Vita nello Spirito

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Non è tipico soltanto del popolo d’Israele avere un racconto leggendario delle proprie origini, che è più l’espressione dell’unità instaurata dal tempo delle sue origini che non una spiegazione delle origini stesse. Il problema del rapporto tra teologia e storia non è risolto da queste brevi osservazioni. La fede dell’Antico Testamento si fonda sugli atti di Jahweh nella storia; questo è un principio indiscutibile...

La teologia delle religioni
vista dall’America Latina

di José Comblin

Fin dall'inizio è necessario dire che non si intende qui offrire una teologia a partire dall'America Latina come se fosse un punto di vista particolare, uno tra i tanti, come se fossero tutti equivalenti e accettabili. Quello che è accaduto nella teologia latinoamericana negli ultimi decenni non è un fenomeno locale. Non è nata una teologia particolare, una teologia circostanziale, locale, parziale. Così la vedono in Europa e in questo si sbagliano totalmente. Gli europei credono di situarsi in un punto di vista universale, credono di rappresentare l'universalità e di poter giudicare le teologie di tutti gli altri come se si trattasse dì teologie particolari che non riguardano la teologia universale.

È la teologia del Primo Mondo ad essere una teologia circostanziale, locale, parziale, particolare, perché è una teologia della cristianità occidentale. Non ha ancora rotto il legame con la cristianità, così come le Chiese storiche della cristianità: non hanno assimilato - e soprattutto non hanno portato avanti - il Vaticano II (...).

Che è successo in America Latina? Esattamente il contrario: si è portata avanti la teologia del Vaticano II in una forma radicale e si è abbandonato lo schema della cristianità. Si è preso sul serio quello che diceva il Vaticano II, cercando il popolo di Dio in mezzo ai poveri, cosa che le Chiese del Primo Mondo non si sono azzardate a fare e che la burocrazia romana è riuscita ad impedire difendendo la sua politica di alleanza con i poteri nella società occidentale, erede della cristianità. (...)

Naturalmente, all'interno della cristianità, vi sono state moltitudini di cristiani poveri che hanno compreso il Vangelo e lo hanno vissuto: erano il popolo di Dio, ma tra loro e la struttura di cristianità c'era un abisso quasi senza comunicazione. Il popolo pensava una cosa, e il sistema un'altra.

(...) In America Latina è avvenuta all'interno dello stesso clero e all'interno della teologia la riscoperta dei poveri e il vero senso della buona novella, del Vangelo che si rivolge ai poveri e non semplicemente agli esseri umani come se fossero tutti uguali. Quello che troviamo nella Bibbia è, precisamente, che non sono uguali, che nella storia vi sono ricchi e poveri, dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, oppressoti e oppressi, e che il Vangelo ha senso nella denuncia di questa situazione, affermata fino alla morte dai profeti di tutti i tempi.

La teologia latinoamericana (...) ha riscoperto l'essenziale del cristianesimo, il suo messaggio centrale. Come ha potuto farlo? Perché ha rotto con la cristianità, ha rotto con il sistema coloniale, ha rotto con il sistema ecclesiastico. (...)

Si è scoperto che la Chiesa vera è la Chiesa dei poveri, quella che non è riconosciuta né accettata dal sistema. Cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, leader laici hanno rotto con il sistema e per questo hanno conosciuto la vera Chiesa. Con i poveri hanno scoperto che la vera unità è escatologica, si situa alla fine, ma che in questo momento siamo in una storia di lotta, la lotta dei poveri per la loro liberazione, che è ciò che Gesù annunciò al suo popolo opponendosi a tutte le autorità di Israele, clero, dottori, anziani capi delle grandi famiglie. Hanno scoperto che il messaggio di Gesù è la speranza di una liberazione totale.

Situandosi in mezzo ai poveri, hanno capito che questa liberazione non si riferisce solo alla vita futura, che non si condensa in una cristianità idealizzata, ma che è presente nella lotta costante e perseverante dei poveri illuminati dalla promessa divina della loro piena liberazione. Questo non vuol dire che gli altri siano esclusi. Gesù offre loro un mezzo di salvezza: abbandonare la ricchezza e unirsi al popolo dei poveri.

Questo è il punto di vista che ci permette di giudicare e di apprezzare il significato del dialogo interreligioso.

1. Chi sta dialogando?

1.1. Chi dialoga con chi?

La questione è: se quelli che dialogano a nome del cristianesimo sono membri della struttura di cristianità - clero, religiosi - conviene dubitare molto. Non rappresentano il cristianesimo. Sarebbero sempre preoccupati di uscire dall'ortodossia. Quello che presenteranno come cristianesimo sarà l'ortodossia, cioè il sistema istituzionale della cristianità. (...)

Questo sistema è quello che si è presentato come cristianesimo per 16 secoli a tutti gli altri popoli. (...). Ancora oggi la maggior parte dei membri del sistema sono impregnati di esso e non riescono neppure a capire di essere dentro un sistema. Credono che quanto dicono è il cristianesimo perché è quanto hanno appreso nella loro teologia ed è quanto pratica il sistema.

Un dialogo in cui gli interlocutori che si dicono cristiani sono piuttosto rappresentanti di un sistema è molto sospetto. E possiamo presumere che per le altre religioni succeda qualcosa di simile. (...).

In questa fase della storia, la situazione è peggiore. C'è un cattolicesimo ufficiale che è sempre più burocratico. Il XX secolo ha assistito al sorgere della burocrazia vaticana che si è resa indipendente e manipola il papa, attribuendosi i poteri di Pietro. (...) Essa produce documenti senza fine per giustificare la sua esistenza. Ma la sua ragione d'essere, come quella di tutte le burocrazie, è aumentare il suo potere e per questo difficilmente può lasciar trasparire qualcosa di cristiano in mezzo a tutta questa immensa produzione di carta stampata. (...)

Il dialogo tra burocrazie darà una ragione d'essere alle burocrazie, ma non porterà a nulla. (...).

Un dialogo vero è un dialogo tra i popoli quando questi cominciano a convivere, confrontando le proprie religioni e influenzandosi reciprocamente. Con ciò si corromperà il cristianesimo? Non è probabile, perché le eresie le hanno sempre create i chierici e non i laici. La soluzione è imprevedibile, ma non c'è dialogo se si vuole sapere in anticipo dove si arriverà. Ogni dialogo è rischio, perché mette in discussione, squilibra tutte le parti e le obbliga a riformulare il proprio modo di vivere e di pensare.

1.2. La finalità del dialogo

C'è un sospetto. Nel mondo attuale tutte le religioni soffrono l'impatto del secolarismo della civiltà occidentale, scientifica e tecnologica. Tutte si sentono minacciate. Sentono di essere sempre più respinte dalla vita pubblica nelle varie nazioni. Il sospetto è il seguente: i rappresentanti delle grandi istituzioni potrebbero pensare, in quanto religioni, ad una lega di difesa dei propri interessi specifici. Una sorta di sindacato mondiale delle religioni.

(...). Il dialogo potrebbe essere lo strumento di un'alleanza mondiale dei fondamentalismi per promuovere l'importanza politica, sociale e culturale della religione. (...)

Una religione non è capace di correggersi da sola. Ha bisogno di ricevere la critica e la provocazione di altre persone ubicate fuori. Cioè, di altre religioni. Per questo alcuni dicevano che le eresie sono necessarie perché permettono di cercare la verità liberandosi da formule convenzionali e fisse. Per il cristianesimo questo lavoro è particolarmente necessario perché c'è un abisso tra il comportamento storico delle Chiese e il Vangelo di Gesù Cristo. Il dialogo permetterà di correggere tutta la corruzione di una religione, perché il confronto con le altre rivelerà le proprie deficienze. (...).

1.3. Cos'è la religione?

(...) Il cristianesimo vero è nell'azione dei cristiani che seguono l'azione di Gesù. Tutto il resto è simbolo, che aiuta o impedisce la ricerca della verità, secondo i casi. La verità della religione è ciò che va oltre la religione: la ricerca di Gesù Cristo, di Dio, non per mezzo di simboli e atti simbolici, ma nella realtà della vita. Che vantaggio ci sarebbe nel confrontare sistemi di simboli? Sarebbe impedire proprio l'essenziale, la ricerca comune della verità che è al di là di tutto ciò.

(...) Tutti insieme sono chiamati ad aiutarsi ad andare al di là dei propri limiti, delle proprie rigidità, delle proprie idolatrie, perché l'idolatria è considerare la religione come fine a se stessa. E fare della religione il fine e non il mezzo che deve cedere il passo a quello che è al di là.

2. L'oggetto del dialogo

2.1. Il discernimento delle religioni

La religione può essere la migliore o la peggiore delle cose. Tutto dipende dall'uso che se ne fa. In America, questa opposizione si è manifestata in forma tragica. La religione ha giustificato, provocato, incentivato la distruzione delle culture dei popoli indigeni e degli schiavi africani. Ha legittimato e consolidato la conquista, lo sterminio e la quasi schiavitù dei popoli indigeni. Ha giustificato l'importazione di milioni di schiavi dall'Africa e tutto il sistema di schiavitù che durò secoli. Tutto con la benedizione della religione ufficiale, dei suoi ministri e rappresentanti. Tutte le religioni sono accusate di orrori simili per quanto forse non di tale estensione. (...). D'altro lato la religione è indispensabile per dare senso alla vita. Senza religione la vita umana non ha direzione, non ha linea, è una successione di fatti senza significato.(...).

2.2. Il dramma dei monoteismi

Nel mondo attuale, la maggiore crisi religiosa riguarda i monoteismi. Quelli che sussistono sono il cristianesimo, l'islamismo e il giudaismo. Sono in crisi. Nel cristianesimo molti si sono allontanati dalla pratica tradizionale e si dimenticano dei dogmi tradizionali. (...)..

Nel giudaismo la crisi è immensa e la grande maggioranza non è praticante, neppure mantiene la fede nelle proprie credenze. Molti la mantengono in quanto ebrei, ma più per motivi culturali e politici che religiosi. L'islam si difende da un trauma tremendo attraverso il cammino del fondamentalismo. Questo entrerà in crisi inevitabilmente perché il contatto con la nuova cultura occidentale è inevitabile ed è essa che provoca la crisi. (...)

A questo punto dobbiamo riflettere sul cristianesimo. Questo è un monoteismo speciale. (...) Per prima cosa, il Dio unico non ha come attributo principale il potere, ma una combinazione di compassione, indignazione e volontà di agire. Questo si rafforza nella figura di Gesù che, lungi dall'apparire come un dio potente, è un dio debole, impotente, ridotto ai limiti di un essere umano, dominato, sfruttato, escluso.

In secondo luogo, dopo la morte di Gesù, la figura di Dio che balza in primo piano è lo Spirito, che è una forza immanente. Il Dio cristiano è al tempo stesso trascendente e immanente ma sempre debole, senza potere di imposizione e coercizione.

