Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
di François Vouga *
L’attualità dell’apostolo Paolo è paradossale. L’occidente cristiano non finisce mai di regolare i suoi conti con colui che tuttavia considera come suo fondatore. La lettura stessa delle sue lettere è stata utilizzata fino al fraintendimento delle vere intenzioni di Paolo. Al punto che i valori in nome dei quali talora lo si rifiuta, sono proprio quelli che egli stesso ha introdotto nel pensiero religioso, filosofico, politico e sociale dell’occidente. Paolo crea nella storia la possibilità di una predicazione universale e inventa un concetto moderno dell’io, soggetto libero e responsabile, in una società aperta, universalista e pluralista.
Nella discussione che intraprende circa le tesi di Louis Dumont sull’individuo, Jean-Pierre Vernant si allinea a Michel Foucault per proporre una distinzione operativa tra tre termini: l’individuo, che corrisponde alla valorizzazione di singole figure nel loro contesto sociale il soggetto, che caratterizza l’individuo che si esprime in prima persona e a proprio nome, e l'io, che designa la persona consapevole della propria interiorità e della propria unità. A ciascuna di queste diverse tappe corrisponde la comparsa di un nuovo genere letterario. Alla scoperta dell'individuo, il genere della biografia, a quella del soggetto, l'autobiografia, e a quella dell'io le confessioni e i diari personali. Classicamente si associa la scoperta dell'individuo alla lirica greca e quella dell'io alle Confessioni di sant'Agostino. In realtà, essa appare già in Paolo, non solo nei racconti autobiografici (Rm 7; Gal 1-2) e nelle sue riflessioni sull’apostolato (1Cor 1-4; 2 Cor 2-7 e 10-13), ma soprattutto, e fondamentalmente, nell'elaborazione e nei presupposti della sua teologia della giustizia (Rm 1-3; Gal 1-2). Questa scoperta dell’«io» come soggetto personale e come elemento costitutivo di ogni essere umano deriva da un esperienza personale, esperienza che è una rivelazione di Dio. Dio si è rivelato a Paolo come un Dio altro e questa rivelazione fa nascere una nuova identità dell'essere umano (Gal 2,10). Il riconoscimento di un altro come di un «io», e quindi come di un «tu», si pone come fondamento per una nuova forma di società, sconosciuta al giudaismo come al mondo greco-romano, caratterizzata contemporaneamente dal suo universalismo e dal suo pluralismo. La novità di questa società non consiste, ovviamente, nè nell'universalismo, che domina il mondo ellenistico e romano, nè nel pluralismo, che è un'acquisizione tanto per l’antichità greca quanto per il giudaismo, ma nell'associazione dei due. Una nuova comprensione della persona umana, risultato di una singolare rivelazione di Dio, fonda una nuova società, universalista e pluralista.
Conservatore o progressista?
Se si rimprovera sempre a Paolo il suo conservatorismo, è soprattutto per quello che è creduto il suo atteggiamento verso le donne nelle comunità. Si dimentica allora che la famosa ingiunzione che ordina alle donne di tacere nelle assemblee (1 Cor 14,33b-36) è stata aggiunta in occasione dell'edizione delle lettere di Paolo per preparare l'insegnamento di 1 Tm 2,8, e che questa aggiunta non ha altra motivazione che di correggere le consegne che lo stesso Paolo dà in ICor 11,2-16. L'apostolo è convinto che le donne abbiano, nelle celebrazioni cristiane, gli stessi diritti e le stesse libertà degli uomini - convinzione progressista se raffrontata alla maggioranza delle chiese del XX secolo. Egli ordina loro, per questioni di pudore, di non partecipare alla liturgia a capo scoperto.
Se si rimprovera parimenti all'apostolo dì essere autoritario, è da una parte per il fatto che egli dà se stesso come esempio, e dall'altra per la determinazione con la quale organizza le sue comunità. Ma le chiese di nuova fondazione non hanno altro punto di riferimento di fede cercata e vissuta che quella del loro fondatore, e soltanto una grande capacità di discernimento teologico permette di preservarle dal conformismo, cioè dall'adeguarsi al mondo antico circostante. Il rimprovero fatto a Paolo di essere settario è dovuto in gran parte all'intransigenza che egli dimostra verso qualche suo collega. È il caso in particolare della lettera ai Galati e della seconda ai Corinzi, in cui egli rimprovera loro di annunciare un vangelo diverso da quello di Dio che lui stesso ha predicato. Ma qual era la posta del dibattito? Poiché alcuni cercavano di restaurare l'antico ordine e le linee di divisione abolite dal vangelo, lo scenario rappresentato nella lettera ai Galati come pure nella seconda lettera ai Corinzi oppone la società aperta ai suoi nemici totalitari.
La scoperta dell'io e di una società aperta
Questi rimproveri di conservatorismo, di autoritarismo e di settarismo attirano paradossalmente l’attenzione su ciò che costituisce la forza e la novità dell'apostolo. Un avvenimento imprevedibile intervenuto nella sua vita induce Paolo non solo a rinunciare di colpo a tutto ciò che costituiva, sino a quel momento, la sua convinzione fondamentale, ma anche a sviluppare una visione di Dio e della persona, diverse da quelle del giudaismo e dell'ellenismo, e a metterle in pratica nelle comunità che egli ha creato. Per Paolo, la giustizia di Dio consiste nel riconoscere ogni persona per se stessa, indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, e a suscitare in essa la consapevolezza di esistere come soggetto. Nella storia dell'occidente, ancor prima di sant'Agostino, Paolo inventa il concetto moderno dell'io, riflettendo su se stesso come individuo e soggetto responsabile della propria storia personale. Non si conosce alcun movimento missionario, nella storia della Chiesa antica, che abbia messo al lavoro così tanti collaboratori di così diversi orizzonti come la missione paolina. Paolo non lavora mai solo, ma sempre in collaborazione con partner autonomi. Collaboratori regolari, come Timoteo, associati occasionali, che hanno i loro propri progetti missionari, come Apollo (1 Cor 16,12), Prisca o Aquila. Altri ancora gli sono indirizzati o lo raggiungono per un tempo limitato o per attività particolari (come Tito, incaricato della colletta, 2 Cor 7,5-9,15).
Paolo è proprio l'inventore di quella che Karl Popper ha chiamato la «società aperta». La sua visione di Dio e della persona lo induce a fondare comunità nelle quali non ci sono più né giudeo nè greco, nè schiavo né libero, né maschio nè femmina (Gal 3,28). La vita politica e intellettuale greca forgia la sua identità prendendo le distanze dalla barbarie, mentre il giudaismo è fondato sulla certezza dell'elezione e di un'Alleanza che lo separano dai pagani. Dire che non c'è più né ebreo né greco, significa dichiarare finite le diverse forme di aggregazione di cui si servono i gruppi sociali per sottolineare la loro identità. Dire che non c’è più schiavo nè libero, significa denunciare il residuo di segregazione su cui si fonda l'ideologia universalista dell’impero romano. Dire che non c'è più uomo né donna, significa prendere le distanze dalle scuole filosofiche o dalle società locali, che ammettono solo membri maschi, ma significa anche porre in evidenza il pluralismo dell’universalismo paolino. Il fatto che non esista più distinzione fra uomo e donna non significa che non sussistano differenze: vi sono pure ebrei e greci, schiavi e liberi, uomini e donne, ma tutti sono riconosciuti come persone uniche. Questo universalismo pluralista si distingue dalle differenti forme, correnti, di universalismo centralista, che escludeva le persone e i movimenti non adepti del pensiero universale, sul modello del sincretismo internazionale del mondo ellenistico. L'universalismo pluralista di Paolo distingue anche forme diverse, non meno correnti, di pluralismo segregazionista fornito dalla concezione veterotestamentaria del popolo d'Israele.
