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Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Domenica, 29 Giugno 2008 00:32

“Vestire gli ignudi” (Luciano Manicardi)

LE OPERE DI MISERICORDIA

di Luciano Manicardi

Imitazione della misericordia divina.

Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò (Gb 1,21)

La vita umana si svolge tra due nudità: quella dell’inizio della vita e quella della fine della vita. Due nudità differenti perché nel mezzo avviene il processo di soggettivazione: se si nasce nudi, alla fine della vita ci si spoglia. Ovviamente si tratta di un processo fisico che ha a che fare con la nudità del neonato e la nudità del morto, ma ha anche una valenza psicologica e simbolica: alla fine della vita si abbandona ciò a cui ci si era attaccati, si smette ciò a cui si era abituati, si elabora un lutto. In questo processo la carne che il neonato è, diviene corpo, e il corpo, con la morte, diviene cadavere. E la nudità del neonato e del cadavere è sempre rivestita da altri, mentre nella fase della soggettività l’uomo veste se stesso, tranne nei casi di impossibilità dovuti a malattia o handicap.

Quali sono allora le cause principali della felicità e della sofferenza? Noi buddhisti crediamo nella legge di causa ed effetto, il karma. Qualsiasi esperienza abbiamo, esterna od interna, dipende dall'accumulazione di impronte di azioni fatte in vite precedenti.

Mercoledì, 18 Giugno 2008 02:22

Un presente senza catture (Raimundo Panikkar)

Un presente senza catture

di Raimundo Panikkar


L'incontro delle tradizioni religiose dell'umanità oggi è inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante.

Ripeto, è inevitabile. Lo splendido isolamento dei vedantisti, dei cattolici, dei cristiani, di quelli che stanno dentro la muraglia cinese non è più possibile; l'incontro avviene già a casa nostra.

Alcuni paesi o civiltà come l'India sono sempre stati un mosaico di religioni, ma anche l'India ha creato le sue caste, caste religiose, per non contaminarsi gli uni con gli altri e da parecchi secoli spesso i cristiani hanno vissuto accanto agli indù senza avere nessun rapporto più profondo. L'Occidente ha vissuto con una certa ossessione dell'Islam durante alcuni secoli, ma poi si è accomodato in uno splendido isolamento, al punto che è stato necessario che venissero fuori i protestanti, perché altrimenti i cattolici da soli si sarebbero annoiati troppo.

L'incontro è inevitabile, ma ho detto che è importante, perché non è un incontro casuale; dal risultato di questo incontro dipende il futuro dell'umanità, che si verifichi una nuova guerra, una guerra religiosa; le guerre sono sempre più o meno religiose, perché si tratta di vita o di morte e non c'è altro modo di risolvere il problema; la definizione fenomenologica della religione: un problema ultimo.

L'incontro è così importante che il futuro dell'umanità dipende non dal capriccio di un politico o di un altro, ma dal clima che si è creato, che renda possibile che i politici in seguito ne siano influenzati.

Se le tradizioni religiose del mondo - e per tradizione religiosa intendo non soltanto quelle che hanno l'etichetta di religione, ma anche il marxismo, l'umanesimo, - non trovano in questo incontro un qualche cosa di positivo, l'umanità è condannata a sparire, i popoli a distruggersi a vicenda.

L'incontro è importante, non è un lusso, ma è anche urgente. Il culmine della saggezza in certo senso, anche in quello più volgare. consiste nel sa-per combinare l'urgenza della cosa con la sua importanza. Ci sono cose molto urgenti, ma non importanti, mentre al contrario, ci sono cose molto importanti, ma non tanto urgenti. A volte dimentichiamo le cose importanti e facciamo soltanto quelle urgenti, rovinando così la nostra vita; altre volte cerchiamo soltanto l'importante, senza accorgerci che questa cosa importante è rovinata perché quella urgente è già avvenuta e tutto è finito. La saggezza personale di ogni individuo consiste precisamente nel combinare l’urgente con l'importante. E urgente perché non c'è molto tempo. Non siamo preparati, dunque dobbiamo prepararci. L'incontro fra le religioni è confusionale. Io prima sapevo dove sono stato e adesso... sono confuso; chi non si sente confuso vuol dire che non ha capito, vuol dire che è superficiale, vuol dire che non gli importa niente di niente. Dunque anche la confusione fa parte del cammino, perché poi questa confusione è tanto più profonda in quanto tocca i pilastri stessi della nostra sicurezza. Abbiamo sentito una delle frasi più belle di Sartori, che se uno non muore alla sua fede non è degno della sua fede. E tutte le nostre sicurezze? Questa grande ossessione post-cartesiana dell'umanità, che fa sì che si cominci con la certezza e si finisca con la sicurezza, che si cominci con la certezza epistemologica e si finisca con la sicurezza politica delle armi?

È dunque confusionale questo incontro e lo deve essere; inoltre è rischioso. E rischioso perché quello che io metto in gioco è la mia fede, è la mia vita, è tutto quello che io penso sia la verità, è la cosa più importante e più centrale di tutta la mia esistenza, è quello che finora non si toccava. E rischioso, detto in linguaggio storico religioso, perché tocca il tabù. Come dice Avinava Gupta e dopo di lui Giovanni della Croce, (gli estremi si toccano) c'è un momento dove non c'è sentiero: anupaya, y en la fin no hay camino. Una in sanscrito, l'altra in spagnolo, ma vogliono dire la stessa cosa. E dunque rischioso. E rischioso, perché là dove non c'è un sentiero c'è pericolo.

Ultimo, è purificante. Forse proprio oggigiorno che siamo così sofisticati con la psicologia e con tante altre cose, questo incontro è l'unica scuola di vera umiltà. L'umiltà specifica che da solo non ce la faccio, che non sono autosufficiente, che non so tutto, che quel poco che sapevo e ritenevo che fosse certo, nemmeno questo lo è. E purificante, perché ci fa vedere nello stesso tempo i nostri errori personali e quelli del passato. E purificante, perché non giustifica che io mi lavi le mani perché durante le crociate io non c'ero, e quindi la mia visione personale, fantastica, del Cristianesimo va molto bene, ma non vuol sapere niente di altre pagine nere. E l'Induismo, il Buddhismo, per limitarmi a queste tre religioni, hanno anche loro le pagine nere. Se io fossi unjaìna, e lo sono un po' quasi onorariamente vi potrei parlare delle persecuzioni indù ai jaina. Quindi nessuno ha il diritto di scagliare la pietra su nessuno. E una purificazione collettiva, che riguarda i buoni, i cattivi, i giusti, tutti quanti. Sostengo dunque, come introduzione, che l'incontro fra le religioni ha queste caratteristiche.

le catture

Ma veniamo al tema le catture. La mia riflessione è che noi ci dobbiamo liberare, e liberazione vuol dire nirvana, vuol dire moksha, vuol dire soteria, vuol dire anche teologia della liberazione, se volete. Ci dobbiamo liberare dalle possibili catture che ci tengono o ci possono tenere prigionieri durante questo pellegrinaggio verso il futuro, perché mi si chiede che parli del futuro senza catture. Io preferirei questa volta disubbidire, soltanto parzialmente, e sognare un momento con voi, un presente senza catture. Se riesco a spezzare alcune di queste catture per il presente, avrò fatto - penso - il migliore servizio per il futuro.

Io ne vedo troppe di catture, ma ne vorrei segnalare quattro.

La prima ci viene dal di dentro, dalle nostre reazioni viscerali, da ciò che non è stato mai sognato, mai pensato, che è stato giudicato impossibile e quindi costituisce una specie di resistenza passiva, incosciente la maggior parte delle volte. Esiste un'inerzia dello spirito, favorita da tutta la parte pesante del nostro essere, dal costume, dalle consuetudini. Si dovrebbe e si potrebbe fare una psicoanalisi di questa nostra inerzia, che non è formulata, perché non è nemmeno cosciente, ma che è normale; là si fa così, ma qui si fa in questo modo e basta. Dobbiamo superare questa reazione viscerale.

le idee comandano?

La seconda cattura è ancora più forte. Se fossi in sede accademica direi che ci tiene prigionieri da Parmenide in poi. Siamo prigionieri del pensiero. Le idee comandano e ci dominano. E la prova più straordinaria che il pensiero è così potente, è che io calcolando con numeri irrazionali e facendo pura matematica costruisco un ponte e il ponte sta in piedi. In Occidente - e questo è il grande miracolo, se diabolico o divino, lo lascio da parte adesso - il pensiero ha dominato l'essere. Forse, però, siamo diventati schiavi dei nostri pensieri, dei nostri schemi intellettuali. Detto in un'altra forma, il logos ci domina. Già da principio i Padri greci avevano capito che c'era pericolo in Occidente, del cosiddetto subordinazionismo, cioè di subordinare nel fare teologia lo Spirito al logos e che il logos fosse tutto; mentre lo Spirito soffia non soltanto dove vuole, ma anche come vuole.

L'esempio più chiaro è la prigione dell'ortodossia. Io non ho niente contro l'ortodossia, dico soltanto che è una prigione, anche se alcuni la trovano confortevole perché si trovano sicuri. E interessante vedere questa specie di degradazione dall' ebraico, al greco, alle lingue che già i latini chiamavano volgari, de] termine kabot, la gloria del Signore, doxa, la potenza della gloria e doxa, la ortodossia, che ha molte poco di questa rifulgenza, di queste lume, di questa luminosità interna che si è convertita in schemi chiari precisi, distinti, cartesiani, sicuri forse certi, dentro un certo limite. Ci si è dimenticati che anche grandi pensatori, come il divus Thomas, sostennero che l'atto di fede non consiste nei dogmi, negli enunziati, ma punta direttamente alla cosa e che i dogmi sono soltanto canali per arrivare a quella, come nella metafora orientale in cui è il dito che punta la luna; se tu non guardi il dito, non vedrai la direzione della luna, ma se pensi che la luna stia nel dito, allora ti sbagli. Quindi, una volta che hai visto il dito, lo devi dimenticare.

Tutte le spiritualità, quando arrivano alla ultima formulazione forte, hanno una omogeneità straordinaria. Dice il Mahayana: «Se vedi il Buddha, uccidilo», perché quello che era il tuo aiuto per arrivarci, può dIventare il tuo ostacolo. Dopo Emmaus, penso che i cristiani possano egualmente dire: «Se vedi il Cristo, mangialo, non chiuderlo sotto chiave in qualche parte; fallo tuo, mangialo».

Le dottrine sono necessarie. La dottrina è una cosa straordinaria. Viviamo tutti in una società di consumo sulle dottrine, ma la dottrina non è la vita, lo scheletro non è l'individuo. Io non ho niente contro le dottrine, critico soltanto l'assolutizzazione delle dottrine e la confusione tra dottrina e realtà.

la contingenza delle culture

C'è un'altra cattura più sottile ancora, perché meno cosciente. La parola che forse la può descrivere meglio sarebbe l'ambiente, mentre il termine più appropriato sarebbe la cultura. Tutti quanti noi ci muoviamo dentro un ambiente, dentro una cultura. Abbiamo delle limitatezze che sono necessarie, di cui non possiamo far a meno; tutti noi siamo radicati dentro una cultura.

