Nell’inferno di disumanità di Auschwitz non poteva mancare - come ci ricorda nelle sue memorie la prigioniera politica polacca Zofia Kossak-Szczucka - la tortura della sete, del non dar da bere, che conduce a una morte terribile. Dai primi segni di disidratazione (giramenti di testa, la pelle che si secca, comparsa di febbre, senso di disorientamento) si giunge al gonfiore della lingua, all’incapacità di camminare e perfino di trascinarsi per mancanza di forze, allo screpolarsi e spaccarsi della pelle, al sempre più forte innalzamento della temperatura corporea, finché reni e fegato non funzionano più, si perde la capacità di controllare il ritmo del respiro e il battito del cuore, sopravviene il coma e la morte.
È dalla penosa visione della morte per sete del proprio figlioletto che vuole proteggersi Agar, la schiava di Abramo quando, scacciata nel deserto, rimane senza acqua. “Tutta l’acqua dell’otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: ‘Non voglio veder morire il fanciullo!” (Gen 21,15- 16). Nella zona del Vicino Oriente che costituisce lo scenario biblico in cui si svolgono le vicende del popolo d’Israele, l’acqua è una risorsa particolarmente preziosa perché il paesaggio è arido e semiarido, con precipitazioni piovose marginali e stagionali, e molte pagine bibliche, così come vari momenti della storia d’Israele, sono attraversati dal terrore della siccità e delle sue devastanti conseguenze. Abramo (Gen 12,10), Isacco (Gen 26,1) e Giacobbe (Gen 41-42) sono costretti a migrazioni a causa di carestie provocate dalla siccità. Siccità (Dt 28,22) e sete (Dt 28,48) rientrano tra le maledizioni che colpiranno Israele se non obbedirà alla voce del Signore. Esperienza dolorosa per il popolo durante il cammino dell’esodo dall’Egitto è stata la sete, il non trovare oasi per dissetarsi (Es 17,3; Nm 20,2; 33,14) o il non poter bere “acque amare” (Es 15,23). Mancanza di acqua (Gdt 7,20-22) o sua non potabilità (2Re 2,19; Ger 23,15) sono problemi drammatici emersi a più riprese nell’esperienza biblica. In situazioni estreme, per sopravvivere all’assenza di acqua l’uomo può arrivare a bere la propria urina (2Re 18,27; Is 36,12).
Il legame universalmente riscontrabile tra l’acqua e la vita appare con particolare forza in zone desertiche e steppose: dar da bere a chi ha sete è un dovere assoluto insito nella legge dell’ospitalità; rifiutarsi a ciò significherebbe condannare a morte l’assetato. Doveva pertanto suonare terribile l’accusa di Elifaz che cercava di spiegare a Giobbe il pietoso stato in cui era ridotto con colpe da lui commesse: Non hai dato da bere all’assetato” (Gb 22,7).
Invece sono costanti le esortazioni a dar da bere a chiunque abbia sete e le testimonianze di questa pratica. “Andate incontro agli assetati, portate acqua” (Is 21,14); non si può rifiutare l’acqua nemmeno ai nemici: “Se il tuo nemico ha sete, dagli acqua da bere” (Pr 25,21). In un episodio riportato solamente dal secondo libro delle Cronache e riguardante la guerra siro-efraimita, si rivela che i prigionieri del regno del Sud catturati e portati al nord, furono liberati, curati, rifocillati e rimpatriati. La cura con cui essi furono trattati sembra già abbozzare la tradizione delle opere di misericordia. Alcuni uomini, designati per questo compito, “si presero cura dei prigionieri; quanti erano nudi li rivestirono grazie al bottino; li calzarono, diedero loro da mangiare e da bere e li unsero; poi trasportando con gli asini tutti gli inabili a camminare, li condussero a Gerico, presso i loro fratelli” (2Cr 28,15).
Il “dare da bere” non riveste solamente una dimensione individuale, ma sociale e politica. E anche militare. In caso di assedio una solida cinta muraria non era sufficiente per proteggere gli abitanti. Occorreva assicurare l’approvvigionamento d’acqua. Di fronte alla minaccia assira, il re Ezechia (716-687 a. C.) fece scavare un canale sotterraneo che convogliava l’acqua della fonte di Ghicon e la portava all’interno di Gerusalemme dove alimentava un “serbatoio” (Is 22,11), la cosiddetta piscina di Siloe (2Re 20,20; 2Cr 32,30). Dirà di lui elogiativamente il Siracide: “Ezechia fortificò la sua città e condusse l’acqua al suo interno; scavò con il ferro un canale nella roccia e costruì cisterne per l’acqua” (Sir 48,17). Una città non adeguatamente approvvigionata di acqua non può resistere a lungo a un assedio: è il caso di Betulia, i cui abitanti, dopo trentaquattro giorni di assedio, erano allo stremo delle forze per mancanza di acqua. “Il campo degli Assiri rimase fermo tutt’attorno per trentaquattro giorni e venne a mancare a tutti gli abitanti di Betulia ogni riserva d’acqua. Anche le cisterne erano vuote e non potevano più bere a sazietà un giorno solo, perché distribuivano da bere in quantità razionata. Incominciarono i bambini a cadere sfiniti, le donne e i ragazzi venivano meno per la sete e cadevano nelle piazze della città e nei passaggi delle porte e ormai non rimaneva più in loro alcuna energia” (Gdt 7,20-22).
