Buttandola in filosofia, ci piaceva dare una sbirciata nella distanza che esiste tra l’etica delle intenzioni o delle convinzioni e l’etica della responsabilità e delle risposte. Tra il radicalismo del linguaggio e le scelte concrete di ogni giorno. Nel proprio lavoro, nella propria città, nella propria associazione, nella propria parrocchia. Ci piaceva l’idea di indagare se i “pacifisti” (tra cui noi), bravi nel declamare posizioni di principio, nella realtà vengano poi a patti con la situazione. Con i compromessi. Se abbraccino, insomma, quella realpacifik (storpiata dalla ben più nota realpolitik), che prevede una gestione diplomatica e pragmatica della pace. La politica dei piccoli passi. O se, invece, la pace ciascuno di loro la sta costruendo «con stili di vita, rigore, coerenza, senza clamori e protagonismi», come auspica don Luigi Ciotti nella lettera al Manifesto alla vigilia dell’ultima Perugia-Assisi.
Un viaggio, il nostro, parziale e tortuoso, che ha attraversato tre mondi: quello dei movimenti “istituzionali”, quello delle amministrazioni locali “pacifiste” e quello delle parrocchie. Tre mondi complessi e carichi di contraddizioni. Senza voler essere, da parte nostra, i giudici dei comportamenti e degli atti di nessuno. Ma cercando di evitare il barocchismo dei soliti dibattiti, che finiscono, spesso, per trasformarsi in un noioso e inutile parlarsi addosso.
vedi l’ultima Finanziaria -viaggia su binari diversi rispetto agli slogan del mondo arcobaleno. Volevamo misurare questa distanza. E la distanza tra la parola e la fatica quotidiana, consapevoli che dobbiamo fare i conti con la doppia coscienza: quella del pulpito, che detta le regole, e quella del confessionale, che ammette le deroghe e gli errori.
I parametri “pacifisti” da utilizzare allo scopo potevano essere infiniti: dalle azioni educative alle politiche di cooperazione, dalle pratiche dell’accoglienza alle battaglie per l’acqua-bene-comune, dall’impegno per la smilitarizzazione del territorio a un’informazione sempre più bonificata da logiche guerriere.
Nigrizia ne ha scelto, arbitrariamente, due. Il primo, abbiamo chiesto che fosse la singola associazione a indicarlo. Il secondo forse quello che ci è più caro - , la qualità e la profondità dell’adesione alla campagna “Banche armate”. Un criterio semplice (farsi gestire i soldi da chi non appoggia il mercato delle anni), ma che tocca il portafoglio e il benessere di ciascuno. Un piccolo gesto. Quotidiano. Eppure, non ancora diffuso come dovrebbe.
(Nigrizia Dossier)