Un esempio banale, ma almeno chiaro: quando io ho cominciato a parlare, sicuramente tutti quanti di voi avete percepito che io parlavo con un accento piuttosto strano. La mia cattura dell'ambiente, non può essere vinta dicendo: «Beh, io non mi lascio imprigionare!». Ma soltanto essendo consapevole che io sono dentro un ambiente, che sto dentro una cultura, che sono contingente, limitato, che la mia visione non esaurisce l'esperienza umana, che io non posso in nessuna maniera avere la pretesa che le mie parole, le mie verità, le mie idee, le mie rappresentazioni, siano la totalità, che il mio mondo sia il mondo, la verità, l'ambiente, la realtà. Esse sono tinte del mio accento, delle mie limitatezze, della mia contingenza, della mia cultura, della mia forma di vedere, di tutto. Dobbiamo precisamente dire: «Sì, sto dentro un ambiente e questa è la mia condizione, questa è la condizione umana». Questa stessa pretesa d'universalità, di neutralità è ovviamente un'allucinazione possibile soltanto a colui che non ha avuto il correttivo dell'altro.

Perciò la quarta cattura è quasi il rovescio. Volendo uscire dal mio ambiente, volendo uscire dalle mie limitazioni, finisco per lasciarmi condizionare dall'ambiente e dalle limitazioni degli altri. Quindi parlo per gli altri, mi lascio alienare, in certo qual modo, da quello che penso sia il mio ruolo, (c'è un ruolo che consiste nel fare un po' il teatro). Non dimentichiamolo: il giansenismo, il manicheismo ci sono dappertutto. E in questo campo possono chiamarsi xenofobia come xenofilia, possono voler dire che tutto quello che viene da fuori dell'Italia è migliore o che soltanto noi cattolici o noi italiani siamo i migliori del mondo. Quello che dobbiamo realizzare non è un esercizio di pensiero, non è un esercizio di filosofia, di teologia, di acutezza, non è un esercizio di carità, (la tentazione di fare del bene è molto sottile, ma già Cristo ci ha avvertito: «lascia che le pietre rimangono pietre e non volerle convertire in pane»). Dentro la tradizione cristiana, (non l'indiana, perché qui la parola sarebbe molto diversa) si potrebbe dire che è una questione di santità, di purezza di cuore, di audacia, di libertà di spirito, di docilità alla grazia. E una questione che abbiamo avuto l'audacia di toccare sia l'anno scorso che quest'anno, e richiesta in maniera esigente di una donazione totale, di una docilità assoluta, una purezza trasparente. Diceva la Ung Ciung... «soltanto la sincerità più pura, soltanto la purezza più trasparente può effettuare un cambiamento». Qualsiasi cosa che venga da un cuore totalmente trasparente, da una intenzione completamente irriflessa, senza che nessun'altra cosa l'accompagni, può effettuare un mutamento.

Lasciate che vi racconti questa piccola storia di Bapuji Gandhi. Una buona donnetta del suo asram Damedavat che lo vedeva di tanto in tanto, un giorno va, tocca i piedi di Bapuji e gli dice: «Bapuji, dite alla mia ragazzina, (aveva una ragazzina di otto dieci anni) che non mangi tanti dolcini che le rovinano lo stomaco, che sia un po' più buona e che mi ascolti. Diteglielo per favore!». Gandhi non rispose niente, sorrise, lei capì e se ne andò senza dire altro. Settimane più tardi lo trovò un'altra volta e allora la donna, che non aveva più questo desiderio di far del bene a sua figlia, disse: «Bapuji per curiosità, perché non mi avete risposto quando vi ho fatto quella richiesta per mia figlia?» e Gandhi le rispose: «Sai, in quel tempo piacevano anche a me un po' troppo i dolci» e quindi le sue parole non avrebbero avuto nessun senso, nessun effetto. Soltanto la più pura sincerità, la più totale trasparenza può effettuare il minimo cambiamento, dice la saggezza cinese. Questo è il corollario: non si tratta di una buona teologia, si tratta di un'altra cosa; questo è il Kairòs, questa è la sfida.

l'avventura della fedeltà

Il primo problema è teologico. Intendo anzitutto teologico nel senso tradizionale della parola, cioè che implica santità, fedeltà E qui vorrei essere molto chiaro. Non si tratta in alcun modo di diluire, debilitare la propria convinzione, la propria fede, la propria religione; non si tratta di cercare un comune denominatore facendo concessioni qua e là, a motivo della pace, dell'ecumenismo, della convenienza, della tolleranza tra i popoli. Non si tratta dunque dì creare una specie di ecumenismo alla bière, come io lo chiamo parlando con gli ecumenisti francesi. Dinanzi a un bicchiere di birra tutti quanti siamo ecumenici. E il problema che mi sta a cuore non è domandare un'apostasia; non è che io diluisca le mie convinzioni e che a motivo degli altri sia traditore, cerchi un comune denominatore e voglia fare dei compromessi. Non si tratta, per ripetere le parole di Paolo, di svuotare lo scandalo della croce, di essere meno cristiani per essere più ecumenici; si tratterebbe, semmai, di essere migliori cristiani per essere migliori ecumenisti. Il dialogo non è un segno di insicurezza, ma è un segno di maturità e soprattutto di assenza di paura. Se vado al dialogo con paura, tutto quello che ho paura di perdere è bene che lo perda quanto prima, perché allora sarò liberato dalla paura. Tutto quello che può morire muoia quanto prima e più presto verrà la risurrezione. Quindi il problema teologico consiste nel non minimizzare le differenze, non evitare i problemi scottanti imbarazzanti, ma nel penetrarli più dal di dentro e dì compiere quello che io posso.

Lasciatemi qui stabilire tre punti fermi che prendo da: 1° Timoteo, 2° Timotero, e 3°, tutta l'epistola agli Ebrei e ai Romani, tre punti fermi garantiti dalla stessa Scrittura fondamentale del cristianesimo. «Deus vult omnes homines salvos fieri, Dio vuole che tutti gli uomini si salvino»: questo dicono i cristiani ripetendo la loro Scrittura. Dunque, se Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e questa non è una velleità divina, questo stesso Dio, parlo il linguaggio cristiano tradizionale, deve concedere agli uomini dei mezzi di salvezza che siano alla loro portata di mano. E quello che sta a portata di mano di tutti gli uomini sono precisamente le tradizioni religiose. Quindi le religioni dell'umanità sono i mezzi ordinari voluti da Dio per la salvezza degli uomini; sto facendo teologia cristiana. Ogni autentica religione è cammino di salvezza, e prima già ho detto che io non limitavo il nome di religione a quelle che ne hanno l'etichetta, che in fondo sono soltanto le religioni abramiche, perché né il Buddhismo né l'Induismo sono contente se le chiamano religioni. Non possono «religare» niente, è tutto un altro universo di discorso; comunque possiamo utilizzare questa parola, se gli indù e i buddhisti l'ammettono, perché la utilizziamo tra virgolette. Questo è così pacifico - non voglio fare qui autobiografia – che anche il Concilio l'ha accettato.

Seconda, e forse il più difficile di questi punti fermi. «Unus mediator, un unico mediatore» dice anche l'epistola a Tito. Sì, i cristiani non possono fare a meno di credere che c e un unico e solo mediatore. Se rinunciano a questa intuizione per motivi di ecumenismo tradiscono venti secoli di tradizione cristiana. Da parte mia credo che c'è soltanto un unico mediatore (con questo mi rendo più vulnerabile, se volete), che c'è Cristo e soltanto Cristo come simbolo per i cristiani, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, che è l'alfa, l'omega, il ricapitolatore di tutto l'universo, il monoghenés, il protoghenés, il primogenito, l'unigenito, la luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo, colui per cui tutte le cose sono state create, in cui tutto risiede, consta e ha la sua forza, in modo tale che io filosoficamente direi che l'essere è una cristofania. Quindi, ci credo. Continuo però dicendo che: 1°) Il Cristo, (vi faccio questo riassunto neotestamentario assai rapido) non è identico a Gesù. Gesù è il Cristo e chi dice questo credendoci è un cristiano, ma Cristo, pur essendo Gesù, è molto di più, (il «più» qui non va) e non si può identificare con Gesù. L'eucarestia per il 90% dei cristiani è il Cristo, ma nella eucarestia non si mangiano le proteine di Gesù di Nazaret. «Lo avete fatto a me», ho commentato prima. Gesù è morto, quello che è risorto è il Cristo, che è un'altra cosa; che è la stessa da un certo punto di vista, ma che non si può identificare. 2°)1 cristiani non hanno il monopolio di Cristo. 3°) I cristiani non conoscono del mistero di Cristo che una piccolissima parte, non lo possono manipolare per i propri fini, questo Cristo li trascende totalmente; il Cristo ha altre dimensioni, aspetti, forme, di cui i cristiani non sanno assolutamente niente, non sono loro i padroni di Cristo, loro conoscono del Cristo qualcosa che per loro è essenziale, che per loro è centrale, ma questo Cristo-Mistero trascende da tutte le parti quello che i cristiani pensano, credono in Cristo. Perciò io mi per-metto di dire che il Cristo, in questo terzo senso, è nascosto, sconosciuto, presente e effettivo in ogni autentica religione.

Quindi il mistero di Cristo è mistero di Cristo e, se noi utilizziamo la parola nel suo senso reale, non possiamo in alcun modo pretendere di avere conoscenza, manipolazione di questo mistero.

Qui c'è una cosa che io ho chiamato «pars pro toto effecto». Ciascuno di noi vede il mondo da una finestra e non può non vederlo che da una finestra e quanto più trasparente e bella è la finestra meno si vede, meno consapevoli siamo di vedere attraverso la nostra finestra. E noi vediamo tutto il mondo, tutto. Io non sarei cristiano se pensassi di appartenere ad una piccola setta che esiste soltanto da due millenni; io non voglio appartenere a nessuna setta, io non voglio consacrare la mia vita soltanto a una cosa che è avvenuta duemila anni fa, quando l'umanità esisteva per lo meno da mille anni prima e aveva fatto tante cose belle... No, la mia appartenenza al Cristianesimo non è l'appartenenza settaria a una forma; io riconosco le mie limitatezze e so che non posso fare a meno di dire che per me il Cristo è il simbolo di questo, che gli altri chiamano con altro nome, che vedono in modo diverso, che ha anche dimensioni per me completamente sconosciute e per me anche inaccettabili dal mio punto di vista. È il «pars pro toto effecto». Io vedo il totum in parte e ho bisogno dell'altro per dirmi che sto guardando attraverso l'apertura di una finestra, perché io non la vedo; quanto più la finestra è pura finestra tanto meno è visibile, ma qui», e io gli dirò: «Anche tu». Ebbene, noi due vediamo la stessa cosa, non vediamo due punti diversi. La mentalità scientifica ci ha contagiato in modo tale che tante volte l'ecumenismo consiste nel dire: Beh, qui c'è il grande dolce, facciamo una parte per te, una parte per me, la mia è un po' più grande della tua, è un po' superiore, ma tutti insieme facciamo la torta. Non è una torta. Io non mi accontento di avere una parte di torta, io la voglio tutta, ma la voglio tutta con la mia limitatezza. Quindi, vedete, non si tratta di un po' plus bon marché, di fare un cristianesimo più facile; al contrario, «unus mediator». Il cristiano cesserebbe di essere cristiano, se non pensasse che nel Cristo sta tutta la pienezza, la ricchezza della divinità, ma questo mi trascende; perciò qualsiasi discorso cristiano, ecumenista, che taccia sul Cristo evita il problema. Quello di cui c'è bisogno è una cristologia umile e perciò capace di non voler essere né universale né onnicomprensiva, ma non per questo cessa d'essere la mia visione. I cristiani non possono fare a meno di dire che questo Cristo loro lo hanno tutto, nella loro forma, nella loro limitatezza. Le mie premesse adesso si capiscono forse meglio.

