Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di Rinaldo Falsini
Occorre prendere atto della funzione liturgica del sacerdote nell’assemblea eucaristica, imparando a usare bene il Messale. Il rito della pace esprime la comunione e la carità fraterna. Se ne richiama la sobrietà.
La terza edizione italiana del Messale si fa attendere e a nostra disposizione abbiamo soltanto l’Ordinamento generale del Messale romano (OGMR, marzo 2004). Ma i problemi di vario genere emergono in continuazione; tra questi la rinnovata figura, con la funzione relativa, del sacerdote nella celebrazione eucaristica risulta la più attuale e tra le primarie in ordine di importanza. Non a caso la Conferenza episcopale italiana ne ha richiamato l’attenzione nella presentazione all’edizione 1983 (terzo paragrafo "Stile di celebrazione e arte del presiedere", 9) con questa raccomandazione: «[Il sacerdote] dovrà conoscere a fondo lo strumento pastorale che gli è affidato per trarne [...] tutte le possibilità di scelta e di adattamento».
di Giordano Muraro
Non si riesce più a trovare una persona responsabile. Bisognerebbe affiggere i manifesti wanted, con relativo premio. Quando avviene un fattaccio si cerca il colpevole, ma per quanti sforzi si facciano il colpevole non si trova. O meglio, c’è, ma non è lui. Magari ci sono le prove provate, la confessione aperta, le testimonianze sicure, ma il colpevole non è lui. È la società che gli ha impedito di maturare, la famiglia che lo ha educato male, i "vissuti" personali che non gli permettono di essere consapevole e gli tolgono la libertà, la capacità di intendere e di volere; e senza consapevolezza e libertà non c’è responsabilità e tanto meno colpevolezza.
Quando poi si entra nelle relazioni sociali, le cose peggiorano in modo esponenziale. Il fatto è avvenuto, e magari si fanno nomi e cognomi precisi. Ma non si procede, perché è un complotto politico, una persecuzione, un tranello. L’esecutore è solo una vittima, la sua unica responsabilità è stata quella di essere stato un po’ ingenuo, e in genere l’ingenuità non si punisce. È vero che l’ingenuità può essere presa in considerazione nei bambini; ma tutti siamo e restiamo un po’ bambini.
C’è poi un altro sistema per deresponsabilizzare, ed è il «così fan tutti»; oppure il ricorso a una commissione di inchiesta che si prolunga nel tempo fino a perdersi nella nebbia dove si smarrisce la direzione, e tutto viene ingoiato dalle sabbie mobili dell’oblio
Scaricabarile
La storia è antica. È iniziata già nel paradiso terrestre quando Adamo si è assolto, scuotendosi la responsabilità di dosso e addossandola a Eva: «È stata lei». Eva non è più quella creatura splendida che lo ha tolto dalla solitudine, ma è quella disgraziata che ha rovinato la sua vita. Eva a sua volta si deresponsabilizza attribuendo la colpa al tentatore. Da allora la storia continua senza fine. Caino cerca di sfuggire alla sua responsabilità, dicendo che non sa nulla del fratello Abele: «Sono forse io il custode di mio fratello?», e così di seguito, di giorno in giorno, di anno in anno, di secolo in secolo, di millennio in millennio, fino agli imputati di Norimberga che cercano di assolversi scaricando la colpa sui loro superiori: «Abbiamo ubbidito a ordini precisi».
Ma che cosa vuol dire essere responsabile? E quando si è responsabili? Potremmo rivolgerci alla morale classica e troveremmo subito la definizione. Ma preferiamo utilizzare strumenti più attuali che sembrano corrispondere meglio al modo di pensare della gente d’oggi. Il Conciso (Vocabolario della lingua italiana, Treccani 1998, Roma, p. 1378) dice che il responsabile è colui «che risponde delle proprie azioni e dei propri comportamenti, ne prevede i rischi e gli effetti, rendendone ragione e subendone le conseguenze». Quindi la responsabilità suppone da una parte una persona che agisce, e dall’altra un fatto da lei prodotto in modo consapevole e libero; ma suppone due altri elementi: la imputabilità non solo dell’azione, ma anche degli effetti prodotti, e il dovere di riparare al male fatto.
La responsabilità non si limita al fatto, ma si estende alle conseguenze dell’azione e all’obbligo di rimediare in qualche modo al danno prodotto. Se io investo un pedone, sono responsabile non solo della morte di una persona, ma anche delle conseguenze che questa morte produce nei suoi familiari, con il dovere di risarcirli. La descrizione è esatta. Ma richiede ancora una serie di precisazioni che complicano tutto.
Anzitutto la distinzione tra responsabilità e colpevolezza. Se inavvertitamente mi sfugge un colpo e uccido un uomo, sono responsabile di questa morte e delle conseguenze di questa morte; ma non sono moralmente colpevole, perché mancava l’intenzione di uccidere. Dovrò pagarne le conseguenze, perché la morte del compagno di caccia è attribuibile a me, ma non ne sono moralmente colpevole. A meno che non abbia trascurato di adottare le precauzioni che normalmente si prendono in questi casi. Sono nozioni che abbiamo appreso fin dall’inizio dello studio della morale.
