Sono questi esiti catastrofici, oggi sotto gli occhi di tutti, a ridestare, nell’anima un fremito di risurrezione. La rinascita dell’anima, il suo ridestarsi alla vita - condizione previa dell’attesa risurrezione dei corpi - è un processo che non tollera deleghe, per il quale non si danno “uteri in affitto”, ma che si svolge nel segreto della nostra persona. Noi siamo il grembo del nostro stesso natale, dal momento che siamo esseri in costante autogestazione e autogenerazione.
In ogni istante della nostra esistenza ci troviamo di fronte all’alternativa tra rigenerazione e degenerazione. Ogni pensiero che formulo risulta necessariamente rigenerativo o degenerativo. Ogni parola che pronuncio edifica o distrugge. Ogni azione che compio suscita un processo evolutivo o involutivo entro e fuori di me. «Quando la nostra storia scorre contro la corrente della coscienza», per esprimerci con le parole del presidente-drammaturgo cecoslovacco, «assistiamo a un processo regressivo che ha il sapore e lo spessore della morte». Nel Vangelo di Giovanni è tassativo l’appello a rinascere. A quel rinascere di nuovo che si sostanzia nel rinascere dall’alto. Duplice e volutamente studiato è il senso del termine di cui si serve l’evangelista. La novità non può venire se non da colui che fa «nuove tutte le cose» (Apocalisse 21,5). Il natale di Cristo nella storia umana determina quindi il natale dell’anima, secondo l’ispirato pensiero di Eckhart espresso in una delle sue celebri ”prediche”: «In Cristo l’anima rinasce a una pienezza di vita che il peccato aveva compromessa, quando non spenta».
La trasformazione cristica dell’anima è la condizione stessa della sua salvezza e della sua sopravvivenza. Il momento “simbolicamente” più alto di questo processo di cristificazione si compie nell’eucaristia, dove il natale di Cristo nella concretezza del segno è finalizzato al natale dell’anima: «Io sono il pane della vita... chi mangia di questo pane ha la vita eterna» (Giovanni 6,35-51).
Possiamo dire che l’eucaristia fa germinare nell’anima la vita, secondo l’insegnamento recepito e trasmesso dagli apostoli. Giacomo (1,21) scrive di una «parola seminata» in noi che può «salvare le nostre anime». Pietro (1Pt 1,23) a sua volta afferma che «siamo stati rigenerati» in virtù della «seminagione incorruttibile della parola». Giovanni (1Gv 3,9), infine, parla nientemeno che del «seme di Dio», che ci fa nascere da lui e ci rende impeccabili.
Cristo non è però solo seme generatore di vita, ma anche nutrimento che consente all’anima di «crescere in salute/salvezza». Si tratta, volendo rendere alla lettera il testo biblico, di quel «puro latte del Verbo» (1Pietro 2,2) ben noto ai cristiani che avevano sperimentato il ringiovanimento interiore in forza della grazia battesimale.
Rigenerata e nutrita dal “Verbo- Seme-Latte” (simbolo, quest’ultimo, dell’alimento basico e originario dell’uomo), l’anima deve attendere alla propria costruzione o, con le parole dei padri memori dell’invito paolino alla: “metamorfosi” spirituale (Romani 12,2), alla propria formazione. Infatti, quando si parla di formazione o di trasformazione ci si riferisce a «un processo che obbedisce alle medesime leggi del corpo fisico». Ci offre questo pensiero un acuto ricercatore contemporaneo, Jacob Needleman, che considera compito vitale per la cultura dell’Occidente «quello di ritrovare il tesoro nascosto, il proprio cuore, la propria anima smarrita».
Needleman sostiene che «l’anima abortisce, forse cento, mille volte al giorno», e si riferisce al fatto che l’anima riesce con difficoltà a «estrarre la pura energia che racchiude in sé», riversando nella vita le proprie potenzialità. L’anima dimora in noi inattivata, quasi paralizzata. Confinata in uno stato di latenza e di dispersione, non assurge al suo compito di centro di gravità e di irradiazione. In questo senso abortisce. E come ci sono un’eutanasia e un suicidio fisici, cosi si danno, ancor prima e ancor più, un’eutanasia e un suicidio morali, quando si mortifica e si spegne la vita dell’anima. Ciò si verifica in molti modi: vivendo nella prigionia del proprio ego che asservisce le potenzialità dell’anima e un progetto illusorio di autorealizzazione; oppure quando si vernicia l’ego di una spiritualità disincarnata che non si traduce in ascesi e in carità.
Ascesi e carità sono le due facce di un’unica medaglia, perché la costruzione armoniosa e disciplinata della propria umanità conduce alla promozione e all’edificazione degli altri quali membra vive del corpo sociale e cosmico. E’ necessario dunque che l’anima si consacri alla propria rinascita cristica, prendendo le mosse dal presupposto di ogni autentica religiosità, che è costituito dall’«attenzione del cuore».
Needleman ne parla in questi termini, e mentre lo ascoltiamo disponiamoci a entrare nell’Oasi, sostarvi in contemplazione silenziosa e uscirne arricchiti da quel supplemento d’anima che è indispensabile per ridare all’uomo e al mondo la gioia di vivere, di sperare e di amare: «Lo sviluppo dell’attenzione.., è quasi equivalente allo sviluppo e alla crescita dell’anima... Un’attenzione raccolta, diretta al tempo stesso sia verso lo spirito che verso il corpo. E questa l’attenzione del cuore».
(da Jesus)