In terzo luogo, Gesù si pone alla guida della lotta dei poveri e dei dominati. Il Dio cristiano non è un Dio cosmico che rappresenta l'immobilità dell'universo, ma un Dio che entra nella storia non per giustificare il potere, ma per contraddirlo. È un monoteismo che si solleva contro la società stabilita, contro i potenti, smentendo la menzogna del monoteismo politico.

(...) Nel cristianesimo di Gesù, la povertà non e semplicemente un problema "sociale" o "politico", risolvibile con strumenti umani razionali, scientifici, tecnologici. Si è sempre sottolineato nella teologia della liberazione che la fame dell'altro non è un problema tecnico, ma un problema religioso, perché li si incontra Dio. Per questo il capitolo 25 di Matteo ha tanta importanza. Questo capitolo presenta il giudizio finale di Dio, la sua ultima parola, la forma con cui il vero Dio si interessa della religione, quello che intende per religione.

Per questo, l'attenzione ai poveri non è un'appendice, un corollario, un aspetto della compassione umana o della solidarietà. Non è un aspetto della giustizia. La dominazione, lo sfruttamento o l'esclusione dei poveri sono il dramma della creazione. Il Dio vero è coinvolto nella liberazione dei poveri e non è coinvolto nella religione. Dio detesta i templi, i sacerdoti e i sacrifici. La vera religione è l'amore attivo per i poveri oppressi perché si liberino dall'oppressione. La vera religione – se c’è bisogno di usare una parola tanto ambigua - è la lotta dei poveri per la loro liberazione. (...).

La questione è: chi parlerà in nome del Dio cristiano nel dialogo? L'interlocutore cristiano parlerà del Dio di Gesù o del Dio degli imperatori romani, inclusi tutti i loro eredi? Chi andrà a dialogare con gli indios e i neri di America? Chi parlerà loro del cristianesimo? Dalla risposta dipende la natura del dialogo: poiché il cristianesimo di cui si parlerà potrà essere lo stesso monoteismo dei conquistatori o il messaggio di Gesù Cristo.

2.3. La grande crisi attuale della religione

Crisi non vuole dire decadenza, né pericolo, ma cambiamento, trasformazione radicale. Non c'è pericolo per la religione, che ha il futuro garantito oggi come lo aveva nel passato. Non c'è decadenza della religione, ma solo decadenza di determinati tipi di religione e di determinate istituzioni religiose.(...)

Il potere nella società non è scomparso, è più forte che mai. Si è concentrato, ma in istituzioni anonime e per questo ha poca visibilità. (...).

Oggi gli oppressori non sono persone, padroni della terra, presidenti, partiti politici... L'oppressore è il sistema completo, che costituisce una forza che domina il mondo intero. (...).

Il sistema può migliorare lo stato di fame che c'è in America Latina, ma non può restituire la dignità all'immensa maggioranza di una popolazione che sa di essere una pedina in mano a forze anonime. Questo è il posto dei cristiani, ma costa, perché molti volevano una vittoria più immediata. Tutti volevano un cambiamento rapido, ma l'esame del mondo mostra che è inutile sperare l'impossibi-le. Sarà una lotta lunga in cui le comunità cristiane dovranno presentare al mondo un'altra maniera di vivere, finché alla fine il sistema non riconoscerà di aver fallito.

Allora, con chi andiamo a dialogare? Con tutti coloro che non accettano il sistema e sono decisi a lottare contro di esso, non solo con parole e simboli, ma con la loro vita, con la loro maniera di vivere, come isole in mezzo a un mondo che non comprende perché un essere umano non possa essere felice come semplice consumatore. (...). Con le altre religioni si dialoga se accettano di entrare nella lotta contro questo sistema. In caso contrario, non vale la pena dialogare e mancano argomenti di conversazione.

Siamo molto coscienti che la storia è molto più ampia dell'area di estensione del cristianesimo, ma tutti siamo chiamati ad entrare nella stessa storia. Dio non chiede se una persona è cristiana o musulmana o induista o confuciana... tutto questo non gli interessa. Dio vuol sapere chi è coinvolto nella nascita e nella crescita del suo popolo dei poveri. (...)

Alla teologia delle religioni possiamo proporre due temi di base.

Il primo è il tema della storia. In generale le religioni non si interessano della storia. Nella Bibbia l'importante è la storia, il cammino reale, materiale, storico seguito e creato dall'umanità chiamata da Yahvé alla libertà. Questa storia coinvolge tutti gli uomini e le donne di tutte le religioni. Tutti sono chiamati a porre le proprie forze al servizio di questa immensa marcia dell'umanità verso la sua liberazione da quel peccato immenso che è la dominazione dell'essere umano sull'essere umano.

In secondo luogo, c'è il tema dell'idolatria che è anch'esso basilare nella Bibbia. L'idolatria non sono le religioni, ma l'uso della religione al servizio del potere, della ricchezza, della dominazione. (...). Gesù arriva a definire esattamente l'idolatria quando la identifica con la sottomissione al denaro.

Nella visione cristiana c'è un dualismo profondo, per quanto non definitivo: alla fine si realizzerà l'unità, ma solo alla fine. Nella storia c'è una lotta permanente tra il vero Dio e gli idoli, tra il falso e il vero. Gesù dirà: tra il Padre e il denaro.

Per questo, la parola "Dio" non ci sembra molto conveniente e, oggi, porta a molta contusione. Questa parola è culturale e non primordiale. Nella Bibbia Dio non ha nome, neppure il nome Dio. Dio è colui che non ha nome perché è al di sopra di tutte le culture e rappresenta l'universale. (...) È la libertà pura che chiama alla libertà.

Dal momento in cui esiste questa storia unica che è lotta unica, tutte le religioni sono interpellate perché tutte sono dentro la lotta, tutte attraversare dalla dualità: tutte partecipano del bene e del male e tutte sono chiamate a liberarsi. (...).

Per questo, insieme al dialogo con le religioni, è essenziale mantenere il dialogo con gli atei, perché questo dialogo ci aiuterà e aiuterà tutte le religioni a preservarsi dall'idolatria. In realtà, dobbiamo mantenere le porte aperte al dialogo con gli atei. I primi cristiani furono condannati come atei. Il dialogo con gli atei è importante per noi tanto come il dialogo con le religioni. Bisogna mantenere l'equilibrio tra i due, perché la verità e nel mezzo, o piuttosto a un livello superiore dove non si nota più la differenza tra religione e ateismo.

(da Adista, n. 46, 18.06.2005, pp. 7-10)
Venerdì, 04 Aprile 2008 21:45

Anania e Saffira (At 5,1-11) (Renzo Infante)

Anania e Saffira (At 5,1-11)

di Renzo Infante


Il racconto della punizione di Anania e Saffira è stato da sempre considerato uno dei più difficili del NT e in qualche modo fuori luogo, in un'opera, come quella lucana, da cui emerge un Gesù sempre pieno di misericordia e pronto al perdono. Prima di considerarlo, merita attenzione il contesto nel quale è in­serito.

Importanza del contesto

Diversi segnali nel testo indicano che il brano di At 5,1-11 non può essere iso­lato dal contesto più ampio in cui è inserito. La particella greca dé, in 5,1, che generalmente equivale ad una congiunzione, qui ha valore avversativo e con­trappone ciò che segue a quanto è stato in precedenza narrato. Nel sommario di 4,32-35, infatti, si presenta la profonda unità che caratterizza la Chiesa nascente i cui membri tutto dividono e mettono in comune; esempio ne è la ge­nerosità di Barnaba raccontata nei vv. 36-37. In contrasto si pone la pericope della frode di Anania e di sua moglie Saffira (5,1-11), che segue subito dopo.

L'espressione «vendere, portare l'importo e deporlo ai piedi degli apostoli» ripetuta tre volte - al termine del sommario (4,34-35), nell'esempio di Bar­naba (4,37) e all'inizio del secondo esempio (5,1-2) - dà origine ad una stret­ta correlazione tra i brani.

L'episodio di Anania e Saffira, inoltre, trova un certo seguito nell'altro som­mario sulla vita della comunità (5,12-16), nel quale si sottolinea lo stare in­sieme basato, non tanto sulla condivisione dei beni, quanto sul «timore» per i numerosi miracoli e prodigi compiuti dagli Apostoli. In questo sommario, il terzo, emerge la figura di Pietro con il suo potere taumaturgico. La constata­zione letteraria che sia il sommario sia il nostro brano hanno in comune il ri­chiamo al «timore» e al ruolo di Pietro, permette di creare un ponte tra i due passi. Quindi, l'esatto significato della pericope emergerà meglio se conside­rata come parte integrante di un'unità narrativa piuttosto compatta che inizia in 4,32 e termina in 5,16.

Infine, alla luce del costante parallelismo lucano tra le vicende di Gesù (Van­gelo) e quelle della Chiesa (Atti), l'episodio di Anania e Saffira fa da riscon­tro alla storia di Giuda, anch'egli divenuto strumento di Satana (Lc 22,3), re­so consapevole da Gesù stesso della sua colpa (Lc 22,21-22), e finito tragica­mente (At 1,18). (1)

Struttura e commento

In 5,l-2a vengono presentati Anania e Saffira come autori di un'azione in net­to contrasto con quanto appena narrato in 4,32-37. Il protagonista principale è però Pietro che appare nelle vesti di rappresentante e portavoce degli apo­stoli, ai cui piedi i credenti ponevano il ricavato dei beni venduti. La vicenda dei due coniugi protagonisti si sviluppa in momenti successivi: insieme nella complicità del loro misfatto (5,1-2a), si ritroveranno insieme solo nella tomba (5,10). Lo smascheramento e la punizione si svolgono in due scene indipen­denti, ma costruite in maniera parallela: quella di Anania nei vv. 5,2b-6e quella di Saffira in 5,7-10. Il v. 11, in cui si sottolinea l'eco profonda suscitata dalla notizia della sorte dei due coniugi, funge da conclusione.

a loro completa e totale disposizione, in quanto legittimi pro­prietari. Il verbo enosphisato («tenere per sé una parte») ha l'accezione peg­giorativa di «trattenere con frode», «sottrarre», «frodare». Quindi la loro col­pa consiste «nel presentare come totale ed incondizionata un'offerta che è in­vece solo parziale ed interessata». (2) L'espressione «deporre ai piedi degli apo­stoli» equivale a mettere i propri beni o se stessi a disposizione degli aposto­li e dell'intera comunità (cf Lc 8,35). La frode di Anania e Saffira è perciò da considerarsi come un attentato che rischia di spaccare la comunione e l'unità della chiesa «che era "un cuore solo ed un'anima sola" (4,32) e di screditar­ne la "testimonianza" (4,33)». (3)

Nei vv. 3-4 prende la parola Pietro che svolge il ruolo che noi oggi, nel nostro linguaggio giuridico, chiamiamo di «pubblico ministero». Egli è l'antagonista di Anania, ne smaschera la frode ed impedisce che questo attentato alla co­munione ecclesiale abbia effetti devastanti. Segue a raffica una serie di do­mande retoriche che non abbisognano di risposta: Pietro, come Gesù, legge nei cuori e ne svela i più reconditi segreti (cf Mc 2,8; Lc 6,8; 7,39; 22,2ls).