Un racconto di rottura fondante e strutturante
Paolo ha affermato l'esistenza, in ogni individuo, di una persona indipendente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, ha inventato il concetto moderno dell' «io». La verità di cui era portatore ha dato forma, nei grandi centri urbani dell'impero romano, a comunità universaliste e pluraliste. Ma di dove gli vengono queste conoscenze? L’apostolo non ha ricevuto né appreso nulla dagli uomini (Gal 1,10-12), risponde dapprima Paolo. Primia affermazione: egli non deve niente a nessuno. In particolare, egli non deve nulla alla tradizione degli apostoli e dei testimoni di Gesù, i discepoli di Galilea non hanno nulla da insegnargli e, se egli si reca a Gerusalemme dopo due anni di attività missionaria in Arabia (Ga 1,17), è soltanto per conoscere Pietro (Gal 1,18). Se egli non deve nulla ai discepoli di Galilea, non si attende neppure da loro alcuna legittimazione. Il suo evangelo non ne ha bisogno, è il vangelo di Dio. È da Dio che egli trae la sua autorità, e la verità che egli deve portare agli uomini è una rivelazione di Dio (Gal 1,10-12.l5-17). Un individuo si pone come soggetto in prima persona di fronte alla tradizione ebraica e di fronte al mondo greco. La sua vocazione, elemento fondante, è portatrice della verità del vangelo di Dio.
Ma quali sono questo avvenimento e questo incontro che sono fondamento della chiamata dell'apostolo? La lettera ai Filippesi parla di un progresso nella conoscenza e di un'acquisizione di un nuovo stato di coscienza, inaugurato dalla comprensione di Gesù (Fil 3,4-11). Secondo la lettera ai Galati, Dio ha rivelato il suo Figlio all'apostolo (Gal 1,12-16). In I Cor 9,l e 15,8, Paolo riferisce di aver visto il Risorto e che il Risorto gli si è manifestato. Il contesto autobiografico della lettera ai Galati (Gal 1,13-2,21) descrive con maggiori particolari le ripercussioni di questo evento: il persecutore della Chiesa diventa apostolo dei pagani, perché nessuno è giustificato dalle opere della Legge (Gal 1,13-14.16-17; 2,16), e le comunità di Giudea, che non lo avevano ancora mai visto e che non lo conoscevano che di fama, rendono gloria a Dio per il successo della sua missione (Gal 1,21-23). Questo racconto ci permette di cogliere dal punto di vista teologico la frattura che dà forma alla storia personale dell’apostolo. Per Paolo il fariseo, Gesù non poteva essere che un trasgressore della Legge ed un maestro eretico, condannato alla crocifissione e maledetto da Dio. Come Paolo ha conosciuto la storia di Gesù? In due modi: da un lato, i cristiani di Siria che egli perseguita quando si prendono a loro volta delle libertà nei confronti della legge ebraica si richiamano a Gesù; dall'altra, egli conosce Gesù attraverso la propaganda farisaica di cui trova l'eco nelle proposte critiche di Luca 7,33-35. Un crapulone ed un beone che mangia con i pubblicani e i peccatori. La visione o rivelazione del Risorto pone Paolo dinanzi ad un dilemma radicale: o la Legge è veramente rivelazione di Dio, come ha avuto la certezza sino a quel momento, ed è allora giusto che Gesù sia stato condannato e maledetto, oppure il crocifisso è il Figlio di Dio - o è rivelato da Dio come suo Figlio - e allora Dio non può essere il Dio della Legge. La rivelazione di Dio e l'apparizione del Risorto non pongono semplicemente Paolo dinanzi ad un'alternativa, ma Dio prende posizione e risolve il dilemma. Egli rivela il Figlio, si manifesta Padre del Crocifisso. Tutto ciò che segue deriva da questo fondamentale incontro.
La giustizia di Dio, fondamento del rispetto della persona
«Dalle opere della Legge non sarà giustificato nessuno» (Gal 2,16). Questa formulazione paolina è stata molto offuscata dalle discussioni che ha sollevato. Dapprima nella lettera di Giacomo (Gc 2,14-26), poi nei dibattiti della Riforma e della Controriforma. Tra «la giustificazione attraverso le opere della Legge» e «la giustificazione attraverso la fede in Gesù Cristo», Paolo non contrappone fede e opere, ma Gesù Cristo e Legge. E ciò che Paolo designa con «giustificazione attraverso le opere della Legge» non è né un tentativo di autogiustificazione davanti a Dio - è evidente, per un ebreo, che solo Dio giustifica - né un tentativo di meritare la propria giustificazione attraverso qualche opera o qualsivoglia merito. «Le opere della Legge», nella discussione condotta dalla letteratura, designano la circoncisione come marchio simbolico dell’identità ebraica e dell'appartenenza al popolo eletto. «Giustificato attraverso le opere della Legge» significa di conseguenza riconosciuto e considerato da Dio. Ma «giustificato attraverso la fede in Gesù Cristo» significa riconosciuto e amato da Dio in quanto persona, indipendentemente dalle sue appartenenze e dalle sue qualità. Si ama una persona per le sue qualità, o indipendentemente dalle sue qualità? Domanderà Blaise Pascal. Tale è esattamente la domanda suscitata dall'evento capitato nella vita dell'apostolo.
La Croce, proclamazione dell'uomo senza qualità
La definizione della Croce di Paolo, come manifestazione di Dio nel doppio evento della morte e della risurrezione di Gesù, trasforma il soggetto in una creatura nuova (Gal 6,13). La Croce lo autorizza e lo invita a prendere coscienza del sé e della sua identità individuale. Essa riconosce e crea la persona indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze. Ora, attraverso questa trasformazione, attraverso le distinzioni che essa opera e attraverso l'essere nuovo cui la Croce dà vita, essa fa dell'essere umano un «io» libero di cercare e di ricevere il senso della sua esistenza, capace di decidere, di scegliere il proprio Dio e di scegliere se stesso, in quanto soggetto responsabile. La morte di Gesù rivela la possibilità di questa trasformazione la cui universalità non è sottoposta a condizioni: «Cristo ci ha liberato dalla maledizione della Legge divenendo per noi maledizione, perché è scritto [nella Legge]: “L'appeso è una maledizione di Dio” dichiara l'apostolo. Cristo è l'uomo nuovo e nostra liberazione. Egli è diventato, lasciandosi crocifiggere, l'uomo senza qualità per eccellenza. Uomo senza qualità che Dio ha risuscitato e rivelato come suo Figlio perché Dio non è un Dio che riconosce e ama l'essere umano per le sue qualità, le sue origini, le sue appartenenze o le sue lealtà. Se Dio, come Paolo ne ha fatto esperienza, non è il Dio della Legge, ma il Dio del Crocifisso, trasgressore della Legge, che mangiava con i pubblicani e i peccatori, allora la buona notizia della giustizia di Dio non è legata all'elezione e alla Legge, ma è destinata ad ogni persona che sia pronta ad intenderla e a metterla in pratica.
La fede come fiducia
Si comprende ora ciò che Paolo intenda con l’espressione ambigua «fede di Gesù Cristo» o «fede in Gesù Cristo». Non è certamente questione di reintrodurre attraverso l'espediente di una professione di fede cristologica un criterio di appartenenza che qualifichi la persona. Se così fosse, Cristo sarebbe proprio morto invano, e il mondo antico non sarebbe stato sostituito che da un mondo nuovo dello stesso ordine. Ciò che fa nascere la creatura nuova, è in primo luogo la giustificazione attraverso la fede «di» Gesù Cristo. Ciò che costituisce l'essere nuovo, il soggetto in prima persona, consapevole della propria identità in ragione dell'amore e dell'incondizionata riconoscenza di Dio, è la stessa confidenza che vi era in Gesù Cristo quando mangiava con i pubblicani e i peccatori, e affermava di rendere in questo modo presente il Regno di Dio. Questa fiducia fondatrice di Colui che Dio ha rivelato come suo Figlio fonda ormai la fiducia dei figli di Dio. Così, l'affermazione secondo la quale nessuno sarà giustificato. «se non dalla fede in Cristo» (Gal 2,16) non significa nient'altro che questo: il Dio di Paolo ci chiama a vivere della fiducia nella fiducia, ed questa che crea il soggetto responsabile della Promessa. Essa fonda il riconoscimento del prossimo come soggetto in prima persona e come un altro «io», cioè come un «tu». La responsabilità e la grazia di questo riconoscimento reciproco fondano la creazione di una società nuova, universalista e pluralista.