Ho detto che non volevo parlare troppo di questo excursus teologico. La terza grande verità, che non sarebbe solo cristiana, ma anche di tante altre religioni: sola fides. La salvezza non è un atto automatico, un happy end e quindi è necessaria la fede. E questa la dottrina cristiana; senza fede uno non si può salvare, senza entrare ora nel merito di cosa sia la salvezza. Se noi manteniamo questi tre punti penso che anche il teologo più esigente non può dire che nell'incontro delle religioni si faccia un eclettismo più o meno superficiale. Devo subito aggiungere che quando dico fede, dico fede, non credenza, non l'articolazione della fede secondo un linguaggio, secondo una cultura, secondo una prospettiva, secondo «una finestra». Gli articoli di fede non sono la fede, sono quel bagaglio dì cui c'è bisogno perché io possa, come essere intelligente e intellettuale, più o meno formulare una cosa che mi permetterà poi dì saltare in una realtà che non ha formulazione possibile. Anzi, io direi - e qui non lo sviluppo da un punto di vista esclusivamente teologico, cattolico, apostolico, tridentino - che la fede non ha oggetto; sarebbe idolatria. La fede è una dimensione costitutiva dell'uomo, la fede è la capacità di essere aperto, di essere non-finito, infinito, di più, d'essere capace di trasformarmi, di crescere e, che io sappia, questa capacità dì «più» tutta la tradizione cristiana l'ha chiamata theosis, la divinizzazione dell'essere e dell'essere umano, io direi di tutte le cose. Quindi la fede è necessaria, ma la fede non sono le mie idee sulla fede o il mio articolo di fede o tutto il mio credo. Il mio credo è là dove io deposito il mio cuore, che è quello che la parola credo vuol dire: credo, cardia, in sanscrito stradda, la donazione del mio cuore. Ma devo esser breve, quindi passo al secondo punto dei tre problemi fondamentali. Il primo problema fondamentale, ripeto, è il problema teologico nel suo doppio versante di santità, di fedeltà e di elaborazione intellettuale, per poter esprimere il più correttamente possibile questo mistero. In questo caso di una religione che, essendo concreta, si apre a tutto il possibile.

Il secondo problema è il problema ermeneutico. Ermeneutico è una di queste parolacce che i teologi, i filosofi inventano e che vuol dire interpretazione. Io devo saper interpreta-re le altre tradizioni religiose, devo saper interpretare cosa è l’induismo, cosa è il Buddhismo o cosa sono gli altri. Il metodo ermeneutico non può essere mai a senso unico; cioè a me piacèrebbe sapere come se la cavano questi indù, buddhisti in queste cose, ma non sono disposto a che loro mi facciano la stessa domanda. Se l'incontro delle religioni non si fa sempre a doppio senso, non è un vero incontro. Seconda regola ermeneutica: non posso fare la caricatura d'una religione e confrontare l'inquisizione, le crociate, le guerre di religione con il dammapala, le Upanishad, la mia grande filosofia indiana; o non posso mettere a confronto le superstizioni e tutte quelle cose che capitano nel Gange e il sermone della montagna, la purezza del Vangelo... Non si può fare la caricatura dell'uno e confrontare aspetti eterogenei. Se vogliamo confrontare la superstizione confrontiamo la superstizione, se vogliamo confrontare una cosa buona, facciamolo con un'altra cosa buona.

C'è un malinteso direi quasi costitutivo nell'interpretazione vicendevole delle tradizioni religiose. I cattolici hanno interpretato i poveri indù, cominciando col dar loro un nome che non avevano; l’Induismo è stato un'etichetta che hanno dato loro, ma loro non si chiamavano indù, erano molto contenti senza questo nome. Io direi che più del 90% di tutti i libri scritti in Occidente sulle religioni dell'Asia fanno una descrizione inadeguata e, se ne volete la conferma, provate a leggere qualcosa che alcuni indù o alcuni buddhisti hanno scritto sul Cristianesimo: sì, dicono delle cose vere, ma non capiscono. È chiaro, perché qui sta il grande problema ermeneutico: non si può capire una religione soltanto dal di fuori, non si può capire una cosa, se allo stesso tempo uno non è convinto che quello che capisce è verità. Non posso capire qualsiasi cosa dell'ordine della fede, se io non credo in certo qual modo che quella è la verità; non posso capire l'Induismo, se io non sono convinto che l'Induismo è un veicolo di verità.

In sede accademica io ho sviluppato tutta una teoria sulla fenomenologia religiosa che dice che la fenomenologia religiosa è sui generis e così sui generis che non ha «noema», come ben sanno quelli che sono specializzati su Husserl. Non c'è noema, ma c'è una cosa che io ho battezzato col nome di pistema, cioè la fede del credente appartiene essenzialmente al fenomeno religioso. Perciò io debbo descrivere quello che il credente crede, non quello che io credo che lui creda, e io non posso descriverlo se non ci credo, perché allora non descrivo quello che lui crede, descrivo quello che io credo che lui dovrebbe credere o che lui non crede. Si capisce che le autorità, al plurale, siano così preoccupate, perché tu non lo puoi capire se non ci sei dentro, quindi se, in un certo modo, non ti puoi convertire, altrimenti fai una caricatura. La necessaria conversione. Io non posso dire: «questo è verità», se è sbagliato, perché, se lui non crede a quello che io credo che lui creda, è tutta un'altra cosa.

Ho passato 40 anni a fare questo lavoro, quindi vi potrei parlare del sistema, pistis-fede, pistema, corrispondente a noèma, da noùs. Se possa prendere il pistema del credente di un'altra tradizione religiosa per poterlo prima descrivere e poi valutarlo in certo qual modo, è un problema ermeneutico formidabile.

E terzo, sempre a proposito dell'ermeneutica: c'è un'altra cosa che appartiene a quello che io dicevo con il logos (almeno il mio sistema è coerente). Non è necessario di capire tutto. Perché vogliamo capire tutto! Io penso che questa è la sindrome maschile più perniciosa. Voi ricordate Luca, il maschio Luca evangelista, per tre volte con una condiscendenza maschile ci dice che Maria non aveva capito ma conservava le cose nel suo cuore. Meno male! Conservare le cose nel cuore senza capirle forse appartiene a una saggezza superiore.

La situazione attuale non ha modelli

Il problema filosofico è ugualmente serio. Sono convinto - e qui faccio un discorso eminentemente occidentale, - l'Occidente non deve dimenticare una delle sue forze più importanti, lo spirito critico, lo spirito d'analisi, il senso di dubbio, uno spirito critico che direi post-illuministico. Perciò prima ho detto, e non mi sono voluto correggere perché non ho visto nessuna mano che mi domandasse un chiarimento, che le religioni sono mezzi ordinari di salvezza. Il filosofo e lo spirito critico correggerà questa frase e dirà che le religioni sono progetti di salvezza, non mezzi. Hanno il progetto e tutte le religioni ce l'hanno, ma un progetto non è necessariamente un mezzo. Il discorso filosofico, che è quello dello spirito critico, vuoi dire, in altre parole, che la situazione di questa nuova costellazione umana delle diverse tradizioni religiose dell'umanità che cominciano a riconoscersi le une con le altre, non va risolta con l'esclusivismo: Io, e se non sono unico, sono almeno un po' superiore. La superiorità cristiana è un peccato contro lo Spirito Santo. Non va risolta nemmeno con l'inclusivismo: in fondo diciamo la stessa cosa, tu sei un cristiano anonimo, tu sei un credente che si ignora, nel fondo più profondo, nella mistica siamo tutti la stessa cosa, nella notte tutti i gatti sono neri… Siccome ebbi la fortuna di essere il primo ad ascoltare, il contributo a Salisburgo di Karl Rhaner (eravamo Alexander von Rondl, Vareno, io e un altro) io gli chiesi, quando lui sviluppò la teoria dei cristiani anonimi, se lui sarebbe stato contento che io lo chiamassi un buddhista anonimo. Quindi, né esclusivismo ne inclusivismo. L'unica parola che qui forse servirebbe è quella di pluralismo, e pluralismo non è pluralità, non e considerare ciascuno come il piccolo pezzo di tutto il grande meccanismo; no, pluralismo è quel pars toto che dicevo prima, pluralismo vuoi dire che nessuno può esaurire, tutto lo spettro dell'esperienza umana. Che non si può racchiudere la realtà in un solo schema, perché la realtà non è schematica, non è nemmeno trasparente a se stessa, cioè uno non ha bisogno di essere aristotelico, monoteista o hegheliano per credere nella noesis, nella riflessione totale o in un Dio trasparente a se stesso, onnisciente rispetto a tutto il reale. La verità stessa è pluralista che non vuoi dire plurale. E un altro spunto che non sviluppo di più. Passo subito al mio quarto e ultimo punto di questa quaternitàs perfetta. Questo è il mio ultimo e breve punto, quello che mi piacerebbe chiamare la fecondazione mutua. Non possiamo soltanto guardare indietro, non possiamo soltanto ritornare alle fonti, non possiamo credere che la storia sia finita, non possiamo accontentarci di rifare gli sbagli degli altri o correggerli. Siamo in una situazione nuova e non sarei originale se io citassi della Bibbia che lo Spirito fa nuove tutte le cose. La situazione attuale non ha modello, non si tratta soltanto di andare indietro odi predicare tolleranza, o di fare tutte queste piccole cose che ho cercato di fare. Siamo dinanzi a una situazione medita, perciò ho cominciato dicendo che tutto il mio discorso voleva essere una preghiera, perché è pieno di questo senso di precarietà, dato che non sappiamo dove andiamo, ma non c'è nemmeno bisogno di saperlo, purché si sappia quel è il prossimo passo.

senza preservativi spirituali

La conseguenza di tutto quello che ci è stato detto è che non dobbiamo aver paura, paura dell'ignoto, paura del nuovo, paura dell'insospettato, paura del pericoloso, paura del rischio, paura di perdere la fede o la vita, paura di non sapere qual è il prossimo passo. Il nuovo è nuovo perché è sconosciuto, perché rischioso e quando parlo della fecondazione mutua tra le diverse religioni penso che la maggioranza di voi ha capito che non c'è fecondazione senza amore, che non c'è fecondazione se mettiamo preservativi spirituali e preservativi religiosi. La fecondazione deve essere naturale e deve essere figlia dell'amore; e il figlio che nasce malgrado tutte le cautele è sempre un rischio, è sempre insospettato, è sempre più bello in ultima istanza, almeno per i genitori, di quello che si aspettavano. Se noi non siamo coscienti che facciamo qualcosa di storico, allora non vale la pena. Se tutta la nostra vita, la nostra fedeltà, tutta la nostra storia è soltanto per fare un piccolo scherzo per passare il tempo, allora non vale la pena.

