Un ecumenismo della croce
contro il deserto spirituale
di Claudia Stanila
In questa intervista, il nuovo patriarca ortodosso di Romania, Daniel Ciobotea, fa il punto sulle difficoltà e le chance del dialogo tra i cristiani delle diverse confessioni in Europa. E offre lo spunto per una svolta spirituale capace di aiutare le Chiese nel cammino verso l’unità.
Quando il 30 luglio scorso è morto Teoctist, l’anziano patriarca di Romania, il pensiero di quanti hanno a cuore le sorti del dialogo ecumenico è andato all’allora metropolita di Moldavia e Bucovina, Daniel Ciobotea. Chi meglio di questo 56enne - che vanta studi all’estero e tre dottorati, un insegnamento di otto anni all’Istituto teologico del Consiglio ecumenico delle Chiese a Bossey, in Svizzera, e una forte attenzione ai problemi della comunicazione e dell’informazione - poteva prendere la guida della seconda Chiesa ortodossa al mondo, dopo quella russa, con oltre 19 milioni di fedeli? Un’elezione tutt’altro che scontata, per i complicati equilibri di potere interni alla Chiesa rumena, che però si è risolta felicemente il 12 settembre, dopo l’assemblea di Sibiu. L’intervista con il neopatriarca di Romania, Daniel, parte dalla domanda che spesso le Chiese si sentono rivolgere.
Come possono i cristiani, così divisi, testimoniare l’unità?
«Le Chiese sono più credibili se lavorano insieme per far fronte alle problematiche attuali, sviluppando I’”ecumenismo della croce”, piuttosto che litigare tra di loro, isolarsi o ignorarsi. Il rinnovamento spirituale, necessario in questa Europa postmoderna, apatica e secolarizzata, presuppone una comune testimonianza delle Chiese di Cristo. Solamente una rinnovata e creativa fedeltà al Vangelo in una profonda percezione del mistero dell’amore di Dio per l’umanità - e non una vuota spiritualità fatta di ripetizioni di forme esteriori - può aiutare a superare il deserto spirituale, il “deserto della solitudine” del Vecchio Continente. Solo grazie alla preghiera comune, al dialogo e alla cooperazione possiamo vivere più profondamente il Santo Vangelo e, quindi, avvicinarci a Dio e ai nostri fratelli».
Quali sono te sfide principati per i cristiani della postmodernità? E qual è il volto dell’ecumenismo oggi?
«Le sfide principali sono la preservazione dell’identità religiosa, la conoscenza reciproca e l’apertura ai rappresentanti delle diverse confessioni. L’ecumenismo si declina come ecumenismo della croce, della carità, dell’umiltà, come ecumenismo spirituale. Non si tratta di un ecumenismo tattico-diplomatico: è piuttosto un’opera spirituale, un cambiamento del modo di vedere e di capire l’identità dell’altro. Questo cambiamento può essere attuato solamente tramite la forza plasmatrice dell’amore-agape. Di conseguenza, il principale compito spirituale delle Chiese di Cristo in Europa è quello di non considerare il nostro continente come autosufficiente, senza la luce di Cristo da trasmettere agli altri e, a nostro turno, da ricevere dai nostri fratelli cristiani. L’evoluzione spirituale è impossibile senza l’amore. Solo l’amore ci rende veramente liberi. E noi cristiani dobbiamo testimoniare Cristo nell’amore e nella carità».
Il cardinale Walter Kasper recentemente ha affermato che la Romania svolge un ruolo essenziale nel movimento ecumenico. Ma quali sono gli ostacoli per il dialogo ecumenico in Romania?
«E vero, in Romania l’ecumenismo è più avanzato che negli altri Paesi ortodossi. Il popolo rumeno è tollerante, aperto, ha convissuto pacificamente lungo i secoli con altre confessioni: i luterani, i riformati, i cattolici e anche con musulmani ed ebrei. I rumeni sono intrinsecamente tolleranti, perché sono una sorta di sintesi tra Oriente e Occidente. Certamente, però, per l’unità c’è ancora molta strada da percorrere. Potremmo lavorare insieme nei programmi di aiuto per gli anziani, per i poveri, per le persone sole e sofferenti. E, oltre all’approfondimento teologico e spirituale della tradizione comune e della luce di Cristo che condividiamo nel battesimo, potremmo sviluppare maggiormente l’aspetto della carità e dell’amore fraterno».
Dal punto di vista ecumenico, qual è il ruolo dei numerosi immigrati rumeni nei Paesi occidentali?