Oggi l’attenzione si sposta principalmente su altri elementi che si tende a dimenticare e ai quali la morale una volta era molto attenta per responsabilizzare nella giusta proporzione tutti quelli che in qualche modo concorrono alla produzione di un fatto o di un comportamento dannoso, ma specialmente in ordine al dovere di riparare il male fatto, perché chi sbaglia deve pagare, e chi danneggia deve riparare il male causato.
Tutti quelli che devono restituire
Nei manuali veniva presentato un preciso elenco che aveva il vantaggio di ricordare in due righe tutti coloro che in qualunque modo possono essere chiamati in causa quando si produce un danno. Per esempio, in san Tommaso troviamo questo elenco in un articolo che a prima vista sembra curioso: «Se siano tenuti a restituire la roba altrui quelli che direttamente non l’han presa» (S.Th. II-II, q.62, a.7). Oggi questo titolo può sembrare provocatorio, perché spesso non restituiscono nulla neppure quelli che sono stati presi con le mani nel sacco. Si tratta di nove personaggi che concorrono con il loro modo di comportarsi alla realizzazione del fatto delittuoso: «Iussio, consilium, consensus, palpo, recursus, participans, mutus, non obstans, non manifestans». Si è responsabili di un fatto delittuoso, e quindi obbligati alla riparazione, perché si è autori di quell’azione o comandandola, o consigliandola, o acconsentendo, o elogiando chi la compie, o ricattandolo, o ricettando le cose trafugate; ma anche quelli che prima del fatto non hanno parlato, o durante il fatto non lo hanno impedito, e dopo il fatto non lo hanno denunciato
L’elenco è stato fatto per i furti di cose; ma vale proporzionalmente per qualunque furto. C’è il furto di cose, ma c’è anche il furto di onore con la calunnia e la maldicenza, come c’è il furto di valori con l’irrisione e l’arroganza, il furto dell’innocenza per il quale Gesù ha consigliato la macina del mulino, c’è il furto del buon senso con i persuasori occulti, il furto dell’onestà con la diffusione della corruzione, ecc.
Chi è il responsabile di questi furti? Chi deve riparare al male fatto e restituire le cose rubate? Gli esempi sono infiniti. Chi è responsabile delle cattedrali nel deserto, degli ospedali finiti e mai utilizzati, dei centri sportivi mai messi a disposizione della gente? Chi è responsabile del fatto che i soldi raccolti per precise opere di beneficenza si perdano per strada e non arrivino che in minima parte alle persone da beneficare o alle opere da costruire? Chi è responsabile del bullismo diffuso, delle stragi del sabato sera, della caduta di autorevolezza degli educatori, della banalizzazione del pudore, eccetera?
Anche in questi casi quando si giunge al dunque vediamo il fuggi fuggi generale. Tutti hanno un alibi, oppure si ricorre alla falsa umiltà del culpa mea generalizzato, che diventa in realtà l’assoluzione di tutti: siamo tutti colpevoli, quindi non è possibile puntare il dito contro persone ben precise e chiedere che riparino e restituiscano.
I cattivi maestri
Si ha l’impressione che la società sia diventata come quella nave dove nessuno ha una funzione ben precisa di cui deve rendere conto. I cattivi maestri non sono solo quelli che promuovono in prima persona comportamenti delittuosi, ma anche quelli che li consigliano, li promuovono, li elogiano, li diffondono, come ci sono quelli che tacciono, non si oppongono, non li denunciano.
Non c’è solo il mafioso che emette sentenze di morte, ma c’è anche il responsabile dell’amministrazione pubblica che dispone le cose in modo da trarne vantaggi personali; come c’è la persona abile ed esperta che può suggerire il modo più opportuno per evadere le tasse, o il potente che trucca i concorsi per far vincere il suo protetto che non ha i titoli per vincerlo; come ci sono gli omertosi che non denunciano chi organizza furti e ricatti, o i molti Ponzio Pilato che si lavano le mani tirandosi fuori del fatto che sta per avvenire e che potrebbero impedire. Così pure ci sono gli ispettori che non ispezionano, gli educatori che rinunciano a educare, i promotori del bene comune che promuovono il bene di se stessi, i magistrati che non amministrano la giustizia o sono impediti dall’amministrarla.
Pudore del male e gusto del bello
Dove sono i responsabili a cui chiedere conto di questo stato di cose? Domenica 11 marzo è apparso su La Stampa un articolo a firma di Mina. Dopo aver ricordato le parole del Papa dice che: «L’uomo è arrivato al suo orrido burronale nel momento in cui ha scelto di manifestare senza inibizioni tutto se stesso. Si potrebbe dire che non è cambiata la sua essenza, ma che sono apparsi il coraggio e la sfrontatezza di rappresentarla. I media in ogni forma possibile accettano l’incarico della diffusione della mediocrità quando va bene, dello schifo normalmente, del bello raramente».
San Tommaso direbbe che si è perso il pudore del male e il gusto del bello. Di chi è la colpa? C’è un responsabile o dobbiamo dire che ci sono molti responsabili? Ma la distribuzione della responsabilità non significa l’assoluzione generale in nome del «tutti responsabili, quindi nessun responsabile».