L'azione di Anania viene ricondotta alla radice di ogni malvagità, a Satana che si è impossessato del suo cuore. Invece di far posto allo Spirito, Anania ha aperto il suo intimo a Satana, al padre di ogni menzogna e di ogni sorta di inganno, ed ha mentito allo Spirito Santo (cf Gv 8,44). L'inganno e la frode sono direttamente contro lo Spirito che in Atti è considerato il fondamento dell'unità della chiesa raccolta attorno agli Apostoli (2,14-48; 4,31). Nello scontro in atto tra Pietro ed Anania si confrontano, in realtà, lo Spirito e Sa­tana. Mentre il cuore indiviso era il centro della comunità di coloro che veni­vano alla fede (4,32), Anania ha fatto sempre più spazio nel suo intimo a Sa­tana (5,3.4), padre del sospetto e della divisione.

Anania riteneva di imbrogliare solo gli uomini e invece mentiva a Dio stesso. Questa è l'unica affermazione dopo tante domande retoriche. Ne viene subi­to la condanna, non pronunciata direttamente, ma implicita nella affermazio­ne della menzogna a Dio. Anania è dunque il solo responsabile della sua tri­ste sorte, come ricorda la tradizione sapienziale: «Una lingua bugiarda odia la verità, una bocca adulatrice produce rovina» (Prv 26,28). Chi interviene ad eseguire la sentenza è solo Dio.

Il «timore grande» è la tipica conclusione lucana dei racconti di miracolo e di altri brani in cui si narra di un'epifania divina o angelica. Esso sorge quando un evento ultraterreno irrompe all'improvviso e misteriosamente nel mondo degli uomini, ponendoli a diretto contatto con il fascinoso e tremendo miste­ro di Dio (cf Lc 1,12.65; 2,9; 5,26; 7,16; At 2,43; 5,5.11; 19,17).

Dopo la tragica conclusione del destino di Anania, fanno la loro comparsa i più giovani dell'assemblea di fronte alla quale si è svolto l'accaduto, i quali intervengono a sgomberare la scena dal cadavere di Anania e prepararla per l'episodio successivo (v. 6).

I vv. 7-10 descrivono, in perfetto parallelismo, la sorte di Saffira, che non vie­ne menzionata col nome proprio, ma con l'appellativo di moglie che vive e muore all'ombra del marito, con il quale rimane complice fino in fondo. Saf­fira in accordo con Anania nel «tentare lo Spirito del Signore», subisce la sua stessa sorte e si ricongiunge a lui nella tomba. È interessante la duplice men­zione del «cadere ai piedi» nel v.10 (cf anche «i piedi» del v. 9), che richiama il «deporre ai piedi» l'importo di 4,35.37; 5,2. Il cadere di Saffira ai piedi di Pietro sembra ristabilire l'autorità degli Apostoli, che i due coniugi avevano tentato di misconoscere e ridicolizzare con la loro frode meschina. (4)

Il v. 11, in parte parallelo al v. 5b, funge da conclusione di tutto l'episodio. Il «grande timore», circoscritto in 5,5b alla sola assemblea, coinvolge adesso tutti coloro che vengono a conoscere l'accaduto. È la prima volta che in Atti l'assemblea dei credenti viene denominata ekklésia, nome che diverrà abitua­le nel seguito dell'opera per indicare l'essere insieme dei credenti (21 ricor­renze). La Chiesa è qui l'assemblea formata dagli spettatori attenti e silenzio­si del giudizio di Dio su Anania e Saffira.

Un po' di luce dal genere letterario

La punizione dei due coniugi ha per noi qualcosa di ripugnante e di estraneo allo spirito di Gesù, soprattutto perché non lascia spazio alcuno alla possibi­lità di pentimento in vista del perdono. Tutto sembra finalizzato a mettere in risalto il potere sovrano dell'apostolo Pietro nel giudicare ed infliggere anche una punizione mortale. Ad attenuare questa ripugnanza non serve molto nean­che rammentare quanto Gesù dice sul peccato contro lo Spirito (Lc 12,10) o a riguardo dei peccatori impenitenti (Lc 13,3.5). (5)

Per quanto strano l'episodio possa apparire, esso non è unico nel libro di At­ti (cf 13,4-12; 19,13-17, due brani sostanzialmente identici al nostro), né tan­tomeno nella letteratura biblica ed extrabiblica, dove possiamo trovare un am­pio repertorio. (6)

Questi racconti si possono inquadrare in un sotto gruppo del genere letterario delle narrazioni di miracolo, denominato comunemente come «miracoli di punizione» o «giudizio di Dio». (7) Sono brani che si compongono dei seguenti elementi narrativi: trasgressione, intervento verbale da parte dell'offeso o di un suo rappresentante, punizione del trasgressore, appello, mitigazione della pena. Nel nostro brano mancano i due ultimi elementi. Il nucleo di questi te­sti è costituito dal «superamento immediato e decisivo di un pericoloso attentato ai valori riconosciuti della comunità culturale e cultuale a cui il testo ap­partiene». (8)

Frequentemente questo genere letterario ha come suo Sitz-im-Leben (contesto sociale che dà origine ad una specifica forma espressiva) il sorgere e lo svi­lupparsi di nuovi culti o movimenti religiosi ed ha come scopo la polemica e la lotta all'ateismo, l'empietà o lo scetticismo. La colpa viene avvertita come un fattore che disturba ed infrange l'ordine costituito, disgrega le strutture e le certezze su cui è fondata la vita stessa della comunità. La punizione dura, ap­parentemente sproporzionata e perfino ingiusta, serve a ristabilire l'ordine violato, riaffermando i valori su cui si basa la vita della comunità.

Il nostro testo sottolinea, da un lato la trasgressione che ha qualcosa di radi­cale, perché tocca l'essenza del bene e del male, dall'altro lato l'estrema fa­cilità con cui l'ostacolo e l'attentato vengono superati ed annientati. Se l'at­tentato ha qualcosa di satanico, il suo superamento ha qualcosa di divino.

Un ruolo rilevante è ricoperto dall'intervento verbale dell'offeso o del suo rappresentante umano, che di solito assume una forma processuale, con la convocazione e l'interrogatorio dei colpevoli teso a far luce sulla trasgres­sione e sui moventi. Il nostro testo appartiene con certezza a questo genere, perché in esso viene presentato uno scontro frontale tra oppositori di Dio e Dio stesso.

Significato di At 5,1-11 nel contesto dell'opera

Ci si interroga, infine, sul senso di questo episodio all'interno del piano nar­rativo dell'opera lucana, teso a descrivere l'attuarsi inarrestabile del progetto salvifico di Dio che affonda le sue radici nella storia d'Israele ed ha il suo centro nell'evento Cristo, proclamato dagli Apostoli a tutte le genti.

Nella prima parte del Libro degli Atti (1,12-8,4) l'attenzione è puntata alter­nativamente sui rapporti esterni e su quelli interni alla primitiva comunità. I rapporti esterni sono caratterizzati costantemente dalla persecuzione, quelli interni invece sono connotati dai conflitti. (9) «At 5,1-11 è parte integrante di que­sta strategia compositiva: attraverso Pietro, Dio compie "segni e prodigi" (4,20.23; 5,12.15) per bloccare le tendenze disgreganti e perseverare l'unità della comunità/Israele credente (4,24.32 e 5,11.12) assicurando il "timore" di tutti (5,5.11.13) e la crescita costante dei credenti». (10)

Dietro la frode di Anania e Saffira è in azione Satana che è l'oppositore per eccellenza del piano salvifico di Dio. La sconfitta senza possibilità di rivinci­ta di Satana e dei sui agenti umani indica che non ci si può opporre al piano di Dio che agisce mediante lo Spirito nella storia degli uomini (cf l'espres­sione di Gamaliele in 5,38-39).

La vita della comunità, al di là delle idealizzazioni, è segnata dal pericolo di particolarismi e di egoismi. La storia di Anania e Saffira è uno splendido esempio di come Dio vigili affinché la comunità resti unita e non si scoraggi di fronte all'esperienza quotidiana di infedeltà e di tensione al proprio interno. Pietro assume in questo racconto il ruolo «antipatico» di ministro del giudizio divino e, grazie al prestigio di cui gode, è il sicuro punto di riferimento per la comunità minacciata dagli attacchi interni ed esterni.

Note

1) Cf G. STÀHLIN, Gli Atti degli Apostoli, Paideia, Brescia 1973, p. 155.
2) L. Tosco, Pietro e Paolo ministri del giudizio di Dio, EDB, Bologna 1989, p. 23.

3) J R. PESCH, Atti degli Apostoli, Cittadella, Assisi 1992, p. 255.

4) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 37.

5) Cf G. STÀHLIN, Gli Atti, cit., p. 159.

6) Cf Gn 19; Lv 10,1-5; Nm 11,1-3; 12,1-16; 14,1-12; 16,1-35; 21,4-9; Gs 7,1-8,29; 2 Sam 6,3-10; l Re 12,33-13,34; 2 Re 1,2-17; 2,23-24; Dn 13,52-59; ERODOTO, Hist. II, 111.

7) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 112.

8) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 119.

9) Cf G. BETORI, Perseguitati a causa del Nome, Roma 1981, pp. 20-50. IO L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 208.

10) Cf L. Tosco, Pietro e Paolo, cit., p. 208.

(da Parole di vita, 2, 1998)
Il discorso di Stefano
e la sua morte (At 7)

di Carlo Ghidelli


È risaputo che gli Atti degli Apostoli Luca li ha arricchiti di numerosi di­scorsi, tutti abbastanza lunghi e variamente articolati: essi costituiscono una sezione assai importante del libro, anche dal punto di vista quantitati­vo; non è lecito ignorarli se si vuole cogliere il disegno teologico generale di Luca.

La funzione dei discorsi nel libro degli Atti è nota a tutti: con essi Luca ci of­fre una interpretazione teologica di un evento storico particolare: la discesa dello Spirito, la guarigione dello storpio, la conversione di Cornelio e della sua famiglia, la conversione di Paolo, il Concilio di Gerusalemme, ecc.

