Ecumene

Domenica, 24 Agosto 2008 18:59

Coscienza e libertà (1Cor. 10, 23-33) (Vladimir Zelinskij)

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Coscienza e libertà (1Cor. 10, 23-33)
di Vladimir Zelinskij






Le parole che abbiamo ascoltato vengono ripetute già due volte nella stessa Lettera ai Corinzi, cosa che è rara in Paolo, famoso per l’eccezionale densità del suo messaggio. L’Apostolo dice ed insiste con un tono quasi solenne: Tutto è lecito. Ma non tutto è utile. Tutto è lecito! Ma non tutto edifica . Come mai un accento tanto forte è posto sull’opposizione fra queste due alternative della libertà umana? Per rispondere possiamo intraprendere strade che hanno prospettive diverse: quella storica, che riguarda soltanto l’epoca in cui la legge ebraica viene seguita dalla comunità giudeo-cristiana; oppure l’interpretazione umanistica e laica dei giorni nostri; o ancora, per ultima, una visione cristologica e spirituale. Il contenuto immediato del testo paolino è la proclamazione univoca e quasi trionfante della libertà di coscienza, direi anche del primato della coscienza nei confronti delle prescrizioni della legge in vigore. La mia coscienza, afferma Paolo, è autorevole per decidere da sola cosa si possa mangiare o meno. La mia coscienza ha diritto alla priorità davanti alle prescrizioni rituali che riguardano il cibo. Il cristiano è libero: Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo senza fare questioni per motivi di coscienza. Perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene .


  Già con quel versetto del salmo 23, conosciuto a memoria da quelli a cui si rivolge, l’Apostolo vuole dispensare la loro coscienza dagli scrupoli: Se la tua coscienza non è caricata dalla conoscenza della partecipazione al culto pagano - che è abominio per il Signore (Deut. 17,15) -, sei ormai libero! Se partecipo ad un culto pagano a mia insaputa, sono senza colpa e la mia coscienza è innocente; ma se il venditore mi dice che la carne in vendita è quella del sacrificio ad un altro dio, la mia coscienza è legata dal secondo comandamento. La coscienza è il giudizio interiore che funziona solo se la legge è conosciuta perché la sua vera ed autentica vocazione è rendere la grazia e fare tutto per la gloria di Dio. Questo è il senso immediato del testo che abbiamo ascoltato.


Ogni epoca, però, ascolta le parole della Scrittura con l’orecchio accordato dalla propria tonalità dominante. Il secolo in cui viviamo è più predisposto, almeno in Occidente, a sentire la prima parte dell’affermazione dell’Apostolo: la mia coscienza è la principale, se non l’unica padrona delle mie decisioni. Su tutto ciò che faccio decido solo io e le altre istanze devono rispettare le mie scelte! Tutto mi è lecito , scriviamo questa prima parte dell’affermazione paolina sulla magna carta della legge morale e religiosa. Non facciamo, però, una domanda semplice: “l’io” nel cui nome parla Paolo, chi è? E quell’io che noi siamo pronti a porre come unico padrone dei nostri atti cosa significa, nella bocca dell’Apostolo, cosa contiene? E la mia coscienza, nel contesto del suo discorso, cos’è?


Come concetto teologico la coscienza appare solo nel Nuovo Testamento. Certo, non si può dire che la coscienza sia stata scoperta solo con il cristianesimo. Credo che prima questo concetto fosse implicitamente incluso in quel centro corporale e spirituale dell’esistenza umana che la Bibbia chiama “cuore”. La coscienza è il cuore che pensa, che giudica – saggezza interiore, strumento della conoscenza di Dio, canale della Sua volontà, organo della glorificazione e del pentimento, luogo segreto della Sua legge. La Tua legge è nel profondo del mio cuore , dice il Salmo (40,9). Porrò la Mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora Io sarò il loro Dio ed essi il Mio popolo , professa Geremia (31,33). Ed io, credente, sono chiamato da Dio a conoscere questa legge nuova e personale, scritta nella profondità dello spirito umano, a conoscerla per viverla, e questa vita inizia con la coscienza, - la coscienza di cui parla San Paolo. La coscienza è la nuova lettura della legge nascosta nel mio cuore, messaggera del Signore che abita in me.


Incontriamo la parola coscienza già in alcune versioni greche del Vangelo di San Giovanni. Nel racconto sulla donna adultera, quando si dice che gli accusatori di quella moglie infedele se ne andarono uno per uno, in alcuni manoscritti leggiamo denunciati dalla propria coscienza . Proprio questa versione è inclusa anche nella traduzione russa alla quale sono abituato. Questo significa: la legge che prescrive la lapidazione deve essere sottomessa alla coscienza, al tribunale del cuore e davanti al suo giudizio, infatti, nessuno è innocente. Tale tribunale, con la voce di Dio all’interno, diventa il criterio più alto della fede stessa. La fede può essere falsa, incatenata dalla lettera che uccide, anzi piegata ad idolatria; la voce del giudizio che ascolta direttamente lo Spirito di Dio porta e manifesta la volontà del Signore. Questo è uno degli insegnamenti fondamentali del messaggio paolino, nato dalla sua storia personale, dal suo incontro fulminante con Cristo.


