Se guardiamo agli ultimi decenni della nostra storia, potremmo dire che gli anni Sessanta-Settanta sono stati caratterizzati dalla domanda: «Che fare per cambiare il mondo, per cercare più giustizia, per rinnovare la Chiesa?». Erano gli anni del post-Concilio... Poi sono venuti gli anni Ottanta e la domanda è divenuta: «Come vivere?». Visto che non si è riusciti a cambiare il mondo, interroghiamoci almeno sulla qualità della nostra vita. Ma di fronte alle continue smentite nella storia del mondo - poiché se è crollato il muro di Berlino, altri muri sono sorti, forse ancora più solidi - e nella storia personale di ciascuno (la malattia, le disgrazie, la mancanza di prospettive di lavoro, l’incapacità di perseverare nella fedeltà ai propri amori), si pone un’altra domanda: «Che cosa sperare? Si può ancora sperare?». Di certo la speranza non è facile ottimismo. Il credente è un uomo lucido, che discerne il potere del male, della sofferenza, della morte. Come sperare, allora?
Un racconto della Genesi ci presenta la figura di Abramo, padre della fede, ma anche della speranza. Paolo afferma che Abramo «sperò contro ogni speranza» (Rm 4,18), cioè contro ogni umana attesa. Qual è stato il cammino di Abramo? La sua vicenda è intrecciata con quella di Lot. Ambedue partono dalla propria terra, compiono un lungo viaggio, apparentemente insieme, ma con modalità di approccio alla vita assai diverse. In queste due storie si può intravedere una parabola del viaggio che ciascuno di noi compie nella sua vita.
Da dove vengo? Dove vado? Che cosa c’è prima di me, dietro di me? Che cosa sta davanti a me? Sono domande con le quali tutti facciamo i conti, e forse ripetutamente, nel corso della nostra esistenza. A ogni momento cruciale, a ogni svolta, a ogni giro di boa si ripropongono, a volte, con drammatica urgenza; accade di aver vissuto con una certa tranquillità, in un’innocente indifferenza nei confronti delle «questioni ultime», di non essersi mai posti esplicitamente il problema del senso del nostro fare, del nostro vivere ma, in realtà, implicitamente una risposta la si dà tutti, più o meno consapevolmente, scegliendo o non scegliendo, ma semplicemente su¬bendo uno stile di vita, dei valori, un modo di rapportarsi a se stessi, all’altro, alla vita, ai giorni che passano.
Abramo e Lot percorrono un identico itinerario geografico, ma l’itinerario spirituale è completamente diverso. «Vattene dal tuo paese...». Abramo sente una voce davanti a sé, un appello, Qualcuno che lo chiama. Certo, c’è un uscire da un paese di certezze per affrontare un futuro ignoto, ma il partire e il viaggiare hanno un senso, sono sorretti da una promessa. La vita promette molto all’affacciarsi della giovinezza, si presenta con forza erompente; anche la vita di fede si presenta con una promessa, apre nuovi orizzonti. Questa promessa nel corso della vita sarà oggetto di ripetute conferme e riletture; la fede è un continuo andare oltre, sequela di Qualcuno che per amore dona la vita su una croce.
Ma accanto al partire di Abramo vi è quello di Lot, che non percepisce alcuna voce davanti a sé, nessun appello. Lot parte forse soltanto perché parte Abramo, per essere come tutti gli altri, parte perché la sua esistenza è segnata da una mancanza; quello che ha non gli basta, non soddisfa i suoi bisogni. È l’immagine di chi è radicalmente insoddisfatto, che si percepisce come una serie di bisogni da realizzare che si scontrano con la dura e spigolosa realtà della vita, con «l’altro», con la società. L’altro può addirittura diventare l’inferno, uno che rovina l’esistenza perché - a volte per il solo fatto di «esistere» - si oppone alla realizzazione dei bisogni, della libertà personale. Si può leggere la vita come luogo di realizzazione di una felicità ottenuta a basso prezzo, senza impegno, senza fatica, sotto il segno della massima spontaneità. Potremmo dire: Lot parte perché gli va di partire; in quel frammento di tempo, al di fuori di qualsiasi progettualità, gli piace partire.
Eppure già la percezione di una mancanza, la coscienza di un’insoddisfazione profonda non è piccola cosa. Credo si debba già leggere qui un appello, una sete, un desiderio, una speranza - forse concitato, non troppo consapevole, disordinato - di «altro» che può divenire Altro. Non siamo tutti, costituzionalmente, esseri il cui desiderio - una volta esaudito - è immediatamente rilanciato verso un ulteriore oggetto di esaudimento? Una predicazione cristiana che si incentri sul già del Regno - il Regno è già qui, in questo mondo, o addirittura è frutto del nostro impegno - trascurando la dimensione del non-ancora - il Regno è presente in germe, ma non lo vediamo ancora - non ha alcuna parola da offrire a chi è mosso dall’inquietudine dell’insoddisfazione.