Tra i discorsi cui abbiamo accennato ce n'è uno, quello di Stefano appunto, che si caratterizza in un modo del tutto singolare: anzitutto perché è il più lungo di tutti, e poi anche perché è tutto infarcito di citazioni veterotestamen­tarie. Ma le caratteristiche di questo discorso sono ben altre e vale la pena esplicitarle. In esso Stefano ripercorre le tappe principali della storia della salvezza (da Abramo a Giuseppe, da Mosè a Giosuè, da Davide e Salomone Gesù) e ne offre una rilettura teologica; d'altro canto, Stefano intesse una ve­ra e propria autodifesa, in riferimento ad alcune accuse relative alla Legge al Tempio (cf 6,11-14) per il quale subirà il martirio.

Per cogliere in pienezza il messaggio del discorso di Stefano, è assai utile considerare prima alcune notizie relative al personaggio e alla sua presenza nella Chiesa di Gerusalemme (cap. 6) e poi il modo col quale Luca riferisce della morte di lui (cf 7,54-60). Sono due sezioni narrative che fanno da corni­ce letteraria al discorso stesso; nello stesso tempo ci offrono il contesto stori­co dentro il quale il discorso è nato e vuole essere compreso.

La figura di Stefano è una delle più significative del Nuovo Testamento e lo è - lo dobbiamo dire esplicitamente - per il suo riferimento a Cristo Gesù. Come Gesù si è definito il «servo» per eccellenza (cf Lc 22,27), così Stefa­no è il primo dei sette aiutanti degli apostoli, addetti appunto al servizio (cf At 6,3). Come Gesù fu pieno di Spirito Santo (cf Lc 4,1.14; 10,21) per l'eser­cizio della sua missione, così Stefano è detto pieno di fede e di Spirito San­to (cf At 6,5) in funzione di ciò che va dicendo e testimoniando con la sua morte. Come Gesù è stato il martire per eccellenza (cf Lc 22,39-46), sulla scia dei martiri dell'Antico Testamento (cf 2 Mac 7,1-41), così Stefano coro­na la sua esistenza terrena con il martirio (cf At 7,51-54) e sarà chiamato il protomartire.

Stefano, uno dei «sette»

Come si diceva, le notizie storiche riferite da Luca nel capitolo 6 degli Atti so­no assai illuminanti per l'interpretazione del discorso di Stefano.

Anzitutto per i tratti della personalità di Stefano che Luca mette a fuoco con tutta chiarezza. Di lui, come degli altri sei, si dice che «era pieno di Spirito Santo e di sapienza» (6,3). Solo di lui si aggiunge che «era pieno di fede e di Spirito Santo» (6,5): nello stesso è posto in cima alla lista dei sette. Fede, Sa­pienza e Spirito Santo sono gli agenti divini che operavano in Stefano; sono altrettanti doni che Stefano ha ricevuto da Dio, nella luce e nella grazia del mistero pasquale; sono forse una chiave di lettura del discorso stesso.

Esso infatti è una lettura teologico-sapienziale della storia di Israele in fun­zione epifanica: la storia infatti, quando è interpretata con la lampada della fe­de, diventa epifania di Dio e delle sue intenzioni salvifiche. È la fede, solo la fede, che aiuta a riconoscere negli anfratti della storia una linea retta, conti­nua, ascendente, sulla quale si scagliarono gli interventi salvifici di Dio. È la fede che permette di intravedere la Sapienza di Dio anche nelle gesta, spesso insipienti, degli uomini. È la fede che educa all'ascolto della Parola di Dio che si nasconde sotto l'involucro delle parole umane. È la fede che ci dona il sesto senso per percepire la presenza dello Spirito Santo nei meandri della storia umana che, di primo acchito, sembrerebbe caratterizzata solo dalla pre­senza del peccato e del male.

Il capitolo 6 degli Atti ci informa anche sui motivi per i quali Stefano è stato dapprima arrestato e poi lapidato. Sostanzialmente sono due, ribaditi con in­sistenza: «Noi lo abbiamo sentito bestemmiare contro Mosè e contro Dio […]. Costui continua a parlare contro questo luogo santo, il tempio, e contro la Legge» (6,11.13). Ma, al di là di Stefano, i suoi accusatori mirano a colpire ancora una volta Gesù. Infatti proseguono con queste parole: «Lo abbiamo sen­tito dire che quel Gesù, il Nazareno, distruggerà questo luogo e cambierà le tradizioni che ci ha dato Mosè» (6,14).

Nulla di più sacro della Legge, nulla di più venerando del Tempio: per Mo­sè, per Gesù e per Stefano. Ma a condizione che ambedue, la Legge e il Tempio, siano considerati, non in se stessi, isolati e quasi ipostatizzati, ma dentro il progetto di Dio, nella sequenza dei tempi (dall'Antico al Nuovo Testamento) e dei modi (dal tipo all'antitipo), secondo i ritmi di una rivela­zione progressiva, che sottende una istanza pedagogica. Chi non entra in questa logica finisce col precludere a se stesso ogni possibilità di compren­sione di ciò che, per mezzo della Legge e del Tempio, Dio voleva rivelare; fi­nisce col fermare il corso dei tempi e non riesce più a riconoscere «il tempo» (kairós) di Dio, il giorno della salvezza; finisce col materializzare e cosifica­re istituzioni che, secondo la mente, hanno la funzione di annunciare e pre­parare (e di rimandare a) realtà e persone future, il cui avvento realizza in pienezza il significato di quelle.

Questa dinamica va tenuta presente quando si considera il rapporto tra l'An­tico e il Nuovo Testamento, quando nella luce della nuova alleanza si vuole ricuperare il senso (nella duplice accezione di significato e di orientamento) dell'antica. L'errore degli accusatori di Stefano consiste proprio in questo. Del resto Stefano non inventa nulla di nuovo, ma si manifesta come un fedele discepolo di Gesù che i Vangeli presentano appunto come maestro anche sotto questo profilo. Si veda, per limitarci all'opera lucana, Lc 16,16, un tesi fondamentale per questa problematica. (2)

Infine, il capitolo 6 degli Atti ci sollecita a stabilire un confronto tipologico tra Stefano e Mosè. Infatti di Stefano, si dice che i presenti «puntarono gli occhi ­su di lui e videro il suo volto raggiante come quello di un angelo» (6,15), cer­tamente per la gloria di Dio che rifletteva sul suo volto (cf 7,55s), proprio co­me Mosè che discendendo dal monte Sinai aveva il volto splendente (cf Es 34,29-35 e 2 Cor 3,7-18). Questo rapporto tipologico (il tipo è Mosè, l'antiti­po è Stefano) si rivela perciò come il metodo esegetico fondamentale per in­terpretare non solo il discorso di Stefano, ma tutta la sua storia. La sua perso­na, prima ancora che le sue parole, richiede di essere valutata al di là della sua consistenza storico-esistenziale per relazionarla ad una realtà superiore (un mistero) a fronte della quale Stefano si pone come segno, come simbolo e come rimando.

La dinamica del discorso

Alla luce delle osservazioni fatte è possibile definire il genere letterario de discorso di Stefano? Ci sono elementi sufficientemente chiari per caratteriz­zarlo in modo inequivocabile? La risposta a questi interrogativi la vogliamo chiedere solo al testo, così come Luca l'ha scritto e tramandato.

A prima vista, considerando l'incipit, del discorso, sembrerebbe che quella Stefano sia una espressione piana e lineare delle principali vicende storiche Israele, per se stesse interessanti e significative: «fratelli e padri, ascoltatemi!» (7,2). I due vocativi non lasciano trasparire alcuna vis polemica. Ma le cose non stanno proprio così. Per sapere se c'è un filo rosso all'interno di queste memorie, un filo che le collega fra di loro e le orienta verso uno sbocco fina­le, occorre analizzare attentamente il discorso che Stefano avrebbe proclama­to pochi istanti prima di subire il martirio. Dico «avrebbe proclamato», non per negare il fatto storico, ma per alludere al genere letterario adottato da Lu­ca e che non è lecito passare sotto silenzio. È un genere ben noto alla lettera­tura antica, sia profana che sacra. Per quanto attiene la Bibbia basti ricordar il discorso di Mosè prima della sua morte (cf Dt 33,1-34,12) o i cosiddetti ­discorsi di addio di Gesù (cf Gv 13-17) e il discorso di commiato di Paolo agli anziani di Efeso (cf At 20,17-38).

Particolarmente illuminante e istruttivo risulta il discorso della madre dei set­te fratelli Maccabei con il quale ella esorta i suoi figli ad affrontare con fede e con coraggio la prova del martirio (cf 2 Mac 7,20-29). Una vera e propria madre-coraggio, la cui fede si traduce in lucida chiaroveggenza e si comuni­ca ai figli in termini di coraggiosa testimonianza. È questo il dettaglio degno di essere sottolineato: l'accusa di Stefano risulta particolarmente pungente ed efficace per questa luce che si sprigiona non tanto dalle sue parole, quanto dalla parola di Dio scritta, da lui riletta e interpretata. In questa luce la requi­sitoria contro Israele che ha sempre resistito allo Spirito (che parlava attra­verso Mosè e per mezzo dei profeti, cf 7,52) e contro coloro che accusano e stanno per condannare a morte Stefano e oppongono resistenza allo Spirito Santo (che parla attraverso Gesù e per mezzo di colui che stanno uccidendo), non è propriamente la requisitoria di Stefano, quanto quella di Dio. Questo discorso si pone in perfetta sintonia con quelli di molti profeti (cf Ez 33,23-­34,16; Os 2,4-15; Am 2,6-3,2): Stefano parla sorretto da un autentico spirito profetico.

