Il diritto alla diversità,
anche nella Chiesa
di Marcelo Barros
Nell’attuale contesto ecclesiale e teologico della Chiesa cattolica, è stato per molti una bella sorpresa il fatto che il documento di Aparecida non solo abbia contemplato le posizioni teologiche dominanti nella gerarchia ecclesiastica, ma abbia anche trattato con rispetto e considerazione le pastorali sociali e le Comunità ecclesiali di base (…). Non ci sono dubbi che la Conferenza di Aparecida sia stata, almeno riguardo al clima ecclesiale e alla presenza di una certa diversità di posizioni nell’episcopato, più aperta della quarta Conferenza (Santo Domingo, 1992) e questo non poteva non riflettersi in qualche modo sul documento finale.
I settori più aperti della Chiesa hanno gradito questi accenni di apertura, che saranno certamente utili nel cammino ecclesiale latinoamericano e caraibico, pur non mutando sostanzialmente il modello di Chiesa e di pastorale dominanti. (…). C’era da aspettarsi che questa apertura teologica e pastorale riecheggiata in alcuni momenti ad Aparecida (…) incontrasse le obiezioni di altri settori dell’episcopato.
Il testo ufficiale divulgato dal Vaticano con l’approvazione del papa contiene più di 200 emendamenti al testo originale approvato dai vescovi. Il teologo cileno Ronaldo Muñoz enumera 34 variazioni che hanno indebolito o alterato il testo. (…) Poiché il Vaticano non ha riconosciuto pubblicamente di aver modificato il documento (secondo la legge canonica vigente, la Curia romana ha autorità per farlo), era normale che all’inizio si attribuisse la responsabilità ai due vescovi che erano, all’epoca della Conferenza di Aparecida, presidente e segretario del Celam. Questi ultimi avevano dichiarato di aver introdotto solo variazioni di stile e di punteggiatura, ma il testo è stato modificato in punti fondamentali, come nei paragrafi sulle comunità ecclesiali di base e le pastorali popolari. (…) Con l’aumento delle pressioni, i due ex dirigenti si sono difesi affermando che i mutamenti provenivano da autorità della Curia romana. Hanno anche chiarito che, poiché queste autorità del Vaticano hanno agito in nome del papa, avevano tutto il diritto di cambiare il testo approvato dai vescovi rappresentanti di tutto l’episcopato latinoamericano e caraibico.
Questi pronunciamenti non hanno impedito la diffusione di lettere individuali e collettive all’attuale direzione del Celam, affinché questa intervenga per il ripristino del testo originalmente approvato dai vescovi. Dietro a tali richieste c’è non solamente il desiderio di esprimersi contro la mancanza di rispetto verso l’episcopato da parte di chi ha alterato il testo, ma soprattutto la speranza che l’attuale direzione del Celam sia non solo aperta e sensibile alla giustizia, ma anche sufficientemente libera di prendere posizione contro la violazione del testo della conferenza, per quanto dietro a tale atto vi siano autorità del Vaticano.
Chi conosce l’attuale realtà del Vaticano e della Chiesa cattolica sa che è quasi impossibile che la questione sia rivista e il testo originale recuperato. Per quanto molti sappiano cosa è accaduto e vedano segnali chiari di chi sta dietro le alterazioni del testo, nessuno parlerà chiaramente e dopo qualche giorno i mormorii passeranno. Tutto tornerà alla calma dei regimi autoritari e al silenzio delle complicità tattiche e delle omissioni, vissute sempre per salvare ciò che sarà ancora possibile salvare. In ogni modo, le manifestazioni e gli scritti pubblicati sulla violazione del documento finale di Aparecida sono stati molto positivi perché hanno dato vita ad un dibattito che non è così comune in ambito cattolico e che può rivelarsi fecondo, soprattutto se le persone non si limiteranno a una discussione giuridica, ma cercheranno anche di approfondire quello che c’è dietro l’alterazione del documento sul piano dell’ecclesiologia e della pastorale.
Dietro alle parole e ai testi
Discutere il modello di Chiesa e di spiritualità vigenti nella Chiesa cattolica romana e nell’episcopato latinoamericano e caraibico è una questione dolorosa e apparentemente inutile, sia perché il pensiero ecclesiologico dominante a Roma e nella maggioranza dei settori gerarchici della Chiesa cattolica è molto chiaro e non ammette dubbi, sia perché l’impressione generale è che, in America Latina, nessuno è in grado di cambiare tale realtà. Tuttavia ci sono sempre minoranze profetiche convinte che la propria missione sia quella di mantenere accesa la fiaccola della speranza e di non permettere che la Parola di Dio venga messa in catene. Un’analisi anche rapida della storia della Chiesa nel XX secolo mostra come, al tempo del pontificato di Pio XII (dal 1938 al 1958), il Vaticano e la gerarchia cattolica respirassero un clima di chiusura e ostilità a qualunque cambiamento, quasi come l’attuale clima vaticano. Tuttavia, pur in quell’inverno ecclesiale, vennero generati tutti quei semi di apertura e rinnovamento che, subito dopo, sarebbero stati assunti e ufficializzati dal Concilio Vaticano II. Movimenti come quello biblico, liturgico, ecumenico, o come l’Azione Cattolica, si svilupparono all’epoca di Pio XII in mezzo a difficoltà e repressioni, ma la loro perseveranza permise loro di collaborare al rinnovamento di tutta la Chiesa, quando fu possibile contare sul "papa buono" che convocò il Concilio.