Non sappiamo dove andiamo. Niente è più difficile che gestire la libertà vogliamo sempre le cipolle d'Egitto e quando ci dicono: questa sicurezza no, quell'altra no, allora cerchiamo di guardare indietro per tornare un'altra volta a qualcosa che ci dia almeno un appiglio. Se parlasse il buddhista direbbe che non si tratta nemmeno di prendere rifugio nel Buddha, che il Buddha è sparito. Racconta una bella leggenda mahayana, che un grande bodhisattva dopo la sua vita se ne andò nel settimo cielo per vedere dove abitava l'Adibuddha, Gautama, il Buddha primigenio; non stava nel primo cielo, nè nel secondo nemmeno, nel terzo. Percorre tutto il Paradiso di Dante e finalmente arriva nel settimo cielo, animato dalla sua curiosità di vedere dove si trovi questo grande, il primo dei bodhisattva, l'Adibuddha. Tutte le stanze sono vuote, non c'è niente da trovare, finalmente un angelo se volete gli dice «Che cerchi?» «Cerco il Buddha, Adibuddha». Lo guarda con questa faccia di angelo innocente. «Ma non sai che il Buddha è sceso sulla terra e starà là fino a che l'ultimo essere vivente sia riuscito ad avere la liberazione!».

La fecondazione mutua vuoi dire, conoscenza, che non è possibile senza simpatia e senza amore; dopo il rischio che nasca un figlio, il rischio che venga qualcosa di nuovo. L'atto della libertà: se la fede non ci fa liberi, non so cosa sia la fede.

Diceva Gregorio di Nissa, vecchio cappadociano, padre della chiesa, commentando l'atto fondamentale di tutte le religioni abramiche, quando Abramo con un atto di fede ubbidisce a Javeh che gli dice di andarsene, lui e tutta la sua tribù, fuori della città di Ur: «e allora Abramo sapeva che andava per un buon cammino, perché non sapeva dove andava». Soltanto se noi sappiamo dove andiamo, se non programmiamo dove andiamo, se non abbiamo bisogno di una intelligenza artificiale o di un computer che ci dica i passi da fare, faremo la continuazione dell'opera creatrice. Questo è il programma che io penso che abbiamo dinanzi di noi. Questo mi ha portato in altra sede a invocare la necessità non di un Vaticano III, né di una Chicago 1, ma di una Gerusalemme II°, cioè di adunare tutti gli uomini e io direi, dato che sono troppo buddhista, tutte le cose, gli animali, le piante e di fare un concilio questa volta veramente ecumenico, per vedere se l'umanità sa reggere la sua libertà, questo dono di cui finora abbiamo abusato. Io credo che il destino sta nelle nostre mani e questo, almeno per me, è una sorgente di gioia.

(da Rocca, 1 ottobre 1987, pp. 54-59)

Le Chiese dell'oriente cristiano

La Chiesa ortodossa in America

di John Nellykullen



L’ortodossia arrivò in America quando un gruppo dei missionari ortodossi del monastero di Valaam giunse in Alaska nel 1794. In quel tempo l’Alaska era un territorio della Russia imperiale. La prima chiesa fu costruita nell’isola Kodiak, e un certo numero degli abitanti dell’Alaska fu battezzato. Neln 1840 una diocesi fu eretta per la Kamchatka, per le isole Kurili e per le Aleutine, con sede a Sitka. Il primo vescovo fu Innocent Veniaminov, che divenne in seguito il metropolita di Mosca. Verso 1867, quando l’Alaska fu venduta agli Stati Uniti, la missione russa stava crescendo tra gli abitanti locali e la bibbia e la liturgia ortodosse erano state tradotte nelle lingue locali dell’Alaska.

La sede centrale della diocesi fu trasferita da Sitka a San Francisco nel 1872. Quando il vescovo Tikhon fu nominato per il Nord America nel 1898, c’era una grande crescita della popolazione ortodossa nell’est a causa dell’arrivo di nuovi immigranti. Quindi la sede diocesana fu trasferita a New York nel 1905. Tikhon consacrò un vescovo ausiliare per l’Alaska nel 1903 ed un altro ausiliare per le parrochie Arabe nel 1904 con residenza in Brooklyn, a New York. Nel 1905 il vescovo Tikhon fu elevato al rango di arcivescovo e, dopo aver lasciato l’America nel 1907, ha servito varie altre diocesi e quindi è stato eletto Patriarca di Mosca e di tutta la Russia nel 1917. Morì agli arresti domiciliari nel 1925 e fu canonizzato nel 1989 come Confessore dalla Chiesa Ortodossa Russa.

Un numero significativo di cattolici di rito orientale si unì alla Chiesa ortodossa russa in America alla fine del diciannovesimo secolo. Parziale ma importante motivo di ciò fu il fatto che alcuni vescovi cattolici non accettavano nelle loro diocesi i sacerdoti cattolici sposati, di rito bizantino. L’arcivescovo John Irland di St. Paul , per esempio, rifiutò come parroco per la parrocchia cattolica rutena di Minneapolis il P. Alexis Toth perchè era un vedovo. Di consequenza Toth e suoi parrocchiani passarono alla Chiesa ortodossa russa nel 1891. Thot fondò 17 parrocchie ortodosse negli USA per i cattolici Ruteni che passavano alla chiesa ortodossa. Toth fu canonizzato nel 1994 come persona santa dalla Chiesa ortodossa in America.

Una arcidiocesi ortodossa greca dipendente dalla Chiesa di Grecia fu fondata nel Nord America nel 1921. Questa fu in seguito trasferita al patriarcato ecumenico, ma ciò segnò la fine dell’unità ortodossa nel continente e preparò la via per la fondazione di altre giurisdizioni ortodosse per i vari gruppi etnici dipendenti dalle loro chiese madri d'oltremare.

In seguito alla rivoluzione dei Bolscevichi in Russia nel 1917 ci fu una grande affluenza di immigrati russi in America. Costoro erano coscienti della persecuzione della loro Chiesa in Russia da parte dei comunisti perciò nell’aprile del 1924 la diocesi ortodossa del Nord America divenne autogovernata pur rimanendo in comunione con la Chiesa Madre Russa.

Nel 1935 si ebbe un accordo con la Chiesa Ortodossa Russa all'estero per cui furono rotti i rapporti con il Patriarcato di Mosca e nacque la Metropolia nord-americana, considerata una delle regioni della Chiesa all'estero, con esercizio di governo indipendente.

Però dal 1946 divenne chiaro che la Chiesa Ortodossa Russa all'estero mancava di legittimità canonica agli occhi di tante altre chiese ortodosse perciò la metropolia ristabilì i rapporti con Mosca in quanto Chiesa Capo Spirituale, ma a condizione di conservare l’autonomia amministrativa.

Nel 1970 il Patriarcato di Mosca concesse lo stato di autocefalia alla metropolia nord-americana che adottò il nome di Chiesa ortodossa in America (OCA). Le parrocchie russe in America che vollero rimanere direttamente sotto la giurisdizione di Mosca ebbero il permesso di farlo. Questo atto provocò uno scambio di lettere tra Mosca e Constantinopoli, in cui il Patriarcato ecumenico impugnava l’autorità di Mosca a concedere l’autocefalia alla propria Chiesa figlia. Questa situazione dell’OCA fu in seguito riconosciuta dalle chiese ortodosse di Bulgaria, Georgia, Polonia, Cecoslovacchia.

Ci sono contatti significativi tra l’OCA ed il Patriarcato ecumenico. Delegazioni dell’OCA hanno visitato Istanbul nel 1990 e nel1991. Un altro incontro è avvenuto durante la visita del Patriarca Dimitrios negli Stati Uniti nel luglio 1991. Il Metropolita Theodosius ha guidato una delegazione in visita al patriarcato nel dicembre del 1992. Ad Istanbul sono stati ricevuti dal patriarca Bartolomeo e hanno avuto incontri con la commissione sinodale per gli affari interortodossi. Entrambi hanno espresso una commissione per l’unità e l’ordine canonici ortodossi in America. Un altro passo in questa direzione vi è stato quando quasi tutti i vescovi ortodossi degli Stati uniti e del Canada si sono incontrati a Ligonier, in Pennsylvania, dal 30 Novembre al 2 dicembre del 1994. I vescovi riuniti hanno abolito l’uso della parola “in diaspora” per descrivere la secolare presenza ortodossa in America, e hanno deciso di prendere misure concrete per coordinare la loro attività ed il loro lavoro verso l’unità ortodossa nel continente. Susseguentemente, il Patriarcato Ecumenico ha rifiutato la dichiarazione di Ligonier.

In pratica l’OCA è in comunione con le altre chiese ortodosse, ed i suoi vescovi prendono parte alla Standing Conference of Canonical Orthodox Bishops in America. Però l’OCA non ha potuto partecipare all’attività pan-ortodossa e al dialogo teologico internazionale con le altre comunioni cristiane perchè manca del necessario riconoscimento unanime del suo stato di autocefalia. Tuttavia in questi ultimi anni 2000-2006 sono stati fatti ulteriori passi in avanti.

Il 17 maggio 2007 lo scisma si è formalmente ricomposto, con la firma di un atto di riunificazione da parte del patriarca russo Alessio II e del metropolita Lavr, capo della chiesa estera, nella cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. A seguito della firma, le due delegazioni hanno celebrato congiuntamente l'Eucaristia.

Tre altre giurisdizioni ortodosse di diversi situazioni etniche sono giunte alla piena comunione canonica con l’OCA, dandole un carattere multi-etnico. Esse sono: la diocesi Albanese con 13 parrochie, la diocesi bulgara con 16 parrochie, e la diocesi rumena con 56 parrochie.

Vi sono sei comunità monastiche sotto la giurisdizione diretta del primate. Le più grande di queste è il New Skete Monastery con l’affiliato monastero di Our Lady of the Sign in Cambridge, NewYork, ed il St. Tikhon’s Monastery in South Canaan, Pennsylvania. Tredici altre comunità monastiche OCA in Nord America sono sotto la giurisdizione delle diocesi locali.

Attualmente l’OCA dirige tre scuole teologiche: il St. Herman’s Orthodox Theological Seminary in Kodiak, Alaska, fondato nel 1973 per formare chierici e altri agenti pastorali originari dell’Alaska, il St.Tikhon’s Seminary in South Canaan, Pennsylvania, fondato nel 1937 e che è affiliato al monastero St. Tikhon. La più grande e più conosciuta scuola è il St. Vladimir’s Orthodox Theological Seminary in Crestwood, New york, fondato nel 1938. Nel dicembre del 1994 la Chiesa ortodossa in America ha avuto in uso la chiesa di santa Caterina in Mosca come sede della sua rappresentanza presso la Chiesa ortodossa Russa.

Negli Stati Uniti ci sono 12 diocesi e 623 parrochie, missioni, e istituzioni appartenenti all’OCA. Le diocesi etniche si estendono anche in Canada, dove è anche una diocesi non etnica presieduta dal vescovo Seraphim. Complessivamente ci sono 91 parrochie canadese. L’OCA ha un esarcato messicano con nove parrochie e missioni e ci sono cinque parrochie in America del sud. Inoltre ci sono tre parrocchie in Australia sotto la giurisdizione canonica della OCA, due in Sydney ed un’altra vicino a Brisbane.


