Una nuova Convocazione Ecumenica Internazionale indetta dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) intitolata "Gloria a Dio e Pace sulla terra". La Convocazione è la seconda nella storia del movimento ecumenico moderno dopo quella di Seul del 1991...
di Andrea Sciffo *
Nelle parole di Gesù raccolte dai vangeli, la pace assume un significato particolare: esprime un’integrità dell’uomo, effetto della grazia di Dio.
È la sua forma intatta, così come il Signore la concede: per questo «pace» non appare tanto come antitesi di «guerra» (in senso militare), quanto di «peccato» (lo stato di inimicizia interiore dell’uomo).
Del resto, «in pace» è l’espressione ebraica tipica di chi esce incolume da un incidente che avrebbe potuto causargli seri danni fisici.
Anche nel Primo Testamento era assente il riferimento alla pace come interruzione di un conflitto armato: Dio è anche il «Dio degli eserciti» del popolo di Israele.
Anche nella massima «vita militia est», che sintetizza l’impegno del cristiano nel mondo, il combattimento è certo spirituale, ma non per questo perde le sue caratteristiche di battaglia.
Il cristianesimo delle origini non sceglie la pace come opzione culturale o esistenziale, piuttosto la chiede come dono ricevuto gratuitamente da Dio. Le parole di Gesù erano chiare al proposito: «Vi do la mia pace... non come la dà il mondo».
La pace cristiana non è dunque la classica eirené, il rilassamento del saggio, bensì una tensione dell’inquieto cuore alla meta, poiché essa sola è pacifica. Consiste nella carità, cioè nell’amore di Dio: nel doppio senso di amore che il credente prova per Dio e che Dio manifesta al credente.
La storia della spiritualità cattolica successiva è anche la storia delle forme che la pace assume nella vita degli uomini e delle società, dopo che le comunità si sono espanse nell’ecumene romana.
In pieno medioevo, il padre della chiesa san Bernardo di Chiaravalle era «doctor mellifluus», cantore estasiato di Maria Vergine e delle dolcezze della vita contemplativa, ciò non gli impediva di farsi anche predicatore della crociata.
Prima di lui, da sant’Agostino («il mio cuore è inquieto finché non riposa in te») a sant’Ambrogio («Dio trova riposo nell’uomo»), la pace è stata vista e vissuta come dono di Dio all’uomo, che vive nelle vicissitudini terrene, ma rientra nell’alveo della fiducia (preghiera, lode, sacrificio...).
Sempre in tempi medievali, la pace è pace dell’anima e appartiene all’altra vita: qui gli esempi maggiori, e più noti, sono il Cantico delle creature di san Francesco d’Assisi e la sua preghiera «O Signore, fa’ di me un istrumento della tua pace». Se ne ricorderà Dante, raffigurando l’inferno come assenza di pace, in quanto assenza di Dio dall’anima dell’uomo (dannato), e il paradiso come luogo di coloro che hanno fatto già in vita spazio al Creatore: «e ‘n la sua volontade è nostra pace» (Piccarda, Par. III,85).
Petrarca è invece il prototipo dell’ambivalenza umanistica e poi moderna, nel suo sonetto «Pace non trovo et non ò da far guerra».
Nel Cinquecento spagnolo, il grande mistico carmelitano san Giovanni della Croce, nel Cantico Spirituale, pone il quesito all’anima moderna: si va al Dio della pace attraverso la «notte oscura» della tribolazione.
La pace cattolica dopo le rivoluzioni scientifica e illuminista è rappresentata dal Manzoni nella «notte dell’Innominato» e anche nel viaggio di Renzo verso l’Adda, in fuga dalla Milano appestata: è una pace temporanea, ma radicata nel mistero della vita dopo la morte.
Un romanziere contemporaneo, Eugenio Corti, rappresenta la condizione dell’uomo in guerra ne «Gli ultimi soldati del re»: la pace è l’amore per Dio e i fratelli, anche in circostanze estreme, anche in guerra, non odiare mai! La pace cattolica si condensa nell’amore verso il prossimo, che è specchio e sostanza purissima dell’amore per Dio; dicono i padri: «Hai visto il tuo fratello, hai visto il tuo Dio».
(da MC, gennaio 2007)
* Andrea Sciffo, insegnante di lettere, giornalista e scrittore, studioso di letteratura e costume, ha frequentato la scuola di teologia per laici del decanato di Monza e la facoltà di teologia al Pontificio ateneo della Santa Croce in Roma. Collaboratore del centro culturale Talamoni di Monza, ha pubblicato saggi e prose e scrive per vari mensili (Studi cattolici, Fogli, Il Testimone).
di Don Armando Cattaneo *
Domanda
Pace come riposo in Dio, bello... ma se uno non crede? E non chiedere reciprocità non è vergognarsi di Dio?
Il riposo del cuore non deve arrivare troppo presto: la fede è ricerca e fatica; spesso è difficile da trovare. La pace cristiana è una ricerca esistenziale, non intellettuale, ma non è mai disperata. Ad Auschwitz si chiedeva: «Dov’è Dio adesso?». «È là, impiccato con le altre vittime» fu la risposta. Nelle difficoltà il mio prete di paese mi raccontava sempre questa storia: «Quanto è alta la burrasca? Anche la burrasca più alta non supera i 40-50 metri; ma il mare è profondo migliaia di metri… e sotto la burrasca c’è la pace».
Vergogna? No, solo chi accetta il dialogo ha forza e la dimostra; più si è insicuri e più ci si irrigidisce. L’incontro interreligioso di Assisi nel 1986 è stato un segno di grande forza di papa Wojtyla.
Oggi sono invitato a parlare come «testimone». Ruolo inedito per un prete, che sempre rischia di scadere a fare il predicatore! Ma noi cristiani siamo chiamati «a rendere ragione della speranza che è in noi», a essere proprio e solo questo: testimoni! Anch’io, «prima di essere prete per voi, sono cristiano con voi» (s. Agostino). E ho accettato, prima come cristiano e poi come cattolico! Non per tradire la mia identità, ma per valorizzarla!
La chiesa cattolica (nel senso di universale) nasce con la controriforma nel xvi secolo, in contrapposizione a Lutero: quindi per differenza, per guerra!
Gesù l’aveva detto: «Non sono venuto a portare la pace, ma la spada, a mettere figli contro padri, uomo contro donna...». La pace non è quieto vivere e non è cristiana, se confusa con il buonismo.
Il cattolicesimo immediatamente richiama papato e Vaticano: formidabili risorse. Disporre di un’unica autorità ci conferisce, all’interno, unitarietà nella fede, garanzia di messaggio e di verità, perché il pericolo della dispersione è tremendo. All’esterno ci rafforza «politicamente» (in senso alto, non partitico) nella società internazionale, e ci libera dai poteri forti, economici e politici.
I veri padroni del mondo, 200 famiglie ricche quanto 2 miliardi di uomini, fanno molta paura agli Usa e agli arabi, ma non intimoriscono la chiesa cattolica!
Il rappresentante vaticano all’Onu subisce le stesse pressioni di tutte le altre religioni, eppure è libero di parlare nell’interesse di tutta l’umanità senza timori reverenziali verso alcuno. Giovanni Paolo ii, pur inascoltato, ha detto chiaro a Bush: «Non fare questa guerra». La pace che la chiesa cattolica porta si fonda sulla forza della pulizia e della libertà… non sulle armi.
Potere esprimere questa autorevolezza col volto del papa è una fortuna mediatica, che le altre religioni non hanno.
Osama Bin Laden è il volto degli islamici, ma non ne rappresenta che il 2%. Il buddismo ha il Dalai Lama, ma non tutti quelli del passato avevano la stessa comunicativa dell’attuale.