«Esistono più di un milione di rumeni che vivono in Italia e la maggior parte di loro pregano e celebrano la liturgia ortodossa nelle Chiese offerte dai cattolici. In Romania non possiamo più essere indifferenti al dialogo quando fratelli e sorelle della nostra Chiesa, all’estero, sono aiutati dalle altre Chiese. Dobbiamo uscire dall’isolamento, diventare sempre più collaborativi, senza però rinunciare alla nostra identità ortodossa. E questo perché, se perdiamo la nostra identità religiosa, non possiamo portare più nessun contributo al movimento di ricomposizione dell’unità cristiana. C’è bisogno degli ortodossi per via della loro ricchezza spirituale ma, a loro volta, gli ortodossi hanno bisogno di imparare la capacità organizzativa e di coordinamento degli altri cristiani. Noi cristiani rumeni dobbiamo coltivare le benedizioni che Dio ci ha dato. Papa Giovanni Paolo Il ha chiamato la Romania “Il giardino della Madre di Dio”, splendida definizione che riflette la lunga storia di spiritualità cristiana nel Paese, la devozione speciale che il popolo rumeno ha avuto da sempre per la Madre di Dio. Come in ogni giardino, evidentemente, c’è bisogno di molta cura nello scegliere i fiori e nel riconoscere le erbacce. Occorre approfondire la nostra fede, dobbiamo rafforzare la grande famiglia cristiana, agire in modo che la Madre del Signore non si rattristi quando sente parlare degli ortodossi rumeni o dei cristiani in generale, ma si rallegri».
Che ruolo svolge la preghiera per la realizzazione dell’ecumenismo?
«In primo luogo, la preghiera per l’unità dei cristiani rappresenta un dovere. Senza la preghiera non è possibile la riconciliazione e non possiamo superare i contrasti di ordine dogmatico, teologico e organizzativo tra le nostre Chiese. La preghiera - quando è fatta con umiltà - rappresenta la presenza stessa di Dio, dello Spirito Santo nell’essere umano. La preghiera non è un’opera umana ma divina, poiché è Dio che ascolta l’uomo che prega e risponde. Allora, la preghiera per l’unità dei cristiani rappresenta un dovere e un impegno sacro, come ci ricorda l’esperienza della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. In secondo luogo, la preghiera comune è una gioia immensa perché, al di là delle differenze esistenti, noi cristiani siamo accomunati dalla presenza nel Redentore, Gesù Cristo come Dio e vero uomo. In terzo luogo, la preghiera comune costituisce anche un supporto per un’azione comune. Spesso abbiamo bisogno di lavorare insieme per far fronte alla sofferenza, alla povertà, al degrado della vita familiare e sociale. E le Chiese diventano più credibili se lavorano insieme, Troppo spesso abbiamo litigato, polemizzato e ci siamo odiati. Tramite la preghiera comune, il dialogo, la cooperazione, viviamo più profondamente il Santo Vangelo, ci avviciniamo di più a Cristo».
“Ecumenismo della croce” “ecumenismo del cuore” sono definizioni che si aggiungono al più classico “ecumenismo spirituale”. L’ecumenismo, sempre più, sembra andare oltre l’idea di mere relazioni diplomatiche intraecclesiali, per riferirsi a un atteggiamento di comunione della gente comune, a un modus vivendi. Condivide quest’impressione?
«Direi di sì. Per la gente semplice le discussioni teologiche non sono molto accessibili. Però, se noi cristiani ci ritroviamo insieme per dare risposte a problemi urgenti ed esistenziali - penso alla sofferenza, all’atteggiamento verso la morte, alla povertà -, allora anche la gente semplice, vedendo l’amore e l’unità dei cristiani manifestati nelle azioni concrete, potrà capire il movimento ecumenico. Quanto al rapporto tra la diplomazia e il movimento di ricomposizione della visibile unità cristiana, direi che l’ecumenismo per il quale lavoriamo rappresenta un’opera spirituale, di conversione del cuore e, di conseguenza, un cambiamento del modo di vedere e di capire l’identità dell’altro. Troppo spesso l’identità dell’altro è percepita nebulosamente e semplicisticamente a causa di numerosi pregiudizi. Anche noi cristiani ortodossi siamo percepiti spesso come una Chiesa del passato, impantanata in una storia gloriosa, ma incapace di reagire di fronte alle problematiche emergenti Però, quando le persone comunicano tra di loro, si visitano, si conoscono nelle diverse tradizioni, allora la percezione dell’identità diventa più ricca, più ampia e più luminosa. Di conseguenza non possiamo limitarci a un ecumenismo di ordine diplomatico, perché porterebbe al fallimento del dialogo. Noi cristiani dobbiamo sviluppare un ecumenismo dell’umiltà, del pentimento per i peccati di ciascuno e, nello stesso tempo, dell’approfondimento della vita spirituale. Non si può realizzare l’unità delle Chiese su una base precaria, superficiale. Spesso i conflitti, anche teologici, sono il risultato di un pensiero superficiale. Solamente tramite un continuo approfondimento teologico della santa tradizione e della fede, concessa una volta per sempre ai santi, possiamo raggiungere l’unità. Noi non cerchiamo un’unità parziale, il metter assieme vari pezzi; cerchiamo invece la vera pienezza, la completezza della fede che è data nella Chiesa apostolica di Cristo e continuata dalla Chiesa ortodossa. La pienezza della Chiesa di Cristo è offerta come base di approfondimento, Non dobbiamo pensare gli uni contro gli altri, ma progredire insieme nella comprensione del senso spirituale del Vangelo e, soprattutto, della santità e dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Perché l’amore di Dio è rivolto a tutti gli esseri umani, non solo agli ortodossi o ai rumeni, Dobbiamo interrogarci, analizzare il nostro modo di pensare e di vedere le cose. Se il Santo Apostolo Paolo afferma: “Abbiamo il pensiero di Cristo” e se il Redentore ama tutti gli uomini, allora noi non possiamo fare a meno di pensare come Cristo».
