Nel cristianesimo non tutto
«esiste da sempre così»
di Marco Ronconi
Ricordo con grande affetto la prima lezione di "Storia ecclesiastica recente" all'università. Al suono della campanella, con signorile eleganza gesuitica e lieve cadenza fiamminga, il professore scandì un elenco di date ed eventi disposti a coppie sulla lavagna luminosa. 10 marzo 1791 e 7 dicembre 1965: da un lato il giorno in cui Pio VI definì la libertà religiosa una mostruosità, dall'altro la data di promulgazione di Nostra aetate, in cui il Concilio Vaticano II affermò che il diritto dell'uomo alla libertà religiosa «affonda le sue radici nella rivelazione cristiana». 8 dicembre 1864 e 6 agosto 1964: Pio IX afferma che il Papa non deve venire a patti con la moderna civiltà, mentre un secolo dopo Paolo VI spiega che la Chiesa deve dialogare con il mondo in cui si trova. 20 novembre 1704 e 27 ottobre 1986: Clemente XI vieta ai cristiani di celebrare secondo i riti cinesi, mentre sull'altra colonna Giovanni Paolo II prega ad Assisi con i leader delle principali religioni mondiali. L'elenco potrebbe essere molto lungo, ma penso si sia capito. La storia della Chiesa ha conosciuto grandi continuità ma anche forti discontinuità. Al di là dei giudizi, negarle non è mai un buon segno. Mi torna in mente quella lezione tutte le volte in cui, insegnando ad adolescenti, ho l'impressione che oggi circolino alcuni immaginari molto diversi tra loro, ma accomunati dal dare per scontato che alcuni elementi del cristianesimo (o delle religioni in generale) «esistono da sempre così». Eppure - solo per stare a questioni tipicamente romane - l'ultimo Conclave in cui fu esercitato il veto di un imperatore non risale al Medioevo, ma al 1903: nella Chiesa cattolica la massima autorità è quella papale, ma quando Benedetto XV invocò la pace alla vigilia della prima guerra mondiale, molti vescovi francesi e un cardinale belga lo presero quasi a pernacchie; la lingua latina non è la più antica delle lingue liturgiche e quando la si introdusse al posto del greco ci fu chi si oppose per decenni, ma la fede non crollò...
L'immaginario, poi, mi sembra diventare ancora più fantasioso se si allarga il confine dello sguardo. In questa stessa rubrica ho già presentato alcune figure che incrinano il pregiudizio per cui "mediorientale" "islamico", o comunque non cristiano. Dalle attuali Palestina, Libano, Turchia, Siria, Iraq (per tacer di Egitto e Maghreb, ma sarà per un'altra volta) proviene invece la maggior parte non solo dei protagonisti biblici, ma anche dei Padri della Chiesa. Nella storia, alla voce "arabi e cristiani", non corrispondono solo le crociate, ma anche una quantità di medici, teologi e vescovi che, ad esempio tra il IX e l'XI secolo, «hanno lasciato un patrimonio letterario di primaria importanza che può qualificarsi anzitutto come "patrimonio del dialogo": un dialogo tra credenti che non si sentono ancora figli di religioni contrapposte, ma solo di interpretazioni diverse dell'unico monoteismo»: così, ad esempio, scrive il monaco di Bose Sabino Chialà introducendo la traduzione di Unità e divisione dei cristiani (edizioni Qiqajon), libretto medioevale attribuito al cristiano Ali lbn Dawud Al-Arfadi. È impressionante leggerne alcun brani pensando a come il nostro immaginario rischia di aver pericolosamente riempito la distanza (temporale e geografica) che ci separa. Ali Ibn Dawud, infatti, si rivolge alla Chiesa araba di circa un millennio fa scandalosamente divisa da tensioni e condanne, sottintendendo che imparare il dialogo tra cristiani è condizione indispensabile e previa per praticare la stessa arte all'esterno. Molto prima del famoso discorso di Giovanni XXIII all'apertura di un Concilio non a caso definitosi «ecumenico», è qui invocata la distinzione tra «il patrimonio della fede cristiana» e il «come viene formulato»: «Su quanto divergono a parole, i cristiani (delle diverse fazioni) sono d'accordo nel significato: su quanto si contraddicono in apparenza, sono unanimi nella sostanza (…) Non c'è divisione né separazione, se non per la passione, lo spirito di parte e il desiderio di supremazia». Non è infatti la diversità delle formule e delle consuetudini che può escludere qualcuno dal cristianesimo, quanto piuttosto la «mancanza di amore e umiltà» che fa «svanire la fede». «A mio giudizio sono come della gente che si dirige verso una città, sulla cui autenticità ed esistenza sono tutti d'accordo, ma che dissentono sulle vie e sulle strade che portano a essa. Ogni gruppo prende una strada che afferma essere la via giusta per la città, ad esclusione delle altre. Terminata la via si riuniscono tutti nella città». Tutti, tranne coloro che hanno usato del Vangelo per la propria vanagloria e per seminare odio. Sono essi e solo essi, quelli che si perdono.
Ora, è tornato di moda tra gli oratori contemporanei stupire con dotte citazioni. Avrei un piccolo (e mi rendo conto immodesto) suggerimento: nel prossimo futuro qualcuno potrebbe richiamare - non necessariamente da solo, anche in coppia come faceva il mio professore - un testo come quello di Ali Ibn Dawud Al-Arfadi? Il nome è ostico perché abbiamo perso la familiarità con quel mondo cristiano, ma la sua memoria - fortunatamente in non totale continuità con altri rami della nostra storia - potrebbe tornarci utile.
(da Jesus febbraio 2008, p. 49)