* Professore di Nuovo Testamento, Kirchlische Hochshule Bethel si Bielefeld (Germania)
(da Il mondo della Bibbia, 53)
di Giovanni Vannucci
Il punto centrale del brano di Gv 11,1-45 non è tanto il ritorno alla vita di Lazzaro morto, quanto le parole rivolte da Cristo a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se morto, vivrà». Il miracolo della rivivificazione del corpo fisico del morto è un corollario, una verifica delle parole di Cristo, nulla di più; non possiamo fondarvi la prova della natura divina del Maestro, essa può essere oggetto di fede solo in colui che ne sperimenta la risurrezione e la vita.
Cosa sono la risurrezione e la vita, cosa significa credere in Cristo, cosa vogliono dire la morte e la vita di chi in Lui crede? Prima di tentare una risposta a questi interrogativi, esaminiamo le figure dell’episodio della risurrezione di Lazzaro. Mentre Gesù era con i discepoli in una località oltre il Giordano, gli fu recata la notizia dell’infermità del suo amico Lazzaro. Egli fa questo commento: «Questa infermità non è perché Lazzaro muoia, ma perché in essa e per essa venga manifestato il mistero del potere infinito di Dio». Dopo due giorni dalla notizia, Gesù decide di recarsi da Lazzaro. I discepoli gli ricordano il pericolo che per lui e per loro c’era nel tornare nella Giudea, ove l’attendevano gli oppositori. La risposta di Gesù è simile a quella che diede ai discepoli a proposito del cieco nato: «La mia giornata non è ancora terminata, ed è necessario che io agisca; la mia luce, finché sono sulla terra, è necessario che risplenda... Lazzaro è morto. Io ne godo per voi, perché vi sarà rivelato che Dio, e io in Lui, siamo la vita». Tommaso segue Cristo dicendo: «Andiamo a morire con lui!». A Betania Gesù trova Lazzaro già da quattro giorni sepolto; Marta, la fede impulsiva e attiva, gli va incontro, e la sua fede, ancora legata alle credenze del suo popolo, afferma di credere alla risurrezione che avverrà nell’ultimo giorno, quando gli scheletri usciranno dai sepolcri e si rivestiranno di nuovo di carne. Gesù la richiama alla novità risurrezionale che Lui era venuto a portare all’uomo: «La risurrezione e la vita sono io, chi accoglie e vive questa novità anche se morto vivrà, e se è vivo non morrà». Marta si risveglia alla novità di Cristo e dice: «Credo che tu sei il Portatore del nuovo Tempo divino, che tu sei il Figlio di Dio». Marta, la fede attiva, corre a casa, dalla sorella Maria, la fede sicura e silenziosa che aspetta, e le dice: «Gesù ti ha chiamato». Maria balza in piedi e corre da Gesù, con lei si muovono i Giudei che le stavano vicino. Davanti al gruppo guidato da Maria Gesù esplode in uno scatto d’ira, vede davanti a sé una donna che crede e ama e una folla di saccenti, attaccati alle vecchie visioni religiose, che dubita e si oppone: «Non avrebbe potuto fare che Lazzaro non morisse?». Fa rimuovere la pietra dal sepolcro e grida: «Lazzaro, esci... E colui che era morto uscì». Molti dei Giudei presenti credettero, alcuni di essi, invece, andarono ad avvertire i Farisei della nuova provocazione compiuta da Gesù. Il quadro si presenta in tal maniera come la teofania di Gesù, portatore di risurrezione e di vita: Lazzaro morto ne ascolta e riconosce la voce che lo chiamava alla vita; i Giudei e i Farisei, vivi, non odono tale voce; la medesima voce che disseppellisce Lazzaro, seppellisce i Farisei, vivi, nella loro sordità.
«Io sono la risurrezione e la vita»; cos’è la risurrezione, cos’è la vita? Sono due termini che si oppongono alla morte come suo superamento, la risurrezione, o come sua negazione, la vita; oppure essi ci aiutano a una comprensione più accurata e profonda delle realtà della vita che tutti stiamo vivendo? La vita non potrebbe essere senza la morte, come la luce non è senza l’ombra, la vita è un’implacabile successione di morte e risurrezione. La pianta cresce, fiorisce, produce frutti, appassisce e muore depositando in terra il seme che riprenderà il ciclo vitale. Il fiore è insieme la morte della gemma e la risurrezione di questa in una più affascinante forma. Il ciclo della vita di ogni vivente è un’incessante successione di vita-morte-risurrezione. La vita è permanente, le forme sono periture ed effimere. A questa visione concreta ci richiama Cristo.
Nel contesto egli sottolinea l’aspetto psicologico, mentale della vita-morte-risurrezione. I Farisei sono paralizzati dalle loro vedute dogmatiche, dai loro sistemi di pensiero, ora la vita è sempre nuova, non ha né passato, né futuro, è indipendente dal tempo e dallo spazio. Gesù portava il Tempo nuovo, non poteva esser compreso da menti solidificate in sistemi di pensiero: «Io sono la risurrezione e la vita, Io sono la vita in tutte le morti, e la morte in tutte le vite». È il rinnovatore della coscienza, della volontà, del pensiero, dell’azione. Il grande disturbatore che ci tormenta e ci spinge all’ ascesa, che si nasconde nella coscienza per renderci inquieti. Pone la sua mano nel frutto che vorremmo consumare, vietandocene l’accesso. Frappone la sua carne piagata tra noi e il tormento che ci agita il sangue. Mette il peso della sua Croce tra noi e l’oro, tra noi e l’avidità e la superbia.
Senza la sua presenza stimolatrice, è questo il senso di «Io sono la risurrezione e la vita», l’umanità più non sarebbe, né sarebbe mai stata. «Io sono la risurrezione e la vita», significa che l’opera redentrice di Cristo è immanente, è continua, e consiste nel redimere, rinnovare, rendere liberi gli schiavi; nel trasformare gli incoscienti in persone coscienti, i deboli in forti, i miseri in uomini felici, i malati in creature sane. La sua via è la Croce; su di essa sale chi ha gettato la sua natura corrotta e corruttrice; di essa è degno chi, in purezza e pazienza, sopporta il destino dell’uomo, chi sa che la cenere del tempo ricopre i troni, eguaglia le piramidi alla tomba dello schiavo, il cui nome fu noto solo alla madre. La polvere del tempo non si è posata sulle croci, la loro luce ha abbreviato le tappe d’ascesa dell’uomo. Il tempo della Croce non è finito, perché non tutti sentono che Cristo è la risurrezione e la vita.
Giovanni Vannucci, «La risurrezione e la vita», 5a domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; pp. 57-59.
di Giovanni Genre
DOMANDA
Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.
Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.
Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.
Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti... Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.
La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.
Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.
Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.
Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan...) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).
Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.
Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.
(da MC, gennaio 2007)
Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.
di Giampiero Comolli
Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.
La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.
La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.
Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.
Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.
La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.
Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: forniscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.
Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.
In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.
Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.
Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.
Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione interna), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.
In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti
(da MC, gennaio 2007)
* Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.
di John Nellykullen
Quando Polonia divenne nuovamente un paese indipendente all’inizio della prima guerrra mondiale, quasi 4.000.000 di cristiani ortodossi erano inclusi nei suoi nuovi confini. Il maggior parte di costoro erano bielorussi ed ucraini ed erano nella parte nel parte orientale del paese, sotto la giurisdizione del patriarca di Mosca.
Subito dopo sua indipendenza, comunque, il governo di Polonia cominciò a promuovere la idea secondo cui gli ortodossi della Polonia dovessero costituire una Chiesa Ortodossa autocefala indipendente da Mosca. Questa posizione era sostenuta dal primo metropolita ortodosso di Warsavia, George Yoroshevsky, che era stato nominato da Mosca ricevendo anche un certo grado di autonomia. Però questi nel 1923 fu assassinato da un monaco russo che aveva un’opinione diametralmente opposta.
Il governo di Polonia presentò allora la richiesta al Patriarcato di Constantinopoli che dopo lunga riflessione concesse lo stato di autocefalia alla Chiesa Ortodossa di Polonia il 13 novembre del 1924. Nel 1927 Constantinopoli concesse al metropolita di Warsavia il titolo di “Beatitudine”, ma il patriarcato di Mosca considerò questo come un’interferenza nelle sue competenze e prerogative è rifiutò il riconoscimento dello stato di autocefalia alla Chiesa Ortodossa Polacca.