Territorio: Nord America

Guida: Metropolita Theodosius

Titolo: Arcivescovo di Washington, Metropolita di tutta l’America e del Canada

Residenza: Syosset, New York, USA

Membri: 1.000.000

Sito internet: www.oca.org

L'antinomia dell'unità in Vladimir Zelinskij

di Adriano Dell'Asta





Nella storia del movimento ecumenico (1) è possibile enucleare il ricorrere monotono e dolente di due atteggiamenti, come una costante che si mantiene a prescindere dai successi o dagli insuccessi, dalla maturità o dall'immaturità dei tempi e dei loro protagonisti; questi due modi d'essere sono quelli che Vladimir Zelinskij cataloga sotto il titolo di «ecumenismo selvaggio» ed «ecumenismo erudito». (2) Il primo, nello slancio generoso di un cuore indocile e impaziente, anela sì sinceramente alla fonte dell'acqua viva ove placare la sete comune, ma nel suo superficiale altruismo è contraddistinto da un sostanziale misconoscimento della controparte, un misconoscimento che porta alla conclusione un po' troppo sbrigativa e andante secondo cui fra la Chiesa d'oriente e quella d'occidente non vi sarebbero differenze. Il secondo, quasi sempre generato invece da un diverso - ma altrettanto sincero - desiderio di conoscere i fratelli dell'altra Chiesa, finisce spesso col rilevare solo le differenze, differenze così reali, studiate e discusse che la conclusione cui inevitabilmente approda è che delle due parti l'una ha ragione e l'altra ha torto. L'esito di questi due contrapposti atteggiamenti è identicamente sconsolante: nell'uno e nell'altro caso, infatti, si è ugualmente incapaci di riconoscere l'altro e di unirglisi, per il semplice fatto che nel primo caso l'altro non esiste neppure più in quanto altro (alterità impensata), mentre nel secondo l'alterità è divenuta così radicale che non può esistere più se non per essere negata (alterità impensabile). Esito sconsolante e paradossale insieme, in quanto questa incapacità di pensare o di accettare l'alterità si presenta in un tempo in cui le Chiese hanno ricominciato a chiamarsi e a concepirsi «sorelle» e sono state capaci di giungere sino alla cancellazione degli anatemi del 1054.

I vicoli ciechi in cui sembra chiuso l'ecumenismo, però, più che dipendere da un'incapacità di pensare l'alterità e le differenze esistenti in termini che rendano ragione dell'unità cui si anela e realizzino poi l'unione, dipendono piuttosto da una più radicale incapacità di pensare l'unità in termini che rendano ragione delle differenze esistenti anche in un'unione finalmente realizzata.

L'importanza di questo spostamento del cuore del problema ecumenico dal tema delle differenze a quello detl'unità, che è uno degli elementi caratterizzanti della proposta di Zelinskij e il fondamento di ogni autentico progresso ecumenico, potrà risultare ancor più comprensibile se consideriamo due questioni sulle quali si sofferma lo stesso Zelinskij: una è quella delle conversioni personali e dei cosiddetti «camuffamenti liturgici», l'altra è quella delle schematizzazioni cui spesso si ricorre per definire le due Chiese e le loro tradizioni. Quelli che in un contesto in cui il primato spetta ancora alla separazione e alle differenze non possono che apparire come ostacoli insormontabili e offese all'unità e alla verità, nel contesto di un primato dell'unità assumono un valore completamente diverso. Così, le conversioni personali, pur conservando tutti i loro limiti, cessano di essere la testimonianza di un proselitismo aggressivo (come troppo spesso rischiano ancora di essere) o di un'indifferenza nei confronti della verità (come potrebbe erroneamente sembrare quando si mettono sullo stesso piano due episodi diametralmente opposti quali, per esempio, quello di Vjaceslav Ivanov e quello di Placide Deseille) (3) e diventano piuttosto non certo un modello ma l'invito a respirare con due polmoni, concepito come «un'esigenza della nostra fede stessa» di fronte a «una mancanza d'aria» (4) che da una parte come dall'altra rischia di lasciar soffocare le ansie di milioni di uomini: da una parte perché per fedeltà al Vangelo si rischia di perderne il sale nel dolcissimo oceano del mondo, dall'altra perché nella preoccupazione che quel sale perda sapore si finisce amaramente col non essere più fedeli al Vangelo stesso. Ancora di più, in un contesto di unità, questi episodi diventano la testimonianza di una «segreta tensione» nella quale «si potrebbe percepire anche il doloroso maturarsi dell'unità» (5): una tensione, dunque, e dolorosa anche, ma che porta all'unità più che alla rottura. Allo stesso modo, la questione delle Chiese cattoliche di rito orientale, pur continuando a costituire un problema, cessa di essere un travestimento escogitato quasi solo per compiacere superficialmente dei fratelli minori, se non già per ingannarli, spogliarli e rubar loro qualcosa, e diventa, se non proprio una parziale anticipazione dell'unità ritrovata, almeno un problema come tanti altri che, appunto, non può più essere considerato un preliminare senza la cui soluzione sarebbe impossibile procedere oltre; come sottolineava recentemente un altro teologo ortodosso, Nikolaj Losskij, dopo aver accennato alla questione dei cattolici ucraini, in un contesto in cui prevale il pensiero e la preoccupazione dell'unità (nella forma, per esempio, dell'unità o dell'indivisibilità della libertà religiosa) «ciò che bisogna fare è esattamente il contrario! Se si ritrovano le vie teologiche dell'unità, allora gli ostacoli non teologici, tra i quali v'è l'uniatismo, si risolveranno da sé». (6)

Nel quadro delle innumerevoli schematizzazioni con le quali si cerca di dare l'idea delle specificità delle due Chiese e delle loro tradizioni, una delle più ricorrenti è quella che sottolinea come la mentalità Orientale sia «molto più liturgica e iconografica che discorsiva, concettuale e dottrinale». (7) E’ una sottolineatura per molti versi corretta e utile, se viene letta nel senso di quella diversità di doni e carismi nella quale consiste appunto l'unità e che nell'unità viene fatta sorgere, se.viene letta, ancora, nel senso dei due polmoni coi quali dobbiamo ricominciare a respirare o in base a quell'atteggiamento di spirito per cui di fronte al problema della separazione ci si rende conto che «la domanda che dobbiamo porci non è tanto di sapere se possiamo ristabilire là piena comunione, ma ancor più se abbiamo il diritto di restare separati». (8) In un simile contesto le differenze possono essere pensate e diventare anzi una ricchezza, ma lo possono appunto in quanto sono lette all'interno della «profonda realtà della comunione esistente», (9) non come due frammenti. antitetici di una più autentica sintesi ecclesiale (rimandata al futuro o persa nel passato), ma precisamente come due carismi che realizzano concretamente l'unica Chiesa di Cristo, che si realizza appunto in maniera ogni volta irripetibile e piena, ma solo in quanto realizza ciò che la definisce come Chiesa di Cristo e cioè la fedeltà al (del) Cristo stesso prima ancora che una forma dottrinale o liturgica: è in questa comune fedeltà al Cristo che nascono i carismi e non è invece dalla sintesi dei carismi che viene generata quella fedeltà, è lo Spirito che dona i diversi carismi e non è invece l'accordo dei diversi doni che produce e crea lo Spirito. Quando questa coscienza si ottunde o diventa inefficace, è molto facile che i due modi di esprimere un identico contenuto di verità si trasformino nell'opposizione tra un occidente dogmatico e razionalista e un oriente adogmatico che, come ricorda Zelinskij, farebbe entrare in campo «una mistica vaga, pietista e soffocante», (10) un misticismo amorfo che «degenera in una pietà sentimentale». (11) Attraverso una serie di scivolamenti inizialmente quasi impercettibili, ricevono allora una significazione totalmente nuova le giuste osservazioni secondo cui, per esempio, per un verso l'oriente ha conservato intatta la tradizione del primo millennio che come tale è legittima e, per un altro verso, l'occidente con i suoi sviluppi successivi non contraddice quella tradizione ma dispiega «soltanto ciò che era già posto nel tempo della Chiesa indivisa». (12)

Nel caso dell'oriente, quando questo è ormai ridotto a un mondo adogmatico, astratto per essenza dal mondo e dagli interessi dell'umana ragionevolezza, e quando ancora si cerca di ricostruire con esso un'unità, quest'osservazione si trasforma nell'idea di una contrapposizione tra una Chiesa gerarchica chiusa nei riti del passato e nei suoi dogmi ormai vetusti e una Chiesa popolare più autenticamente ortodossa (non compromessa con i vari potenti di turno, ecc.) che sarebbe appunto adogmatica e con la quale allora si dovrebbe (e sarebbe facile) instaurare il dialogo ecumenico da parte dell'occidente dogmatico e razionale. Una simile visione ha più sostenitori di quanto si possa credere perché questa religiosità popolare, proprio per le sue caratteristiche, è indefinibile: in una versione neoslavofila avremo per esempio un popolo ortodosso di veri credenti in Cristo che si contrappongono ai seguaci dell'Anticristo, in una versione russofoba e razionalista avremo invece un popolo ortodosso che, appunto in quanto adogmatico, è tutto fuor che ortodosso: paganeggiante, gnostico, manicheo, moralista tolstojano e via dicendo. Su questa via, che si nutre di miti e di censure, (13) tutto diventa possibile fuor che l'unità della Chiesa perché, in questa contrapposizione, inaccettabile per un cristiano, tra una Chiesa popolare e una Chiesa gerarchica, ciò che va perso è proprio l'idea di Chiesa, l'idea che Cristo sia presente nella Chiesa o, meglio, come Chiesa: nel caso della Chiesa popolare abbiamo infatti una religiosità così terrena e particolare nella sua concretezza che, come si è già detto, non si capisce più di chi sia presenza, se di Cristo o di qualche suo rivale, nell'altro caso abbiamo qualcosa di così celeste e astratto che non si capisce più a chi e come possa essere presenza.

Nel caso dell'occidente, invece, quando questo è ormai ridotto per essenza a una realtà totalmente confusa col mondo e col suo razionalismo, e quando si cerca ancora una via di unità col mondo orientale, la giusta osservazione di partenza si trasforma nell'idea che per instaurare un dialogo ecumenico con questo mondo (adogmatico o fermo ai vecchi dogmi) si dovranno considerare gli sviluppi dogmatici del secondo millennio come meri sviluppi particolari della Chiesa latina. (14) Anche qui tutto diventa possibile fuor che l'unità della Chiesa perché, ancora una volta, ciò che va innanzitutto perso è la Chiesa stessa: in questa visione infatti la continuità della Chiesa scompare e si arriva, più o meno coscientemente, al paradosso di un cristianesimo senza Chiesa, di un cristianesimo che ha perso la Chiesa a un certo punto della sua storia, in un passato ormai perduto, e la ritroverà in un'opera di conciliazione tutta storica e umana solo nel futuro.