È un modo inaccettabile di pensare e di agire, perché in forza della nostra natura sociale siamo in qualche modo un corpo unico, e il male come il bene di uno si ripercuote negli altri, danneggiando tutta l’umanità. La persona non può mai dire: «Non è affar mio», oppure «ognuno per sé e Dio per tutti». Ognuno è responsabile di tutti. Dio ci ha affidati gli uni agli altri. Ma questo principio vale ancor più quando la nostra persona è coinvolta in qualche modo nella produzione di un fatto. Si è responsabili non solo per commissione, ma anche per collaborazione o per omissione.
La verità è che non si tenta neppure più di cercare il responsabile, perché si è persa la speranza di trovarlo. Non esiste più. È stato sostituito da un "lui" non ben identificato («è stato lui»), che però è diventato comodo per assolversi da ogni responsabilità e dall’obbligo di riparare il male fatto e di restituire alle persone e alla società i beni materiali e spirituali che le sono stati rubati.
(da Vita Pastorale, 4, 2007)
Con questo brano Paolo introduce nella lettera un Inno a Cristo. Un testo, probabilmente, precedente a Paolo e che Paolo riprende, ripensandolo.
Il termine italiano “profeta” trascrive il vocabolo greco prophétes, che significa “colui che parla davanti” o “al posto di qualcuno”.
Giudizio di Dio, castigo o ricompensa, immortalità dell'anima: sono i capisaldi della concezione ebraica sulla vita nell'aldilà.
Cinquant'anni fa, gran parte delle parole che un americano sentiva, venivano rivolte personalmente a lui come individuo o a qualcuno che gli stava vicino.
di Massimo Toschi
Il tempo della guerra, i cui segni crescono ben oltre il dato puramente militare, pone una domanda radicale anche alla cooperazione. Quando la guerra in Iraq degenera in guerra civile e lo scontro di civiltà rischia di diventare una delle chiavi per leggere il nostro tempo, quando la povertà come guerra arriva a cifre indicibili, non ci possiamo accontentare di una qualunque cooperazione.
Se la cifra di questo tempo è la guerra, sia quella guerreggiata, sia quella esibita delle culture, sia quella invisibile delle grandi povertà, la cifra della cooperazione deve essere la riconciliazione, il ricomporre le società, il dialogo tra i Paesi, la piena assunzione del dolore dell'altro e dei suoi diritti.
C'è un volto dell'umanitarismo compassionevole che è entrato dentro di noi. Alla fine, di fronte alla tragedia della guerra e al dramma della povertà del Sud del mondo, ogni progetto va bene, perché porta risorse e cambia qualcosa. Questa è una logica minimalista che non tiene conto della complessità e della gravità della partita nella quale tutti siamo coinvolti.
Forse varrebbe la pena prima o poi di fare una analisi della cooperazione italiana di questi anni, non solo quella promossa dal Ministero degli esteri, ma anche di quella decentrata, dei loro criteri di scelta, dei risultati ottenuti, dei partenariati promossi, dell'efficacia e dell'efficienza dei progetti, della loro capacità di impatto nelle situazioni. Penso che almeno dal Kossovo in qua il quadro ha molte luci ma anche molte ombre. Abbiamo inseguito gli eventi e non li abbiamo anticipati. È la cooperazione del giorno dopo che non ci convince, senza nulla togliere a quanto di bello abbiamo fatto di fronte a emergenze umanitarie, legate alla guerra o a grandi calamità naturali.
Si dovrebbe capire se è stata in grado di leggere i primi segni premonitori del tempo della guerra e di costruire programmi alternativi a esso o al contrario se si sono inseguiti gli eventi tappando buchi che sono rimasti sempre aperti. E si dovrebbe anche comprendere se la cooperazione legata alla lotta contro la povertà in tante parti del mondo si è accontentata di fare qualcosa oppure è stata capace di spezzare il grande nodo che unisce la povertà alla guerra. Fino a riconoscere nella povertà una dimensione costitutiva del tempo della guerra.
Se nel tempo della guerra, facciamo la scelta della cooperazione per la riconciliazione, affermiamo che la cooperazione è uno strumento per una grande politica, che pone al primo posto la pace, la giustizia, i diritti, la democrazia . La cooperazione non è il fine ma il mezzo, lo strumento non neutrale che è alternativo alla guerra per costruire un mondo più giusto. Cooperare significa lavorare insieme, Paesi, culture, continenti diversi, ad un comune disegno di pace e di riconciliazione. Lavoriamo insieme non per disegni di guerra ma per obiettivi di pace, senza i quali la giustizia è retorica, i diritti sono ideologia, la democrazia una vuota formula. La cooperazione ha inscritto nel suo Dna questa vocazione di pace. È vero che spesso questa parola è usata in modo neutro (si parla anche di cooperazione militare), ma in realtà la preposizione -con- indica un lavorare con gli altri che è l'alternativa alla cultura del nemico, contenendo in sé la cultura dell'incontro e non dello scontro. Sta qui il costruire ponti e l'abbattere muri, la formula lapiriana che meglio esprime la nuova cultura della cooperazione.
Essa contiene una pars destruens : la cooperazione come abbattimento dei muri culturali, politici, economici, spirituali che dividono i popoli. E una pars costruens : il costruire ponti di dialogo, di giustizia, di pace e di riconciliazione. Questo è l'esatto contrario del tempo della guerra, quando si innalzano i muri e si distruggono i ponti.