Il papato ha anche evitato ai cattolici di avere chiese nazionali come, purtroppo, hanno gli ortodossi. Le loro chiese: greca, russa, rumena... sono distinte fra loro e tutte rischiano pericolose identificazioni politiche ed etniche con i propri stati.
Quanto a quelle protestanti, alcune (specie le più americane: battisti, mormoni e altri) spesso si piegano agli interessi delle multinazionali. Nessuno ha l’autorevolezza del papato nel porsi come primo ostacolo alle guerre «per la democrazia» o «del sottosviluppo».
Passando dalla diplomazia alla nostra realtà quotidiana, io ringrazio gli immigrati! Venendo da noi e portando con sé le proprie convinzioni, stanno sconquassando la nostra società svuotata di valori e passioni. Risvegliano nei cattolici incolori l’esigenza di una più consapevole e sana identità, di scelte coerenti, e la capacità di argomentare le ragioni della propria fede: la pace non va confusa con l’inerzia! E favoriscono il dialogo interreligioso che definisco come: confronto e arricchimento reciproco. È bello quando mi parla di Dio, col secchio in mano, il muratore musulmano che lavora nella mia chiesa!
Quanto alla reciprocità dobbiamo rivendicare la nostra libertà di non averla. È giusto che la chiedano i politici e governanti... Ma i cristiani no! Gesù ci ha insegnato a porgere l’altra guancia ed è morto per tutti, lui solo!
Nella chiesa i laici devono contare di più, ma essere più sanamente laici, consapevoli delle proprie ricchezze culturali, orgogliosi di un maestro come Cristo, ma non «più papisti del papa» e integralisti, ovvero pericolosamente ignoranti...
(da MC, gennaio 2007)
* Armando Cattaneo, parroco a Cinisello Balsamo (MI), giornalista e scrittore, fondatore e direttore per vari anni del Circuito Marconi (network radiofonico di 25 radio private cattoliche in tutta Italia), ha di recente fondato il sito www.jesus1.it, di cui è direttore. Collabora con la rivista Famiglia Cristiana
di Giovanni Genre
DOMANDA
Quella che avete presentato non è un’eccessiva demonizzazione della religione?
Ho enfatizzato la distinzione fra religione e fede, perché oggi la religione è troppo forte e la fede troppo debole; è necessario un maggior riequilibrio ma religione e identità non sono valori da abolire.
Il cristianesimo deve mantenere distinte fede e religione. In tutti i vangeli Gesù polemizza duramente con coloro che ne mescolano i piani. Con Karl Barth, andrei oltre la distinzione arrivando a contrapporle. Nella visione, assai «protestante», di questo importante teologo del xx secolo, «l’uomo religioso» diventa il peccatore per antonomasia. «Peccato» è proprio il «tentativo religioso» di raggiungere Dio: che Gesù denunzia come illusione e «giogo», al quale la religione (di scribi e farisei) vuole sottoporre la gente del suo tempo.
Una denunzia radicale da comprendere con intelligenza. Anche nella bibbia è sempre estremamente difficile, direi impossibile, distinguere fra la rivelazione di Dio e il modo in cui gli esseri umani l’hanno ricevuta.
Come cristiani dobbiamo vigilare sulle possibili confusioni tra fede e religione, pericolosissime e foriere di tragedie: le crociate, il colonialismo perpetrato nel nome di Dio, il «Dio è con noi» riportato sulle fibbie dei cinturoni dei soldati nazisti... Bisogna mantenere una netta discontinuità fra Dio e l’uomo, affinché neppure l’autorità della chiesa si sostituisca a quella del vangelo.
La fede, invece, non è mai «troppa», poiché è la condizione di chi è afferrato da Dio; non è mai una virtù, né un privilegio di qualcuno. È piuttosto una vocazione.
Oggi si assiste a una sindrome da ripiegamento identitario pericolosissima, in gran parte veicolata dalle religioni. In nome della distinzione fra religione e fede non dobbiamo lasciarci strumentalizzare da chi vuole terrorizzare gli altri evocando lo scontro fra cristianesimo ed islam.
Io non credo sia in atto uno scontro fra civiltà. A scontrarsi sono teocrazia e fondamentalismo da una parte; tolleranza e dialogo dall’altra. La posizione integralista e quella del dialogo sono presenti in tutte le religioni, bisogna lavorare perché si diffonda e affermi la seconda.
Mi pare inaccettabile, per esempio, la convinzione di chi, in Italia, pone il discorso dei diritti e della libertà (di coscienza, di fede, di espressione) sul piano della reciprocità. Concedere questi diritti solo nella misura in cui anche gli altri stati (Arabia Saudita, Sudan...) li concederanno, significa declassare il vangelo, che è gratuito, a merce di scambio. Dobbiamo invece favorire la convivenza pacifica di culture e religioni diverse, iniziando dal nostro paese e seguendo l’esempio di Gesù nel suo incontro con la samaritana (Giovanni 4).
Un incontro vietato: giudei e samaritani non si parlavano da generazioni; il disprezzo dei giudei per i samaritani era assoluto; e la donna, avendo avuto molti mariti e compagni, aveva una pessima reputazione. Ma Gesù parla e fa parlare. Questo dovrebbero essere le chiese «cristiane»: luoghi di un dialogo possibile con chi è diverso. Chiedendole poi da bere Gesù si pone in una condizione di dipendenza dalla donna. Ci dice che ognuno di noi ha bisogno degli altri. Viviamo tutti in una situazione di interdipendenza reciproca, che troppo spesso dimentichiamo. Il dialogo, la mutua comprensione e la convivenza sono possibili solo su queste basi.
Infine, Gesù pronunzia le famose parole: «L’ora viene che né su questo monte, né a Gerusalemme, adorerete il Padre. I veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e verità». Non vi sono più luoghi sacri o templi, semplicemente una relazione diretta con Dio, che prescinde dalle istituzioni, dalle tradizioni, dalle norme religiose. È il superamento della religione, che porta con sé l’espressione di una fede libera e liberante.
(da MC, gennaio 2007)
Giovanni Genre, originario del Piemonte, laureato presso la Facoltà valdese di Roma, con studi in Scozia e Germania, nel 1984 è stato consacrato pastore della chiesa valdese e ha esercitato il suo ministero a Torino, in Calabria, Ivrea, Biella, Val Pellice. Eletto moderatore della Tavola nel 2000, dal settembre 2005 è pastore della chiesa valdese di Milano.
di Giampiero Comolli
Per affrontare correttamente il tema proposto è indispensabile distinguere fra fede e religione che, pur strettamente implicate l’una all’altra, restano distinte e non sovrapponibili.
La religione rimanda a una dottrina, a un itinerario etico e ascetico da percorrere per raggiungere una meta: è un movimento dal basso verso l’alto, che ha come protagonista l’homo religiosus.
La fede implica invece l’annuncio di un evento da accogliere, un’iniziativa divina che ci precede e che suscita una risposta: è un movimento dall’alto verso il basso, di un Dio che viene.
Religione sono le opere messe in atto da un’istituzione ecclesiale. Fede è ascolto di una verità donata per grazia da Dio.
Questo significa che la religione è deputata alla gestione terrena di una verità trascendente. Come tale crea istituzioni, comportamenti, appartenenze. Dona identità individuale e collettiva: ci dice chi siamo noi, come credenti, rispetto ai non credenti o a chi crede in altro.
La fede, invece, come totale accoglimento di una Parola divina non in nostro possesso, può arrivare a cancellare la nostra identità, per farci donne e uomini nuovi, guidati dallo Spirito di Dio.