La cultura biblica, così segnata dal bisogno dell’acqua, è anche cultura di pozzi e cisterne per raccogliere, custodire e distribuire questo bene così prezioso. Le cisterne raccoglievano acqua piovana (Ger 2,13) ed erano di dimensioni molto diverse: vi erano infatti cisterne pubbliche e cisterne private per uso famigliare (2Re 18,31). Normalmente scavate nel calcare e a forma di pera, erano internamente intonacate per meglio conservare l’acqua; la loro imboccatura, al livello del terreno, doveva essere coperta per evitare incidenti (Es 21,33-34) o usi criminali (Giuseppe fu gettato in una cisterna: Gen 37,22). I pozzi freatici e quelli alimentati da una sorgente erano le altre forme di raccolta e utilizzo delle acque. Il pozzo alimentato da una sorgente è fonte di “acqua viva”, cioè zampillante, in costante movimento, che non corre il rischio della stagnazione (Gen 26,19).
I pozzi rivestivano un importante ruolo sociale. In quanto scavati da uomini, davano origine a un diritto di proprietà: un nomade che chieda il passaggio agli abitanti sedentari di un paese, s’impegna a non bere l’acqua dei pozzi (Nm 20,17) o a pagarla (Dt 2,6). Per la loro importanza per i pascoli, spesso originavano dispute e contese fra pastori (Gen 21,25; 26,15-25), ma erano anche luoghi di incontro e di conversazione amichevole, in cui le consuete barriere tra uomo e donna conoscevano un allentamento. Poiché andare al pozzo ad attingere l’acqua era compito riservato alle donne, ecco che potevano avvenire incontri a volte molesti (i pastori che scacciano le figlie di letro: Es 2,17), a volte piacevoli, nel senso che davano luogo a fidanzamenti (Isacco e Rebecca: Gen 24; Giacobbe e Rachele: Gen 29,1-14).
Gesù stesso, stanco e assetato, siede presso un pozzo e chiede da bere a una donna che viene ad attingere l’acqua (Gv 4,1-42): inizia così un dialogo durante il quale la donna non attinge l’acqua e Gesù non la beve, ma entrambi mostrano che la vera acqua che può saziare è l’incontro e che la vera sete è il desiderio di relazione. E Gesù, promettendo l’acqua dello Spirito e della rivelazione, promette l’acqua che disseta per la vita eterna. Ma questo livello simbolico-religioso non annulla il livello materiale della sete, né nell’esperienza di Gesù, né in quella del cristiano. Se il ministero apostolico comporta fatiche e tribolazioni tra cui: “fame e sete” (1Cor 4,11; 2Cor 11,27), il dar da bere anche solo un bicchiere di acqua fresca ai discepoli, ai piccoli inviati nel nome del Signore, è gesto che non sarà dimenticato dal Signore (Mt 10,42; Mc 9,41). Anzi, ogni uomo che si trova nella penosa condizione di essere assetato diviene sacramento della presenza di Cristo e interpella la responsabilità di chi ha la possibilità di dissetarlo (Mt 25,35.37.42,44).
Nel quarto vangelo Gesù sulla croce pronuncia le parole: “Ho sete” (Gv 19,28). La crocifissione comportava disidratazione e una bruciante sete. Il gesto di dare da bere un vino acidulo (Gv 19,29-30) o una mistura di mirra e vino (Mc 15,23) era una pratica che tendeva ad alleviare per un momento il dolore: “Date bevande inebrianti a chi sta per perire” (Pr 31,6). Gesù ha conosciuto la condizione dell’assetato.
Declinare oggi questa opera di misericordia significa coglierne la dimensione politica mondiale connessa alla crisi idrica e ribadire il diritto all’acqua potabile da parte di ogni uomo. La limitatezza delle riserve di acqua dolce disponibile ha reso l’acqua un business appannaggio di alcune multinazionali e oggetto di conflitti.
La previsione del vicepresidente della Banca Mondiale Ismail Serageldin che nel 1995 affermò che “le guerre del prossimo secolo si combatteranno a causa dell’acqua” è già realtà se si pensa che in diversi conflitti in corso (tra cui lo stesso conflitto israelo-palestinese) il problema dell’accesso a risorse idriche e del loro controllo è ben presente. L’acqua è divenuta l’oro blu. Se la crisi idrica è connessa a molteplici fattori (aumento della popolazione mondiale, aumento del fabbisogno di acqua per usi industriali, civili e agricoli, inquinamento dei corsi d’acqua e delle falde acquifere, mutazioni climatiche...), essa richiede politiche ispirate a valori culturali e umani di solidarietà, non meramente economici. Il passaggio dell’acqua da diritto a merce è uno dei principali motivi di ingiustizia.
Che milioni di persone (soprattutto bambini al di sotto dei cinque anni) ogni anno muoiano per malattie legate alla scarsità di acqua o all’uso di acque di pessima qualità, che milioni di persone non abbiano possibilità di accedere all’acqua potabile, che la disponibilità di litri di acqua pro capite sia enorme per chi abita negli USA e infima per chi vive nell’Africa subsahariana, tutto questo non può che portare a una presa di coscienza della gravità del problema e a operare a livello politico per rispondere adeguatamente alla domanda disperata di chiede da bere.
Altrimenti le parole “avevo sete e non mi avete dato bere” (Mt 25,42) giudicheranno e sorprenderanno anche noi.
(da L’Ancora, aprile 2008)