Ci pare così di aver messo sufficientemente in luce il vero punto carente dei due ecumenismi con cui polemizza Zelinskij (l'erudito e il selvaggio) e comunque di ogni discorso sull'unità che parta dalla questione delle differenze, impensate o impensabili: in queste visioni ciò che è innanzitutto deficitario è la concezione dell'unità, che finisce sempre con l'essere ridotta a un mero esito da raggiungere o con la negazione dell'alterità dell'altro o con un compromesso. Ma cercare l'unità partendo dal presupposto che essa non esiste significa condannare in partenza all'insuccesso l'ecumenismo cristiano in quanto, se si sopprime una delle caratteristiche definitorie della Chiesa che i cristiani confessano appunto «una, santa, cattolica e apostolica» - l'unità non riguarderà più propriamente la Chiesa, ormai inesistente, e potrà essere ritagliata solo su criteri extraecclesiali e puramente mondani.

La proposta di Vladimir Zelinskij parte appunto dalla negazione di questo presupposto, secondo cui la verità e l'unità non esistono, distinguendolo decisamente dalla «coscienza veramente ecumenica», quella che ha il coraggio di «testimoniare l'arduo mistero dell'unità invisibile ma esistente, che per la grazia di Dio sarà un giorno luminosa ed evidente». (15) La proposta di Zelinskij vive di una sensazione ormai coessenziale - «familiare» - al suo essere stesso: «che la Chiesa d'occidente [...] sia intimamente e misteriosamente legata alla Chiesa d'oriente»; (16) ma, ancora una volta, questa sensazione è possibile solo all'interno di una coscienza netta dell'unità come dono misteriosamente offerto, perché «se la pienezza delle vocazioni continua a mantenersi in un modo o nell'altro, in tutte le Chiese che si proclamano tali, è sempre e solo perché tutte queste vocazioni hanno un unico fondamento iniziale comune: la confessione di Pietro»; (17) per Zelinskij l'unità non è qualcosa che deve essere ancora creato ma è innanzitutto un fatto che va riscoperto «in ciò che, alla radice, non era mai andato perduto ed era sempre rimasto misteriosamente uno: in Cristo». (18) Alla luce di questa «pienezza della Chiesa indivisa, coronata della diversità delle vocazioni», (19) le stesse crisi vissute dalle due Chiese cessano di essere un argomento polemico, delle colpe o dei segni di debolezza da rinfacciarsi gli uni con gli altri e diventano piuttosto l'occasione per riconoscere insieme le ricchezze altrui e i limiti propri.

Ciò è evidente per esempio nel modo in cui viene ripercorsa la tematica delle crisi a partire dal Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger: «Se nel libro aperto delle "crisi" che sto leggendo una pagina è sempre occidentale, l'altra, scritta in greco o in slavo antico, sarà evidentemente orientale. E se la prima mi è nota soltanto attraverso l'industria della stampa, la seconda è come stampata nella mia esperienza e nella mia anima». (20) In questo discorso, che come tutto il libro del resto è la continua ripresa di un unico tema in volute sempre più ampie e prossime al cuore del problema, la rilevazione delle crisi si specifica sempre e soltanto come un invito all'unità: così, se l'occidente è colto in crisi, si sottolinea che questa dipende dalla presenza in esso di quella compassione per la cui assenza è in crisi invece l'oriente, e viceversa la crisi dell'oriente dipende da quella distanza dal mondo per la cui assenza è in crisi invece l'occidente. Con la precisazione, ancora una volta, che ciò che si richiede qui non è allora una sintesi ma la condivisione, quella condivisione che ci mette «in comunione col mistero che ci unisce» (21)precedendo e rendendo possibili le differenze, secondo un procedimento sul quale torneremo ancora e che non è dialettico ma antinomico: non si tratta di sintetizzare due verità parziali ma di cogliere la verità dell'una nella verità dell'altra quando e in quanto entrambe vivono della stessa fedeltà all'unico Cristo.

Le crisi che ci invitano all'unità attraverso la condivisione si specificano dunque come un invito alla conversione. Nella condivisione infatti, le differenze, che cessano di essere un ostacolo, diventano il paradosso dello starec Tavrion secondo il quale la separazione «era stata provvidenziale, affinché entrambe le grandi famiglie cristiane sviluppatesi in occidente e in oriente da un' unica radice difendessero insieme l'unica e indivisibile verità proprio combattendosi e rivaleggiando l'una con l'altra». (22) In questa gara per l'incremento della verità il problema ecumenico diventa allora quello della fedeltà alla verità stessa; non attraverso il confronto meccanico delle due tradizioni o la loro relativizzazione ma attraverso la comprensione, quella comprensione in cui non si tratta di «rompere i vecchi vasi nei quali le Chiese conservano la propria fede» (23) (cioè, appunto, di relativizzare le tradizioni dopo averle confrontate), ma piuttosto di aprire questi vasi gli uni sugli altri. Per un verso ciò che conta qui è la capacità di cogliere «l'orientamento o meglio, il movente segreto» (24)della fede dell'altra Chiesa, cioè la «capacità delle varie Chiese di porsi un giorno una domanda, di chiedere cioè alla propria coscienza ecclesiale se essa è pronta o meno a riconoscere questo volto [di Cristo] in un altro riflesso, nell'immagine dell'altro»; (25) ma per un altro verso ciò che conta ancora di più è proprio ciò che rende possibile questa apertura, a prescindere dalla quale «la verità senza amore o anche senza una sorta di "curiosità", ripiegata su se stessa, non perde nulla della propria sostanza e del proprio vigore, ma viene come oscurata»: (26) ora, ciò che rende possibile questa apertura è appunto la conversione, il tornare a porre «costantemente il proprio centro di gravità nel Cristo», (27) il «fissare io sguardo nel mistero del proprio Cristo», senza conversioni o sintesi compromissorie, perché è solo «partendo da ciò, nella recuperata prossimità con la fonte», che si può diventare capaci di «condividere la Sua presenza con le altre Chiese». (28)

L'ecumenismo si trasforma qui, ed è un altro dei pregi della proposta di Zelinskij,in una questione squisitamente personale perché esso non sarà più caratterizzato soprattutto dalla ricerca dei «mezzi per la riunificazione delle Chiese» (29) ma piuttosto dalla disponibilità ad «abolire se stesso per cedere il posto alla presenza indivisa del Cristo»; (30) e questa disponibilità è quella che caratterizza appunto la vocazione eminentemente personale dei santi, di coloro che annullano le volontà proprie per lasciare spazio alla volontà di Dio e divenire somigliantissimi al Cristo, trasparenti alla sua presenza. Non è un caso allora che in questo ecumenismo trasformato in una questione della persona Zelinskij affidi un ruolo decisivo appunto a coloro che meglio di ogni altro realizzano la propria somiglianza con la Persona (31) e non è un caso che l'ecumenismo diventi non solo la scoperta del volto di Cristo «nell'immagine dell'altro» ma anche la «scoperta della santità di una Chiesa in seno alla santità dell'altra». (32)

Può essere interessante a questo punto, per apprezzare e comprendere meglio questa proposta, ricollocarla all'interno di una possibile genealogia ideale che se per un verso non toglie nulla alla sua originalità per un altro verso la esalta. Come si è già visto e come vedremo ancora, infatti, Zelinskij medita la questione dell'ecumenismo a partire da una serie di esperienze decisamente eccezionali: quella della crisi della cristianità contemporanea, quella del martirio della Chiesa russa e quella del grande slancio ecumenico prima e delle sue secche poi. Ma se tutto ciò rende di per sé evidenti l'originalità e la maturità della proposta di Zelinskij, queste risalteranno ancor più clamorosamente se si considera che al momento della stesura del suo lavoro Zelinskij non conosceva affatto alcuni dei testi che citeremo fra poco; (33) ed è appunto per questo che abbiamo chiamato la nostra genealogia «possibile e ideale»: perché essa delinea più un'atmosfera che non delle influenze dirette e vuole enucleare più una radice comune dalla quale si dipartono mille frutti diversi che non un unico frutto nei vari stadi del suo sviluppo. I nomi che vengono dunque quasi spontaneamente alla penna sono quelli del triangolo d'oro della teologia russa della fine del XIX secolo e degli inizi del XX: Solov'ëv, Florenskij e Bulgakov.

Molti degli elementi qualificanti della proposta di Zelinskij sono già presenti in Solov'ëv, almeno in nuce, e anche se talvolta poterono sembrare non chiaramente esplicitati e sufficientemente sviluppati. (34) L'atteggiamento ecumenico di Solov'ëv è caratterizzato in effetti dal fatto che egli accolse come vere le posizioni di Roma sui principali punti controversi, pur restando ortodosso e scoraggiando ogni forma di conversione individuale, e respingendo inoltre ogni tentazione di indifferentismo dogmatico e ogni variante di quell'irenismo per cui la verità e l'unità della Chiesa sarebbero ancora tutte da costruire; si tratta dunque di un atteggiamento che non si spiegherebbe se non si fondasse sul presupposto secondo cui l'unità è un dono originario che va approfondito mediante la tensione alla fonte dell'unità, cioè la conversione a Cristo riconosciuto nella pienezza e nella verità della propria Chiesa, che proprio in quanto vera Chiesa - una, santa, cattolica e apostolica - sa accogliere in sé la verità e la pienezza dell'altra. Solov'ëv concepiva l'unità della Chiesa non come un'«unità negativa, solitaria e sterile, che si limita a escludere ogni pluralità», ma secondo le caratteristiche dell'unità vera «che non si oppone alla pluralità, che non l'esclude, bensì nel calmo godimento della propria superiorità, domina il suo contrario e lo sottopone alle sue leggi». «Questa unità positiva e feconda», continuava Solov'ëv, «rimanendo sempre ciò che è, al di sopra di ogni realtà limitata e multipla, contiene in sé, determina e manifesta le forze viventi, le ragioni uniformi e le varie qualità di quanto esiste». (35) Il modello visibile e sperimentale sul quale Solov'ëv tratteggiava questa unità era evidentemente la persona del Cristo nel quale la natura umana e la natura divina si erano unite senza confusione e senza separazione e nel quale in maniera esemplare si era reso possibile concepire un rapporto tra gli uomini e Dio che non implicasse né sintesi fusioniste ne separazioni definitive ma anzi, proprio grazie a questa originaria unità, potesse permettere di affermare, per esempio con san Gregorio Palamas, che così formulava la legge dell'antinomia: «Noi arriviamo ad essere partecipi della natura divina e tuttavia essa resta totalmente inaccessibile. È necessario affermare entrambe le cose contemporaneamente e conservare la loro antinomia come criterio della pietà». (36) Le posizioni ecumeniche di Solov'ëv sono comprensibili appunto solo all'interno di questa concezione antinomica dell'unità per cui l'unità non esige irenismi o negazioni, ma vive e si manifesta nella diversità che essa stessa rende possibile, essendo un dono originario di quell'altra «unità perfetta che genera e comprende tutto» e che è professata proprio all'inizio del «credo dei cristiani», quando essi dicono di credere «in unum Deum Patrem Omnipotentem...». (37) Proprio alla luce di questa unità Solov'ëv aveva potuto concludere che «noi, tanto orientali che occidentali, pur con tutte le divergenze delle nostre comunità ecclesiali, continuiamo incrollabilmente a essere membri della Chiesa unica e indivisibile del Cristo [...]. Ciascuna delle due Chiese è già la Chiesa universale nella misura in cui essa tende non alla separazione ma all'unità». (38)