Sembra che quel fulmine abbia acceso non soltanto la fede del futuro Apostolo dei popoli, ma che abbia anche risvegliato o gettato la luce su tanti nuovi concetti teologici. Tutto o quasi tutto il messaggio di Paolo nasce dalla sua illuminazione, riflettuta ed intellettualmente sviluppata. Paolo predica Cristo raccontando anche di se stesso, della sua anima, e predicando crea o scopre l’universalità dell’incredibile avventura della propria anima. Ognuno di noi in qualche modo si può riconoscere, anche se in un grado infinitamente più debole, nella sua anima, nella sua coscienza, nella sua fede. Servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio : così Paolo si presenta nella lettera ai Romani (1,1). In ogni sua lettera, in ogni riga, manifesta l’intimità della sua conoscenza personale del Dio incarnato e da lui incontrato nella persona di Gesù. Il centro del suo essere, il cuore è pieno di questo incontro e porta Cristo in sé. Se negli scritti dei Profeti il cuore è il luogo della presenza del Signore, la coscienza è il cuore che giudica e che pensa e confessa la propria fede.


Il cuore di San Paolo è “cristocentrico” e dal quel cuore nasce anche la sua teologia triadologica. L’incontro con Cristo dura tutta la sua vita e noi vediamo come in ogni sua lettera apostolica la scoperta di Cristo si riveste di un pensiero nuovo e sempre inaspettato. Ogni volta sembra che il pensiero paolino partorisca un Cristo nuovo. Ricordiamo questa famosa esclamazione dalla lettera ai Galati: Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! (4,19). Ma la forma Christi è l’icona della nostra coscienza, l’immagine della nostra libertà e s’identifica con la libertà di Gesù. L’io di Paolo e di un qualsiasi cristiano è chiamato ad agire seconda la Sua volontà, a pensare e a conoscere le cose con il pensiero del Figlio di Dio.


Alla domanda del Libro della Sapienza e del profeta Isaia: “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?”, san Paolo risponde: “Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo ” (1 Cor. 2,16), “Nos autem sensum Christi habemus ”, secondo la Vulgata. Proprio il pensiero di Cristo (νουν Χριστου), si trova anche alla base della nostra coscienza e della libertà umana. Ma il cuore che pensa e la coscienza, non sono forse la stessa cosa? Il “pensiero di Cristo ”, secondo Paolo, è il modo di sentire, di intendere, di vedere le cose come le vede e le vive Cristo stesso. La ragione che decide ciò che è lecito e ciò che è illecito, e “il Cristo che abita per la fede nei nostri cuori ” (Ef. 3,17) hanno in comune la sostanza e questa sostanza può essere chiamata “coscienza aperta allo Spirito Santo”, poiché è solo lo Spirito che ci dà la grazia di conoscere Dio.


Questo vuol dire che lo Spirito crede in noi, pensa in noi, giudica in noi: in altre parole, rappresenta Cristo in noi. Troviamo un’interpretazione interessante del concetto paolino della presenza di Cristo, in particolare del pensiero di Cristo, nella teologia di San Massimo il Confessore. Il “pensiero di Cristo che ricevono i santi” (cito dai suoi “Capitoli gnostici”) si situa nella visione trinitaria paolina con la presenza dello Spirito Santo, “in quanto guida di sapienza e di conoscenza” (II, 63) e con l’apertura verso il Padre, che “si trova naturalmente tutto intero indiviso, in tutta la Sua Parola” (II, 71).


“Il pensiero di Cristo..., dice il Confessore, non sopraggiunge per la privazione della nostra potenza intellettuale” (in altre parole, i nostri sensi conservano le loro forze naturali), ma “illuminando mediante la propria qualità la potenza del pensiero...”. La potenza del pensiero nella visione massimiana si trova nel suo logos. In altre parole, nell’idea o nel principio di ogni cosa o essere. Il logos costituisce la natura spirituale di qualsiasi creatura o la sua “struttura interiore”. Ma il simile, come diciamo spesso, è riconosciuto dal proprio simile, per il fatto che porta in sé la sua immagine - immagine capace di partecipare al suo “archetipo”, in questo caso al Logos come Seconda Persona della Santa Trinità. Qui non si tratta dell’analogia fra il divino e l’umano, ma del primo paradosso della conoscenza di Dio, che si realizza nel “pensiero di Cristo ”: in questo pensiero tutte le cose, nel loro logos, si riflettono ed è data la presenza di Cristo nella sua realtà ipostatica. Siamo chiamati ad entrare in questo pensiero, immergendoci nel mistero dell’Incarnazione.