Oggi le religioni sono entrate come attori primari nel teatro di un mondo segnato dal pluralismo che, proprio in quanto incrocio di culture diverse, mette in crisi le identità acquisite. In assenza di ideologie laiche forti, oggi le religioni diventano veicoli di identità collettiva: forniscono simboli e categorie di pensiero per rappresentare se stessi, per differenziarsi dagli altri e dominarli.
Fondate sulla convinzione di detenere verità assolute, le religioni diventano fattori di identificazione culturale per grandi collettività umane; di conseguenza possono legittimare conflitti, contrapposizioni politiche e guerre.
In tutto il racconto biblico si ritrovano i guasti della religione e una sua forte critica condotta sulla base della fede (Cfr Michea 6,6-8). Nessuna religione è immune da questa deriva.
Le chiese protestanti storiche sono consapevoli dei problemi che possono derivare da un eccesso di religione. In Italia sono fautrici di una netta distinzione fra chiese e stato e critiche verso le nuove ideologie (atei devoti), che rivendicano un’identità cristiana europea e un’identità cattolica italiana come radice e fondamento di un’appartenenza collettiva in contrapposizione ad altre civiltà.
Negli Usa, al contrario, la destra religiosa (protestante ndr) costituisce un fronte politico e teologico conservatore, centrato su valori tradizionali che attribuiscono all’America cristiana un ruolo di guida nel mondo in campo etico, politico e militare.
Quanto alle chiese ortodosse, proprio per il fatto di essere autocefale (indipendenti per vita e organizzazione interna), sono storicamente divenute «etniche» e quindi deputate a preservare e difendere l’identità collettiva di un popolo. In quanto (letteralmente) «custodi della vera fede» sono anche tradizionaliste e critiche nei confronti di una netta separazione fra chiesa e stato.
In definitiva, dunque, l’intreccio fra religione e fede è inestricabile. Nelle attuali condizioni storiche non si può mirare a una fede pura che faccia a meno della religione. Ma è sempre possibile attuare una forte critica delle religioni a partire dalla fede. Non si può pretendere di essere gli unici custodi dell’unica fede vera, relegando tutti gli altri nell’errore. L’unica via che le religioni possono percorrere verso la pace è quella di un dialogo ecumenico e interreligioso, condividendo la consapevolezza che l’eccesso di religione è fonte di conflitti
(da MC, gennaio 2007)
* Giampiero Comolli, studioso dei mutamenti religiosi nel mondo contemporaneo, giornalista, saggista e scrittore, collabora con diverse testate per le quali scrive resoconti di viaggio e ha pubblicato diversi saggi, tra i quali: Buddisti d’Italia, viaggio tra i nuovi movimenti spirituali; I pellegrini dell’Assoluto, storie di fede e spiritualità raccolte tra Oriente e Occidente.
di André Chouraqui
di Rabbino David Sciunnach
DOMANDA
Dio è unico, le religioni sono tante, cosa sono ed a cosa servono?
La diversità fa anche la qualità, esistono tante vie per arrivare a Dio quante sono le persone.
Le religioni sono aspetti della realtà umana, tradizioni che Dio ha dato. Un racconto descrive le relazioni fra gli uomini, significativo anche per le religioni: «Se tutti stanno sulla tolda della nave non c’è problema; non è così se qualcuno viene lasciato senz’acqua da bere nella stiva. Per liberarsi non si preoccuperà di forare lo scafo, facendo affondare anche chi, sul ponte, si sente sicuro e vuole proteggere i propri privilegi».
L’ebraismo ha così tanti precetti, positivi e negativi, rivolti a Dio e al prossimo, che essere ebrei non è solamente una concezione religiosa, bensì un modo di vivere molto difficile. Suo fondamento è la Torah, già in sé un paradosso. È particolare, perché vi è scritta la storia del popolo ebraico, da Abramo fino alla morte di Mosè, e contiene i precetti; ma è universale, perché riguarda tutte le creature del mondo. Se Dio avesse voluto dare la bibbia solo a Israele, l’avrebbe iniziata con la sua storia e non con la creazione! Noè non era ebreo, eppure è scritto che un uomo giusto era nella sua generazione. Non è necessario essere ebrei per essere giusti e degni di entrare in paradiso vicino a Dio benedetto, ma bisogna essere persone rette.
I comandamenti che Dio ha dato all’umanità fondano la morale del mondo in cui ci riconosciamo. La morale ebraica viene dalla Torah, perciò è divina e immutabile. Dio sa dove l’uomo sbaglia, perché l’ha fatto lui, perciò gli ha posto degli argini. Esiste però anche la morale del mondo contemporaneo che cambia con le esigenze delle generazioni e dei popoli. Se fossimo veramente religiosi, cioè capaci di percepire la santità di Dio in ogni azione e creatura vicino a noi, il nostro rapporto con Dio e col prossimo sarebbe totalmente diverso. La pace sarebbe una conseguenza scontata.
Si guardano spesso i punti in comune tra le varie religioni, ed è davvero importante. Ma bisogna anche guardare le differenze, conoscendole si abbattono i pregiudizi. Sono la paura e la non conoscenza che ci fanno fare cose non giuste; quindi bisogna ampliare la conoscenza: è fondamentale.
A Milano abbiamo appena fondato il Forum delle religioni. Un traguardo enorme, con tutti i rappresentanti delle religioni: cristiani, ebrei, musulmani, buddisti, scintoisti. Ma è solo l’inizio di una reciproca conoscenza, da estendere alla base e non limitare ai vertici.
Il popolo di Israele è chiamato a essere popolo «eletto». Traduzione imprecisa. La radice della parola ebraica vuol dire «capace»... di distinguersi dagli altri popoli per l’osservanza dei precetti divini della Torah ed essere d’esempio.
Però siamo esseri umani e sbagliamo. In Israele si dice: la vita non è un pic-nic! Sarebbe bello se lo fosse, invece è spesso sofferenza. Che fa crescere e capire certe cose. Ci rendiamo conto dell’importanza di un bene o di una persona solo quando le perdiamo.
È così anche per la pace: dovremmo apprezzarla di più quando l’abbiamo, quando viviamo in un momento di pace. La pace biblica è una pace «completa». In ebraico le parole saluto, essere completi e Gerusalemme hanno la stessa radice, quindi c’è un legame fra di esse. Quando si incontra qualcuno in Israele il saluto, shalom, è augurio di poter essere completo, di non avere nessuna mancanza.
Tra gli esseri umani, quando due persone fanno pace, uno dei due ci rimette sempre. Nella bibbia non è così: nello shalom biblico entrambe sono complete e soddisfatte. Quindi l’augurio che bisogna farsi è quello di arrivare veramente a questo.
Riuscirci dipende da noi. Dio ha creato il mondo e poi ce l’ha dato, con le qualità per fare o distruggere. Il problema è che siamo sulla terra solo di passaggio, ma spesso ce ne dimentichiamo, pensando di essere eterni. Anche per chi vive a lungo la vita vola in un batter d’occhio. Non sta a noi finire il lavoro, sta a noi iniziarlo!
Il Talmud dice che chi salva una vita salva un mondo intero. È importante il contributo individuale: se accendiamo una luce, ciascuno ne accenderà altre e più vicini a Dio saremo, più luce ci sarà!