Tutto ciò ai tempi di Solov'ëv non poté dare frutto: il condizionamento dei retaggi negativi era ancora troppo grande; e spesso anche nei loro rappresentanti più lucidi e luminosi le Chiese erano incapaci di rendersi conto della portata di atteggiamenti come quello di Solov'ëv, che non potevano certo essere ridotti ai ripensamenti di una pecorella smarrita che ritornava all'ovile. (39) Nonostante i fraintendimenti, però, alcune intuizioni profetiche erano parte di un patrimonio comune, e una volta enunciate continuarono a fecondare le elaborazioni successive. È così possibile ritrovare alcuni di questi temi in Florenskij, quando egli indica per esempio nel ritrovamento del comune orientamento a Cristo la via che, senza far scomparire le differenze, potrebbe portare però al superamento delle divisioni. (40) Per un verso, infatti, questa rinnovata conversione porterebbe a «riconoscere che l'autentica causa della divisione che affligge il mondo cristiano», (41) come di tutte le sue crisi, consiste nel fatto che «la fede si è effettivamente svigorita in quelli che sono i suoi fondamenti spirituali più decisivi», e in questo senso porterebbe anche alla rinascita di quel sincero orientamento della coscienza verso il Cristo dal quale fiorisce «tutta la vita concreta» e nel quale si rende così «possibile e anzi necessario il riconoscimento reciproco e l'unità». (42) Ma per un altro verso, ancora, questa rinnovata conversione alla fonte dell'unità, essendo tale fonte il Cristo, porterebbe anche al superamento di ogni forma di confusione e di separazione e in questo senso, per quel che concerne la questione ecumenica, porterebbe a capire più profondamente quella verità secondo cui l'unità è un dono più originario e più ricco di tutto quello che potrebbe essere prodotto da sintesi o da compromessi umani e successivi: quella verità, per esprimerci con le parole di Florenskij, secondo cui «la vita sobornica della Chiesa universale non è la somma delle vite dei singoli uomini e neppure di quella delle singole Chiese: l'intero è maggiore della somma delle parti». (43)

Per concludere ora brevemente con il terzo autore della nostra genealogia, basti ricordare che questo tema viene chiaramente e nettamente sottolineato da Bulgakov quando egli dice esplicitamente che il movimento ecumenico «nasce dal presupposto secondo cui esiste una Chiesa una e santa, Una Sancta, ed esiste inoltre non come una cosa che è soltanto cercata, ma come la suprema e preminente realtà: non è soltanto un'idea, ma anche un fatto». (44) «La realizzazione di un'unione visibile», precisa ancora Bulgakov, «deve già ammettere l'esistenza di un'unità, anche se non ancora manifesta e riconosciuta. Non si può tendere a un'unità inesistente, non ci si può assumere un compito che non abbia già il proprio fondamento in ciò che è dato». (45)

Se possiamo interrompere qui la nostra genealogia ideale va però riprecisato ora che questi elementi e queste intuizioni sono arricchiti in Zelinskij da tutto il patrimonio che gli viene dall'esperienza storica maturatasi in questo secolo: innanzitutto v'è la riscoperta della santità, intesa qui in particolare come conferma della santità della propria Chiesa perché, come si è già detto, il discorso ecumenico parte dalla concretezza della propria esperienza di fede vissuta nella pienezza della propria Chiesa. In questo senso, se per Zelinskij è chiaro che bisogna ritornare alla comune «lingua madre» della Chiesa indivisa per «sapervi decifrare il mistero del Cristo altrui», è altrettanto chiaro che ciò sarà possibile solo «a partire da un altro mistero che ci è più familiare», (46) quello della propria Chiesa, appunto, nella quale si è colto «il mistero della presenza di Dio in mezzo agli uomini». (47) Questa presenza è stata testimoniata dalla Chiesa ortodossa russa in maniera esemplare anche là dove tutto sembrava doverla ridurre al silenzio, anzi forse soprattutto là dove questa testimonianza è tornata allora ad assumere il nome originario della testimonianza cristiana: martyria.

In questa testimonianza resa all'essenziale, la Chiesa ha reimparato che per lei tutto si gioca a una profondità infinitamente superiore rispetto a quella dei suoi rapporti col mondo, siano essi rapporti di compromesso e di asservimento o di opposizione e di lotta. Quando si resta infatti su questo piano superficiale la comprensione dell'essenza della Chiesa rischia sempre di venir offuscata, ora attraverso l'adeguamento alla «Chiesa così com'è», «quando l'immagine umiliata della Chiesa terrena viene riconosciuta, con lacerazione interiore o con spocchia, come l'unica e trionfante ortodossia possibile», ora attraverso il distacco da essa, «quando cioè chi ha appena fatto ingresso nella Chiesa la rinnega subito interiormente, lasciando che essa sia per lui una semplice fonte di sensazioni estetiche e di riti consolatori». (48) La dolorosa esperienza della Chiesa russa di questo secolo ha invece mostrato che al di là di questa sterile contrapposizione v'è qualcosa d'altro che è percepibile solo «nella calma della preghiera», «nella pace di un ininterrotto rapporto con Dio», qualcosa che «ha bisogno di precisazioni rigorose, è ovvio, e si incarna nei giudizi della ragione umana, ma nello stesso tempo si distingue da tutte le sue espressioni, anche quelle più profonde e preziose». (49)

«Come avremmo potuto diventare credenti noi ortodossi», si chiede infatti con accenti accorati Zelinskij, «[...] se tenessimo alla nostra fede solo in funzione di ciò che tacciono o piuttosto di ciò che proclamano a gran voce le autorità della nostra Chiesa?». (50) Ora, questo nucleo profondo che si può cogliere solo nella preghiera è appunto «il mistero della presenza di Dio» che si offre agli uomini prima di ogni loro iniziativa, per poter essere accolto.

È dall'incontro di questo dono con la libertà degli uomini che nascono poi tutti i problemi e tutte le crisi eventuali, che possono anche essere, indubbiamente, crisi di fedeltà, ma che andranno giudicate ben diversamente da come troppo spesso si è fatto quando, per esempio, accade che «una Chiesa per un motivo o per l'altro aveva perduto il sembiante storico della sua ortodossia (pur conservandolo, però, nella sua sostanza) cominciò ad apparire agli zelatori di questo medesimo sembiante come Babilonia la meretrice». (51) Se ciò, come ricorda Zelinskij, poté avvenire in passato, e minare l'immagine di Roma, al tempo dello scisma, e dell'ortodossia russa al tempo dei vecchio-credenti e poi ancora nel nostro secolo con i suoi compromessi e le sue sottomissioni al potere ateo, ciò non può più avvenire oggi, per chi è passato attraverso le esperienze di questo secolo e dovrebbe aver capito ormai che non è alla luce dei cedimenti o delle resistenze della Chiesa di fronte al mondo che si giudica l'essenza della Chiesa stessa, ma è piuttosto alla luce di questa essenza che si giudicano sia i cedimenti sia le resistenze. Giudizio, questo, che tra l'altro è ben più esigente perché, come ricordava spesso un altro teologo russo, (52) al peccato non contrappone la virtù ma la fede dei santi che cercano il volto di Dio e giudicano non in base a una ( sua qualche immagine umana, sempre relativa, ma in base alla sua radicalità, una radicalità che bisogna saper cogliere sia nel volto kenotico di Cristo, sia in quello trasfigurato. (53)

Questa capacità di cogliere il volto di Cristo è l'altra grande esperienza storica di questo secolo, che nella questione ecumenica ha prodotto l'incontro delle due linee profetiche che spesso Zelinskij ricorda: quelle che culminarono in passato in Paolo VI e Atenagora I. È appunto nell'atmosfera di nuova apertura attestata da queste figure che si situa, per finire, la proposta di Zelinskij, in particolare quando egli ricorda che l'unità che viene qui riscoperta «non può non diventare la sorgente di un'immensa energia effusa dallo Spirito del Cristo. Là dove le parole diventano aride moltiplicandosi senza calma interiore, questa energia liberata comunicherà il segreto del silenzio. E là dove regna il silenzio, solo questa energia darà il vigore della parola, predicata "a tempo e fuori tempo". Questo Spirito riporterà a se stesse le diverse tradizioni, le riporterà alla loro autenticità. Ci riporterà la spiritualità della penitenza, perché ci si possa pentire della tentazione nascosta dell'evasione. Ci riporterà la spiritualità della pienezza (di cui parla Jean Guitton) perché ci si possa riempire ancora una volta di quell'eredità antica e ricchissima che nessuno ha abolito ma che sta per essere sperperata». (54)

È con queste parole che vorremmo concludere la nostra analisi della proposta ecumenica di Vladimir Zelinskij perché con esse, tra l'altro, viene riportata in primo piano, e con una chiarezza nuova rispetto al passato, quella che è secondo noi l'idea cardine di ogni autentico ecumenismo, quell'idea di unità antinomica che era già presente in Solov'ëv, Florenskij e Bulgakov e che Zelinskij ha appunto il merito di rinnovare e approfondire nel momento in cui ricorda che silenzio e parola, parola e mistero diventano l'uno la verità dell'altro non quando si sintetizzano e si controbilanciano ma quando ritrovano la loro identità nella «"sua parola, cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi" (Col 1, 25-26). L'identità della "sua parola" e del mistero, nella Chiesa, si afferma qui con una chiarezza clamorosa; la parola non solo parla del mistero, ma lo dice, lo porta, lo è, e il mistero si apre nella parola della Chiesa, si manifesta ai suoi santi.... Ed entrambi, parola-mistero, coincidono in Cristo. O meglio, sono "il Cristo in mezzo a voi", o "in voi"». (55)

In questa coincidenza riscoperta, l'ecumenismo diventa una provvidenziale occasione di conversione personale alla serietà del Cristo: opera innanzitutto di Dio, come ogni conversione, ma come tale anche opera seria di ogni singolo, senza gli eccessi degli ecumenismi troppo personali e selvaggi e senza le lentezze e l'astrazione di troppi ecumenismi eruditi; un miracolo di Dio, ma un miracolo nella storia, come diceva il patriarca Atenagora: volontà di Dio che entrerà nel tempo quando il tempo, negli uomini, si offrirà.

V'è da augurarsi che questa provvidenzialità venga assunta, perché ciò che si rischia nel caso contrario non sono nuovi ritardi o nuove false risposte ma i reali inganni (56) di un'unità per nulla cristiana. E qui il giudizio che ciascuno di noi rischia non è quello compiacente del mondo ma quello esigente dei santi, perché se la Chiesa è di Cristo, essa «non vive altro che in noi».

Note

1) Ci limiteremo qui esclusivamente ai rapporti tra la Chiesa d'oriente e quella d'occidente, intendendo con ciò tralasciare completamente la questione delle Chiese della riforma.

2) Vl. K. Zelinskij, Perché il mondo creda, (da qui citato come PMC), La Casa di Matriona, Milano 1988, pp. 96ss.

3) Ibid., pp. 117-130.

4) Ibid., p. 121.