Durante questo periodo ci furono tensioni nella Chiesa Ortodossa di Polonia derivanti dal fatto che tutti i vescovi erano russi, mentre il 70% dei fedeli erano ucraini. Infatti furono rifiutate le richieste di avere dei vescovi ucraini e di poter celebrare la Liturgia in ucraino. Durante questo periodo c’erano cinque diocesi, due seminari con 500 studenti, una facoltà di teologia in Varsavia con 150 studenti, 1624 parrochie, 16 monasteri.
Negli anni ’30 ci furono dei conflitti tra cattolici ed ortodossi, in Polonia, il Metropolita Dionysy di Varsavia protestò dicendo che i preti ortodossi erano stati obbligati a predicare in polacco, che le chiese ortodosse erano state chiuse con la violenza e tante di esse erano state distrutte, mentre i fedeli ortodossi avevano avute pressioni perché diventassero cattolici. Il metropolita cattolico dell’Ucraina Andrew Sheptytsky confermò queste accuse ed aggiunse la sua voce alle proteste ortodosse in una lettera pastorale ai suoi fedeli.
Quando l’Unione Sovietica nel 1939 occupò la parte est della Polonia la maggior parte degli ortodossi polacchi ancora una volta si trovò in Unione Sovietica e fu reincorporata nel patriarcato di Mosca. Così la Chiesa ortodossa di Polonia si ridusse numericamente.
Nel 1948, a seguito della occupazione comunista della Polonia il metropolita ortodosso di Varsavia fu deposto a causa della sua opposizione al comunismo. Nel stesso anno, secondo la richiesta dei vescovi ortodossi di Polonia, il patriarcato di Mosca dichiarò che il riconoscimento di autocefalia dato da Costantinopoli nel 1924 era nullo e dichiarò a sua volta lo stato di autocefalia della Chiesa Ortodossa Polacca. Comunque, l’ufficio di metropolita di Varsavia rimase vacante fino al 1951, quando i vescovi ortodossi di Polonia chiesero al patriarcato di Mosca di nominare un nuovo metropolita. Mosca nominò allora come metropolita l’arcivescovo Makary Oksaniuk di Lviv in Ucraina, che presiedette alla dissoluzione della chiesa greco-cattolica Ucraina negli anni 1946-1947. Da questo periodo la Chiesa Ortodossa di Polonia continuò ad avere uno stretto rapporto con il patriarcato di Mosca.
Ci sono tre piccoli monasteri ortodossi polacchi a Jableczna, Suprasl e monte Garbarka. Il monastero Suprasl è il centro della disputa tra la chiesa ortodossa e la cattolica in Polonia. Fondato nel quindicesimo secolo, il monastero ha cambiato proprietà tra cattolici romani, ortodossi e greco-cattolici tante volte. Nel 1944 una parte del complesso era stato dato agli ortodossi come monastero, nel settembre del 1993 il Consiglio dei Ministri polacco decise di dare tutto il complesso alla chiesa ortodossa. Ma il trasferimento della proprietà fu ritardato dalla protesta dei cattolici sia di rito romano che greco. Però nel febbraio del 1996 il governo polacco riaffermò la sua decisione di dare il complesso agli ortodossi.
Negli anni recenti, la chiesa ortodossa di Polonia si è maggiormente integrata con la cultura polacca, e la lingua polacca è usato più volte nella liturgia. Quattro periodici sono pubblicati, e la Chiesa è più impegnata nelle attività caritative. Attualmente la Chiesa Ortodossa Polacca ha sei diocesi e 410 chiese di cui 250 sono parrocchie servite dai 259 preti e diaconi. Il seminario telogico ortodosso in Varsavia ha circa 80 studenti, e c’è una Facoltà Ortodossa di Teologia all'Accademia di Teologia cristiana nella stessa città, con 35 studenti.
Territorio: Polonia.
Guida: Metropolita Sawa.
Titolo: Metropolita di Varsavia e di tutta la Polonia.
Residenza: Varsavia, Polonia.
Membri: 570.000.
di Adolfo Russo
Nel corso dei secoli abbiamo assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio. Occorre ora incontrarsi e proiettarsi in avanti, dialogando con tutti gli uomini, creature e figli dello stesso Padre. E’ necessario individuare una posizione culturale in cui ritrovarsi senza perdere il carattere insostituibile e unico della rivelazione e del dono del Figlio da parte del Padre di tutti.
Dopo il crollo delle Torri gemelle e le successive guerre in Afghanistan e Iraq, chi non ha temuto quello scontro di civiltà pronosticato per il nostro secolo da alcuni osservatori? Chi non ha paventato che anche tra le religioni stesse prevalendo un clima d’incomprensione e di ostilità, avvertito a pelle in occasione delle vignette satiriche e delle polemiche del mondo islamico per la controversa lezione di Benedetto XVI a Ratisbona il 12 settembre 2006?
L’eredità del passato
È troppo pesante per dimenticarla in fretta. Per lunghi anni le religioni si sono ignorate e spesso delegittimate a vicenda. Talvolta sono arrivate anche alle maniere forti, sì da giustificare l’impressione che in esse si celasse una radice di violenza e che non vi potesse essere tolleranza all’ombra delle istituzioni religiose. Le “guerre sante” hanno lasciato nell’immaginario collettivo una traccia incancellabile, che ancora sanguina.
Lungo i secoli abbiamo assistito a una lottizzazione dell’idea di Dio, applicando abusivamente all’ambito della fede una logica di spartizione tipica dei beni materiali. Un Dio cristiano, uno per i musulmani accanto a quello per gli ebrei. Ogni credente si è rivolto al proprio Dio, pensando fosse diverso e magari in concorrenza con quello degli altri. Un esercizio teologico pericoloso che ha prodotto rivalità e lacerazioni o che comunque è servito a mascherare conflitti di natura diversa.
Una svolta decisiva è arrivata con il concilio Vaticano Il. In diversi documenti e in particolare nella Nostra aetate si respira una nuova sensibilità. Le tre religioni monoteistiche, ebraismo, cristianesimo e islam (ma in genere tutte le grandi tradizioni religiose), sono considerate degne di rispetto e depositarie di un patrimonio ricco non solo di valori sociali e culturali, ma anche di orientamenti etici e spirituali.
Da allora si è aperta una nuova stagione. Nuovo il linguaggio, nuove le prospettive. Le altre credenze in seguito non verranno più considerate spazi di superstizione e opere diaboliche, come in passato, ma luoghi dove operano il Verbo e lo Spirito, dove è possibile fare autentiche esperienze spirituali, dove Dio si fa prossimo a ogni uomo per condurlo sulle vie della libertà e della verità.
Trovare un terreno comune
In questa luce gli altri credenti appaiono testimoni di eminenti valori, possibili interlocutori con i quali entrare in un dialogo critico e costruttivo. Non si tratta ovviamente di mettere tutto sullo stesso piano e di smarrire le proprie connotazioni spirituali, quasi che una religione valga l’altra.
Il confronto con l’altro non è mai una rinuncia alla propria identità. Questa d’altra parte non è un’acquisizione definitivamente compiuta, ma un processo che cresce e matura proprio nel dialogo. Ognuno comprende meglio sé stesso, conoscendo di più l’altro, il suo mondo, la sua mentalità.
Tuttavia ancora numerosi rimangono i problemi aperti. Come comporre in un sistema di pensiero unità e molteplicità, identità e alterità? Come declinare la verità al plurale? E inoltre, una fede rivelata può riconoscere altre rivelazioni? E a quali condizioni?
Di fronte a queste domande, il problema teologico più rilevante è rinvenire una posizione concettuale capace di cogliere il rapporto con la verità sotteso alla molteplicità costitutiva delle diverse proposte religiose. In realtà, non si tratta di cedere alle ragioni del relativismo, per cui una posizione vale l’altra. Bisogna invece guadagnare un punto di riferimento più alto, che permetta di considerare la verità come un orizzonte di senso sul quale si affacciano le diverse religioni, che - seppure da prospettive diverse - tendono alla stessa realtà.
La comunità cristiana è sollecitata a rivedere certe categorie ritenute acquisite e a mettere a punto un impianto di pensiero che, senza negare il carattere unico e insuperabile della rivelazione in Cristo, consenta di riconoscere l’autenticità di altre manifestazioni, mediante le quali Dio ha parlato e continua a parlare alla maggioranza degli uomini. In tal modo ogni credente potrà vivere della Parola che ha ricevuto, riconoscendo la fecondità di un’altra Parola e avviare un dialogo costruttivo con tutti gli uomini.