(da MC, gennaio 2007)
* Rabbino David Sciunnach, nato a Roma, si è trasferito in Israele, dove ha frequentato la scuola rabbinica. Nel 2000 è arrivato a Milano dove opera presso l’Ufficio rabbinico. Attualmente è assistente per il Tribunale rabbinico e per l’Assemblea Rabbinica Italiana. Ha pubblicato articoli e testi di preghiere ed è assistente dell’attuale rabbino capo di Milano, Arbib.
di Don Paolo Farinella *
Negli anni ‘50, Giorgio La Pira (sindaco di Firenze tra gli anni ‘60 e ‘70) girava il mondo avvertendo che tutte le guerre erano vecchi arnesi, perché il terzo millennio sarebbe stato il millennio dei bambini, dei monaci, dei poeti, dei poveri, degli artigiani... Lo diceva a tutti i potenti dell’epoca e proponeva la profezia del «sentiero di Isaia» (Is. 2,2-5). In essa Israele, per diritto e per grazia, ha il ruolo di guida dei popoli verso il monte del Signore: perché tutti imparino la Torah e disimparino l’arte della guerra, convertendosi a relazioni di pace.
In realtà tutto sembra andare al contrario. La guerra contro il terrorismo lo alimenta e ingrassa. Le elezioni, che avrebbero dovuto condurre i palestinesi alla democrazia, portano un estremista a esserne il capo. Si vuole la pace in Medio Oriente e Hamas ha nei suoi programmi la distruzione dello stato d’Israele che, per difendersi dagli attacchi, finisce per costruire un muro. Crescono violenza, illegalità e ingiustizia. La paura domina i giorni e le notti. Ma è solo la polvere che copre la superficie. Scendendo a un livello più intimo ci accorgeremo che i «segni dei tempi», i tempi di Dio che parla e ci chiede di essere segno visibile della sua immagine e somiglianza nel mondo, sono nell’ordine della profezia. Per capire come coglierli occorre intendersi sul significato delle parole che usiamo.
Il termine oggi più abusato e malinteso è «religione». La religione nasce dalla paura del limite umano, della morte: sentimento profondamente umano, che accomuna tutte le religioni. La divinità è percepita contemporaneamente come causa del proprio limite e come meta del proprio desiderio.
Spazi (templi/chiese) e tempi (sacrifici/liturgie) sacri sono il pedaggio che l’uomo paga in cambio della protezione divina. L’uomo religioso crede in un Dio, reale o immaginario, con cui viene a patti, pur di avere protezione, assistenza, sicurezza, garanzia. La forza della religione risiede nella tradizione, per sua natura ripetitiva, immobile, immodificabile e per questo rassicurante.
Fede è il contrario di religione. Nasce da un incontro personale e fisico con qualcuno con cui si instaura un rapporto di conoscenza e di sentimenti, che diventano comunione e scambio di vita. Non espressione di paura, ma atto di amore, la fede non è legata al tempo e allo spazio; quindi non ha bisogno di liturgie o di tradizioni e può essere vissuta ovunque, perché si fonda sull’esperienza personale. L’orizzonte dell’incontro non è più il cielo da scalare, ma la terra/umanità.
In questo senso ebraismo e cristianesimo si differenziano da ogni altra religione, perché presuppongono una fede in un Dio incarnato nella storia d’Israele e nella carne del Figlio di Maria.
Infatti, sul Monte Sinai Israele riceve non la legge, ma la Torah, cioè la persona stessa di Dio, che non si esaurisce nelle norme. Israele non riceve semplicemente una rivelazione, ma dialoga con Dio e la sua unicità consiste nell’identificazione del popolo con la propria religione. Risposero gli ebrei a una sola voce: «Tutto quanto il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo». In questo sta la grandezza di Israele: si fida ciecamente di Dio; ed è questo Dio che deve annunciare al mondo, se questo mondo deve salvare.
Nel giorno dello Yom Kippur (giorno dell’espiazione), il sommo sacerdote entrava nel santo dei santi del tempio di Gerusalemme con gli abiti sacerdotali della solennità: sulla fronte portava la vite d’oro, simbolo dell’unità del popolo d’Israele; sul petto teneva l’efod, una stoffa rigida a forma di rettangolo su cui brillavano 12 pietre preziose, simbolo delle 12 tribù d'Israele; sulle spalle un mantello nel cui orlo inferiore erano cuciti 72 campanelli, simbolo dei popoli che abitavano la terra.
La liturgia nel tempio di Gerusalemme aveva queste tre caratteristiche: richiamava l’unità (vite d’oro), esprimeva la diversità (efod) e assumeva l’universalità, includendo anche i popoli pagani (campanelli). È tempo di riprendere questi temi e viverli nel nostro oggi.
(da MC, gennaio 2007)
* Paolo Farinella, biblista, giornalista e scrittore, ha esperienza dei rapporti fra le tre grandi religioni monoteiste e della realtà socio-politica nella quale sono inserite per aver vissuto a Gerusalemme dal 1998 al 2003.
ISLAM
di Camille Eid *
All’islam fanno riferimento 1 miliardo e 200 milioni di persone: un quinto della popolazione mondiale.
Islam deriva da una radice linguistica araba che indica sottomissione all’unico Dio (in arabo Allah): è il messaggio annunciato da tutti i profeti, da Abramo a Maometto. Al suo tempo (VI sec. d. C.), la penisola arabica era pagana e politeista e la Mecca ne era la capitale.
Il Corano, voce di Dio, raccoglie, non cronologicamente, i 24 anni della predicazione di Maometto. Per toni e contenuti, riferendosi a tempi e realtà diverse, le sure meccane sono decisamente contrapposte rispetto alle sure medinesi.
Nel primo periodo, predicando la giustizia sociale, Maometto forzatamente si scontra con la borghesia della Mecca, che lo perseguita. Quindi cerca alleati fra la «gente del libro», ebrei e cristiani, che lusinga con versetti del Corano pacifici e tolleranti sulla libertà religiosa.
Dopo l’Egira, la migrazione a Medina, città del Profeta, da perseguitato Maometto diventa potente guida politica e militare. Versetti a carattere giuridico e contradditori rispetto ai precedenti rispecchiano la nuova situazione di guerra ed espansione politica.
Poiché per un musulmano è peccato non citarlo alla lettera, qual è dunque il vero Corano? Quello spirituale o quello che è legge, sharia, e codifica tutte le sfere della vita? Problema di rilievo per gli stretti legami fra religione, stato e società nel mondo islamico: realtà ben diversa da quella del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».
Politicamente, fino al 1924, quando fu abrogato dal turco Kemal Ataturk, l’islam aveva il califfato (il califfo era il successore di Maometto), istituzione corrispondente al papato per i cattolici. Così oggi, in ogni stato, sono il grande mufti o l’ayatollah a emanare fatwa giuridiche sulle questioni poste dalla modernità: ad esempio, per chiarire se i kamikaze siano martiri o suicidi (l’islam vieta il suicidio). Mancando un’autorità centrale, la loro autorevolezza dipende dal seguito che raccolgono.
Negli ultimi 50 anni, i musulmani in Europa sono cresciuti da 800 mila a 19 milioni e pongono nuovi problemi. Se in Occidente un musulmano vede solo i vizi della società, pretende di imporvi l’islam, nato proprio per riportare l’umanità sulla retta via, dalla quale ebrei e cristiani si erano allontanati. Ecco perché la pace è possibile solo quando le identità sono chiare.
Le differenze dottrinali sembrano sottigliezze, ma non si può sottovalutarle. Teologicamente mai Maometto potrà essere un profeta per i cristiani. Lo è invece Gesù per i musulmani, che però non lo credono Figlio di Dio. Recedere da questa posizione sarebbe un tradimento, un’apostasia.
Poiché un musulmano fa parte della umma, la comunità islamica, il tradimento non riguarda un solo individuo, ma il gruppo e di conseguenza viene contrastato in modo molto forte.
Dunque l’Europa è un campo di addestramento alla convivenza. Il dialogo tra esperti, però, non porta da nessuna parte, se non è esteso a tutti i credenti.
