abate del monastero buddhista di Fagu-shan e leader buddhista mondiale, e il venerabile Chanyun, abate del monastero buddhista di Lianyin-si, che dopo più di dieci anni di frequentazione reciproca arrivò a confidare a padre Albert che all’inizio aveva sperato che lui diventasse buddista. Ma alla fine si era convinto felicemente che sarebbe rimasto cattolico, ma un cattolico buon amico dei buddhisti. In questo senso l’impegno di padre Albert ricorda ancora una volta che non esiste un dialogo tra le religioni, ma soltanto un dialogo fra uomini e donne che camminano fianco a fianco lungo vie religiose differenti.

«Il dialogo interreligioso è simile a un ponte che aiuta a mettere in contatto gli uni con gli altri», è «un’ opportunità che ci rende consapevoli del fatto che siamo una sola famiglia». Il suo scopo «non è fare missione, ma imparare gli uni dagli altri attraverso la conversazione fra appartenenti a religioni diverse» (pp. 216, 153 e 56).Se «è necessario avere un atteggiamento di accoglienza nei confronti delle altre religioni, si deve nello stesso tempo dare importanza alla propria fede religiosa e affermare il valore della religione altri; ma il primo dovere del dialogo interreligioso è di dare importanza alla propria fede» (p. 153). Fiduciosi che il dialogo interreligioso non porta affatto a diluire o smarrire la propria fede, ma «può aiutare ad approfondirla ulteriormente» (p. 154).

Fu però una visita in India nel 1981, durante la quale ebbe l’opportunità di leggere uno scritto del samnyasin benedettino Henri Le Saux (Abhishiktananda, 1910-1973) a segnare profondamente l’esperienza di padre Poulet-Mathis e il suo approccio al dialogo, come lui stesso scrive: «Quell ‘articolo mi influenzò e mi sollecitò profondamente... Spesso ritorno a quell’ articolo, le cui poche frasi cambiarono la mia vita» (pp. 156 e 162). Si tratta del saggio scritto nel 1969 e intitolato The Depth-Ditnension of Religious Dialogue (La dimensione della profondità del dialogo religioso), in cui Le Saux annota: «Ogni partner nel dialogo deve cercare di fare sua, per quanto è possibile, l’intuizione e l’esperienza dell’altro; personalizzarla nella propria profondità, al di là delle proprie idee e persino dei concetti attraverso cui l’altro cerca di esprimerle e comunicarle con l’aiuto di segni forniti dalla propria tradizione. Per un dialogo efficace è necessario che io raggiunga, per così dire, nella mia profondità l’esperienza del mio fratello, liberando la mia esperienza da tutte le sovrapposizioni, così che il mio fratello possa riconoscere in me l’esperienza da lui vissuta nella sua propria profondità».

Così padre Albert è oggi più che mai convinto che «il dialogo interreligioso non deve soltanto essere una teoria né si può limitare a un dialogo superficiale; e non è nemmeno una piacevole attività di solidarietà; esso è invece creativo e profondo riconoscimento, comprensione e amore reciproco». E proprio «questo tipoi profondità è ciò di cui oggi abbiamo bisogno nella Chiesa, anche se io non riesco a esprimerlo del tutto, non arrivo a trovare le parole più appropriate per farlo» (pp. 156 e 162). E’ quel dialogo di vita e di cuore proposto dal Concilio Vaticano II, ricordato da Giovanni Paolo II nella sua esortazione post-sinodale Ecclesia in Asia del 1999, nonché sottolineato in molti documenti della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche. È quella comunione a livello profondo possibile tra ricercatori dello spirito che percorrono differenti vie religiose e di cui era convinto Thomas Merton: «Comunicare è possibile al livello più profondo. Ma quella che avviene al livello più profondo non è comunicazione ma comunione. Senza parole. Al di là delle parole, al di là del discorso e al di là del concetto» (Thomas Merton, Diario asiatico).

Più avanti, in uno sforzo per trovare espressioni adatte, padre Albert arriva a dire: «Che cos’è il dialogo interreligioso? E’ forse l’annuncio di una qualche buona notizia? No, significa piuttosto comprendere che tutti gli uomini che ti circondano stanno dentro la tua vita, che tu hai una specifica responsabilità nei loro confronti, che li devi aiutare a comprendere che essi hanno una grandiosa possibilità di essere felici [ . .] Basterebbe che noi dessimo più importanza al dialogo interreligioso in profondità [ . .]. All’inizio anch’io pensavo fosse cosa difficile, ma poi ho sperimentato come si possa non soltanto arrivare a fare esperienza della fede altrui, ma anche rendere più solida la propria fede» (pp. 172- 173). «In questi ultimi vent’ anni sono venuto in contatto con molte religioni che hanno arricchito la mia vita. Sebbene io continui a essere un prete cattolico come lo ero un tempo, tuttavia la mia fede è oggi molto più profonda di vent’anni fa, e ho ancora bisogno di apprendere dagli altri, apprendere da loro a ricercare la fonte della beatitudine [ . .]. Aprite le porte! La mia esperienza testimonia che ciò porta frutto!» (p. 172). Da qui un sussurrato auspicio e insieme un lascito di padre Albert verso le nuove generazioni, che questo gesuita si augura siano formate e preparate per il dialogo: «Se queste mie esperienze potessero aiutare i giovani a intraprendere il dialogo interreligioso.. .» (p. 205). Solo raccogliendo questo invito sarà possibile non fare di padre Albert e di altri pionieri del dialogo interreligioso delle strane, bizzarre figure che nuotano controcorrente, ma riferimenti cui guardare nel pensare una direzione del percorso futuro del cristianesimo accanto alle altre religioni. «Il mio unico sconcerto è che io diventi all’interno della mia Chiesa una figura singolare: questo il mio più grande dolore.. .» (p. 203), confessa con rammarico padre Poulet-Mathis.

L’aver dato voce alla sua decennale esperienza di dialogo in profondità con il mondo buddhista vorrebbe in qualche modo rassicurarlo, testimoniandone l’apprezzamento e la volontà di accoglienza della sua preziosa eredità: «Ciascuno secondo la propria tradizione, ma tutti immersi in un medesimo silenzio…» . (p. 171), o, come direbbe l’apostolo Paolo, «tutti abbeverati ad un unico Spirito» (1Cor 12,13). * Monaco di Bose


(da Mondo e Missione, m arzo 2008)

Letto 3440 volte Ultima modifica il Sabato, 04 Ottobre 2008 17:11
Fausto Ferrari

Religioso Marista
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