Quando si parla di tempo della guerra si vuole indicare un tempo medio, non breve, di cui la guerra e la sua cultura sono la dominante. Questo non significa mettere al centro le guerre di cui quella dell'Iraq è la principale, ma non unica. La guerra diventa la chiave che attraversa tutti i rapporti: economico, militare, culturale e spirituale. Se davvero vogliamo combattere la povertà dobbiamo combattere la guerra, che uccide non solo perché uccide, ma uccide perché drena imponenti risorse, che potrebbero essere meglio utilizzate per fronteggiare pandemie, la siccità e la fame. Non si può lottare efficacemente contro la povertà senza avviare coraggiosi impegni nel campo del disarmo .
Ma in realtà il tempo della guerra impone il riarmo. La paura che ne è come l'anima spinge in questa direzione. Basterebbe confrontare la crescita esponenziale che è avvenuta in questi quattro anni dopo la distruzione delle due Torri. La paura ha reso possibile questa nuova corsa alle armi, che dopo la caduta del muro di Berlino si era progressivamente attenuata. Si combatte la guerra per sconfiggere la paura e in realtà la guerra stessa produce paura e a questa spirale corrisponde la spinta incessante agli armamenti come elemento insostituibile di sicurezza.
È singolare notare come la guerra inaugurata dal terrore sia una guerra tipicamente asimmetrica, nel senso che chi attacca usa mezzi radicalmente diversi da chi è attaccato, ma chi risponde usa i mezzi tipicamente tradizionali e usa questa guerra asimmetrica per giustificare enormi investimenti nei mezzi tradizionali della guerra.
E come se dovesse partecipare a una guerra tradizionale. Anzi più il nemico è oscuro e più cresce la domanda di una risposta tradizionale di mezzi militari.
In questo senso il terrorismo non solo uccide con il terrore ma anche imponendo questa corsa al riarmo, con il risultato di prosciugare molte risorse che potrebbero essere meglio utilizzate nella partita della vita e della giustizia per interi continenti.
Si potrebbe dire con una formula di Colin Powell: “ La guerra al terrore è legata a doppio filo a quella alla povertà” . Questo significa non solo che prosciugando i bacini della povertà si prosciuga il consenso al terrorismo, ma che nel medio periodo la lotta al terrorismo avviene combattendo la povertà e dunque investire contro il terrore significa non aumentare gli armamenti, ma ridurre gli armamenti per costruire progetti e programmi che diano futuro, sviluppo, diritti e democrazia a milioni di persone. Questa è la versione nel tempo della guerra della frase del profeta: trasformare le lance in falci e le spade in vomeri.
La cooperazione internazionale, che vuole essere strumento di riconciliazione, si deve misurare con questo orizzonte culturale e politico che attraversa popoli e conflitti. Non si può rimanere catturati solo in una logica economicistica o sviluppistica, che alla fine è la nuova faccia dell'umanitarismo compassionevole, che la destra proclama. Qualche aiuto purchessia. Oppure non si può rimanere prigionieri di una logica corporativa che ci spinge ad andare là dove ci sono fondi per progetti e dunque si inseguono i progetti per avere fondi. Basti ricordare in questi anni come le stesse guerre dal Kossovo all'Afghanistan sono diventate luogo di attività imponente di Ong, non per fare la pace ma per garantirsi il futuro. Solo pochissime hanno seguito una strada diversa e più feconda. Altre, addirittura, sono state parte della politica dei governi. Ricordiamo tutti a proposito dell'Afghanistan la polemica tra Emergency e il Ministero degli esteri.
La cooperazione per la riconciliazione è il nuovo orizzonte che fa della cooperazione il grande strumento per fare la pace e il fondamento di una nuova politica internazionale. È necessario attraverso la cooperazione costruire rapporti di partenariato non solo tra istituzioni locali ma anche tra governi nazionali in un disegno comune che valorizzi i popoli e le comunità come comuni protagonisti di un processo di pace, di stabilità, di sviluppo e di democrazia.
Nel tempo della guerra la cooperazione per la riconciliazione è l'unica che ha futuro , perché è capace di incidere e di operare a livello delle società, dei governi locali e nazionali, investendo sul futuro dei Paesi, perché ne accoglie la domanda più radicale che è quella di vivere nella pace.
Questa cooperazione mette al primo posto le persone e quelle più colpite, le vittime, piuttosto che un'astratta discussione sui modelli economici e sociali. La cooperazione per la riconciliazione nasce dalla domanda quotidiana di vita e di pace delle persone e delle comunità e a essa deve rispondere, altrimenti è un'operazione che parte e ritorna in occidente, da usare forse mediaticamente, ma incapace di costruire veri ponti di pace e di giustizia.
La cooperazione per la riconciliazione punta alla realizzazione del concreto riconoscimento dei diritti delle persone, in primo luogo delle vittime, come diritto alla vita, al futuro, che è fatta di scuola, di salute, come avvio e sostegno di un processo di autogoverno delle comunità locali e nazionali, che ha come suo punto di arrivo le forme della democrazia. Anche qui senza integralismi, rispettando le storie e le culture di popoli ed etnie. Basterebbe ricordare il peso che hanno nel continente africano i poteri tradizionali come punto di equilibrio per la prevenzione e il superamento dei conflitti tra le etnie e dentro le etnie.