Certo, il mondo cristiano si presenta a questo appuntamento diviso da una storia di lacerazioni e incomprensioni. La ricerca di una possibile unità con gli altri credenti si scontra con una mancanza di unità al suo interno. Per quanto oggi tutte le Chiese avvertano l’urgenza di un’ampia convergenza con gli altri credenti, i loro sforzi rischiano di essere poco credibili e di restare improduttivi.
Il richiamo alla necessità di trovare tra i diversi credenti un terreno comune resta di fatto compromesso dal peso delle divisioni tra le Chiese. Queste, d’altra parte, concentrate sui loro problemi e sulle annose dispute teologiche, non sono riuscite a progredire di molto sul cammino ecumenico. A stagioni d’entusiasmo si vanno alternando momenti di stanchezza e di sfiducia. A difficoltà d’ordine teologico s’aggiungono intralci politici e sospetti umani. Forse l’impegno di confrontarsi con un traguardo più ampio potrà aiutare le varie comunità cristiane a uscire dall’impasse e superare le loro divisioni.
La prospettiva interreligiosa s’intreccia così con l’impegno ecumenico, anzi lo esige come sua premessa e forza catalizzatrice. La sollecitudine per l’umano - oggi a rischio in tanti settori della vita - rappresenta un orizzonte di senso che fa convergere tutti i credenti verso un identico obiettivo e può aiutare le comunità cristiane a convenire più unite verso questo storico appuntamento.
Tutti i credenti verso un unico obiettivo
Ad attenderli vi saranno tanti che - come ricorda la Nostra aetate - ancora si interrogano sui «reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo»
Ad attenderli vi saranno ancora le grandi questioni etiche e bioetiche, che in assenza di un orientamento comune dei credenti saranno decise senza di loro. Questioni decisive per il futuro delle nostre società. Ad attenderli vi saranno inoltre quelli che non hanno voce e che non possono che essere stritolati dai giochi d’interessi messi in campo dalle aristocrazie economiche che reggono le sorti del mondo. Vi sarà di sicuro il nostro pianeta, la Terra stessa, che rischia un collasso ecologico se prevarranno le stesse condotte contaminanti di oggi.
Il primo millennio della nostra storia ha visto la Chiesa sostanzialmente ancora unita nella fede. Il secondo si è caratterizzato per le note separazioni del mondo cristiano; prima tra cattolici e ortodossi, poi a metà del suo corso all’interno della cattolicità occidentale. Alla lottizzazione di Dio ha fatto pendant quella della Chiesa di Cristo. Il terzo millennio potrebbe essere il tempo della riconciliazione, dono dello Spirito a una Chiesa dimentica di sé stessa e proiettata in avanti per incontrare tutti gli uomini, creature e figli di uno stesso Padre che per tutti loro ha donato ciò che aveva di più prezioso, il suo unico Figlio Gesù. Conclude significativamente la Nòstra aetate: «Non possiamo invocare Dio Padre di tutti se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio» (5).
* ordinario di teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia meridionale, Napoli
(da Vita pastorale, 2, 2007)
Bibliografia
Coda P., Il logos e il nulla. Trinità, religioni, mistica, Città Nuova 2003; Russo A, Dio a colori. Pensare Dio nell’orizzonte del pluralismo, San Paolo 2003; Russò A;, La verità crocifissa. Rivelazione e verità in tempi di pluralismo, San Paolo 2005; Ratzinger J., Fede, verità,tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2005; Crociata M. (cur.), Teologia delle religioni. La questione del metodo, Città Nuova 2006.
di Vladimir Zelinskij
La decisione della Commissione Teologica Internazionale presentata nel documento “La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza Battesimo” ha un significato più largo di questa promessa. Si tratta infatti di una svolta all’interno della Chiesa Cattolica, avvenuta, a dire il vero, già da tempo nel popolo dei fedeli e rivestita adesso di una sua espressione dottrinale. Infatti la certezza della pena eterna - non solo per i bambini, ma per tutti o quasi - oggi sembra incompatibile con il nostro umanesimo. Ciò che meno di un secolo fa era un’incrollabile pietra della fede oggi non è più così e questo cambiamento - che prima di trovare la sua formula teologica si svolge in maniera spontanea e irreversibile - ha un grande senso ecumenico. Quale? Certo, la dottrina del peccato originale nella sua versione agostiniana, se non è posta in ombra, è messa nel contesto di una nuova e sorprendente visione. La speranza della salvezza per gli esseri innocenti (cioè, della pienezza della vita con Dio) presuppone prima di tutto l’innocenza del mondo appena uscito dalle mani di Dio e ci fa pensare alla grazia propria dell’atto della creazione. Ogni membro della famiglia umana, creato ad immagine di Dio, è formato dalla Parola, custodisce l’impronta della Parola su di sé. La luce che illumina ogni uomo che viene nel mondo non può essere completamente cancellata, soprattutto nei piccoli soltanto concepiti o nati da poco. La Chiesa ortodossa non ha mai fatto un riferimento esplicito alla dannazione eterna degli innocenti non battezzati, evitando di interpretare in senso giuridico le parole di Cristo sull’impossibilità di vedere il Regno di Dio per tutti coloro che non sono rinati dall’acqua e dallo Spirito (nel contesto dell’incontro con Nicodemo si può pensare che si tratti di persone adulte) e preferendo mantenere per questo mistero un fiducioso silenzio. La fede orientale, piuttosto intuitivamente che concettualmente, segue il pensiero di San Gregorio di Nissa: “La beatitudine sperata appartiene agli esseri umani per natura…”.
Ma una fede che sopprime la pena non perde, forse, il suo sale? Una salvezza garantita per tutti e gratis non uccide il dramma della libertà ineliminabile dal messaggio cristiano? Lo scivolamento verso un cristianesimo che ha dimenticato l’inevitabilità della tragica scelta dell’uomo che può ribellarsi contro il suo Salvatore produrrebbe un grande svuotamento del lieto messaggio annunciato ai poveri, agli oppressi, ai prigionieri del peccato. Nella Chiesa orientale l’innocenza della creazione è unita al timore di Dio, al senso di colpa nei confronti della purezza profanata della propria anima. Non si nasconde qui - nell’esperienza vissuta insieme, nel riconoscimento reciproco del nucleo della fede - una strada che porta all’unità della Chiesa? Anche senza grande visite o accordi storici.
I. LA VITA
Caterina (1347-1380) nacque a Siena, nel rione Fontebranda, da Jacopo Benincasa e donna Lappa, penultima di una nidiata di ben 25 fratelli. Secondo i suoi primi biografi, la sua vita è tutta segnata da visioni e fatti straordinari, A sei anni, avrebbe avuto una visione di Cristo solenne e sorridente, circondato da una schiera di santi, A quindici anni, dopo iterati diverbi con la madre che non capiva la sua ansia di preghiera, tronca ogni discussione tagliandosi i capelli e isolandosi spesso nella sua cameretta, per dedicarsi alla penitenza e al colloquio con Gesù. Obbligata a passare lunghe ore nel frastuono di una famiglia così numerosa, impara a coltivare l’unione a Gesù nella «cella del cuore», come lei stessa diceva.
Vestito l’abito delle terziarie domenicane dette mantellate (1363), Caterina intensifica il suo impegno di vita spirituale. segnata da una carità davvero eroica verso i poveri, gli infermi e i carcerati. All’età di vent’anni le appare Gesù, assieme alla Madonna e altri santi, per darle l’anello di sposa. Man mano che gli anni passano, la sua vita diventa sempre più penitente. A partire dal 1372 si decide per la comunione frequente, abbandonando quasi ogni altro nutrimento. Ma più avanza l’esperienza mistica, più la sua vita diventa attiva. Il suo stesso esempio diventa presto contagioso. Molti devoti cominciano a unirsi a lei nella preghiera e nelle opere di carità, qualificandosi come suoi «discepoli». Molte persone le scrivono anche da lontano per esporle problemi e ottenere consigli. Non mancano però neppure le male lingue che diffondono sospetti e calunnie, tanto che nel 1374 il capitolo generale dell’ordine si sente in dovere di convocarla a Firenze per farle sostenere un esame circa la sua ortodossia. L’esame dà esito positivo ma, a scanso di rischi per il futuro, le viene assegnato come direttore spirituale un noto teologo dell’ordine, fra Raimondo da Capua, che poi sarà il suo primo biografo.