Tornando all'analisi del discorso di Stefano, possiamo fare i seguenti rilievi di critica letteraria. Anzitutto: l'arco di storia considerato va dalla vocazione di Abramo (Gn 12,1ss) alla missione di Salomone (1 Re 6,1-14). Ciò che risulta evidente fin dall'inizio è che Stefano va considerando alcuni momenti crucia­li della storia del popolo eletto. Elenchiamoli:

a) Il Dio della gloria chiama Abramo e gli ordina di andare verso la terra, ma non gli dà alcuna proprietà in quel paese; gli promette di darlo in possesso al­la sua discendenza dopo di lui, ma questa sarà pellegrina in terra straniera (7,2-7).

b) Anche Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe, per gelosia è venduto dai fratelli e va schiavo in Egitto, terra-granaio ma pur sempre terra straniera, do­ve si reca lo stesso Giacobbe (7,8-16).

c) L'Egitto costituisce ancora un teatro della vicenda di Mosè (7,17-29) e non è più solo paese straniero, ma anche terra di persecuzione e di afflizione. 

d) Mosè dà inizio alla sua missione liberatrice: egli porta la salvezza (v. 25), è capo e liberatore (v. 35), opera segni e prodigi (v. 36), è posto tra Dio e gli uomini (v. 38) ma essi non compresero (v. 25), gli contestano ogni superiorità (v. 27); Mosè è costretto a fuggire in un'altra terra straniera, a Madian (v. 29).

e) Finalmente inizia la missione liberatrice di Mosè (7,30-43) con la teofania del roveto ardente e l'investitura da parte di JHWH (v. 34), e si delinea la frui­zione della terra promessa al termine dei quarant'anni passati nel deserto (v. 36), ma «i nostri padri - continua Stefano - non vollero dargli ascolto, lo respinsero e si volsero in cuor loro verso l'Egitto» (v. 39). La terra rimane promessa: il popolo eletto preferisce l'Egitto con le sue idolatrie.

f) Posto di fronte alla scelta idolatrica di Israele JHWH «si ritrasse da loro e li abbandonò al culto dell'esercito del cielo» (v. 42), ed ecco che per loro, se­condo la parola del profeta Amos, si delinea la deportazione al di là di Babi­lonia (v. 43): l'avventura del popolo eletto - per una terra tutta sua, nella qua­le scorre latte e miele - continua in terre straniere, luogo di solitudine e di af­flizione.

g) Dopo l'amara esperienza dell'Egitto e la prospettiva della Babilonia, ecco il periodo storico del deserto: nella sua continua itineranza Israele si costrui­sce «la tenda della testimonianza» come segno della presenza di JHWH che protegge e difende il suo popolo (v. 44). Ma non poterono stabilirla in un luo­go: «se la portarono con sé nella conquista dei popoli», cioè di battaglia in battaglia, ancora lontani dalla pace (shalom), frutto della piena comunione con il Signore.

h) Tutto questo fino ai tempi di Davide e di Salomone: il primo «domandò di poter trovare una dimora per il Dio di Giacobbe», mentre il secondo «gli edi­ficò una casa» (vv. 45-47). Ma - aggiunge subito Stefano - «l'Altissimo non abita in costruzioni fatte da mani d'uomo» (v. 48) e a conferma della sua af­fermazione riporta la profezia di Is 66,1-2.

Abbiamo messo a fuoco ben otto momenti cruciali della storia di Israele, tut­ti caratterizzati dalla stessa problematica: Israele è scelto come popolo per una terra, la terra promessa; egli è il felice destinatario di questa te scelta dal suo Dio; ne è il titolare, potremmo dire. Ma la sua storia si snoda terre straniere: è un destino ben strano, quello di Israele, ma induce a pensare per comprendere, a riflettere per accettare il disegno divino soggiacente Parimenti Israele ha sempre desiderato un luogo, una città nella quale elevare una casa per JHWH: sintomatica, a questo proposito, la variante di 7,7 dove citando Gn 15,13-14 al posto di «mi adoreranno su questa montagna», Stefano dice «in questo luogo», cioè Gerusalemme e il tempio. Ma, come abbiamo già rilevato, alla fine Stefano affermerà solennemente che Dio «non abita in costruzioni fatte da mano d'uomo» (7,48).

Rileviamo ora altro dato letterario. Il fatto che la parte centrale del discorso Stefano - che è anche la sezione più articolata - sia dedicata alla figura e al­la missione di Mosè fa nascere un sospetto, che vale la pena di coltivare. Il sospetto consiste in questo: Stefano non ha forse privilegiato questo periodo della storia di Israele proprio per la sua estrema drammaticità, che è contras­segnata dalla schiavitù dell'Egitto, dalla persecuzione del Faraone e dall'ido­latria? Certo vi si inseriscono anche la grande liberazione, l'epopea dell'eso­do e il dono della rivelazione, ma il dramma rimane in tutto il suo spessore. Innegabilmente vi è un dramma nel grande dramma: ed è l'ostinazione di Israele a non comprendere, la resistenza di Israele alla vera conversione a Dio, il rifiuto di Israele all'ascolto della parola di Mosè, quindi, all' acco­glienza della parola di Dio.

A ben considerare, si evidenzia un duplice contrasto nel corso della vicenda di Mosè: da un lato, la vocazione e la missione di Mosè e il primo «ma»: «m essi non compresero» (v. 25); dall'altro l'inizio dell'azione liberatrice di Mo­sè e il secondo «ma»: «Ma i nostri padri non vollero dargli ascolto, lo respin­sero ... » (v. 39).

Alla fine emerge un altro grande contrasto, di segno opposto: sono i padri Davide e Salomone a realizzare il progetto di dare una casa a JHWH, «ma l'Altissimo - dichiara Stefano con pari fermezza e chiarezza - non abita in costruzioni fatte da mani d'uomo» (v. 48). Su questi grandi contrasti, che rag­giungono il loro climax nell'ultimo, sta ancorata la requisitoria di Stefano, la quale pertanto desume tutta la sua validità e la sua forza da una rilettura teologico-sapienziale dell'Antico Testamento.

Con le ultime battute del discorso (7,51.53), se mai ce ne fosse bisogno, l'in­tenzione di Stefano si manifesta ancor più chiaramente. Egli denuncia nei suoi avversari una duplice malattia spirituale: la sclerocardia e la otoporosi. Infatti essi hanno il cuore insensibile e gli orecchi sordi. (3) Fuori metafora, gli accusatori di Stefano, in perfetta linea con i loro padri, stanno opponendo re­sistenza allo Spirito Santo per l'ennesima volta. Essi non resistono a Stefano, ma allo Spirito Santo: sta qui il loro vero dramma, tanto più grave quanto meno essi se ne avvedono.

«Come i vostri padri, così anche voi»: in questa espressione, così brachilogi­ca ed icastica, c'è tutta la vis polemica del discorso di Stefano; in essa co­gliamo pure l'epilogo drastico e inappellabile della sua rilettura biblica. Ste­fano, in altri termini, ci invita a considerare come nella Bibbia alla historia salutis si intrecci sempre anche una historia peccati. Egli ci offre una sicura chiave ermeneutica di tutto ciò che nella Bibbia sta scritto per la nostra istruzione (cf Rm 15,4), per ammonimento nostro (cf 1 Cor 10,11), essendo stata ispirata «per insegnare convincere, correggere e formare alla giustizia» (2 Tm 3,16). Stefano ci offre un metodo serio e applicato per mettere in atto una lec­tio divina che non si limiti ad essere un esercizio accademico o una ricerca astratta, ma che porti decisamente all'actio, cioè al discernimento fattivo e al­la conversione.

È già questa una pista di ricerca per l'attualizzazione del messaggio che si sprigiona dal discorso di Stefano: non basta infatti l'avere ricevuto la legge, sia pure per mano degli angeli (v. 53); occorre osservarla. (4)

A questo punto è più che evidente il genere letterario del discorso di Stefa­no: si tratta di una diatriba serrata e costringente, nella quale Stefano impe­gna non il suo ingegno personale o la sua capacità strategica. Si tratta di una requisitoria puntuale e motivata, nella quale Stefano esprime non un parere personale o una motivazione razionale, ma l'insegnamento costante e pe­rennemente valido della parola profetica. Si tratta, a ben considerare, di una lunga e amara lamentazione, nella quale Stefano dà sfogo non ad una sua valutazione, ma all'amarezza di Dio. Si tratta dunque di un caloroso e vi­goroso appello - anche se realisticamente non si può pensare che Stefano avrebbe potuto sfuggire al loro proposito omicida -, nel quale Stefano non esprime una sua previsione sullo sviluppo della vicenda, ma l'invito di Dio stesso.

Una morte pasquale

Nella morte di una persona si manifesta sempre la sua verità, come spesso l'esistenza terrena ne cela il valore profondo. Se questo è vero di noi, lo è an­che - e a maggiore ragione - di Stefano. Non solo la morte di lui, come di ogni martire, è il suo vero dies natalis, ma sulla scia di Gesù - che per Luca è il martire per eccellenza (cf Lc 22,39-46) - è anche il suo dies paschalis. Ecco gli elementi che caratterizzano la morte di Stefano:

- «Fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù alla sua destra» (v. 55s): vedere la gloria non è altro che entrare in comunione definitiva con Dio. Ciò significa che il morire per Stefano coincide con il suo entrare nella vita che non ha termine. Il martire raggiunge la meta tanto desiderata. Vedere Gesù, il Figlio dell'uomo, che sta alla destra di Dio non è solo una professione di fede nella divinità di Gesù di Nazaret, ma è anche espressione di speranza che già si realizza nell'incontro con il Salvatore. Il martirio acco­muna i due - Gesù e Stefano - nella condivisione della gloria di Dio. Il Padre.

- «Signore Gesù, accogli il mio spirito» (v. 59): come Gesù morì in un gesto di totale abbandono al Padre (cf Lc 23,46), così Stefano muore affidandosi to­talmente a Gesù il Signore. In questa descrizione lucana della morte di Stefa­no possiamo rilevare non solo una chiara volontà di presentare il primo mar­tirio come imitazione della morte di Gesù, ma anche quella di caratterizzare il martirio come il momento dell'incontro definitivo tra il discepolo e il Mae­stro, tra il servo e il Signore, tra il salvato e il Salvatore. Qui fa capolino la di­mensione mistica del martirio.

- «Signore, non imputare loro questo peccato» (v. 60): come Gesù morendo ha invocato perdono dal Padre per i suoi persecutori (cf Lc 23,34), così Stefano muore chiedendo a Gesù, il Signore, di non considerare il peccato che i suoi avversari stanno per commettere. Ancora una volta, Luca non intende solo ribadire il fatto che la morte di Stefano si realizza sul modello della mor­te di Gesù, ma vuole esprimere anche il fatto della partecipazione del primo martire all'opera redentrice del Salvatore. Il perdono è la via ordinaria per es­sere riammessi alla condivisione del dono che è la salvezza: chi muore per­donando dimostra di essere martire in pienezza e con questa preghiera mani­festa di essere in piena sintonia - sarebbe meglio dire sim-patia - con il suo Signore.

Una morte come quella che abbiamo or ora considerato costituisce, forse, il miglior commento al discorso di Stefano che abbiamo precedentemente ana­lizzato.