Oggi non esiste un pericolo dell’islam, ma un pericolo nell’islam. La domanda che dobbiamo porci è quale sia la differenza tra religione e fondamentalismo.
Il mondo islamico è suddiviso in un 5% di moderati, un altro 5% di estremisti e un 80% di persone a metà fra queste due posizioni. Purtroppo è più facile si aggreghino al 5% di violenti!
Sono i musulmani che devono risolvere il problema. Possono riuscirci mantenendo distinte religione e politica e introducendo nelle loro società un maggiore rispetto dei diritti umani. È questo che dobbiamo chiedere loro.
(da MC Gennaio 2007)
* Camille Eid, giornalista e scrittore libanese, da anni in Italia, è un grande conoscitore del mondo arabo e islamico, particolarmente dei rapporti fra cristianesimo e islam. Collabora con varie testate cattoliche; è autore o co-autore di: Osama e i suoi fratelli, atlante mondiale dell’islam politico; Libano e Siria; Cento domande sull'islam; I cristiani venuti dall’islam.
di Ali Schuet *
DOMANDA
Come si pone l’islam nei confronti di atei, agnostici, non praticanti? E cosa accadrebbe se in Europa i musulmani arrivassero al 51% della popolazione?
Il Corano dice che non c’è costrizione nella fede e la libertà deve essere garantita. Kafir, il termine che indica i miscredenti da combattere, ha un significato attivo. Si riferisce a coloro che operano per occultare la fede, mistificandola, e che attivamente contrastano chi la professa. Loro prototipo è l’Anticristo.
Non c’è una maggioranza musulmana che vuole governare in Europa in senso islamico. Una buona percentuale ne parla, ma è una posizione che sta cambiando, e su questi temi è in atto uno scontro durissimo nelle comunità islamiche.
In Europa i musulmani dovrebbero trovare ciò che l’Europa ha di positivo. Non è solo un problema d’identità e purezza, ma anche di spiritualità e cultura, che mancano sia in Occidente sia dove l’islam è dominante. Un tempo si costruivano con l’anima le cattedrali, ma anche le case. Si metteva l’anima in tutto quel che si faceva. In ogni ambito della vita si era in contatto con la dimensione cosmica, con Dio.
(...) Negli stati governati dall’islam, come anche in Europa, consideriamo più importante avere il cimitero separato, ma abbiamo perso il significato spirituale della nostra religione. La continua ripetizione: io, noi... è deleteria. Dimentichiamo che anche gli altri hanno gli stessi desideri.
Però quando si parla di scontro fra Oriente ed Occidente, mi chiedo: qual è l’Occidente? Dove comincia? Anche il cristianesimo è arrivato dall’Oriente ed è molto simile all’islam.
Nel Corano Gesù è osannato e definito «segno di Dio». È superiore a Maometto ed agli altri profeti, semplici mortali. L’islam non crede alla sua morte, e quindi neppure alla sua resurrezione, però lo crede asceso al cielo. Nel Corano si parla della seconda venuta di Gesù, che regnerà per 40 anni e guiderà contro l’Anticristo un esercito di musulmani, nel senso di sottomessi a Dio. Poi ci sarà il giudizio.
Gesù faceva miracoli: ridonava la salute, la vita... Maometto no: il suo vero miracolo è il Corano, visto che non sapeva né leggere né scrivere! Il Corano dice: trattatevi bene, non attaccate chiese, monasteri, scuole... Nella vita di Maometto diversi episodi testimoniano l’amicizia con i cristiani. Come il permesso di pregare nella sua moschea accordato dal profeta a ebrei e cristiani. Anche Giovanni Paolo II vi ha pregato a Damasco.
Nei testi c’è questo; poi nei fatti i comportamenti degli uomini purtroppo sono diversi e non sempre rispettano i precetti delle scritture.
La vera differenza col cattolicesimo è che l’islam non ha nulla di corrispondente al Vaticano. I mufti emettono verdetti giuridici (le fatwa) il cui valore dipende dal consenso che raccolgono e dal gruppo che le sostiene. Alla fine prevale l’opinione più diffusa, ma nessuno può mai dire che la propria è l’interpretazione giusta; e resta solo il Corano. Esistono quindi tanti diversi musulmani: arabi, turchi, marocchini, indonesiani... Anche in Italia ci si chiede: «Di quale moschea sei?».
Ed è vero che abbiamo problemi storico-politici. Le violente manifestazioni nei paesi islamici, in risposta all’offesa delle vignette su Maometto pubblicate in Danimarca, sono state evidentemente consentite, e volute, dai governi.
In Nigeria ci sono masse frustrate e ignoranti che non sanno neppure dove sia la Danimarca. In Siria non si può neppure parlare con un taxista senza che il governo lo sappia. È comunque un problema il fatto che i contrasti irrisolti interni agli stati trovino sfogo in questioni interreligiose. Si tratta di strumentalizzazioni politiche, finalizzate alla ricerca del consenso. È stato così anche a Timor Est e in Sudan.
Forse è proprio un vantaggio il fatto che non esista un solo islam, paradossalmente potrebbe essere un nemico pericoloso, soprattutto per la sua renitenza alle riforme!
Per chiudere devo però segnalare anche il disinteresse dei media a diffondere una cultura islamica moderata. Emarginato dall’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche d’Italia) perché critico sul terrorismo dopo gli attentati dell’11 settembre, quindi non fondamentalista, anche ai media non interesso più!
(da MC Gennaio 2007)
* Ali Schuetz, italo-svizzero, da tempo residente in Italia, di padre protestante, educato nel cattolicesimo, nel 1979 si è convertito all’islam. Per anni attivo nei centri islamici di Milano, già vicepresidente Ucoii, è responsabile dei rapporti col mondo cattolico, attivo nel dialogo interreligioso, pubblicista e consulente culturale.
di Emmanuel C. Mac Carthy *
Per gran parte della mia vita, certamente gli anni in cui indossavo l’uniforme di generale dell’esercito, pensavo in modo diametralmente opposto a quanto ora esporrò.
Il presupposto di queste riflessioni è che Cristo ha qualcosa d’importante da dirci sul modo di vivere la vita cristiana. Lo scopo è di ricercare la verità di Cristo, con la comunità dei cristiani e all’interno di essa. È un testo serio perché il problema è serio: si tratta della guerra e di ciò che Cristo attende nei suoi confronti da coloro che lo seguono. Non procede da uno spirito ostile verso qualcuno nella comunità cristiana. Ma vi sono fatti terribili e spiacevoli nella storia cristiana e nella vita cristiana di oggi, che dobbiamo esaminare. Abbiamo 1.600 anni di cristianità postcostantiniana che hanno giustificato la guerra e la violenza. Ogni secolo ha visto un crescendo di brutalità e di vittime della guerra. Una percentuale impressionante di queste distruzioni disumane può essere attribuita a coloro che si confessano cristiani, discepoli del Principe della pace.
Ma non fu sempre così. Durante i primi tre secoli del cristianesimo, la chiesa era nonviolenta. Poi, all’inizio del quarto secolo, accettò di collaborare, cioè di partecipare alla guerra e alla violenza del dittatore di Roma, allora non cristiano, Costantino; iniziò la costantinizzazione della chiesa.
Alla fine del ventesimo secolo, i cristiani continuano a uccidere e a costruire strumenti di morte, giustificando il tutto con la morale e la teologia, nel nome di Cristo. Ma è davvero questo che Gesù pensava per i suoi discepoli? Se non è così, come può la chiesa approvare che i cristiani accettino questo sistema?