Tornata a Siena, si dedica alla cura degli appestati; ma, subito, il suo coinvolgimento nella vita civica di Siena e Firenze, e nelle tensioni politiche del tempo. è totale. Nel 1375 la troviamo a Pisa a predicare la crociata indetta da Gregorio XI.
Poco dopo è la città di Firenze che, colpita da scomunica e interdetto, chiede la mediazione di Caterina, la manda ad Avignone, ambasciatrice. ad implorare dal papa riconciliazione e pace. Ad Avignone Caterina non si limita a trattare la pace per Firenze: fa di tutto per convincere Gregorio XI, ancora indeciso, a tornare finalmente a Roma dopo il lungo esilio avignonese (1376).
Verso la fine di quello stesso anno si trasferisce a Roma con il gruppo dei suoi discepoli, per dedicarsi più da vicino alla causa della chiesa e del papa. Il suo ascendente è tale che Urbano VI, succeduto a Gregorio XI, la chiama più volte in concistoro a parlare ai cardinali. Numerose anche le lettere che, in questo periodo, scrive a principi e capi di stato, perché restino fedeli al papa di Roma, e al pontefice perché moderi il suo temperamento piuttosto focoso. Lotte e tensioni fra le contrapposte fazioni, infatti, sono ancora molto vivaci, tanto che un tumulto di popolo. nel febbraio 1380, invade lo stesso palazzo pontificio. Anche in questo caso, come si legge nelle cronache, l’intervento di Caterina «acchetò le ire del popolo e sedò la collera del pontefice”. Solo due mesi dopo (29 aprile 1380) Caterina, sfinita dalle fatiche e da questa sua passione per la chiesa, si spegne a soli 33 anni di età, lasciando un’impronta indelebile nella vita della chiesa e nella storia della spiritualità.
Il. SCRITTI
Fonte principale, per la biografia e la spiritualità di Caterina, è la Legenda aurea, scritta dal domenicano Raimondo di Capua (1393), già confessore della santa, poi maestro generale dell’ordine. Di Tommaso da Siena è la Legenda minor (1400), riassunto della precedente, nonché il SuppIernentun Iegendae prolixae di cui si conservano tre manoscritti. Di fra Tommaso della Fonte, confessore della santa prima di fra Raimondo, sono i Miracula. mentre di un anonimo fiorentino sono i Miracoli, scritti in italiano ancor vivente la santa (1374). Una miniera di notizie è anche il processo detto Castellano, perché istruito da Francesco Bembo vescovo di Castello (Venezia): vi sono raccolte le testimonianze dei discepoli che avevano conosciuto personalmente la santa.
Il fatto che la vita di Caterina sia tutta segnata da eventi straordinari ha suscitato grossi dubbi circa la credibilità dei suoi primi biografi. Ma, a parte questa enfatizzazione del meraviglioso che era tipica dello stile agiografico del tempo. la fondatezza di tutti i dati storicamente riscontrabili risulta dimostrata; per cui la critica più recente dà ora maggiore credito, anzi riconosce che nessun altro santo del XIV secolo risulta meglio documentato.
Fra gli scritti attribuiti alla santa, la critica storica riconosce certamente autentici l’Epistolario, il Dialogo e le Preghierè.
L’Epistolario raccoglie 382 lettere, scritte da Caterina ai destinatari più disparati. Caratteristici di queste lettere sono: l’inizio, sempre nel nome di Cristo crocifisso e di Maria. E’ un epistolario ricchissimo di fede, ma anche di umanità; qualcuno l’ha definito il «codice d’amore della cristianità». E’ soprattutto in questo epistolario che Caterina rivela la sua personalità. Da queste lettere traspare una religiosa modesta, ma dal cuore grande. E’ del tutto priva di mezzi umani, ma sostenuta da una fede intrepida. Molte le iniziative alle quali dà il suo appoggio (proposte di pace tra fazioni contrapposte; interventi coraggiosi per convincere il papa a lasciare Avignone e tornare a Roma: assistenza ai carcerati e agli stessi condannati a morte: Io zelo dispiegato per la crociata in Terra santa, ecc.). E anche se raramente vede i suoi sforzi coronati da successo, non per questo si scoraggia o desiste dai suoi propositi. Ai discepoli chiede il distacco dal «latte delle consolazioni» e il coraggio di mangiare il pane duro e ammuffito delle tribolazioni temporali e spirituali.
L’altra opera certamente autentica è Il Libro o, come viene chiamato dai discepoli. Dialogo oDialogo della divina Provvidenza. E’ stato «dettato» da Caterina ai suoi segretari «scrittori» dopo la pace tra Firenze e il papa (18.7.1378) e prima della partenza per Roma (nov. 1378). in un clima di altissima contemplazione.
Mentre l’Epistolario è un libro di vita vissuta, il Dialogo è un vero e proprio trattato di vita spirituale, che Caterina vede come itinerario d’amore, percorso dall’anima per mezzo del sangue di Cristo pontefice, fino a raggiungere la vita d’unione con la Trinità.
La terza raccolta è costituita dalle Preghiere: recitate da Caterina a voce alta in circostanze diverse e raccolte dai discepoli “scrittori”.
III. DOTTRINA SPIRITUALE
L’esperienza spirituale di Caterina è stata oggetto di molte ricerche e ha avuto le interpretazioni più disparate: H. Bremond, giudicandola da alcune raffigurazioni pittoriche, la ritiene poco energica
Il p. Deman, al contrario, vede in Caterina soprattutto una donna creativa, portata all’azione Sarebbe un non-senso, scrive, vedere in Lei una «intellettuale», anche se dotata di alte qualità teologiche. Caterina è una volontà. E’ un fuoco. La sua vita fu di «realizzare».
Per Garrigou-Lagrange invece, nel pensiero spirituale di Caterina il primo posto spetta alla fede. E per la luce della fede che lei si sente «forte, costante e perseverante».
Certo è straordinario, in Caterina, questo miscuglio di dati dogmatici quasi scolastici, insieme a stati emotivi di estrema intensità, dai quali è come trascinata all’azione. all’impegno indefesso e gioioso.
Mai però affiora in lei il timore o anche solo la preoccupazione che la preghiera sia di ostacolo all’azione, o viceversa: cosa che anche gli psicologi moderni, sulla base di ricerche positive sull’esperienza dei grandi mistici cristiani, hanno potuto costatare. Anzi il noto scrittore francese H. Bergson. in base alle sue ricerche sui mistici, è giunto ad affermare che i più contemplativi spesso sono anche i più attivi .
Una esposizione abbastanza ampia e articolata della dottrina spirituale di Caterina si può trovare nel Dialogo. In quest’opera, la santa rivolge al Dio di verità quattro domande, così formulate: conoscere la verità; che Dio usi misericordia nel mondo; che venga in aiuto alla chiesa; che estenda a tutti la sua provvidenza.
Stando a quanto scrive la Santa, il Padre celeste prende in piena considerazione queste ispirazioni, che poi corrispondono alla sua stessa volontà salvifica.
«Conoscere la verità», infatti, significa riconoscere il proprio nulla creaturale e il tutto di Dio. Tanto che qualcuno ha potuto riassumere l’intero messaggio del Dialogo con le parole: «Sappi, figlia mia, che io sono colui che è, e tu sei quella che non è». Sapere che noi non siamo nulla, o soltanto peccato. e sapere che Dio è tutto: per Caterina è questo l’essenziale di ogni cammino spirituale. In una simile mistica, il sentimento dell’umiltà è al primo piano della coscienza: umiltà che non è solo un atteggiamento dello spirito, ma conoscenza distinta e precisa. giudizio primordiale di valore. Caterina vuole «sapere». per essere «umile»; vuole essere umile per traboccare di carità.
La carità, nata dalla conoscenza e dall’umiltà, può essere messa in crisi per il contatto col mondo e con le difficoltà della vita: ma. sostenuta dalla grazia, avrà come frutto la pazienza. e poi anche la gioia, perché la vita spirituale, anche se iniziata nel timore, può progredire già in questa vita fino ai rapimenti dell’estasi.