Attualmente, l’importante è che le comunità e le persone che le accompagnano non rinuncino alla propria missione profetica. Tutti sanno che non serve a nulla, in sé, scrivere o protestare contro l’alterazione del testo perché, purtroppo, questo modo di procedere non è estraneo a un certo modo di concepire il magistero ecclesiale. (…).
Violare un testo approvato da un’assemblea rappresentativa è impensabile in regimi democratici e all’interno di Chiese dalla concezione ecclesiologica sinodale. Tuttavia, se la Chiesa cattolica è ancora considerata una società sacra, in cui l’autorità è sempre ritenuta al di sopra della comunità, è comprensibile che chi detiene il potere si senta in diritto di intervenire in maniera permanente per sanare quello che non gli appare coerente o opportuno. Il papa e la curia romana possono sempre mutare un testo già approvato da una conferenza di vescovi. In America Latina, si può deplorare questo tipo di intervento o auspicare un diverso modo di procedere, ma se nel quotidiano della prassi ecclesiale si accetta tale modello di Chiesa, non si dovrebbe protestare contro la violazione del testo. Per quanto i cambiamenti vengano realizzati di nascosto e senza che vi sia chiarezza sui responsabili, essi sono legittimi anche se non giusti. (…).
Secondo l’ecclesiologia romana vigente, i fratelli e le sorelle che hanno firmato appelli per il ripristino del testo originale (…) difficilmente l’otterranno, dal momento che tale concessione dovrebbe essere data dalla stessa autorità ecclesiastica di cui si contesta il modo di agire (…). È importante lottare per il recupero del testo originale. È un diritto delle comunità sapere quello che l’insieme dell’episcopato latinoamericano ha detto realmente su di esse. Tuttavia, dobbiamo andare alla radice del problema e denunciare l’ecclesiologia che soggiace non solo all’atto della violazione ma alla struttura mentale che rende possibili tali atteggiamenti.
La realtà di una Chiesa eterogenea
(…) Chi vive il proprio impegno nel cammino ecclesiale latinoamericano vorrebbe aiutare la Chiesa a compiere al meglio la propria missione liberatrice e a collocarsi nella grande comunità delle persone che lavorano e tentano di dare vita a un nuovo mondo possibile. Per questo è importante chiarire il contesto ecclesiale e teologico latente dietro ciascuno dei due testi in questione: il documento originale e il testo adulterato.
(…) La Chiesa cattolica romana, come tutte le altre confessioni cristiane, è uno spazio pluriculturale, in cui pastori e fedeli si trovano su posizioni teologiche e umane diverse. Anche se l’attuale papa riuscisse a eliminare ogni traccia della più piccola diversità ancora esistente in alcuni settori del Vaticano, anche se egli si relazionasse solo con collaboratori scelti a sua immagine e somiglianza, anche così sarebbe difficile impedire la diversità di opinioni e di visioni teologiche nel seno delle Chiese locali.
Chi ha violato il testo approvato dall’episcopato latinoamericano per impedire che in esso restasse un riferimento più positivo alle Cebs e alla pastorale popolare non riuscirà a cambiare la visione dei vescovi che, nella conferenza, hanno affermato che le Cebs rappresentano un grande beneficio per le Chiese locali. (…).
D’altro lato, i vescovi, gli assistenti e gli altri partecipanti alla Conferenza che hanno tentato di includere le Cebs e le pastorali nel testo finale di Aparecida sanno che, dietro tale questione, c’è in gioco il modello di Chiesa vissuto a partire da Medellín e oggi diventato ancora più necessario e urgente (…).