5) Ibid., p. 119.

6) N. Losskij, De l'unitatisme à l'unité: le préalable ecclésiologique, in «Service Orthodoxe de Presse» (SOP), n. 125, febbraio 1988, p. 21.

7) P. N. Evdokimov, Cristo nel pensiero russo, tr. it. Città Nuova, Roma 1972, p. 35.

8) Giovanni Paolo II,30 nov. 1978.

9) Giovanni Paolo II, 29 nov. 1978.

10) PMC, p. 141.

11) Ibid., p. 142.

12) Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica, tr. it. Paoline, Cinisello Balsamo 1987, p. 82.

13) Per Fare un solo esempio: non ci pare possa essere definita diversamente una descrizione dell'«educazione religiosa della Russia» che, come fa A. Besancon (un autore ben altrimenti illuminante e geniale, ma qui forse troppo preoccupato di smontare dei miti contrari), liquida in poche righe tutto ciò che non è slavofilo (in particolare la rinascita filocalica, e monastica in genere, del XVIII-XIX secolo) e ciò che nello slavofilismo, non è riconducibile a una premessa dell'«ideologia». Cfr. A. Besancon, Les origines intellectuelles du léninisme, Calmann-Lévy, Paris 1977, p. 59-82.

14) Seguiamo qui le critiche opposte a questo atteggiamento dal card. Ratzinger, op. cit., pp. 82ss.

15) PMC, p. 131.

16) Ibid., p. 31, n. 1.

17) Ibid., p. 93.

18) Vl. K. Zelinskij, Convertiti alla Chiesa, (da qui citato come CC), tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 2 (182), 1982, p. 31.

19) PMC, p. 92.

20) Ibid., p. 67.

21) Ibid., p. 140.

22) CC, 2 (182), 1982, p. 18. In questo articolo Zelinskij non precisava il nome dello starec, ma i dati biografici coi quali lo descriveva permettono di identificarlo appunto con Tavrion. Su questa stupenda figura di monaco si veda L'eremo dello starec Tavrion, tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 6 (168), 1979, pp. 22-30.23) PMC, p. 101s.

24) Ibid., p. 103.

25) Ibid., p.112.

26) Ibid., p. 123.

27) CC, 2 (182), 1982, p. 35.

28) PMC, p. 113.

29) Ibid., p. 146.

30) Ibid., p. 145.

31) Cfr. ibid., pp. 126-130.32) Ibid., p. 127.

33) In particolare quelli di Florenskij e di Bulgakov; e i dolorosi motivi di questa mancata conoscenza sono tristemente noti.

34) La presenza in Solov'ëv di questa chiarezza e di questo sviluppo è un fatto che abbiamo cercato di mostrare altrove, in particolare nell'introduzione a Vl. S. So1ov'ëv, Il significato dell'amore, tr. it.La Casa di Matriona, Milano 19882, pp. 16-20 e a queste pagine ci permettiamo di rimandare.

35) Vl. S. Solov'ëv, La Russie et l'Eglise universelle, in La Sophia et les autres écrits français, L'Age d'Homme, Lausanne 1978, p. 240.

36) Gregorio Palamas, PG 150, 932.

37) Vl. S. Solov'ëv, La Russie..., cit., p. 240.

38) Vl. S. Solov'ëv, Velikij spor i christianskaja politika (La grande controversia e la politica cristiana), in Sobranie Sočinenij (Opere) Bruxelles 1966-1969, IV, pp. 107 e 109.

39) Così si sarebbe espresso nei confronti di Solov'ëv Leone XIII.

40) Cfr. P. A. Florenskij, Cristianesimo e cultura, tr. it. in «L'Altra Europa», n. 5 (215), 1987, p. 54.41) Ibid., p. 55.

42) Ibid., p. 56.

43) Ibid., p. 57.

44) S. N. Bulgakov, «Una Sancta». I fondamenti dell'ecumenismo, tr. it. in «Rivista del Centro Studi Russia Cristiana», n. 1(175), 1981, p. 61.

45) Ibid., p. 66.

46) PMC, p. 114.

47) Ibid., p. 30.

48) CC, n. 5 (179) 1981, p. 27.

49) PMC, p. 48.

50) Ibid., p. 50.

51) CC, n. 1 (181), 1982, p. 37.

52) Si tratta di Evdokimov, il cui nome avremmo dovuto fare, con alcuni altri (Afanas'ev, Clément, ecc.), se avessimo proseguito la nostra genealogia ideale oltre i primi anni del secolo.53) Cfr. PMC, pp. 110-111.

54) Ibid., pp. 125-126.

55) Ibid., p. 143. Sulla ricorrenza del tema parola-silenzio e sul suo valore ci permettiamo di rimandare a un nostro saggio: Una parola all'estremità del silenzio, in «Strumento internazionale per un lavoro teologico: Communio», n. 55, 1981, pp. 71-90.

56) Sono i reali inganni di cui parla Solov’ëv nel suo Racconto dell'Anticristo.

Il dialogo tra cattolici e protestanti in Italia ha dovuto imporsi, non senza fatiche, svincolandosi dalle polemiche pregiudiziali e dall'anticlericalismo. Ancora dieci anni or sono non sembrava esservi molto spazio teologico per la possibilità di un incontro positivo.

Il valore pastorale del Messale di Paolo VI


di Rinaldo Falsini



Chiariti i motivi di principio sull’uso dei due messali, passiamo ad analizzare i contenuti pastorali.


L’uso contemporaneo dei due messali, di Giovanni XXIII del 1952 e di Paolo VI del 1970, ci permette di cogliere senza difficoltà non solo la differenza, ma la caratteristica tipica, cioè il valore pastorale del Messale del Concilio. Una caratteristica che va ben oltre la lingua latina - evita cioè di fatto il problema del linguaggio della Chiesa cattolica -, ma coinvolge l’impianto strutturale e la finalità dello strumento di preghiera.

Biofilia: un approccio etico
che lega economia ed ecologia

di Giannino Piana

Riscaldamento del pianeta, desertificazione, innalzamento dei mari e dei delta dei fiumi, riduzione dell’acqua, perdita sempre più consistente della biodiversità, sovrapopolazione e distruzione di risorse non rinnovabili sono alcuni dei fenomeni inquietanti che denunciano la grave situazione in cui versa oggi l’ambiente. La crisi ecologica ha raggiunto livelli drammatici e rapporti più recenti - da quello degli scienziati dell’Onu a quello dell’ultimo summit mondiale dei meteorologi tenutosi a Parigi la scorsa primavera - non mancano di avanzare previsioni fortemente allarmanti per un futuro ormai ravvicinato.

Alle colpe dell’Occidente, che continua a essere il maggiore responsabile dello sperpero di energie e dei processi di inquinamento, si assommano oggi quelle di alcuni Paesi in via di sviluppo - si pensi soltanto alla Cina e all’India- il cui modello di crescita economica tende a ricalcare le logiche occidentali. Lo stesso Protocollo di Kyoto - peraltro non sottoscritto dalla maggiore potenza mondiale, gli Usa, che è anche la prima responsabile dello spreco energetico attuale - presenta, a tale riguardo, alcuni lati deboli: mentre, infatti, chiede ai Paesi occidentali una riduzione del fabbisogno energetico secondo una percentuale proporzionale all’entità del loro consumo pro copite, non pone alcun limite ai Paesi in via di sviluppo, che rischiano, in tempi brevi anche a causa dell’enorme incremento della popolazione, di diventare i maggiori consumatori di risorse e i più grandi inquinatori. Al di là del dato oggettivo, sempre più allarmante per le enormi proporzioni assunte, a preoccupare è tuttavia soprattutto la scarsa reazione delle coscienze. La terra, che è la casa di tutti, è vissuta come la casa di nessuno. La crescita esponenziale dei consumi non è dettata soltanto dall’aumento della popolazione, ma dalla moltiplicazione dei bisogni, spesso semplicemente indotti dalla pressione sociale e destinati a incrementare la produzione di beni materiali, a scapito di quelli relazionali e spirituali che favoriscono il miglioramento qualitativo della vita; mentre, d’altro canto, si accentuano gli sprechi e le inutili dilapidazioni di energie vitali che rappresentano un prezioso patrimonio per il futuro.

Nonostante i giustificati allarmi degli scienziati, la crisi ambientale non sembra suscitare, nella stragrande maggioranza della popolazione, particolari sentimenti di paura: basti pensare che, mentre si accettano molti controlli alla libertà individuale, con una consistente riduzione della sfera della privacy - il terrorismo internazionale ha costretto, in questi anni, a moltiplicarli senza che questo abbia determinato forti reazioni nell’opinione pubblica - non sussiste di fatto alcun controllo sulla tecnica e sull’economia, che sono le principali responsabili degli attuali processi degenerativi in ambito ambientale. L’abitudine a vivere sempre più nell’artificiale non solo ci distanzia dalla natura, ma ci pone nell’impossibilità di percepirne il valore e pertanto di difenderla come un bene da proteggere con cura mediante l’utilizzo di tutti i mezzi disponibili.

In questo contesto diviene urgente l’elaborazione di una “nuova etica” - così la definisce E.O. Wilson, uno dei padri della sociobiologia, nel suo recente volume Il futuro della vita (Codice Edizioni, Milano 2006) - che adotti il paradigma della conservazione” come criterio di valutazione delle scelte, sia personali che sociali, fissando limiti precisi all’intervento dell’uomo sull’ambiente. Ciò comporta anzitutto che si cominci a calcolare la ricchezza di una nazione non basandosi esclusivamente sul Pil (prodotto interno lordo) ma considerando le condizioni della biosfera e dei costi che devono essere messi in conto se si intende preservarne l’identità anche per le generazioni future. A dover essere seriamente ripensato è qui il rapporto tra economia ed ecologia, collegando strettamente sviluppo produttivo e attenzione alle risorse disponibili e ai processi di inquinamento che mettono decisamente a repentaglio beni fondamentali per Io sviluppo della vita quali l’aria, l’acqua e la terra.

Ma questo non basta. È necessario soprattutto che cresca, nelle coscienze, la convinzione della necessità di dare vita a nuovi modelli comportamentali ispirati - come suggerisce o stesso Wilson - a una forma di biofilia, che si alimenti della percezione di essere parte della natura e sviluppi un’attitudine di rispetto e di cura nei suoi confronti. Solo a queste condizioni è infatti possibile vincere la pressione delle forze tecnoscientifiche, creando un argine consistente al loro dilagare e promuovendo, in positivo, un rapporto di comunione vitale con l’ambiente, tale da concorrere alla sua piena valorizzazione.

(da Jesus, gennaio 2008)

Lunedì, 09 Giugno 2008 23:35

Punire (Faustino Ferrari)

L’ufficiale uncinato m’insegue ogni notte fin dentro il baratro dell’angoscia. Ed anche se gli pongo incessantemente la medesima domanda – Com’è stato possibile? – sghignazzando mi risponde che basta eseguire gli ordini.

Burundese, di etnia tutsi, Marguerite Barankitse, detta Maggie, è una figura di primo piano nella difesa dei diritti dei bambini e ragazzi, emarginati per vari motivi dalla società, e per il suo indomabile e coraggioso impegno a favore della pace e riconciliazione.

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