Nell'orizzonte di una cooperazione per la riconciliazione è necessario scegliere i progetti di cooperazione, perché non è più possibile una qualsiasi cooperazione ma quella che prevenga i conflitti e li porti a un suo superamento. Il problema non è solo la grandezza di un progetto ma il suo valore aggiunto sul piano politico, il suo peso specifico in ordine all'ispirazione, la sua capacità di coinvolgere società e istituzioni.
Il perdono è una grande parola pubblica e politica. Essa si fonda sulla verità, cioè sul pieno riconoscimento delle responsabilità di ciascuno, di ciascun gruppo, di ciascun popolo verso il dolore dell'altro che è accanto a noi, dentro e fuori la comunità a cui apparteniamo. Questo riconoscimento di responsabilità, fatto in modo trasparente, crea le condizioni per il superamento dell'ingiustizia subita, permette di superare la cultura della paura e della diffidenza che anima sempre qualunque conflitto , crea le condizioni per una conversione profonda della politica, che ha generato e alimentato la violenza.
LA GUERRA VISIBILE E QUELLA INVISIBILE
A una lettura superficiale si potrebbe dire che tra la povertà di interi continenti e la guerra non c'è nessun rapporto diretto e significativo. Sembra che la guerra abbia precise responsabilità dirette da parte di governi e gruppi che la promuovono, mentre la povertà risale a cause di medio-lungo periodo non facilmente identificabili se non in termini generico ideologici. In realtà la situazione attuale è molto diversa. Ogni giorno muoiono ventimila persone a causa della povertà e delle malattie a essa connesse. Sette volte le vittime delle due torri. In un anno muoiono circa sei milioni di persone per lo stesso motivo. Nel 2004 sono stati investiti nel commercio delle armi 1.044 milioni di dollari, con un aumento del 20% in quattro anni. Nell'ultimo G8 dell'anno scorso è stato deciso di investire cinquanta miliardi in cinque anni per combattere le pandemie in Africa, dieci miliardi l'anno. Una cifra importante ma non commensurabile rispetto a quella impegnata nel commercio delle armi.
Queste cifre mostrano che tra la guerra visibile della guerra e la guerra invisibile della povertà certamente non c'è un rapporto automatico, ma un qualche rapporto c'è, nel momento in cui si investono enormi capitali nel mercato delle armi e si danno cifre poco più che simboliche per combattere la povertà. O per meglio dire si promettono cifre poco più che simboliche. Come sempre è accaduto, solamente una parte dei fondi promessi arriva concretamente a destinazione. Se poi si guarda agli impegni dei Paesi rispetto allo 0,70% del Pil stabilito dall'Onu e da tutti accettato, si rimane sgomenti con il nostro Paese all'ultimo posto della graduatoria con lo 0,11- 0,12%. Non si tratta solamente di violare gli standard Onu o di non rispettare delle statistiche: si tratta di percorrere la linea di una politica che uccide perché lascia andare alla deriva intere generazioni di Paesi e di continenti.
VITTIME E CARNEFICIL'esempio del Sudafrica mostra che l'esperienza della Commissione verità e riconciliazione ha innestato un percorso virtuoso, che ha evitato al Paese la guerra civile e il collasso sociale e ha promosso un nuovo tipo di convivenza. Il Sudafrica è diventato punto di riferimento dei Paesi attraversati da conflitti in tutta l'Africa. Un gruppo di intellettuali israeliani ha posto la medesima questione al governo israeliano, chiedendo un pieno e unilaterale riconoscimento delle sue responsabilità nel dolore e nella sofferenza del popolo palestinese. Questo aprirebbe spazi inediti e originali al processo di pace, perché sarebbe un contributo irrinunciabile al superamento della cultura della negazione dell'altro e della sua dignità.Il perdono rinvia sempre alle vittime, che hanno bisogno di perdonare, e ai carnefici, che hanno bisogno di essere perdonati. Questo tipo di giustizia riconciliativa cambia i rapporti all'interno dei popoli e tra i popoli e avvia processi di ricomposizione sociale e culturale del tutto imprevedibili. Quando la politica è violenta non basta il cambiamento della politica, è necessaria la conversione della politica. Cambiare politica non significa cambiare solamente i contenuti di superficie, ma lo stesso modo di pensare e di agire politicamente. La conversione della politica tocca il profondo delle scelte, gli abiti culturali attraverso cui leggere la realtà.Quando si dice che l'Europa investe di più su una mucca francese che su un bambino del Burkina Faso, si denuncia una grave stortura e si domanda un cambiamento, affermando innanzi tutto la violenza di una politica che uccide. Ma mettere al centro il bambino del Burkina significa rovesciare la politica, investire su uno sviluppo che abbia la misura del futuro di quel bambino, su una sanità che ne garantisca la vita contro tutte le pandemie, su istituzioni che producano una politica che metta al primo posto i suoi diritti al cibo, alla scuola, alla salute e alla pace, altrimenti non c'è futuro per lui. Questa è la conversione della politica e la politica come conversione da un passato che ha privilegiato gli interessi economici europei rispetto alla vita delle persone africane, in primo luogo i bambini. Questo crea le premesse per la riconciliazione tra gli Stati, tra i popoli e tra i continenti. È la vera alternativa alla guerra e al suo tempo. È possibile su queste basi costruire un nuovo partenariato euroafricano. La cooperazione è lo strumento di questa grande politica, che accetta la sfida del perdono per costruire riconciliazione. (da Missione oggi)
di Rosalinda Gaudiano
Rabbi Shimon insegna: Guai all’uomo che pretende affermare che la Torah è venuta a donarci soltanto delle cronache e delle parole destinate al popolo. Se fosse così, infatti, anche nel nostro tempo, saremmo in grado di fabbricare una Torah con parole di questo tipo. Saremmo persino capaci di farne di più valide. Se si trattasse di puri racconti, anche nelle cronache che vanno in giro, vi sono termini più scelti…
Quando la Torah è discesa in questo mondo, questo mondo non sarebbe stato capace di sopportarla se non si fosse rivestita degli abiti di questo mondo. Perciò il racconto della Torah è il suo vestito. Chi pensa che il vestito è davvero la Torah e non un’altra cosa, il suo spirito sia scacciato via e non abbia parte nel mondo futuro. Per questo Davide esclamava: “Apri i miei occhi e io contempli le meraviglie della Torah” (Ps 119,18), cioè quel che sta sotto al vestito.