Alcuni rilievi conclusivi

Ci sono alcune perle, in questo discorso lungo e apparentemente anodino, che vorrei cogliere e proporre alla comune attenzione: serviranno ad apprezzare l'arte - ad un tempo narrativa e discorsiva - di Luca e quindi a valorizzare l'opera.

a) Anzitutto il chiaro nesso tra diaconia e martyria, tra servizio e martirio: non c'è dubbio che Luca ha valuto affidare alla comunità cristiana primitiva un chiaro messaggio e lo ha fatto presentando Stefano come il modello di questa armoniosa sintesi. Chi si mette alla scuola del Vangelo e vuole perse­verare in essa, sa che non è possibile separare martirio e servizio: ogni mini­stero, se è concepito nel suo profondo dinamismo pasquale come espressione del sacrificio gradito a Dio, è, a suo modo, martirio quotidiano, trasmette una testimonianza forte ed efficace. Chi è fedele a questa spiritualità diaconale viene sempre più assimilato a Cristo Gesù, il servo per eccellenza (cf Lc 22,27) e il martire per antonomasia (cf Ap 1,5) e comprende di essere chia­mato non ad essere servito, ma a servire (cf Mt 20,28), non a sistemarsi nella Chiesa, ma ad essere inviato.

b) In secondo luogo il rapporto tra istituzione ed avvenimento, un rapporto che illumina anche la nostra storia. È ricorrente infatti la tentazione di fissare in un certo tempo e in un certo luogo un messaggio di liberazione che di sua natura supera ogni epoca ed ogni territorio. È assai diffuso il pericolo di vo­ler privatizzare un dono che di sua natura è di destinazione universale. Stefa­no si sente investito di questo compito: dilatare gli spazi della carità rompen­do i vincoli del particolarismo; agire gli orizzonti della vera fede superando le chiusure di una mentalità nazionalistica; rilanciare i tempi di Dio facendo esplodere quelli degli uomini. Ogni volta che fissiamo una istituzione sia pure religiosa, sottraendola al di­namismo della storia della salvezza e piegando la alle nostre miopie persona­li - Dio non voglia alle nostre logiche di occupazione e di estromissione - noi ci opponiamo al metodo pedagogico divino, noi mortifichiamo l'avvenimen­to e lo condizioniamo alle nostre strategie umane, noi pretendiamo di ferma­re la storia e finiamo col resistere allo Spirito di Dio, che è sorgente e dono di libertà, pagata a prezzo di sangue.

c) Viene poi la relazione tra evangelizzazione e polemica: il discorso di Ste­fano sta a dimostrare che c'è modo e modo di fare polemica, di entrare in po­lemica con qualcuno. C'è infatti una polemica - non solo verbale - che tende all'autodifesa e questa, ancorché legittima, non ha alcuna funzione sociale, non serve alla crescita della comunità. C'è anche una polemica - non solo in­dividuale - che tende all'affermazione di un principio o al recupero dell'ono­re e questa, pur essa legittima e doverosa, non sempre ha una ricaduta eccle­siale. Ma c'è anche una polemica che tende alla difesa della verità e come ta­le supera ogni orizzonte egoistico, e si pone - costi quello che costi - a servi­zio, degli altri, perché a tutti sia possibile vedere e giudicare, fino a discerne­re il vero dal falso, il bene dal male. Se è necessario - cioè se, come nel ca­so di Stefano, le circostanze lo impongono - la polemica si rivolge diretta­mente agli interlocutori allo scopo non di umiliare o di separare, ma solo per risvegliare la coscienza di fronte alla novità di Cristo e quindi per sollecitare alla conversione. Allora la polemica si trasforma in testimonianza la quale sulla scia di Cristo, il testimone fedele (Ap 1,5), può implicare un vero e proprio martirio, fino al­la effusione del sangue. (5)

d) Infine torna conto riflettere sul rapporto tra Stefano e Saulo (cf At 8,1-4; 22,4; 26,9-11): non c'è alcun dubbio che la conversione di Saulo (At 9,lss) sta in relazione con il martirio di Stefano, dato che egli stesso - quando sta per difendersi di fronte ai tribunali pagani - fa esplicito riferimento alla furia con la quale egli perseguitava la Chiesa e suoi rappresentanti. Si inaugura così una catena di testimoni di Cristo, nella luce della Pasqua e della pentecoste: veramente il sangue dei martiri diventa seme di cristiani. La Chiesa nasce an­che in grazia del sangue dei testimoni di Cristo: il sangue di Stefano, insieme a quello di Cristo (cf Lc 22,44), provoca la conversione di Saulo che si perfe­zionerà essa pure con la grazia del martirio (cf At 20,22): «Alzati e mettiti in piedi - gli disse il Signore nel momento della sua conversione -; io ti sono apparso per costituirti ministro e testimone (martyr) di quelle cose che hai vi­sto di me e di quelle per cui ti apparirò» (At 26,15).

Note

1) Stefano la qualificherà come «parole di vita» al v. 38.
2) «Secondo Luca - si legge nel commento della TOB -, a differenza di At 11,12, Giovanni il Battista appartiene ancora all'AT. È un tempo ormai finito».

3) Ricordiamo, en passant, che anche Gesù aveva rivolto ai suoi avversari l'accusa della scle­rocardia e ai suoi discepoli quella della cardioporosi (cf Mt 19,8 e Mc 6,52; 8,17).

4) Proprio come - secondo l'insistenza tipicamente lucana - aveva affermato Gesù: «II seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfet­to, lo custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza» (Lc 8,15). E subito dopo, di rincalzo: «Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21; cf anche 11,28).
5) In questa luce, At 20,28 può essere tradotto così: «Lo Spirito Santo vi ha costituito come ve­scovi per essere pastori della Chiesa di Dio, che egli si è acquistato con il sangue del suo fi­glio».

(da Parole di vita, 2, 1998)



Spiritualità ecumenica

Dimensione permanente per i discepoli di Gesù

di Mario Polastro




Il testo fondamentale che motiva l’attività ecumenica è la preghiera d’addio di Gesù quando, alla vigilia della sua passione, chiede al Padre che i suoi discepoli siano una cosa sola. La ”spiritualità ecumenica” non consiste nel nostro darci da fare o nell’aggiungere “‘azioni spirituali” ad altre di diversa natura, ma nel rispondere al comando del Cristo.

“Una spiritualità cristiana biblica è essenzialmente una comunione di vita con Gesù Cristo crocifisso, risorto e presente con il suo Spirito nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali. Egli vuole che noi facciamo tutto il possibile per superare le divisioni tra i cristiani e ritrovare l’unità visibile nella fede, nei sacramenti e nei ministeri ecclesiali. La principale motivazione per l’attività ecumenica non risiede nel nostro discernimento umano, per quanto rilevante, ma unicamente nella volontà di Gesù Cristo il quale, alla vigilia della sua passione ha pregato per i suoi discepoli, affichè essi fossero una cosa sola. La motivazione di una spiritualità ecumenica deve dunque essere “cristologica” e non soltanto “filantropica”. Il testo fondamentale. di una spiritualità ecumenica deve essere la preghiera d’addio di. Gesù, [...] l’inesauribile testo di Giovanni 17» (Il regno-documenti, 21(2003), p. 661).

Mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è fondamentale per impostare in modo corretto il discorso sulla “spiritualità ecumenica”.

Antidoto all’attivismo

Perché “spiritualità ecumenica” e non “ecumenismo spirituale’”? Unitatis redintegratio 8 parla di «ecumenismo spirituale» nel contesto del capitolo Il, “Esercizio dell’ecumenismo”. Stando alle affermazioni così come suonano, sembra quasi che si tratti di “azioni spirituali” le quali si aggiungono ad altre di diversa natura (ecumenismo teologico, ecumenismo della carità, ecumenismo del dialogo, ecc.).

In realtà sono tutti d’accordo, a partire da Paul Couturier, dal concilio Vaticano Il e oltre, che la “spiritualità ecumenica” non consiste nell’aggiungere qualcosa a ciò che si fa già, ma nel dare a “quello che siamo e che facciamo” la dimensione dell’anelito all’unità, in risposta alla preghiera e al comando di Gesù. Ecco allora l’importanza della citazione iniziale; è del vescovo di Basilea (Svizzera) Kurt Koch, il quale ha tenuto un’importante relazione sulla “Spiritualità ecumenica” nell’assemblea plenaria del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, presieduto dal cardinale Walter Kasper (2003). Lo stesso Kasper, parlando dell’”Ecumenismo in un prossimo futuro”, indica tre compiti fondamentali:

• approfondire il tema del battesimo e della fede battesimale;

• far crescere l’ecumenismo con documenti e azioni, ma anche e soprattutto attraverso una “rete ecumenica” di amicizie;

• coltivare la “spiritualità ecumenica” come antidoto al solo “attivismo”... . nella consapevolezza che l’unità è dono dello Spirito, che può solo essere invocato nella preghiera; la conversione personale; la lettura e la meditazione comune delle Scritture, la rete di comunità oranti sparse nel mondo... sono semi da gettare nel solco fumante della storia.

C’è un aspetto della “spiritualità ecumenica” al quale si bada troppo poco: nell’avvicinamento, nell’incontro e nel confronto con “l’altro”, la diversità può diventare “ricchezza”, ma qualche volta può anche diventare “sofferenza”, in quanto sono chiamato a cambiare, a purificarmi, a compiere quella continua “trasformazione di me”, che richiede sacrificio, ma che comporta anche tanta gioia. E’ quella che viene detta «ermeneutica dell’apprendimento e della sofferenza» (Kurt Koch).

Certo, l’ecumenismo nella Chiesa cattolica romana (come d’altronde nelle altre Chiese) ha ormai una lunga storia... di esperienze, di riflessione, di dialogo. E questo vale anche e soprattutto per la “spiritualità ecumenica”, che si presenta come frutto maturo proveniente dai tempi di padre Paul Couturier (morto nel marzo 1953). Il dibattito conciliare ha fatto la sua parte, ma soprattutto “il vissuto ecumenico” ha aperto le vele al vento dello Spirito.

Verso la comunione piena

Sono parroco da molti anni, e per la mia comunità parrocchiale l’ecumenismo non è un’appendice dell’attività pastorale, ma è una dimensione permanente del nostro essere “discepoli di Gesù”. Per cui il pastore valdese, che viene a predicare la liturgia penitenziale e che chiede con grande fede di poter ricevere la comunione eucaristica, non stupisce ma edifica, non ingenera confusione ma ci aiuta a pregustare la gioia della “comunione piena”, che sta al centro... o al vertice della “spiritualità ecumenica”. Anche le coppie interconfessionali, con cui lavoro da 40 anni circa, sono una fucina di” spiritualità ecumenica”. Sempre più hanno preso coscienza del loro essere “chiesa domestica”, “unite nel battesimo e nel matrimonio”, “nutrite quotidianamente dalla preghiera e dall’amore sponsale”: ma, ahimé, divise (secondo la Chiesa) alla mensa del Signore.

Alcune coppie non possono più attendere e, spinte dalla “grave necessità spirituale”, fanno la comunione insieme senza peraltro staccarsi dalle rispettive Chiese, ma andando “oltre” le discipline ecclesiastiche. E lo Spirito attraverso i piccoli incoraggia a proseguire il cammino. E’ festa. Chiara fa la prima comunione. Papà è cattolico, mamma è protestante. Tutti si avviano alla mensa e la mamma rimane nei banchi. Chiara va, prende il pane di Gesù, che è il suo corpo e il suo sangue, lo rompe... metà lo prende lei e metà lo dà alla mamma. Stupore e commozione. Se non è spiritualità ecumenica questa, cos’altro possiamo invocare dal Signore?!

Ti rendo grazie, o Padre, perché tu riveli le cose grandi ai piccoli (cf Mt 11,25) come Chiara.