Questi vescovi sanno che il documento di Aparecida deve testimoniare l’esistenza delle Cebs e il bene che esse fanno all’insieme della Chiesa perché questa è la verità e perché sottolineare questo aiuta tutti, ma, sia che il documento si occupi della questione sia che eviti di affrontarla, il cammino delle Cebs andrà avanti lo stesso. Se non ne parlerà, sarà senza dubbio lo stesso episcopato a dover rendere conto a Dio di questa omissione storica. Tuttavia, con ogni delicatezza e rispetto, dobbiamo ammettere che, in sé, le comunità non hanno bisogno di mendicare una qualche citazione elogiativa o la benedizione forzata di pastori che non hanno sensibilità per la propria missione episcopale. In fondo, coloro che stanno lottando per il ripristino del testo originale stanno difendendo i vescovi latinoamericani, i quali, in maggioranza, hanno senso pastorale e meritano rispetto quando votano e firmano un documento emesso a loro nome.
Il diritto di essere Chiesa nella diversità
I fratelli e le sorelle che, malgrado tutte le difficoltà, portano avanti la discussione e lottano perché il documento finale di Aparecida rifletta quanto avviene nei settori popolari delle Chiese offrono una testimonianza di amore e fedeltà alla Chiesa, come pure di profondo rispetto per i pastori. Esprimono il fatto che la Chiesa non è data solo dalla curia romana e da certi settori della gerarchia. Contro qualunque desiderio di rottura o di disobbedienza ecclesiale, cercano brecce nella struttura rigida ancora vigente per proseguire nel cammino proposto dal Vaticano II e da Medellín (…).
Solo una vera spiritualità dà la forza per un esercizio che richiede tanta pazienza e resistenza. Lottando pacificamente perché il riferimento alle Cebs e alle pastorali popolari venga assunto dal testo ufficiale di Aparecida, stanno ottenendo una grande vittoria: ricordano ad alcuni capi della Chiesa che hanno il diritto di pensare quello che vogliono, ma che sono chiamati a coordinare un corpo ecclesiale diversificato ed eterogeneo. Per questo, almeno per senso di giustizia, devono rendersi conto che esistono molti fedeli e pastori che pensano in modo diverso e meritano di essere rispettati e anche accompagnati pastoralmente.
Di fatto, se, durante la Conferenza di Aparecida, le discrepanze teologiche e anche di carattere socio-politico sono state meno intense o visibili di quanto avvenuto a Puebla (1979), non è perché tali differenze non esistano più. La ragione sembra risiedere nel fatto che, attualmente, i vescovi con un’opzione per il cammino proposto dal Concilio Vaticano II sono un’infima minoranza nell’insieme degli episcopati nazionali e questo "resto di Israele" ha meno forza e, salvo alcune onorevoli eccezioni, non è stato votato per la Conferenza. È chiaro che questi vescovi più aperti avrebbero dovuto essere votati dai confratelli in ogni Paese, giacché nessuno di essi sarebbe mai stato scelto da Roma che, tuttavia, ha la pretesa di rappresentare tutti. Per questo, all’interno della realtà monolitica artificialmente creata dai vertici ecclesiastici, il dialogo dei vescovi con alcuni teologi inseriti in gruppi come Amerindia e con alcuni laici impegnati in servizi di pastorale più aperti non è stato solo sorprendente ma è apparso come un’alba ancora immersa nell’oscurità ma già gravida della luce di un nuovo giorno ecclesiale (…). In un certo modo, i diversi eventi ecclesiali avvenuti ad Aparecida durante la Conferenza sono stati l’annuncio di un giorno in cui, senza escludere il diritto dei vescovi di fare una conferenza propria, le Chiese d’America Latina potranno realizzare una grande assemblea ecumenica del popolo di Dio, con la rappresentatività e l’autorità per offrire orientamenti per il cammino delle Chiese.
L’orizzonte teologico e pastorale del documento finale
(…) Per il fatto di essere votato da tutta l’assemblea e di dover incorporare in qualche modo suggerimenti e proposte dei più diversi settori cattolici del continente, il documento finale di una Conferenza come quella di Aparecida non riesce a raggiungere una grande unità formale, presentando anche elementi eterogenei. Questo fatto è positivo, nel senso che riflette la diversità delle Chiese e dei settori ecclesiali nel continente. Al contrario, leggendo il testo attuale, la domanda che sorge è se, per mantenere l’unità di testo, non si sia finito per mettere da parte molte delle proposte più interessanti giunte dai diversi settori ecclesiali del continente.
Nell’insieme del documento, alcuni paragrafi riflettono un’ecclesiologia missionaria nella linea di una Chiesa di servizio e impegnata con l’umanità. In altri passaggi, il documento offre un’altra impressione, come se il progetto contenuto nel testo fosse ancora quello di una Chiesa della Cristianità che vuole riprendersi il suo ruolo egemonico e culturale nella società. Per questo, l’incidente dell’eliminazione dei testi più avanzati diventa più grave. Indebolisce paragrafi più aperti e permette che il testo possa esser letto come un insieme che ha dietro di sé una tendenza ecclesiologica estremamente conservatrice.