Vieni e vedi: c’è un vestito che è manifesto per tutti, e gli sciocchi, quando vedono un uomo con un abito che sembra loro bello, non riflettono più di tanto. Ma il valore del vestito sta nel corpo e il valore del corpo sta in quello dell’anima.
Zohar II, 152 a--------------------------------------
Lo Zohar.
L’opera maggiore della Cabbala, considerata come il terzo pilastro del giudaismo dopo la Bibbia e il Talmud, il Sefer ha-Zohar, o Libro dello Splendore, cominciò a circolare in Castiglia nel 1293. Presentato sotto la forma di una discussione fra Shimon bar Yohai, un rabbino del II secolo che ne sarebbe l’autore, e i suoi discepoli, lo Zohar fu in seguito attribuito a Mosheh de León (1240-1305)
(da Le monde des religions 18, p.63)di Giovanni Tangorra
C’è il rischio che la chiesa si ripieghi su se stessa soffermandosi nella contemplazione del suo mistero anziché protendersi verso gli altri. Occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa, personalizzando la fede. Altro rischio da evitare è il fariseismo. Perché le situazioni sfavorevoli sono maggiormente vantaggiose per la chiesa.
(...)
Una chiesa di uomini
Dopo gli anni dedicati ad analizzare l'identità della chiesa, Congar sente l'esigenza di esaminare il contatto fra questa identità e le principali realtà che costituiscono la dimensione dell'uomo: la persona, il tempo, il mondo. Lo stesso termine «itinerario» fa uscire da una prospettiva in cui la chiesa rischia di ripiegarsi su se stessa, soffermandosi nella contemplazione del suo mistero e afferma che è invece necessario che si riscopra protesa verso gli altri. In poche parole, occorre abbandonare la tentazione del narcisismo ecclesiale perché c'è una strada da percorrere, uomini da incontrare, un tempo da subire e un mondo da abbracciare.
Questo è il segno autentico che esigono i tempi, così come l’autore francese afferma in questa citazione: «Il riconoscimento della situazione reale vuole che la chiesa non esista solamente in se stessa, ma in un certo modo al di fuori di se stessa, al di là dei suoi quadri sacrali, nelle strutture stesse del mondo». (1)
Il passaggio da operare è quindi quello da una chiesa statica a una dinamica, da una chiesa introversa, ferma nella difesa del suo apparato a un'altra che decide di impegnare se stessa lungo l’itinerario degli uomini.
Mentre fino alla rivoluzione francese la società viveva ovattata in uno schema istituzionale che concedeva ben poco alla persona e dove l'autorità pensava a tutto, successivamente c’è stata un'autentica presa di coscienza da parte del soggetto che ha riscoperto il suo spazio personale. Si è così entrati in uno schema che privilegia la dignità dell'uomo a partire dall'uomo stesso, quindi con la sua capacità di essere vero responsabile degli atti che costruiscono la sua esistenza e non strumento o preteso fine di preconcette ideologie.
Di fronte a questo movimento la chiesa ha assunto diverse posizioni che vanno dalla condanna esplicita all'attesa di tempi migliori. Secondo Congar non è possibile mettersi a guardare, occorre accogliere queste nuove idee che devono addirittura diventare motivo di riespressione del cristianesimo. La soluzione proposta non è quindi quella della condanna o della chiusura in se stessi rinforzando le proprie difese, ma quella dell'accettazione.
Nasce proprio qui l’intima esigenza riformista dell’autore, dalla considerazione, cioè, di un mondo diventato adulto che egli caratterizza in questi termini: «passaggio da un mondo oggettivo, a un mondo soggettivo, da un mondo dell’ordine, della gerarchia e della tradizione ad un mondo della coscienza personale». (2)
Il tema, che occupa molte pagine delle opere congariane, si riduce a una sola conclusione: occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa. È come un leit-motif di tipo programmatico: nel messaggio cristiano sono importanti le persone e dunque la chiesa è una realtà che deve essere fatta dagli uomini, negli uomini per cui non bisogna schermirsi di fronte al principio personale, perché «sempre la fede personalizza». (3)
Questa personalizzazione va operata a due livelli: nella fede e nella considerazione della chiesa stessa.
Personalizzare la fede
Il primo passo e quello di una coerente autocritica, che deve portare a una revisione dello stesso concetto di «chiesa».