* Presbitero di Pinerolo (To)


(da Vita Pastorale, dicembre 2005)


BIBLIOGRAFIA

Couturier P., Ecumenismo spirituale (a cura di M. Villain), Ed. Paoline 1965, pp. 370; Pattaro G., Corso di teologia dell’ecumenismo, Queriniana 1985, Brescia, pp. 436; Cullman O., L’unità attraverso la diversità, Queriniana 1987, Brescia, pp. 138; Sartori L., L’unità delta Chiesa. Un dibattito e un progetto, Queriniana 1989, Brescia, pp. 230; Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani, La spiritualità ecumenica. Contributi di W. Kasper e di K. Koch: Il regno-documenti, 21(2003), pp. 653-664.

Mercoledì, 26 Marzo 2008 23:46

Il sacramento della riconciliazione

Per intendere rettamente questo sacramento, detto anche sacramento della penitenza, occorre una valutazione secondo la fede di ciò che chiamiamo peccato. Esso è l’evadere consapevolmente e liberamente la vincolante volontà di Dio, è il no superbo ed egocentrico al Creatore e ai suoi ordini. Esso significa aprire una separazione tra il Creatore e la creatura.

Le alternative per un nuovo ordine mondiale

Johan Galtung

Gli imperi vengono, gli imperi vanno. Nessun impero è eterno. Potremmo definire un impero come un insieme articolato di conquiste militari, dominio politico, sfruttamento economico e penetrazione culturale. Non c'è solo una dimensione economica.

Un famoso pianificatore del Pentagono (Ralph Peters, colonnello dell' Esercito americano durante gli anni '80 e '90, ndr), ha affermato che il fine delle Forze armate degli Stati Uniti sia quello di rendere il mondo sicuro per favorire l'interesse commerciale e l'offensiva culturale americana, aggiungendo: "Toward this end there will be a fair amount of killing" ("Per questo scopo avremo un numero non trascurabile di morti"). Per questo, a partire dal secondo dopoguerra, in seguito a 70 interventi militari, gli Stati Uniti si sono resi colpevoli della morte di un numero di persone compreso tra 12 e 16 milioni.

UNA NUOVA TEORIA

Io non sono antiamericano: sono contro l'imperialismo americano, e quindi contro la guerra che provoca. Nel 1980 ho sviluppato una teoria sulla fine dell'impero sovietico che aveva come fondamento la "sinergia delle contraddizioni sincronizzate" e che prevedeva il crollo dell'Urss entro 10 anni, preceduto dalla caduta del muro di Berlino. Nell'ex-Unione Sovietica erano presenti sei contraddizioni sincronizzate: quella tra l'Unione Sovietica stessa e gli Stati satelliti, tra la nazione russa e le altre nazioni dell'impero, tra aree urbane e rurali, tra borghesia socialista e classe operaia socialista, tra liquidità e mancanza cronica di beni di consumo, tra miti e realtà. E' possibile che un sistema possa dominare con le baionette una contraddizione, ma quando tutte crescono e tra di loro si crea una sinergia, allora bisogna cambiare il sistema per evitarne il crollo. Due mesi prima rispetto alla mia previsione, nel novembre del 1989, e' stato abbattuto il muro di Berlino; subito dopo si e' smembrato l'impero sovietico. Al momento gli Stati Uniti hanno ben 15 contraddizioni. Cinque anni fa, nel 1999, ho azzardato che l'impero americano non sarebbe andato oltre il 2025. Da quando e' stato eletto Bush, ho ridotto di cinque anni questa previsione: nelle teorie sistemiche ciò si chiama "acceleratore di sistema".

GOLPE FASCISTA O PROCESSO DI VERITÀ?

Quando tra quindici o venti anni un presidente americano dichiarerà alla televisione che gli Stati Uniti ritireranno le proprie truppe di occupazione, elimineranno tutte le loro basi militari dislocate all'estero, e parteciperanno alle Nazioni Unite come uno Stato uguale a tutti gli altri, allora potremo prevedere due cose: o che toglieranno il collegamento durante il suo intervento, o che ci sara' un golpe militare fascista. Cio' e' possibile. Siamo stati vicino a questo negli anni '30, durante la presidenza Roosevelt. Cio' che dobbiamo fare fin da ora, e' insegnare al popolo americano i valori dell'uguaglianza, far capire loro che non esistono popoli scelti, che viviamo tutti sullo stesso pianeta e che insieme possiamo migliorare le cose. Per fare questo c'e' bisogno dell'Onu, non dominata da una sola potenza e nemmeno da un Consiglio di sicurezza dotato di poteri esclusivi. Gli americani non colgono il nesso strettissimo tra economia e guerre. Sono convinto che negli Usa ci sia bisogno di un processo pubblico di verità e riconciliazione. E' importante ricordare che l'emancipazione dei cittadini tedeschi dall'eredità del passato nazista, e' avvenuta proprio in seguito a un percorso analogo che essi hanno compiuto non soltanto grazie all'ammissione delle proprie colpe, ma anche grazie alla pubblicazione di testi scolastici in cui la parola "Auschwitz" ricorre molto spesso. In questo modo le generazioni che si sono succedute hanno avuto la possibilità di capire e di imparare. Una scossa positiva negli Stati Uniti favorirebbe il processo di liberazione che sta avvenendo, ad esempio, in America latina, processo che vedo destinato a sfociare nella costituzione degli Stati Uniti dell'America latina, una nuova entità istituzionale e politica, ma senza la bomba atomica.

UN MODELLO FEDERATIVO PER AFRICA E MEDIO ORIENTE

L'idea di Abramo di indicare una terra promessa per un popolo eletto e' interessante, ma, come dicono gli arabi, nessuno ha firmato questo patto, né esiste una registrazione o un rapporto stenografico che lo attesti. Credo nella legittimità dell'esistenza di uno Stato israeliano e di uno palestinese, ma non ritengo che la soluzione dei "due popoli, due stati" sia la migliore. Oltre a un "bilancio militare" esiste anche un "bilancio di pace". Israele e' troppo forte, la Palestina troppo debole. Dovremmo piuttosto pensare a un modello federativo, a creare cioè una comunità di Paesi mediorientali, di cui facciano parte uno Stato palestinese riconosciuto, Israele, Siria, Libano, Giordania e Egitto, e in cui proprio le nazioni arabe possano rappresentare un legittimo contrappeso rispetto a Israele.

Dopo mille anni senza traccia alcuna di una cultura delle sinergie, questa soluzione permetterebbe, sul modello della Comunità europea del 1958, l'affermazione di un'economia cooperativa, confini aperti per la libera circolazione delle persone, oltre che degli investimenti, nell'intera regione. Del resto, la pace in Europa occidentale non si e' fatta sulla base di un trattato tra Germania e Lussemburgo. E' stato creato un contrappeso alla Germania, ed esso era rappresentato da Olanda, Belgio, Lussemburgo, Francia e Italia.

Ho tenuto moltissimi seminari, conferenze, incontri in Medio Oriente, e ho accumulato una lunga esperienza da cui ho tratto insegnamenti preziosi. Occorre agire dal basso, coinvolgendo in modo ampio e costante quante più persone e gruppi possibili della società civile della regione, perché discutano tra loro sul Medio Oriente in cui vorrebbero vivere. La pace sta nel futuro, non in un dibattito senza uscita sulle colpe del passato.

Il modello federativo che ho proposto per il Medio Oriente vale anche per l'Africa centrale. Qui, dove e' molto forte il peso dell'imperialismo europeo, vedo infatti la possibilità della costituzione di una confederazione bioceanica che comprenda Tanzania, Uganda, Rwanda, Burundi, RdCongo e Congo Brazzaville. Parlo di una confederazione con confini aperti, dall'Oceano Indiano all'Oceano Atlantico, attraversata da una ferrovia, a patto che non venga costruita dagli europei: essi non conoscono la direttrice Est-Ovest, ma solo quella Nord-Sud. Cio' rappresenta il loro "crimine geografico". Il Sudafrica ha gia' fatto questo. Per quanto riguarda, inoltre, l'intero continente, dobbiamo sostenere con forza il processo di unità africana, fortemente osteggiato da Europa e Stati Uniti. Noi occidentali non abbiamo alcun diritto di mantenere le divisioni, ma solo il dovere delle scuse, della ricompensa e della verità nei confronti delle popolazioni africane che abbiamo colonizzato e sfruttato.

LA TERZA GUERRA MONDIALE

Spostiamoci ora nella zona piu' delicata del mondo, quella che comprende Cina, India e Russia. Proprio qui gli Stati Uniti stanno preparando la terza guerra mondiale. Gli strateghi americani della Casa Bianca e del Pentagono seguono una dottrina imperiale concepita da un geografo britannico nei primi anni del '900, e che si può sintetizzare così: chi domina l'Europa orientale domina l'Asia centrale; chi domina l'Asia centrale domina l'isola mondiale (cioè la regione che comprende Europa, Asia e Africa); chi domina l'isola mondiale domina il mondo.

Questa tesi, evidentemente folle, gode di grande considerazione a Washington. Essa viene riproposta nientemeno che nel più importante documento che attesta l'attuale linea geopolitica americana, il documento JCS570/2. Questo rappresenta la risposta all'interrogativo di Roosevelt riguardo a quale linea di politica estera avrebbero dovuto tenere gli Stati Uniti dopo la conclusione della seconda guerra mondiale. L'esigenza era quella di rendere il mondo sicuro per i commerci americani. A questo scopo furono individuate tre aree geografiche su cui imporre un rigido controllo: l'Europa occidentale, l'Asia orientale e l'America latina del nord. Il progetto fu concretizzato e formalizzato attraverso la sigla di tre distinti trattati militari, rispettivamente la Nato, l'Ampo e il Tiap. Tornando alla regione di Cina, India e Russia, appare subito evidente che essa presenta il 40% dell'intera popolazione mondiale e che si situa precisamente nel bel mezzo dell'espansione della Nato, da una parte, e dell'Ampo dall'altra. Se a questo poi aggiungiamo che gli Stati Uniti stanno prendendo il controllo della regione grazie alla costruzione di numerosi avamposti militari, ad esempio nelle repubbliche islamiche dell'ex-Unione Sovietica, e che i tre Paesi in questione prevedibilmente raggiungeranno un accordo per il controllo comune della zona, avremo tutti gli elementi per comprendere la delicatezza della situazione. L'idea poi di fare dell'Afghanistan e dell'Iraq due Stati unitari e' un' illusione occidentale. Sul territorio iracheno convivono quattro nazionalità: curda, turcomanna, sunnita e sciita. Su quello afghano ben undici. Un modello federale è l'unica alternativa praticabile per questi due Paesi.