IL COMANDAMENTO DI CRISTO
Certo sarebbe più confortevole per la comunità di Cristo, specie per chi esercita un ruolo di guida, dedicarsi solo ai problemi di giurisdizione episcopale. Ma questi non sembrano così pressanti come quello della giustificazione cristiana della violenza e della guerra in un mondo di distruzione tecnologica avanzata. Proclamare il Vangelo, ma facendo eccezione quando tocca le questioni centrali del nostro tempo, è tradirlo.
Il nemico di una nazione non è nemico di Dio. Il nemico di una persona o di un gruppo, chiunque esso sia, è un figlio di Dio, che dev’essere amato come Gesù lo ama. Gesù è Dio incarnato, è l’immagine del Dio invisibile. Non è solo una dimensione della vita cristiana: è la norma ultima per tutto l’agire del cristiano. E ha esplicitamente chiesto ai suoi seguaci di "osservare tutto quello che ha comandato" e di "amare come lui ha amato".
Il comandamento di Gesù "amate i vostri nemici" è sempre all’imperativo, al plurale e non conosce eccezioni. L’amore dei nemici, con Gesù per modello, è il contrario della morale comune. Si può dire con certezza, secondo gli esperti biblici, che l’espressione è dovuta a Gesù stesso. Risulta anche che è la più citata nei primi due secoli del cristianesimo. Non è dunque possibile sbagliarci: l’amore incarnato in Gesù, che i cristiani sono chiamati a condividere e ad imitare, è l’amore nonviolento verso tutti, nemici compresi.
Se Gesù Cristo è la norma ultima della condotta cristiana, risulta chiaro che vi sono degli assoluti etici nei comportamenti del discepolo cristiano. Per esempio, a chi deve cercare di "vivere Gesù Cristo", non è lecito l’omicidio di massa, cioè la guerra. Vi sono attività alle quali il cristiano non può partecipare, perché contrarie alla volontà di Dio rivelata da Cristo.
Osservo che non si tratta della sola guerra nucleare, ma del rigetto totale e senza equivoci, teorico e pratico, di ogni guerra. Nella vita e nell’insegnamento di Gesù non c’è nulla che possa far pensare che, mentre non è lecito incenerire un popolo con testate nucleari, sarebbe lecito incenerirlo con il napalm. È la guerra che il cristiano mette in questione, non solo la guerra nucleare.
IL MONDO HA BISOGNO DI VERI DISCEPOLI DI CRISTO
L’equilibrio del terrore è una morale che Cristo non ha mai insegnato. L’etica delle stragi di massa non c’è nell’insegnamento di Gesù. La storia della giustificazione della guerra è un continuo sfoggio di eufemismi: la strage di massa è chiamata "dimostrazione di forza" o "azione cautelare". Con questo tipo di linguaggio, il Principe della menzogna è invitato a nozze. Nella dottrina della guerra giusta, Gesù Cristo, che è il tutto della vita cristiana, è spiazzato. Potrebbe benissimo non essere mai esistito. La dottrina della guerra giusta non ha niente a che fare con la sua persona e il suo insegnamento.
Siamo chiari. Tagliare in quattro un capello a proposito della moralità dei tipi di strumenti usati ai fini della strage di massa, non è ciò di cui il mondo ha bisogno, da parte della chiesa. Ha invece bisogno della presenza di cristiani disposti a pagare di persona insieme a Cristo. Il mondo ha bisogno di cristiani che proclamino: "Il discepolo di Gesù non può partecipare alla strage di massa; deve amare come Cristo ha amato, vivere come Cristo è vissuto e, se necessario, morire come Cristo è morto, amando il proprio nemico".
Alcuni cercano di far apparire l’insegnamento di Gesù sulla nonviolenza ingenuo e ridicolo: come se la nonviolenza cristiana fosse un’interpretazione di Gesù e del suo insegnamento teologicamente semplicista, assurda e impraticabile. Cristiani con simili idee sembrano oggi essere la maggioranza nelle chiese. L’autentica nonviolenza cristiana viene raramente messa alla portata della comunità cristiana. Quando in chiesa, o in scuola o in seminario si presenta l’occasione di riflettere sull’amore nonviolento, lo si fa normalmente in termini così vaghi e superficiali da far pensare che nessuno, neppure Cristo in persona, saprebbe difendere una tale posizione.
LA CHIESA DEI PRIMI SECOLI
Eppure, durante i primi 300 anni, la chiesa ebbe dovunque una visione di Gesù e del suo insegnamento come nonviolenti. La chiesa insegnò questa etica di fronte ad almeno tre tentativi dello stato di liquidarla, nonostante i rischi di torture e di morte. Se mai c’è stato motivo di rappresaglie giustificate e di uccisioni difensive, nella forma di dottrina della guerra giusta oppure di rivoluzione violenta giusta, fu allora: le élites economiche e politiche di Roma miravano ad una politica di sterminio della comunità cristiana. Invece la chiesa insisteva senza riserve sul fatto che, disarmando l’apostolo Pietro, Gesù aveva disarmato tutti i cristiani. Questi continuavano a credere che Cristo era, come dice un’antica liturgia, "la loro fortezza e la loro forza", e poiché Cristo era tutto ciò di cui avevano bisogno in fatto di difesa e di sicurezza, non avrebbero cercato altro.
Quando venivano offerte ai cristiani delle occasioni di ammansire lo stato romano unendosi ai suoi eserciti, le respingevano, perché la chiesa primitiva vedeva un’incompatibilità totale tra l’amare come Cristo ama e l’uccidere. Il Dio della comunità cristiana non era Marte, ma Cristo. Era dunque Cristo, non Marte, a determinare il modo di vedere e di vivere del cristiano. Era Cristo, non Marte, che dava la sicurezza e la pace. Durante questi 300 anni, la chiesa continuava a diffondersi. Sopravvisse senza mai ricorrere alla guerra e alla violenza.
Nella chiesa primitiva nonviolenta nessuno disse che i cristiani dovessero ignorare il male o "lasciar correre". Il cristiano sapeva di dover lottare contro il male: ma doveva vincere il male con il bene; se fosse stato necessario, doveva persino "dare la sua vita" in questa lotta. Per la chiesa primitiva, il martirio era un’attività sociale vera e propria, al massimo livello.
LA "RESPONSABILITÀ SOCIALE" DEI PRIMI CRISTIANI
"Deporre la propria vita" (e non uccidere un’altra), rispondendo al male con il bene, era considerato atto supremo di responsabilità sociale. Si riteneva che il modo più efficace di essere socialmente responsabili era di rifiutare la collaborazione con il male sociale, la guerra e la strage di massa. E non era sufficiente opporsi al male a parole: era ritenuta condizione essenziale, nel proprio concreto, amare come Cristo ha amato, a costo anche di gravi pene, anche della vita.
Questa spiritualità cristiana primitiva, consistente nel parlare chiaro e nel pagare di persona, dista anni luce dall’etica ambigua di chi con le parole dice di essere contrario alla guerra, ma poi vi partecipa, in attesa che tutti siano d’accordo di non più parteciparvi. I nostri padri dei primi tre secoli sapevano che Gesù, loro Dio e Signore, non permetteva a nessuno dei suoi discepoli di sostituire la violenza all’amore; e allora parlavano e agivano con coerenza, da cristiani socialmente responsabili.
In concreto, la nonviolenza cristiana non era un ingenuo e sterile ricorso a un idealismo irrealistico. La nonviolenza cristiana è la volontà di Dio rivelata nella vita e insegnamento di Gesù Cristo. Le utopie sono sogni umani, l’insegnamento di Gesù è, invece, un mandato divino, al quale tutti i cristiani sono tenuti a prestare fede totale. Quando Dio parla, un’obbedienza incondizionata è la sola risposta giusta, perché la parola di Dio è potenza e saggezza. Obbedire alla volontà di Dio significa essere realisti e pragmatici. Mentre il rifiuto di obbedirgli è il colmo dell’ingenuità: è il non fidarsi della sua saggezza ad essere irrazionale. Adorare Cristo in pubblico, mentre in segreto si giudica come irrealistica la sua dottrina della nonviolenza, è aberrante.