Troppo spesso questo è stato inteso più nel senso dell'apparato che in quello degli uomini. «Abbiamo elaborato - scrive Congar - una teologia. e talvolta pure praticato una pastorale. del sacramentum, dei mezzi di grazia quali esistono in se stessi allo stato di istituzioni, di istanze amministrative, di formule. di riti: li abbiamo messi troppo poco in relazione con un soggetto religioso di cui possono essere e sono effettivamente la cosa (res) e soprattutto con un soggetto religioso collettivo, con una comunità». (4)
L'autocritica riceve nuovi argomenti dalla considerazione del reale. Riferendosi ad alcune indagini, Congar mette in evidenza, in un suo studio, che se un protestante e un cattolico abbandonano entrambi la pratica religiosa, l'abbandono si fa più radicale nel cattolico e questo perché, mentre il cattolicesimo pratica una fede ancorata all'istituzione, il protestante, per l'assenza di strutture, è obbligato a fare atti religiosi personali e quindi ha una maggior possibilità di restare in una dimensione di fede, nonostante l'eventuale abbandono della pratica. Il cattolico, invece, abbandonata la struttura, sembra che abbandoni anche ogni movimento interiore.
rimedio non è quindi quello di rafforzare la dimensione istituzionale della fede, ma quello di sottoporla a un’attenta verifica, soprattutto nelle sue conseguenze più negative, come l'oggettivismo, il legalismo e il giuridismo. Tutte si riducono a una matrice comune: confusione dei mezzi col fine e materializzazione del rapporto religioso. L'oggettivismo infatti scambia la grazia coi suoi strumenti, il legalismo sostituisce l’amore con la legge e il giuridismo confonde la validità canonica con la dimensione di Dio. che Dio, in quanto soggetto primo, crea soggetti, rispettati nella loro coscienza e libertà.La sua volontà di dialogo con la cultura contemporanea porta quindi Congar a condividere l'odierno disagio istituzionale e, soprattutto per ciò che riguarda il mondo della fede, lo giudica positivamente, sostenendo che il futuro della chiesa dipende proprio dall'accoglienza o meno di questo principio, ossia da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti». (5)
Personalizzare la chiesa
Tre concetti congariani aiutano a comprendere questo tema e a chiarire meglio le idee finora esposte. Essi sono legati ad altrettanti termini specifici, che approfondirò singolarmente: qualcuno / interiore /reale.
1. Il primo si oppone a «qualcosa», un termine che in Congar esprime il rischio di una cosificazione della grazia, con un'accentuazione esagerata del «mezzo» e delle regole per attuarlo. L'autore si serve della dialettica qualcosa/qualcuno per indicare che tutto ciò che ha a che fare con la vita della chiesa non è solo gesto di «qualcosa», ma è atto di «qualcuno», sentito e ricercato in modo personale, con sincerità e autenticità. Si tratta di operare un passaggio dalla cosa in sé, alla cosa in qualcuno, dal primato delle cose a quello delle persone.
Molte sono le applicazioni di questo principio, non solo al livello di ritualismo religioso, ma anche nelle discussioni dottrinali dove si è spesso più preoccupati dell’esattezza dell’enunciato che del suo contenuto di verità.
2. «Interiore»per Congar è un termine che esprime l'indole del progetto divino. Questo si sviluppa attraverso un movimento di interiorizzazione per cui procede dall’esteriorità delle figure e dei riferimenti all’interiorità del cuore umano. È la dinamica della presenza divina che dalle pietre delle stele e dei templi, dalle tavole della legge, avanza per interiorità fino a diventare una presenza dello Spirito all’interno del cuore stesso del discepolo. (6) Il cammino non si fermerà che in cielo, sinonimo di interiorità assoluta. (7)
Se questo progetto prosegue dalle forme verso il cuore, dalle pietre verso l’interiorità, non bisogna allora avere paura del principio personale, ma favorirlo in tutti i modi.
3. «Reale» sta invece per vero e nel nostro caso indica una cosa che è vera perché diventata atto soggettivato. Sotto questo aspetto un rapporto religioso si dice «reale» nella misura in cui è gesto che parte da un soggetto. Congar si spiega ricorrendo al concetto scolastico della res. Per gli scolastici la res è ciò che di fronte al sacramentum (il mezzo) e alla res et sacramentum (l’effetto), costituisce il sacrificio spirituale dell’uomo e quindi produce l’effetto di grazia. (8) Unendo queste tre dimensioni si deve allora sostenere che il sacramento non è completo finché non raggiunge un grado di interiorità, finché, in sostanza, non è il gesto di «qualcuno».
Non sono però solo gli atti a beneficiare della visione personalista introdotta all’interno della fede. È il mistero della chiesa che deve diventare «reale» nel soggetto umano. «La chiesa stessa che è come un grande sacramento – scrive l’autore – deve avere il suo compimento e la sua verità nell’uomo stesso. Essere reale, potremmo dire, è affermare la sua realtà, raggiungere la sua verità». (9) Dunque la chiesa non è reale o vera finché non raggiunge la sua res nel cuore dell’uomo, finché non diventa vita stessa della persona. La chiesa deve essere gesto di qualcuno e non qualcosa; deve vivere nell’uomo e non nelle cose, siano esse riti, verità, leggi, gerarchie.
