Ogni ricorrenza è occasione di ripensamento non solo su ciò è stato, ma anche sul cammino percorso a partire da un determinato evento e sul futuro che bisogna preparare affinché quanto avvenuto non cada nell'oblio, ma sia fonte di ispirazione e di significato nell'oggi. Così all'inizio di dicembre la Chiesa ha ricordato i quarant'anni dalla chiusura del Concilio e, all'interno di questo grande evento dello Spirito, la levata delle reciproche scomuniche tra Chiesa di Roma e Chiesa di Costantinopoli risalenti al l054 e solennemente cancellate il 7 dicembre 1965, vigilia appunto della conclusione del Vaticano II. È allora opportuno interrogarci sullo stato attuale dei rapporti tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse, non tanto per un bilancio di routine, quanto per chiedersi, di fronte all'unico Signore della chiesa e della Storia, cosa ne abbiamo fattodella sua preghiera per l'unità dei suoi discepoli e del dono dello Spirito effuso con particolare abbondanza nella stagione di grazia dell'assise conciliare.
Alla vigilia del consueto appuntamento della Settimana per l'unità dei cristiani, è di poche settimane fa la notizia della ripresa, attraverso un'apposita commissione teologica, del dialogo ufficiale tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse autocefale (cioè dotate di un governo e di una gerarchia proprie), un dialogo di fatto congelato dal 1993 nonostante alcuni tentativi di ripresa ad Ariccia nel 1997 e a Baltimora nel 2000. La situazione resta tuttavia estremamente delicata, anche perché in questi anni non tutte le Chiese ortodosse hanno superato le loro diffidenze più o meno fondate nei confronti dell'ecumenismo: faticando a scorgerne la qualità di sofferta ricerca di comunione ecclesiale, vivono con grande sofferenza il confronto e l'incontro con la Chiesa cattolica e con il Consiglio ecumenico delle Chiese, organismo nel quale pur siedono insieme alle diverse Chiese protestanti, da quelle "storiche", nate al tempo della Riforma, fino alle più recenti denominazioni ecclesiali.
Il dialogo riprende in una situazione che, per la Chiesa cattolica e non solo, ha conosciuto una novità tutt'altro che trascurabile: la fine del pontificato di Giovanni Paolo II e l'assunzione alla cattedra di Pietro di papa Benedetto XVI. È innegabile infatti che il ministero del "papato" abbia assunto forme diverse nei secoli, soprattutto dopo il grande scisma con l'Oriente: in particolare ha avuto una crescita di funzione che l'Oriente cristiano non gli ha mai riconosciuto come legittima, sicché questo servizio, voluto come segno di comunione tra le Chiese, viene visto spesso come un ostacolo. Paolo VI e Giovanni Paolo II erano ben consapevoli di questo, ed è stato io stesso papa Wojtyla, nella sua enciclica Ut unum sint del 1995 dedicata all'ecumenismo, a invitare le altre Chiese, in vista della ricomposizione dell'unità, a fare proposte e a confrontarsi con la Chiesa cattolica sulla "forma" dell'esercizio del papato È significativo che nel pur embrionale dibattito sul primato, l'allora cardinale Ratzinger ebbe a dire e a ripetere che «per ciò che riguarda il primato del Papa, Roma non deve esigere dalle Chiese ortodosse nulla di più di ciò che nel primo millennio venne stabilito e vissuto».
Proprio in questa ottica va sottolineata l'importanza attribuita da papa Benedetto XVI all'ecumenismo nel discorso inaugurale del suo pontificato. Come successore di Pietro, egli «si assume come impegno primario quello di lavorare senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Questa è la sua ambizione, questo il suo impellente dovere». Rilette a distanza di alcuni mesi, appaiono tutt'altro che parole di circostanza, soprattutto se accostate al giudizio espresso sulla necessità del dialogo teologico e sull'urgenza cogente della «purificazione della memoria […] che sola può disporre gli animi ad accogliere la piena verità di Cristo». Né si dimentichi che in quello stesso contesto, il Papa aveva voluto richiamare l'aspetto giudiziale del Signore presente e veniente nella Chiesa, esprimendo la propria consapevolezza di dover rendere conto al Signore nel giorno del giudizio «di quanto ha fatto o non ha fatto nei confronti del grande bene della piena e visibile unità di tutti i suoi discepoli».