C’è chi ritiene che Gesù abbia bisogno delle loro rettifiche, perché incapace di esprimersi a riguardo della violenza e dei nemici. Per loro il martirio come attività socialmente responsabile non ha senso, quando si hanno le possibilità di eliminare il nemico: ecco la dinamica operativa dell’etica che giustifica l’omicidio. Per i cristiani vicini a Gesù, invece, combattere la guerra con la guerra è partecipare al male e accrescerlo.
Siamo onesti: la ricerca di un Vangelo con delle scappatoie non ha senso. Non è la verità a motivare tale ricerca. È la paura; è lo spavento dinnanzi alla morte; è il rifiuto di credere che Cristo è risorto, e questo proprio attraverso la sua morte.
"RIVESTITEVI DI CRISTO"
A rendere il comandamento "amatevi come vi ho amato" possibile e ragionevole è la coscienza che Gesù è in mezzo a noi. La risurrezione di Cristo e la sua presenza tra noi confermano la verità e la forza del suo amore. Senza conversione alla fede nella persona di Cristo, la fede nell’etica di vita che egli proclama è insostenibile. Senza la risurrezione della sua persona, la fede nell’etica della sua croce di amore nonviolento è vuota. Ma se Cristo è risuscitato, allora questa croce dell’amore nonviolento è davvero la Via e la Verità.
Sapendo quante altre logiche cercano di imporsi, S. Paolo richiama al cristiano la necessità di "pregare senza sosta". Se si è uniti a Cristo nella preghiera, non si riesce più a giustificare la violenza e la guerra, come invece non dispiace a una certa teologia. Una continua coscienza della realtà di Dio come Amore è fondamentale in Gesù. È a questa coscienza che la preghiera ci converte, "rivestendoci del pensiero di Cristo".
Lo spirito di Cristo non è primariamente centrato sul rifiuto della violenza, ma sull’amore. Il centro di questo amore è la comunità di amore che abita dentro di noi, la Trinità. Una spiritualità veramente cristiana ci conduce a una presa di coscienza crescente del totale coinvolgimento della nostra persona e di tutta la creazione nella comunione d’amore che è la Trinità. Chi è impegnato a "rivestirsi del pensiero di Cristo", a vivere alla presenza del Dio-Amore, compassionevole, è inconcepibile che possa arrivare a giustificare la guerra e la violenza, tantomeno a parteciparvi.
La dottrina della guerra giusta è un tentativo di giustificare moralmente la strage di massa, che Gesù ha esplicitamente escluso dalla sua logica. È un cristianesimo senza Cristo. Giustificare la logica di Marte come compatibile con la sequela di Cristo è un abominio idolatrico, che continuerà a spargere caos e tragedie.
La scelta è tra il "rivestirsi del pensiero di Cristo" o no. Impossibile rimanere neutrali. Non è facile "rivestirsi del pensiero di Cristo", richiede conversione. Ma è il prezzo della pace sulla terra. Se non si accetta di pagare il prezzo della pace, si pagherà il prezzo della guerra. Se non si vuole assumere la "santa violenza" (o ascesi) di una vita di preghiera incessante, con la quale impossessarsi del Regno dei Cieli, si dovrebbe almeno avere l’onestà di non giustificare come cristiana la violenza, da cui i regni di questo mondo sono inevitabilmente condotti alla distruzione.
Da 1.600 anni il popolo di Dio è stato bloccato dalle giustificazioni cristiane al massacro di vite umane. Questo deve finire. La partecipazione cristiana alle barbarie della strage di massa è la negazione del Vangelo. La chiesa deve interdirsi di giustificare delle rappresentazioni false e grottesche di Cristo e della sua dottrina, in contraddizione con i suoi insegnamenti più chiari. Non c’è passo del Vangelo in cui Cristo dica che i suoi discepoli sono esenti dal seguirlo quando temono certe conseguenze. La sequela di Cristo include la fedeltà ai modi di agire di Cristo. Il suo cammino è quello della croce, è l’amore nonviolento, sempre.
Siamo chiamati dal Principe della pace a essere un popolo di pace. Dobbiamo essere testimoni pacifici della risurrezione, contenti di pregare senza tregua, di amare alla maniera di Cristo. Non si pretende nulla di più da noi. Non c’è bisogno d’altro da parte nostra.
* Sacerdote statunitense ed ex generale dell'esercito
(Centro per la nonviolenza cristiana di Baxter - USA. Pasqua 1982)
L'ideale della pace
nelle religioni del mondo
INDUISMO
Chiunque oggi mi è amico sia in pace; chiunque mi è nemico sia lui pure in pace. (Upanishad) |
BUDDISMO
|
BAHA’I
I pregiudizi religiosi, razziali, nazionali e politici, portano l’umanità alla rovina. Finchè essi perdurano, il timore della guerra continuerà. (...) Dio di bontà, unisci tutti gli esseri; stabilisci la pace suprema. |
CONFUCIANESIMO
Quando lo stato è [ben] governato, tutto ciò che è sotto il cielo è in pace. (Tu Fu) |
ISLAM
(Anonimo). |
TAOISMO
Se fossi re di un piccolo stato, veglierei perchè il popolo, anche se possedesse armi e corazze, non le usasse. (Lao tse, Tao te-ching) |
EBRAISMO
(Giuditta 16,1-2) |
SIKHISMO
(Sant Ajaib Singh) |
GIAINISMO
Colui che tu hai intenzione di colpire, in realtà non è altro che te stesso. Sappi che la violenza è la radice di tutte le miserie del mondo: non dovrebbe cadervi chi crede nella pace. (Preghiera giainista ad Assisi, 1986) |
CRISTIANESIMO
Beati gli operatori di pace, essi sono chiamati a costruire la pace. (Conf. Cristiana ad Upsala, ’83) |
SHINTOISMO
I nostri antenati perseguivano l’alto ideale di unire il mondo come una famiglia, un mondo in cui le navi navigassero e ancorassero nei porti, ed ogni paese consolidasse e conservasse la pace.(Preghiera shinto, ad Assisi, 1986) |
INDIANI DEL NORD AMERICA
Pace non è solo il contrario della guerra... Pace è la legge della vita: agire con giustizia. |
(da Cem/Mondialità aprile 2005)
BUDDISMO
Generosità: primo gradino per la pace
di Lama Paljin Tulku Rinpoce
DOMANDA
La malvagità è innata nell’uomo?
Il bene è equilibrio e positività. Il male è confusione, che arriva quando ci si allontana dal bene.
Il buddismo è stato fondato dal Buddha Sakiamuni. Nato in India nel 500 a.C., quindi di religione indù, ebbe l’intuizione della sofferenza, da cui cominciò il suo insegnamento. Uomo qualsiasi, con esperienze comuni a tutti gli individui normali, è quindi una figura storica, nonostante la sua realtà umana sia «condita» di leggenda.
Sakiamuni diffuse le conoscenze dai bramini (indù) al popolo, proponendo una liberazione non solo spirituale ma anche concreta e la rivalutazione della figura femminile (ad esempio, prima non c’erano monache). Comunque resta anche lui un po’ maschilista: nella tradizione tibetana i monaci hanno 253 ordini (voti), le monache 436!