(da Jesus, gennaio 2008)
Una nuova diocesi ortodossa
per il milione di rumeni d’Italia
Il prefabbricato è alle spalle della chiesa cattolica, al chilometro 37 dell’Aurelia. Siamo alle porte di Ladispoli venti minuti da Roma in auto, traffico permettendo. E qui che si è stabilita una delle colonie più numerose di immigrati rumeni. Ed è qui che ha sede la parrocchia ortodossa dedicata a Sant’Andrea, da tre anni ospitata in questo prefabbricato di sette metri per tredici che era servito alla chiesa cattolica dell’Annunziata durante dei lavori di restauro. «La nostra azione pastorale abbraccia un’area che si estende su 30-40 chilometri quadrati e arriva fino a Roma ovest», dice il parroco ortodosso Lucian Birzu, 29 anni, sposato, padre di tre bimbi e un quarto in arrivo.
E’ il lunedì che segue le celebrazioni per la festa solenne di Sant’Andrea. Il vescovo Siluan, ausiliare peri rumeni ortodossi d’Italia, è venuto a Ladispoli per consacrare un prete e un diacono e festeggiare la nascita della diocesi ortodossa rumena italiana. «Sarà una diocesi non territoriale a carattere missionario, necessaria per il milione e passa di rumeni immigrati», spiega Siluan, che ha partecipato alla Commissione per la Carta dei valori promossa dal ministero dell’Interno. Tra le tante urgenze pastorali con cui la diocesi dovrà fare i conti, c’è in primo luogo la necessità di far nascere nuove parrocchie, su un territorio nazionale che oggi conta una settantina di realtà dislocate per la maggior parte al Nord e al Centro, con solo una decina di presenze al Sud. «I rumeni sono un popolo con una forte sensibilità religiosa. La trasmissione della fede è sempre avvenuta in famiglia. E oggi questo patrimonio rischia di andare perduto».
A metà gennaio il Sinodo di Bucarest dopo aver consultato l’assemblea formata dai sacerdoti e da due laici provenienti da ognuna delle 70 parrocchie italiane, dovrà scegliere da una terna il nome del vescovo che guiderà la neonata diocesi (e probabilmente sarà lo stesso Siluan, dal 2004 in Italia, che vanta una buona conoscenza del territorio e della lingua). La sede centrale sarà a Roma, per assicurare un punto di riferimento ai sacerdoti e alle loro famiglie: «Un posto dove essere accolti, dove poter far giocare i bambini dove le donne potranno ritrovarsi». Già, perché una delle preoccupazioni che il Sinodo ortodosso di Romania affiderà al futuro vescovo sarà proprio la cura delle famiglie, a partire da quelle dei sacerdoti. Basti pensare alla condizione di un bambino che alla domanda classica: «Cosa fa tuo padre?», risponde candidamente: «Il prete».
«In Italia questa è una realtà nuova», spiega Siluan. «Qui tutti i nostri parroci sono sposati e le loro mogli non trovano un ruolo corrispettivo nella società, spesso non sono comprese». E già non si contano gli aneddoti di preti guardati con disapprovazione per una innocente passeggiata mano nella mano con la legittima consorte. Una diocesi dunque, per aiutare i preti e le loro famiglie, ma soprattutto per stare vicino a quanti lontani da casa, si sentono poveri, feriti, sradicati «E’ una tragedia quando a lasciare la famiglia in Romania è la madre, che viene in Italia e magari, come baby-sitter, cresce i figli di un’altra donna. Aiutare le famiglie a ricomporsi trovare degli spazi dove curare la formazione religiosa dei giovani e dei bambini, «senza trascurare quei talenti che la nostra Chiesa ha sempre coltivato: spazi non solo per socializzare ma anche per imparare a suonare, a dipingere». E poi il servizio ai carcerati e ai rom, che «non sono cristiani di seconda categoria».
I sacerdoti ortodossi rumeni che vengono destinati nelle parrocchie in Italia, spiega Siluan, sono selezionati attraverso due canali: «I laureati in Teologia che riportano un punteggio superiore a 8,50 su 10 e fanno un periodo di inserimento presso una parrocchia italiana; e i teologi che già sono in Italia per motivi di lavoro, che conoscono e capiscono la realtà in cui si trovano».
La nascita di una diocesi sostiene il vescovo, è una possibilità di fare esperienza di ecumenismo dal basso, di vincere il pregiudizio attraverso la conoscenza, perché «la gente vede come preghiamo, apprezza la nostra religiosità». «Qui a Ladispoli», aggiunge padre Lucian, «tanti italiani hanno accompagnato dei rumeni per matrimonio battesimi La parrocchia è come un’ambasciata: qui c’è un pezzo di Romania, che entra in dialogo con l’Italia».
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