“Il mistero dell’Incarnazione del Verbo, dice San Massimo, ha la fede, forza di tutti i segreti, e le figure della Scrittura e la scienza di tutte le creature visibili ed intelligibili ”(I, 66).


Proprio il mistero dell’Incarnazione, inteso nel senso espresso dal Confessore, lo troviamo nel concetto paolino della coscienza, il quale non può essere capito a fondo o interpretato in termini astratti o solo puramente umani. La coscienza conosce dall’interno il logos delle cose, perché il pensiero di Cristo si nasconde dietro qualsiasi opera creata. Perciò Paolo può esclamare nella Lettera ai Galati, non solo in senso mistico o spirituale, ma anche intellettuale e teologico: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (2.20). Anzi Cristo agisce nella mia coscienza, pensa con il mio pensiero. Tutto è lecito a Cristo, ma non tutto è utile al peccatore che coabita con Cristo. Tutto è lecito, ma non tutto ciò che è lecito mi porta a Dio. Il mio pensiero è libero, ma esso trova la sua autentica libertà solo nella sua sottomissione al Signore che abita nel mio cuore. La libertà non esiste come una cosa in sé, come concetto astratto. La libertà è un’espressione della persona umana, del pensiero umano, del peccato umano, della fede e dei sentimenti umani. Così Paolo nella lettera ai Filippesi esorta:


"Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, Il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la Sua uguaglianza con Dio; ma spogliò di se stesso, assumendo la condizione di servo (Fil. 2,5-8).


Cosa vuol dire spogliarsi di se stesso ? Rinunciare alla propria superbia - che si trova alla radice della nostra personalità, del nostro "io" e che cerca sempre la migliore posizione nel mondo, in quelli che hanno "come dio il loro ventre" (Fil. 3,19): il denaro, il potere, la sessualità, il successo, ma anche la stima degli altri, la buona reputazione, ecc., ed anche la libertà di cercare e di godere di questi beni terrestri. L'uomo è chiamato a "spogliarsi" di tutto questo, "assumendo la condizione di servo" di Dio - che porta all’estremo la nostra assimilazione al Cristo.


"Spogliarsi di se stesso" vuol dire sacrificare una parte di noi stessi, quella parte che forma, cimenta e salvaguarda la nostra identità in questo mondo decaduto e che ci "protegge" contro Dio e contro l’amore. "L'etica cristiana", se possiamo parlarne nella sua essenza, non è l'etica della legge ("tu devi comportarti così, tu non deve mangiare questa carne, ecc"), ma piuttosto l'etica della vocazione compresa dalla propria coscienza (tu sei chiamato all'amore che si manifesta nella tua vittoria su te stesso), - l’etica e la libertà della formazione di Cristo dentro di noi.


Nel nostro brano non si sta trattando soltanto della sovranità di un qualsiasi “io” laico o religioso, che può scegliere solo fra il lecito e l’illecito, ma della cosa più essenziale. Del legame più profondo dell’essere umano con il proprio Creatore, che chiama nella coscienza. Forse, è una cosa ovvia o banale nel discorso cristiano? Non è così semplice! Il problema del senso della libertà e la scelta della giusta libertà rimangono ancora una linea di demarcazione fra le diverse confessioni cristiane, divise sulla morale, sulla bioetica, sull’eutanasia, sulla tradizione, sulla pratica religiosa quotidiana della fede. Siamo divisi, dobbiamo ammetterlo, proprio sul concetto della libertà. Ciò che per noi non corrisponde al pensiero di Cristo è assolutamente lecito e legittimo per altri. Il brano paolino è davvero piccolo, ma è da questa radice che si dirama l’intero cespuglio dei problemi ecumenici di oggi. Per proseguire il nostro dialogo, bisogna conoscere non soltanto la formula della fede di un altro, ma anche il contenuto umano ed esistenziale dei fondamenti di questa fede, della sua coscienza, del suo pensiero di Cristo.


Ma c’è un pensiero in cui possiamo capirci, in cui siamo già uniti. Questo pensiero è l’appello paolino - così chiaro, così univoco - alla gratitudine. Il motivo del rendere grazie è all’origine dell’insegnamento di Paolo e dovrebbe essere anche l’origine della nostra ricerca comune, a volte ottimistica, ma a volte disperata, dell’unità. Ma l’unità stessa non è il dono di poter riunirsi per glorificare Dio con una sola voce, una sola coscienza, un solo pensiero ed unica libertà?
Letto 1911 volte Ultima modifica il Lunedì, 01 Settembre 2008 13:09
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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