La denuncia implicita è quindi contro una specie di materialismo ecclesiologico: la chiesa raggiunge la sua integrità non solo nell'applicazione oggettiva dei suoi contenuti e delle sue regole, bensì diventando contemporaneamente una realtà generata nelle coscienze, nei cuori dagli uomini, rinnovandosi come atto esistenzializzato.
Da queste poche note si comprende come Congar abbia quasi preparato, con molto anticipo, le problematiche principali che hanno coinvolto la chiesa europea degli anni settanta-ottanta, a noi note col titolo di Evangelizzazione e sacramenti, nonché un tema ecclesiologico di grande attualità, strettamente collegato allo dimensione antropologica: quello della chiesa come «noi».
Il fatto che questi argomenti fanno parte del passato non vuol dire che sono superati, anzi credo che oggi stiano ridiventando di profonda attualità, in un periodo in cui il cosiddetto ritorno religioso rischia di confondersi con un tentativo di restaurazione, e quindi con un'isolata conferma dell'elemento istituzionale, oppure con una sorta di atteggiamenti magico-sacrali che al fondo costituiscono proprio il massimo livello dell'umiliazione della persona.
La tentazione ecclesiale
Per Congar intraprendere un cammino contrario rispetto a quanto esposto finora equivale a cadere nella prima delle due grandi tentazioni ecclesiali: quella del fariseismo. (10)
Questo coincide con la tentazione di sostituire il fine ai mezzi lasciando prevalere la forma sullo spirito. I farisei. almeno quelli dei vangeli, avevano per fine la legge e non l'uomo, piegando la sua dignità al dettato scritto. La chiesa cade in questa tentazione tutte le volte che lascia prevalere l'elemento istituzionale-organizzativo su quella personale-spontaneo, tutte le volte che la struttura soffoca i carismi e l'unità elimina la diversità. «Il pericolo insomma – scrive il teologo francese – è che ciò che è principio e fine non venga ricoperto, offuscato e alla fine rimpiazzato da ciò che doveva restare mezzo». (15) L'orientamento farisaico umilia l'uomo in quanto misura la sua fede non tanto dalla sincerità dei gesti, quanto dall'aderenza delle cose. Il rapporto religioso perde così la sua purezza e il volto di Dio diventa estraneo e irraggiungibile perché gli viene sostituita un’idea e un’immagine di tipo autoritario. Il vangelo autentico è invece grande antagonista del fariseismo, basta pensare al ricorrente e lapidario principio del «sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Congar non è il tipo di contrasti e quindi non li crea lì dove per principio non esistono. Così la dialettica spirito/forma non è vista come un conflitto ineluttabile, per cui la strada più giusta da seguire deve essere la complementarietà dei principi.
Tuttavia, se si deve scegliere, Congar non ha dubbi, al punto che egli augura alla chiesa di trovarsi sempre in una situazione sfavorevole anziché di successo rispetto alle istituzioni civili, perché le considerazioni ufficiali favoriscono la chiusura, l’arroccamento, il conformismo, e il cristianesimo diventa un dato biografico, più che una scelta. (12)
Il messaggio conclusivo è molto semplice: gli uomini non si utilizzano, si servono. La chiesa non deve allora scambiarsi per un partito che cerca consensi, ma si ritroverà ogni volta che si perderà.
Note
1) «Structures essentielles pour l’Eglise de demain», in Concilium, suppl.to 60/1970, p. 153 (tr. it. «Strutture essenziali per la chiesa di domani», in Il Regno, ott. 1970, pp. 517-519.
2) Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, Cerf, Paris 19692, p. 36 ; cf. soprattutto le pp. 49-52 : «Religion et institution», in Théologie d’aujourd’hui et de demain, Cerf, Paris 1967, pp. 81-97 ; «Renouvellement de l’Esprit et réforme de l’institution», in Concilium, 73 (1972), pp. 37-45.
3) Questo motivo percorre tutte le pagine del libro sulla Riforma, ancora oggi uno dei saggi più discussi di Congar, quello che gli valse addirittura l’accusa di sospetto modernismo, cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 127-131; anche Sainte Eglise, Cerf, Paris 1963, pp. 43-68, 89-97.
4) Jalons pour une théologie du laicat, Cerf, Paris 1953, p. 81.
5) «L’Avenir de l’Eglise», in L’Avenir, atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, p. 212.
6) Su questo tempo soprattutto Le mystère du temple (tr. it. Il mistero del tempio, Borla, Torino 1963).
7) Cf. «Le ciel, buisson ardent du monde», in Vie spirituelle, 618 (gennaio 1976), pp. 69-79.
8) Cf. «Pour une liturgie et une prédication réelle» in La maison Dieu, 16 (1948), pp. 75-87 ; ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation, Cerf, Paris 1962, pp. 161-173.
9) Ivi, p. 165.
10) Cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 143-157.
11) Ivi, p. 145.
12) Sempre attento alle parole, in un altro studio Congar propone un’interessante verifica dell’azione pastorale e alle missioni, applicando queste idee alla distinzione fra discepolato e proselitismo. La prima è un’azione motivata dal bene dell’uomo visto come soggetto, il proselitismo è, invece un rivolgersi agli uomini come strumenti per il trionfo della propria organizzazione: cf. «Réflexions sur prosélytisme et évangélisation» in Rythme du Mond, 2 (1946), pp. 58-68, ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation o. c. pp. 51-64.