(da Missione Oggi, febbraio 2005)

Risposte raccolte da Aurelie Godefroy e Frédéric Lenoir

“Per me è naturale entrare in una chiesa, accendere una candela e pregare”.

Figura insostituibile dell’intellighentia francese, Philippe Sollers occupa da quarant’anni il primo piano della scena letteraria parigina. Dopo i suoi inizi, celebrati da François Mauriac e Louis Argon, questo osservatore ironico della società non smette di punzecchiare i costumi del suo tempo. Detestato o adulato, questo scrittore provocatore non lascia nessuno indifferente. Il mistero Sollers, come alcuni si compiacciono di designarlo, turba con le sue prese di posizione anticonformiste.

La contemplazione buddista è un’autentica esperienza interiore, che ha come fine illuminare il più profondo dell’essere umano. Non si tratta di un’esperienza di tipo religioso, cioè dell’incontro con”Qualcuno”, ma piuttosto del divenire partecipi,coscientemente, della realtà di ciò che è l’Uno e della sua unione con la dottrina universale. Questa contemplazione, non consiste soltanto nell’adozione di tecniche [somatiche(?)] posturali o psicologiche, ma è piuttosto un fatto vitale (esistenziale).

Nello zen, l’esperienza della meditazione guida ad un approfondimento verso il centro del proprio essere, verso quella natura originaria che possiede le caratteristiche dell’assoluto. Lo zen può essere avvicinato alla meditazione mistica cristiana, in quanto anch’essa aspira ad incontrare nel profondo dell’essere, colui che vi abita. In Santa Teresa di Avila, la settima stanza del suo Castello interiore, è il luogo centrale in cui risiede il Re. Il cammino verso il centro dell’essere è presente sia nella mistica orientale che nella mistica cristiana.

Seguendo questo itinerario,il contemplativo zen,attraversa il vuoto ed il nulla;la stessa esperienza è stata fatta anche dai mistici cristiani come S. Giovanni della Croce. Nello zen, inoltre, l’abbandono, il superamento dei pensieri, delle immagini, dei ragionamenti, è uno stato psicologico ricercato, provocato artificialmente per mezzo di tecniche particolari. Nella mistica cristiana tradizionale, colui che medita non è invitato ad abbandonare pensieri, ragionamenti, immagini, ricordi se non quando è divenuto capace di una preghiera semplificata e sa attendere dalla grazia il dono della liberazione dai sensi.Provocare questo stato artificialmente,può rappresentare come un’invasione dello spazio di libertà,proprio dello Spirito Santo. É comunque di grande aiuto cercare di allontanare pensieri, preoccupazioni, ricordi, per concentrarsi solo sul momento presente,sul fatto che siamo al cospetto di Dio,e che soltanto questo è quello che conta.

La contemplazione nella mistica zen culmina nell’illuminazione, che è l’incontro con il centro dell’essere; nella mistica cristiana l’illuminazione avviene nell’incontro con Dio alla luce della fede. Ci si è chiesto se i metodi zen possono essere applicati nella meditazione cristiana;questo è possibile, in quanto possono aiutare il cristiano a progredire nell’arte della meditazione, a condizione che si evitino forme di sincretismo religioso e ricordando sempre che l’incontro con Dio non può essere risultato di tecniche. In ogni caso la meditazione è un esercizio benefico in particolare come metodo di concentrazione. Il distacco dalle cose che crea un vuoto completo attraverso un percorso simile allo zen è possibile anche al cristiano. Dobbiamo tuttavia tener presente che per accedere all’illuminazione cristiana, dobbiamo sempre ricordare che è solo il Cristo la luce del mondo.

Per questo motivo nelle sessioni cristiane dello zen, il koan Mu sarà sostituito dal Koan Shu (Signore)un addestramento alla morte di Gesù in vista della redenzione dell’uomo nuovo. Divenire uno con Gesù, morire con lui e risuscitare grazie a lui, questa è l’Illuminazione cristiana.

Bilancio e prospettive a 40 anni dalla «Sacrosanctum Concilium»

Monachesimo e riforma liturgica

Monastero Trappista di Valserena

La comunità monastica di Monte Oliveto Maggiore ha ospitato un evento significativo e bello accogliendo il convegno che si proponeva di fare un bilancio della attuazione della Riforma Liturgica a 40 anni dalla costituzione SC, la prima votata al concilio Vaticano II.

Il lavoro del Convegno è stato scandito come ogni giornata monastica dal canto dei salmi in gregoriano, la Messa all’inizio della giornata, celebrata con pacatezza e solennità, cantata con arte rara, pregata dal coro e dagli ospiti, e al termine della giornata raccolti in una cripta laterale il canto del Salve Regina, tradizionale chiusura della giornata per ogni monaco o monaca.

Attualmente la Congregazione benedettina di Monte Oliveto ha monasteri in Italia, Francia, Inghilterra, Brasile, Guatemala, Stati Uniti, Israele e nella Corea del Sud. Tutti questi monasteri sono talmente uniti all’Archicenobio di Monteoliveto in modo da formare una sola famiglia, un «unico corpo», sotto la guida dell’Abate di Monte Oliveto, che perciò è anche Abate Generale della Congregazione e che è ora Dom MICHELANGELO RICCARDO TIRIBILLI1.

Egli ha presieduto sia la celebrazione dell’ufficio Liturgico, sia lo svolgimento del convegno, la cui segreteria scientifica era affidata a Dom Roberto Nardin.

Padre Roberto Nardin OSB, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Universitas Lateranensis, e docente a S. Anselmo, in un’intervista rilasciata al Sir, dice: «Il convegno è stato una grossa opportunità per approfondire e riconfermare l’importanza della liturgia per la vita spirituale in genere oper la vita monastica in particolare... Ha permesso di spaziare all’interno delle tre fasi che hanno contraddistinto la liturgia negli ultimi decenni. La prima fase èstata quella del movimento liturgico, con la crescente consapevolezza da parte dei credenti dell’importanza di una liturgia più vissuta e partecipata. La seconda fase ha coinciso con il Concilio Vaticano II e con le novità introdotte. La terza fase, quella attuale, consiste invece - continua p. Nardin - nella necessità di formazione alla riforma».

In tutto questo percorso storico, che abbraccia vari decenni, durante il convegno si è riflettuto — in particolare — sul ruolo avuto dal monachesimo. «Dai lavori del convegno è emersa chiaramente aggiunge p. Nardin la disponibilità del mondo monastico, maschile e femminile, a rendere partecipe il popolo di Dio alla liturgia, collaborando all’animazione e formazione liturgica e cercando di agire come il lievito nella pasta».

Tra le notazioni emerse durante i lavori, i rappresentanti delle comunità monastiche francesi hanno mostrato una particolare «unità di intenti» per quanto riguarda l’adozione di forme e preghiere liturgiche. Lo ha testimoniato Dom Marie Gèrard Dubois, per più di vent’anni abate della Grande Trappe e presidente della commissione di Liturgia dell’o.c.s.o. raccontando il lavoro della Commissione Francofona cistercense, che ha come suo strumento di diffusione la rivista Liturgie e che offre sempre una ampia scelta di studi, documenti del magistero, proposte di testi per la liturgia a servizio del mondo monastico. Da parte italiana sono intervenuti, tra gli altri, i rappresentanti delle comunità di Valserena, Praglia, Camaldoli e Bose.

Il mondo monastico italiano è più vario, e non esiste in esso uno strumento di coordinamento come la CFC.

Ogni comunità si muove un po’ all’interno dell’ordine cui appartiene senza troppo collegamento con altre realtà... Il convegno è stato anche un buon tentativo in questo senso di conoscenza e di confronto.

«L’aspetto visibile, concreto della religione, il rito e il simbolo, viene compreso sempre meno, non è più colto e vissuto in modo immediato — ha detto uno dei relatori, il prof. Andrea Grillo, coordinatore della specializzazione in teologia dogmatico — sacramentaria presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma. Grillo ha sottolineato che trattare oggi di liturgia significa «l’approfondire quelli che appaiono ancora come luoghi comuni: il primo è la formazione liturgica intesa come istruzione circa i riti, il secondo è il rafforzamento della separazione tra formazione e spiritualità e il terzo riguarda la soggezione della formazione liturgica ad una lettura sostanzialmente clericale della Chiesa».

Tra i relatori oltre il Prof Grillo e il prof. GIORGIO BONACCORSO, Preside dell’istituto di Liturgia pastorale Abbazia di santa Giustina di Padova. Goffredo Boselli, monaco di Bose ha parlato de prima e dopo la riforma liturgica. PAUL DE CLERKDirettore della rivista La Maison Dieu, membro del Comitè national de Pastorale liturgique (CNPL) già direttore dell’lnstitut Supérieur de Liturgie (ISL) di Parigi ha descritto la ricezione teologica, applicazione pratica e tentazioni di ripiego rispetto alla Sacrosanctum Concilium oggi, mentre DANIEL SAULNIERDirettore dell’istituto di Paleografia musicale dell’Abbazia Saint Pierre di Solesmes e docente presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, ha parlato del canto gregoriano, del suo recupero e del compito che lascia oggi alle generazioni in cerca di una formula musicale altrettanto duratura e valida.

Le relazioni erano seguite da testimonianze delle varie comunità rispetto al lavoro fatto da ciascuna per applicare al proprio interno gli esiti della riforma liturgica, e ora per dare una adeguata formazione liturgica. Una sorpresa per chi ha partecipato al Convegno è stata la presenza viva e numerosa di molta parte del mondo benedettino italiano, comunità giovani e in piena evoluzione, numerica e vitale, ad esempio la comunità di Santa Marta di Firenze, o la Comunità di Poffabro, così come, da parte francese, la Comunità del Bec. Ci si può augurare che si sviluppi ancora meglio l’apporto della dimensione sapienziale femminile così che ad incontri simili ci si possa rallegrare di vedere coniugati insieme relazioni dotte e testimonianze di esperienza, comunità maschili e comunità femminili, nella edificazione di un mondo monastico che proprio nella nostra Europa pare chiamato a ritrovare la sua funzione positiva e profetica, e ha necessità dunque di ogni apporto e di ogni voce. A Monte Oliveto il doppio apporto di testimonianze e relazioni dottrinali ha dato al convegno l’aspetto non solo di un incontro puramente accademico ad alto livello ma di un reale incontro di comunità monastiche in ricerca all’interno di una chiesa desiderosa di riscoprire e riappropriarsi delle fonti della preghiera.

Quali luoghi più appropriati a questo se non i monasteri benedettini, olivetani, cistercensi e trappisti?

(1) Abate ordinario di Monte Oliveto Maggiore, OSB. Nato a Firenze, il 18 marzo 1937, Ordinato presbitero il 2 luglio 1961, nominato abate ordinario di Monte Oliveto Maggiore il 3 ottobre 1992; confermato il 16 ottobre 1992. Membro della Conferenza Episcopale Toscana.

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