Il tema della conoscenza quindi è, per Caterina, alla base non solo dell’ascesi in generale, ma anche di ciascuna delle sue tappe. E tuttavia questa forte accentuazione dell’aspetto «conoscenza» non rende la sua dottrina spirituale un qualcosa di esoterico. riservato a pochi iniziati.
Esperienza mistica e riflessione teologica s’intrecciano fittamente nella sua vita e nei suoi scritti, così da formare un tutto inscindibile. Ove si volesse individuare il punto d’incontro tra le due realtà che. ripeto, non possono essere separate perché germinano in maniera unitaria, è mia opinione che si dovrebbe ricercarlo nella visione cateriniana dell’amore.
Per lei Dio è amore, la Trinità è amore, Cristo è-amore, l’uomo è amore, I’ universo è amore, tutto è amore solo il peccato, il male, è disamore: coloro «che sono annegati nel fiume dell’amore disordinato del mondo, sono morti a grazia e sono diventati «arbori della morte». Se l’uomo, «arbore d’amore con vita di grazia»,vuole svestirsi del non-amore e giungere all’amore, deve salire i tre «scaloni» che portano al ponte. Cristo. Gli scaloni sono i piedi, il cuore. la bocca del crocifisso.
Questo stato di perfetta unione con la volontà di Dio, dove l’anima «trova la pace», è anche Io stato in cui si vedono le cose e gli eventi alla luce di Dio, per cui la contemplazione si trasforma in zelo di carità. Ma per quanto in alto sia ascesa, l’anima non è ancora immersa nel «mare pacifico della divina essenza»; finché è pellegrina su questa terra, la sua via rimane Cristo crocifisso. con il suo «ansietato desiderio» della gloria di Dio e della salvezza delle anime.
Ultimata la salita dei tre scaloni, l’anima viene irrorata dal sangue di Cristo. «il quale sangue inebria l’anima e vestela fuoco della divina carità».
Seguendo “l’amore crociato”, l’anima mia viene attratta completamente da Dio.
La vita cristiana è un camminare verso l’amore: e l’orazione - che ne è il segno espressivo - non può non essere un itinerario che inizia nell’umiltà per essere consumato nella carità. Secondo la mistica senese, l’orazione vocale è un mezzo metodologicamente necessario per giungere alla “casa del cognoscimento di sé”, ma a patto che vi sia consonanza tra bocca e cuore.
L’orazione contemplativa
La contemplazione viene indicata dalla santa in tutti i suoi stadi con l’espressione, comune a molti mistici del medioevo: «visitazione di Dio».
Durante la contemplazione «iI corpo sta come immobile, tutto stracciato dall’affetto dell’anima», soggetto al flusso della marea divina.
L’orazione contemplativa ha il suo respiro profondo nel Verbo incarnato.
Pagina molto distesa è quella in cui descrive la contemplazione delle anime giunte «alla perfezione dell’amore amico e filiale” e che hanno ricevuto le «stimate di Cristo crocifisso, ne’ corpi e nelle menti loro».
L’orazione, che «empie il vasello del cuore del sangue dell’umile agnello, e ricoprelo di fuoco, perché fuoco d’amore fu sparto», e «che unisce al sommo Bene»,deve essere garantita da una copiosa raccolta di frutti di carità. L’intero capitolo 69 del Libro è teso a dimostrare il primato della carità nel rapporto orazione-azione.
Lode, Ammirazione stupore
L’orazione cateriniana è permeata di lode, ammirazione, adorazione, ringraziamento, intercessione, supplica: ma specialmente di stupore.
Stupore di fronte alle pazzie della misericordia del Padre : celeste
Stupore di fronte alle pazzie d’amore del Verbo incarnato.
Stupore per il fiume di «sangue dolce» sgorgato dall’agnello immolato.
Stupore per l’ardente fuoco di carità di Cristo. Stupore nel guardare Dio umiliato nel grembo di Maria dolce. «arbore di misericordia».
La contemplazione della vergine domenicana viene ritmata da un largo respiro che ignora le richieste taccagne di molti cristiani ibernati nel bozzolo dell’egolatria: il suo pregare è l’eco delle necessità della chiesa e dell’incendio d’amore che la divora per far dissetare le anime nel sangue dell’agnello.
Per le necessità della chiesa la preghiera di Caterina diventa tenera come il chiedere dei bambino.
Sembra sentire nel suo pregare il battito della preghiera sacerdotale del Signore.
L’anima contemplativa che ha ricevuto la visita di Dio, allo sparire dell’ospite si scopre interiormente spalmata della sua presenza.
«E però riceve umilmente, dicendo: - Ecco l’ancilla tua: fatta sia in me la tua volontà».
O deità ineffabile
Stupore. ammirazione, lode, adorazione, ringraziamento, intercessione. supplica, troviamo a profusione nelle grandi «orazioni» cateriniane quando le ali robuste della contemplazione la fanno penetrare nel mistero delle persone divine con volo altissimo teologicamente perfetto.
IV. INFLUSSO
Sono diverse le figure femminili che soprattutto nel tardo medioevo, hanno segnato della loro presenza la chiesa e la storia in modo indelebile. E sono sorprendenti le affinità che le legano tra loro: da Ildegarda di Bingen a Matilde di Magdeburgo; da Brigida di Svezia a Caterina da Siena, ecc., tutte figure caratterizzate da intensa vita spirituale, tutte favorite da visioni mistiche straordinarie, e tutte profondamente coscienti di una grave missione, da assolvere con impegno instancabile, per il bene delle anime e della chiesa di Dio.
Enorme è stato l’influsso che ha esercitato Caterina da Siena sulla vita della chiesa e della società del suo tempo. soprattutto in Italia. E grande anche la stima e la venerazione di cui era circondata da molti dei suoi contemporanei. se è vero che alla sua morte han voluto celebrare ben tre funerali solennissimi: uno voluto dal pontefice; un altro da rappresentanti del senato romano; e il terzo dall’Ordine domenicano.
Il suo influsso sulla vita spirituale dei secoli successivi può essere dovuto alla sua santità, alla diffusione dei suoi scritti, e in questo caso particolare, anche alla sua presenza nel campo dell’arte, soprattutto la pittura.
Dopo la morte della Santa, attorno alla sua tomba si sviluppò ben presto il culto dei devoti, che da Siena e da Roma si estese poi a tutta la chiesa. Nel 1461. terminato lo scisma. Pio Il la inserì nel catalogo dei santi. Nel 1970 Paolo VI l’ha proclamata «dottore della chiesa», solo una settimana dopo che lo stesso titolo era stato attribuito a Teresa d’Avila: sono, così, le prime due donne ad avere questo titolo. E’ la chiesa stessa quindi che, attraverso i suoi rappresentanti ufficiali, riconosce a Caterina un ruolo significativo che, anziché attenuarsi col tempo. è andato crescendo sempre più.
L’esperienza mistica di Caterina da Siena è talmente originale ed emblematica da diventare punto di riferimento obbligato anche per gli specialisti, soprattutto quando si tratta di studiare il rapporto tra vita cristiana ed esperienza mistica, tra vita attiva e vita contemplativa, tra esperienza mistica e fenomeni straordinari come le visioni o le estasi, ecc. La cosa diventa ancor più delicata quando si tratta di studiare certi fattori che entrano la qualificare la vita mistica in quanto evento esperienziale. come, ad esempio, il fattore «emotività». o il fattore «volontà», o il fattore «ragione» o «verità», senza parlare dei dati soprannaturali come la carità infusa, i doni dello Spirito, ecc.
Le Parole della Bibbia
di Sr. Germana Strola o.c.s.o
La Lectio Divina sui testi liturgici, illuminata dalle introduzioni specifiche e dai ritiri spirituali che abitualmente vengono assicurati nei nostri monasteri, rende estremamente familiare ad ogni monaco e monaca il testo evangelico, che pur non cessa di permanere sempre inesauribile nella sua ricchezza teologica e antropologica. Ripercorrerne i temi principali offre ogni volta di nuovo l’opportunità di riscoprire o rivivere non solo momenti di grazia e di incontro vissuti nella preghiera, ma soprattutto di approfondirne le prospettive, che si rivelano costantemente nuove e vitalizzanti.
di Andrea Pacini
L’intesa futura dipenderà dal nesso tra sinodalità e unità e dalla dialettica tra ministero episcopale e dimensione monastico-carismatica.