La sfida della grande missione continentale
La proposta di vari settori ecclesiali di rivitalizzare un grande movimento missionario a livello latinoamericano è stata non solo accettata ma sostenuta dal papa e incorporata nel testo. Come dice p. José Comblin, resta da capire chi lo farà e come. Tuttavia, anche prima di distribuire compiti, è fondamentale capire cosa il documento intende per missione.
Purtroppo, le espressioni usate dal documento finale vanno più nel senso di una Chiesa della Cristianità che nella prospettiva che oggi, in America Latina, ci piace chiamare "lascasiana". Ciò si concretizza oggi in una missione che rispetti pienamente l’altro, il diverso, che veda il volto divino presente nell’oppresso e abbia la convinzione che, sulla base del Vangelo, la prima missione di chi è discepolo di Gesù riguardi la vita e la salute delle persone che soffrono. Questa missione lascasiana, oggi, include il dialogo interculturale e interreligioso e ha come obiettivo il Regno, il progetto divino per il mondo, e non solo la Chiesa.
Nel momento attuale, è fondamentale che questa grande missione avvicini i popoli del continente nella prospettiva della patria grande bolivariana e orienti tutte le forze della Chiesa in direzione della difesa di una cultura della pace, contro la guerra, le spese militari, la pena di morte e il capitalismo che provoca la morte di tanti poveri. È parte essenziale di questa missione una nuova coscienza ecologica di comunione solidale con la terra, l’acqua e tutta la natura.
(…) Sarebbe impossibile per la Chiesa realizzare questa missione in modo profondo se essa si concepisse come una istituzione multinazionale, centralizzata e centrata su un potere sacro che crede di rappresentare Dio. Solo una Chiesa che accetti di essere evangelizzata per essere evangelizzatrice e assuma un cammino di conversione istituzionale può pensare ad una missione come questa. Solo se essa si organizzasse come vera comunione di Chiese locali avrebbe coerenza sufficiente per proporre agli altri i valori del Regno indicati da Gesù Cristo ed impegnarsi per la giustizia e la democrazia in questo continente. Per questo, un presupposto fondamentale di questa missione è ricostituire nella Chiesa cattolica la piena ecclesialità delle Chiese locali, con uno sforzo nuovo di rinnovamento dell’ecclesiologia catto-lico-romana.
Nel 1973, la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Mondiale delle Chiese, nella riunione di Salamanca, sviluppò la visione di una "comunità conciliare". Nozione ripresa dall’Assemblea del Cmi a Nairobi: "La Chiesa una deve essere vista come una comunità conciliare di Chiese locali, esse stesse autenticamente unite. In questa comunità conciliare, ogni Chiesa locale possiede, in comunione con le altre, la pienezza della cattolicità e dà testimonianza della stessa fede apostolica. Essa riconosce che tutte le altre Chiese fanno parte della stessa Chiesa di Cristo e che la loro ispirazione emana dallo stesso Spirito" (…). È un linguaggio ben diverso dal modo in cui il testo di Aparecida parla della Chiesa (…). Sarebbe stato bello se il Documento conclusivo di Aparecida riprendesse perlomeno, 40 anni dopo, quello che i vescovi latinoamericani dell’epoca affermarono a Medellín: "Che si presenti sempre più nitido, in America Latina, il volto di una Chiesa autenticamente povera, missionaria e pasquale, svincolata da ogni potere temporale e coraggiosamente impegnata nella liberazione di ogni essere umano e di tutta l’umanità" (Medellín 5, 15a).
(…) Da molti anni, in America Latina, abbiamo cercato di credere in Gesù e di seguirlo aderendo alla fede di Gesù e non solo alla fede in Gesù. In questa prospettiva, ricevere la fede di Gesù come il contenuto più intimo della nostra fede ci apre in maniera fondamentale al progetto di Dio che significa concretamente vita per tutte le creature dell’univer-so. È una prospettiva di missione e di vita ecclesiale regnocentrica e non cristocentrica. È quello che ci hanno insegnato maestri come Jon Sobrino ed è l’orientamento attuale dell’Asett, l’Associazione Ecumenica dei Teologi e delle Teologhe del Terzo Mondo. A partire da questo sostrato di impegno con la realtà, la missione può assumere un carattere più propriamente religioso di testimonianza del Regno di Dio, rappresentato nelle comunità ecclesiali e nei valori proposti dalle Chiese. Tali valori sono la valorizzazione dell’al-tro e del diverso, come pure la spiritualità del dialogo e del riconoscimento della presenza e dell’azione divine nelle altre culture e nelle altre religioni. È così che la cristologia, anziché dividerci dagli altri, ci rende possibile vivere una prassi liberatrice a partire dal pluralismo culturale e religioso.
(da Adista, 2007)