La speranza fa sì che l’uomo non si rassegni mai a questo mondo, all’ingiustizia che vi regna, al dolore, alla morte. La speranza fa sì che il credente si riconosca pellegrino e straniero in questo mondo, un mondo che ci sta stretto, che sospira liberazione, perché c’è la sofferenza, le catastrofi naturali, la malvagità dell’uomo, perché - in qualche modo - è un mondo sbagliato.
Quattro volte nel corso dei capitoli 12 e 13 della Genesi si fa menzione di un altare costruito da Abramo. Che cos’è l’altare? Per l’ebreo, prima ancora di essere il luogo in cui si offrono sacrifici, è memoriale della visita di Dio, è atto di rendimento di grazie per la sua teofania. Abramo, costruendo un altare, intende fare memoria e rendere grazie. Sono due dimensioni del vivere cadute in disuso non solo nella nostra società, anche nella nostra Chiesa. Ma non vi è fede e speranza senza memoria e rendimento di grazie, cioè senza Eucaristia. La memoria è una dimensione fondamentale della fede giudaico-cristiana, ma nei nostri giorni si tende facilmente a confondere la tradizione con la reazione, la memoria con un conservatorismo nostalgico.
Abramo fa memoria, ricorda; in altri termini ha un terreno nel quale affondare le proprie radici; ringrazia, riconosce di fronte a sé Qualcuno che gli ha fatto un dono. Lot non costruisce altari, non ha memoria del passato - così come, del resto, non si sente oggetto di una promessa riguardo al futuro -; Lot non ritiene di dover ringraziare nessuno. Sono due modi di stare nell’esistenza. Abramo si sente inviato dentro la vita, percepisce la sua esistenza come un dono del quale ringraziare, spera nelle promesse di Dio, anche se ancora non ne vede la realizzazione. In questa prospettiva l’essere nati in un luogo determinato, in un tempo determinato, dal tal padre e dalla tal madre non è irrilevante. Attraverso le umane mediazioni, si giunge a riconoscere nella fede che Qualcuno mi ha voluto - proprio me! -, mi ha inviato dentro la trama della storia per diventare una parabola del suo amore e dunque posso sperare che la mia vita, nonostante tutto, abbia un senso. Lot che non sa ringraziare, riconoscere alcun dono, né alcuna presenza d’amore davanti a sé o dietro di sé, mi pare esemplificazione di una vita trascorsa nella logica dell’attimo, del caso, del fortuito. Ci si sente gettati nella vita senza sapere bene perché, né per che fare.
Lot ha speranza solo in questo mondo, ha una speranza di breve respiro. Sembra tendere le mani per accaparrare per sé, ripetendo quel gesto già compiuto da Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden; manifesta quella voracità nei confronti delle cose, degli altri, della realtà da cui tutti siamo tentati. Eppure l’atteggiamento di Lot è quanto mai diffuso nel nostro mondo e non pare destare scandalo. Che fa di male? Ha fatto i suoi conti e ne ha tratto le dovute conseguenze! Abramo accoglie ciò che il Signore gli dona con animo grato. Non c’è nessuna passività, nessun provvidenzialismo; si trova a dover fare delle scelte, ma tutto vive come risposta a un amore che l’ha preceduto.
Non esistono Abramo e Lot allo stato puro, ma siamo tutti, attraversati da queste due modalità di viaggio. Sta a noi scegliere se sperare nel Signore o se riporre la nostra speranza soltanto nelle nostre forze, in questa vita. Quando viene a mancare la speranza, tutto si ferma, l’esistenza diventa pesantissima, non si ha più voglia di vivere. Più una vita è sazia di benessere e più si sperimenta la noia. La speranza è paradossale, non passiva; non è evasione nel sogno né radicalismo avventuroso; sperare significa essere pronti a ogni momento ad accogliere la nascita dell’uomo nuovo. Sperare è credere che qualcosa di nuovo può avvenire nella vita. E questo non è puro ottimismo né provvidenzialismo.
Cristo ha vinto ogni forma di male, eppure noi continuiamo a sperimentare il dolore, la sofferenza, la malattia, il peccato. Conosciamo smentite, delusioni, fallimenti; a volte siamo tentati di chiudere il cuore per non illuderci più, di dare le dimissioni dalla vita e di lasciarci vivere senza più sperare nulla. Ma forse, a volte, la disperazione è frutto di un sottile orgoglio di chi sperava di salvarsi, di darsi da solo un senso alla vita. Forse l’indurimento del cuore, che porta a incattivirsi contro gli altri, è frutto dell’incapacità di riconoscere il proprio fallimento. Ma una vita centrata su di sé non può sperare. Il centro generante la speranza cristiana è la risurrezione di Cristo. Noi speriamo anche agli inferi, come Silvano del monte Athos, e speriamo per tutti, non solo per noi. Non è speranza individualistica (Spe salvi, 13). I credenti sperano per tutti, perché l’amore spera tutto
(da Mondo e Missione, maggio 2008)