Il tema ecclesiologico costituisce come è noto un argomento centrale del dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse, e non è un caso che l’intero lavoro della Commissione internazionale di dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse si sia sviluppato e articolato su temi inerenti tale argomento. Anche la recente ripresa dei lavori della Commissione nel settembre 2006 non si è discostata da tale interesse, essendo stata messa all’ordine del giorno la questione del rapporto tra conciliarità e autorità nella Chiesa. Esistono certamente alcuni punti importanti sui quali è emersa e si è consolidata una diversa visione ecclesiologica in ambito ortodosso e in ambito cattolico: il primato petrino, con le sue prerogative di giurisdizione universale sulle Chiese e di infallibilità nell’insegnamento – poste determinate condizioni – e la conseguente tendenziale unità centralizzata della Chiesa cattolica, è lontano dall’ecclesiologia elaborata nell’Oriente ortodosso.
All’interno dell’ortodossia si è sviluppata e tuttora è teologicamente sostenuta e praticata un’ecclesiologia di ispirazione più nettamente sinodale a tutti i livelli: sia nella comprensione della Chiesa locale, sia nella comprensione della Chiesa universale, che trova espressione nella pluralità delle Chiese ortodosse in comunione reciproca, e in cui la somma autorità in materia di fede, di morale e di disciplina è il Concilio ecumenico. Abbiamo già evidenziato su queste pagine come tale posizione delle Chiese ortodosse non sia affatto esente da rischi e da cortocircuiti. Come hanno fatto notare alcuni teologi, quali Olivier Clément e Christos Yannaras, l’ortodossia ha fortemente indebolito al proprio interno la presenza di strutture ecclesiali di unità, senza le quali è difficile garantire un vissuto e un funzionamento realmente e pienamente comunionale delle Chiese ortodosse.
Prova di questo sono a tutt’oggi le dinamiche conflittuali e le tensioni centrifughe che caratterizzano le relazioni interortodosse, rispetto alle quali le Chiese stesse non sembrano avere strumenti atti a concretizzare soluzioni efficaci. Probabilmente la mancanza di tali strumenti che possano promuovere l’esercizio di una reale comunione è dovuta alla mancanza di una più approfondita riflessione teologica sull’importanza delle "strutture di unità" nella Chiesa, che, una volta teologicamente fondate, possano essere valorizzate nel vissuto ecclesiale a tutti i livelli. In questa prospettiva la ripresa della riflessione sul rapporto tra autorità e conciliarità nella Chiesa all’interno del dialogo ecumenico è certamente importante: essa sarà però feconda nell’orizzonte di un reale progresso verso l’unità della Chiesa solo se prenderà in serio conto la questione delle strutture ecclesiali atte a promuovere e a esprimere la comunione nella Chiesa e della Chiesa, e in questa prospettiva una riconsiderazione del ministero petrino è imprescindibile.
Da questo punto di vista se la Chiesa cattolica è chiamata a una sempre più profonda adesione a quanto indicato autorevolmente dal concilio Vaticano II riguardo alla collegialità e alla sinodalità, valorizzando il ruolo specifico del ministero petrino in tale contesto – che è il suo contesto vitale – le Chiese ortodosse sono chiamate a un coraggioso e non facile itinerario di riappropriazione teologica di strutture ecclesiali di unità che trovino espressione nel governo stesso della Chiesa, rispetto alle quali il principio petrino si pone come richiamo eloquente e inevitabile. Non si può d’altra parte non ribadire come all’interno dell’ortodossia il dialogo ecumenico su tali e altre questioni avvenga all’interno di un contesto ecclesiale caratterizzato da relazioni interortodosse non certo facili. Proprio la tensione ecclesiale esistente tra le diverse Chiese o all’interno di porzioni di Chiese per questioni di ordine giurisdizionale, mostra l’intrinseca debolezza di una teologia di comunione priva di un riferimento reale a strutture ecclesiali di unità che siano in grado di promuovere in modo efficace la comunione.
Si potrebbe però anche aggiungere che il dibattito sulle questioni ecclesiologiche si sviluppa all’interno dell’ortodossia in un contesto in cui si confrontano due posizioni teologiche di fondo, che sono state più volte delineate dal metropolita Giovanni di Pergamo (Ioannis Zizioulas), uno dei più importanti teologi ortodossi contemporanei. Le due posizioni teologiche sono riconducibili a due visioni di Chiesa e a due contesti ecclesiali. Molto in sintesi la prima visione ecclesiologica è quella denominata "terapeutica", in cui prevale una visione della Chiesa come spazio di "guarigione" dell’uomo – guarigione dalla caduta, dal peccato, dal disordine morale e spirituale – e in cui storicamente si è sviluppata una grande valorizzazione dell’impegno ascetico, non indenne talvolta da qualche tensione con il primato della pratica sacramentale. Nella migliore teologia e spiritualità orientale la sacramentalità e l’ascesi non sono certo in opposizione, ma sono semmai le due ali della mistica, ovvero dell’esistenza cristiana consapevole, vissuta in comunione con Dio in Cristo per lo Spirito.
Non solo, ma la stessa sacramentalità ha una chiara priorità nell’ordine della grazia e del vissuto cristiano. Tuttavia l’insistenza sull’ascesi, tipica soprattutto dell’ambito monastico, che nell’ortodossia ha avuto e continua ad avere notevole influenza sui fedeli e nel vissuto ecclesiale concreto, ha condotto a una visione ecclesiologica terapeutica, in cui l’impegno ascetico di ispirazione monastica viene proposto come strutturale per la vita credente, e il monaco diviene non solo il modello della vita cristiana, ma anche colui che detiene l’autorità carismatica nella Chiesa e per l’esistenza credente. In altre parole l’accentuazione della centralità dell’ascesi accanto alla vita sacramentale, avrebbe condotto secondo l’analisi di teologi ortodossi – tra i quali spicca Zizioulas – a una comprensione dell’autorità nella Chiesa in cui l’elemento monastico-carismatico rischia di divenire una sorta di soggetto alternativo rispetto al ruolo episcopale, con un reale depotenziamento dell’autorità dottrinale e pastorale del vescovo.
L’altra tendenza ecclesiologica, che si è sviluppata in epoca contemporanea rivalorizzando la teologia patristica, è quella denominata "ecclesiologia liturgica" o "eucaristica", che mette al centro il primato della sacramentalità nella generazione della Chiesa e del suo vissuto – dunque nella vita dei fedeli – enfatizzando nel contempo la dimensione escatologica di cui la Chiesa grazie ai sacramenti è intessuta. Ne consegue che in tale prospettiva viene pienamente valorizzato il vescovo, che della sacramentalità della Chiesa è nello stesso tempo espressione e ministro, e cui viene riconosciuto il ruolo di guida dottrinale e pastorale della Chiesa, al cui discernimento viene anche sottoposto il vissuto carismatico monastico.
Identificare con lucidità queste due prospettive ecclesiologiche è importante per interpretare il vissuto ortodosso contemporaneo, anche in rapporto alla dimensione ecumenica. Spesso sono infatti gli ambiti monastici che, per un senso di responsabilità nei confronti della tradizione di cui si considerano carismaticamente i custodi, sono più inclini a valutare in modo critico il dialogo ecumenico e i suoi risultati: è quanto avviene in Grecia – si pensi al Monte Athos ma non solo – e in Russia.
L’influenza degli ambiti monastici tra i credenti e la loro possibilità concreta di influenzare e condizionare le scelte ecumeniche dei vescovi non è frutto solo di dinamiche contemporanee, ma di una lunga evoluzione storica che si è sedimentata nelle prospettive ecclesiologiche sinteticamente delineate sopra. Tutto questo diviene poi importante nel processo di recezione dei risultati dei dialoghi ecumenici, in cui la risposta della "base" in ambito ortodosso è fondamentale. Emerge allora come il futuro dell’ecumenismo con l’ortodossia sul piano ecclesiologico dipenderà dalla convergenza su posizioni teologiche comuni intorno al nesso sinodalità-unità, ma anche dalla dialettica tra ministero episcopale e dimensione monastico-carismatica all’interno delle Chiese ortodosse stesse: quest’ultima questione avrà una rilevanza fondamentale per la recezione progressiva dei risultati del dialogo.
(da Vita Pastorale, 4, 2007)