Pur nascendo come una filosofia, a mio avviso, il buddismo può essere considerato una religione. Di essa ha, ad esempio, gli ordini monastici. Il fatto che Buddha non abbia parlato di Dio non è perché non ne ritenesse vera l’esistenza, ma perché la figura di Dio è indicibile e la mente umana non può comprenderlo. Penso questo, nonostante sul suo insegnamento ci sia incertezza: sono infatti trascorsi tantissimi anni e altrettante interpretazioni prima che si cominciasse a trascriverlo.
Storicamente in India il buddismo diventa anche religione di stato, ma ne viene espulso dai bramini dopo 700 anni. Successivamente fece presa nel nord della Cina, Giappone, Corea… e oggi in Occidente.
Cercando di adattarsi all’ambiente sociale in cui viene a trovarsi e innestandosi in tutte le culture dei paesi dove arriva, il buddismo ne ingloba le tradizioni locali. Questo genera tante scuole diverse, che seguono differenti tradizioni, legate a quella originaria e tutte fondate sul concetto base e comune della sofferenza.
In Tibet, ad esempio, avviene il sincretismo con la preesistente tradizione sciamanica, che porta a sviluppare il metodo della visualizzazione. In Giappone, invece, si sviluppa un altro modo di concentrarsi: lo zen. Infatti le differenze nell’ambito del buddismo sono legate alla meditazione, assimilabile in un certo senso alla preghiera, perché esistono tanti modi diversi per praticarla e pacificare la mente e gli animi.
Il buddismo, non proponendo una fede o dogmi ma un obiettivo, è una tradizione trasversale applicabile a tutte le religioni e fondata su quattro nobili realtà, fra cui pacifismo, equilibrio, armonia... L’illuminazione (realizzazione) della persona nasce dalle sue esperienze e qualità, la «buddità» viene dall’interno, impegnandosi e agendo secondo i principi di pace, armonia e positività.
Nessuna preghiera e influenza esterna ci può cambiare se non vogliamo cambiare noi. Le scritture (per quanto possano essere attendibili, visto quanto detto in precedenza) e il maestro possono solo indicarci la via.
Desiderio, avversione (discriminazione) e confusione mentale (per desiderio ci creiamo illusioni) sono i tre elementi fondamentali che ci impediscono di redimerci. L’io e il mio condizionano la nostra esistenza. In sostanza il buddismo è una religione facile da descrivere e difficile da attuare.
All’attuale realtà di guerre il buddismo si rapporta considerando alcune parole chiave, fra cui altruismo, compassione, generosità... L’amore è augurare a tutti di essere felici; la compassione è far di tutto per vincere la sofferenza altrui.
Il primo gradino per costruire la pace è la generosità: il saper dare. Molti amici della tradizione buddista sono impegnati per la pace, ma se non la viviamo nel nostro quotidiano, anche praticando il dubbio, dal quale nascono la ricerca e la capacità di migliorarsi, questo genere di impegno è un impegno inutile.
(da Missioni Consolata, gennaio 2007)
Paljin Tulku Rinpoce (Arnaldo Graglia) è da oltre 30 un monaco buddista di tradizione tibetana. Fondatore e guida del centro studi tibetani Mandala di Milano, siede fra i maestri reggenti il monastero di Lamayuru a Ladakh (India) ed ha assunto la guida del monastero di Atitse destinato a diventare un centro internazionale di meditazione.
di Rosa Myoen Raja
DOMANDA:
Constato che nell’essere umano esiste la dimensione del male, ma la domanda mi supera. Nella mia attività con i carcerati sento che non mi è estraneo quel che hanno commesso. Nelle stesse condizioni forse avrei fatto di peggio, la vita mi ha dato una realtà estremamente favorevole. Quando apprendo di eventi drammatici o tragici non riesco a prendere parte per qualcuno.
In realtà, purtroppo, c’è indifferenza in tutti noi per le tragedie dell’umanità che accadono anche in questo stesso istante.
Qualsiasi riflessione sulla pace deve partire dal presupposto che nel cuore di ogni persona brilla sempre una fiamma, una scintilla d’intelligenza. Bisogna poi recuperare la consapevolezza, la forza del «sentire» e del sentirsi parte di un tutto: se io respiro, l’intero universo respira; se raccolgo da terra un mozzicone, è l’intero universo che compie questo gesto; e sbaglia chi, vedendomi, pensasse che sto pulendo il marciapiede: è il mondo che sto pulendo!
È il principio di separazione dal tutto che genera i conflitti. Il buddista rispetta tutti e tutto, perché sa che compongono il «Tutto Universale», al quale appartiene anche lui. Togliendo qualcosa all’universo, lo togliamo anche a noi stessi, e viceversa.
È fondamentale l’azione della persona, il far bene quel che si fa: perché serve al mondo. È la nostra vita che deve essere messa in gioco e costruita sui grandi pilastri dell’Armonia, del Rispetto, della Purezza, e della Pulizia interiore. Non è attraverso il male degli altri che si raggiungono la felicità e la realizzazione di sé. Perciò dobbiamo cambiare partendo da noi stessi e dal nostro ambiente.
Anche la pace non va cercata negli altri, ma dentro di sé. Imparando ad affrontare i problemi quando si presentano, senza vacillare al solo pensiero che «forse arriverà il vento!». Come nulla intacca il diamante, nulla potrà compromettere una coscienza adamantina e pura.
Venendo alla domanda se, ai fini della pace, la religione sia troppa o troppo poca, penso che, se ha radici profonde nella storia dell’uomo, la religione non è mai troppa: i vertici delle organizzazioni e delle religioni predicano sempre bene!
Il mondo però non è migliorato, nel senso che non ha accolto i loro insegnamenti e non vi regna la pace. Sembrerebbe quindi che i grandi maestri abbiano fallito. Ma il maestro può solo aprire la porta; è il discepolo, con il suo piede, che può entrare. Chi non è se stesso fino in fondo deve sapere che nessuno può esserlo al suo posto.
Dunque la religione non sarà mai troppa in quanto a principi etici. Semmai sono troppo pochi a praticarla. Oggi dobbiamo quindi domandarci fino a che punto siamo praticanti: la nostra generazione non sa più bene in cosa sta credendo, ha bisogno di ritrovare i riferimenti giusti.
Dobbiamo anche considerare che mai ci sarà una religione unica sulla terra. Ci sarà, forse, un’integrazione interreligiosa, in vista della quale è necessaria una maggiore comprensione della religione altrui, anche da parte di chi non crede. È quindi importante lo sviluppo di tutte le religioni e la ricerca di opportune occasioni per praticarle assieme.
Per questo credo nella necessità e nel valore del lavoro culturale nella nostra società. I bambini già ci hanno superato, sono già uniti, ma gli adulti devono creare un ambiente favorevole, perché questo atteggiamento spontaneo possa radicarsi nelle loro coscienze.
Più delle ore di religione passate a scuola, conta la testimonianza vissuta dai genitori in famiglia; dove la religione potrebbe aiutare a crescere meglio i figli e a costruire una società migliore. Anche se essere buoni praticanti non è garanzia di successo.
Vorrei infine segnalare che, dal 2000, i leader delle religioni presenti a Milano si stanno incontrando con continuità. Un lavoro che ha portato alla firma, il 21 marzo 2006, dello statuto costitutivo del Forum delle religioni a Milano. Anche se è stato uno sforzo impegnativo, raggiungere questo obiettivo è stato più facile di quanto non sembrasse al principio.
(da Missioni Consolata, gennaio 2007)
Rosa Myoen Raja ha iniziato nel 1988 la pratica zen presso il centro «Il Cerchio» di Milano, di cui è diventata presidente, avendo ricevuto dal maestro Tetsugen l’ordinazione monastica. È membro fondatore della sezione milanese di «Religioni per la Pace», Forum delle religioni a Milano.