e obbedienza anche in quegli ambienti cattolici, da sempre diffidenti verso l'ecumenismo, che anche nel recente passato hanno mostrato di voler proseguire risolutamente un cammino di evangelizzazione incurante delle Chiese ortodosse e dell'ecumenismo, cioè di una tensione alla convergenza e alla non concorrenza, al servizio solidale reciproco e al rifiuto ad agire senza l'altro o addirittura contro l'altro. Se queste tensionie più o meno deliberate incomprensioni proseguissero, rischierebbero difavorire la crescita diquella frontiera che per ragioni economiche epolitiche si sta delineando tra Occidente europeo e un Oriente che coincide con i Paesi ortodossi. Indubbiamente per noi occidentali è difficile comprendere gli attuali atteggiamenti delle diverse Chiese ortodosse: occorre uno sguardo lungimirante e occorre soprattutto percepire la “necessità” dell’ortodossia per il cristianesimo d'Occidente. Tempo addietro il cardinale Silvestrini ebbe ad affermare riprendendo le parole di un pioniere del dialogo con l'Europa orientale, il cardinal König - che «l'Europa ha bisogno dell'ortodossia», ma sono soprattutto il cattolicesimo e il protestantesimo ad aver bisogno di respirare anche con il polmone orientale, quel polmone condiviso per tutto il primo millennio. È necessario uno sforzo considerevole per voler capire, è necessaria la pazienza di chi sa aspettare, l'audacia di chi sa compiere gesti unilaterali senza aspettarsi reciprocità. quel tempo erano molto più frequenti rispetto a oggi, ma sa anche che allora l’"imperatore rosso” obbligava le Chiese a combattere la sua battaglia per la "pace" sotto le insegne dell'ecumenismo. Per questo ancora oggi la parola stessa "ecumenismo" per molti ortodossi, soprattutto russi, evoca, con riferimento al passato, tradimento della fede e gioco politico per una fratellanza diversa da quella cristiana e, con riferimento al futuro, un arrendersi all'occidente e alle sue potenti ideologie.
Ora che queste Chiese ortodosse riprendono la loro identità e la loro soggettività, l'ecumenismo come dialogo e confronto ad extra della propria Chiesa appare un problema marginale. Né si dovrebbero dimenticare le condizioni di povertà intellettuale e teologica in cui si sono venute a trovare, e non certo per loro colpa, queste Chiese: servono decenni per formare teologi, pastori e padri spirituali; la Chiesa ortodossa ne è cosciente, al punto che ha voluto mettere in guardia i fedeli da giovani inesperti improvvisatisi starec che si arrogano un'autorevolezza usata sovente sia contro i vescovi sia contro l'ecumenismo. Il terreno resta così fertile per le idee preconcette, più o meno fondate, secondo le quali tutto ciò che viene dall'Occidente appare una minaccia poiché da lì giungono, insieme e in modo irruento e indiscriminato, l'informatica e l'erotismo, l'ideologia del libero mercato e la pluralità delle religioni, le Chiese cristiane non ortodosse e i loro movimenti efficaci come tutte le forme innovative o settarie. Così si trovano contrapposte Chiese ortodosse deboli - incerte sulle scelte da operare per un futuro ancora non chiaro nella stessa società politica ed economica - e presenze di Chiese, soprattutto quella cattolica, che appaiono ormai vittoriose sulla modernità, munite di mezzi e opere sociali… I missionari venuti dall'Occidente appaiono agguerriti, efficienti, muniti di mezzi economici e strumenti mediatici che gli ortodossi devono ancora conoscere. In queste condizioni è difficile evitate che si sviluppi la "sindrome della sorella più forte”: cosi le Chiese sorelle povere temono, hanno paura, diffidano della sorella Chiesa cattolica.
A tutto questo si aggiungano i limiti tradizionali delle Chiese ortodosse, non solo di quelle dei Paesi ex comunisti: la tentazione del provincialismo, il nazionalismo risorgente che si nutre della pericolosa miscela fede-etnia e fede-nazione, l'affermazione della chiesa particolare a scapito della panortodossia, 1a paralisi nell’esprimersi a una sola voce, la litigiosità tra Costantinopoli e Mosca e tra Chiese ortodosse di diversa giurisdizione...
ai cardinali in occasione del 25°anniversario dell'istituzione del Segretariato - ora Pontificio consiglio - per l’unità dei cristiani, papa Giovanni Paolo II così si esprimeva vent'anni fa: «È da tenere presente che il cammino dell'unità, proprio perché fondato sull'umiltà e sull'amore, richiede da tutti e specialmente da parte dell'opinione pubblica, un senso di grande pazienza. Qualcuno ha forse potuto avere l'impressione che la spinta iniziale si sia fermata. Dopo la celebrazione del Concilio e il fitto intrecciarsi di rapporti tra la Chiesa cattolica e le Chiese e comunità ecclesiali cristiane, con un’intensità e frequenza non mai ancora prima raggiunte, si è potuto pensare che l'unità fosse compiuta, senza rendersi conto che invece essa è frutto di continui passi in avanti. Questo movimento procede, è indubbio. Pazienza non significa inattività o rassegnazione; essa tiene conto dello sforzo perseverante, che viene fatto continuamente, anche se talora in spem contra spem, senza scoraggiarsi mai, procedendo in avanti alla luce dell'insegnamento evangelico sul grano che cresce e germoglia secondo i ritmi voluti da Dio. Di tale perseveranza paziente e instancabile è testimonianza il dialogo teologico: anzituttocon le venerabili Chiese ortodosse, le Chiese sorelle secondo l'espressione cara a papa Paolo VI con le quali abbiamo strettissimi vincoli di comunione, la Chiesa cattolica intrattiene un dialogo di carità, nel cui ambito cresce il dialogo teologico». Il fatto che queste parole abbiano mantenuta intatta la loro attualità a distanza di oltre vent'anni, anziché scoraggiare dovrebbe spronare tutti a vivere con rinnovato impegno l'istanza evangelica dell'unità dei cristiani.
a cura del Centro Russia Ecumenica
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