Mondo Oggi

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Venerdì, 31 Agosto 2007 00:24

Fedeltà (Faustino Ferrari)

L’inizio del libro dell’Apocalisse troviamo sette lettere indirizzate a sette Chiese. Uno dei temi costanti di queste lettere è la fedeltà, la perseveranza. Nella fedeltà ci sono già tutte le tracce, i segni del compimento...

C –GESU’ CRISTO PRESSO GLI EBREI
ED ALTROVE

di Bruno Secondin

L’interesse per Gesù e per il suo messaggio di salvezza e di sapienza ha da sempre superato le frontiere della sua comunità costituita e storicamente definita. La curiosità per questa figura «straordinaria» ha preso i sapienti fin dalla prima ora, e ne sono stati sovente affascinanti, senza tuttavia per questo entrare tra i suoi «seguaci»

Nel nostro tempo questo «interesse» e questo «fascino» continuano a mantenersi vivi. Passiamo in rassegna alcuni settori.

I

... Gesù l’ebreo

Non c’è dubbio che in questi anni è andato crescendo l’interesse per la figura storica di Gesù e per il suo significato «spirituale» negli ambienti religiosi ebrei culturalmente più sensibili al dialogo con la religione cristiana. Soprattutto importante è stato il tentativo di recuperare la figura di Gesù alla cultura ebraica del tempo e di riscoprire la «simpatia» che tanti rabbini ebrei hanno avuto per questo famoso «rabbino».

Si è arrivati così a leggere in forme nuove il ruolo del cristianesimo di fronte all’ebraismo. La «giudaicità» di Gesù affascina oggi sia gli ebrei che i cristiani. Per questi è un recupero dell’umanità storica di Gesù, del suo rapporto con la cultura e le sue forme regionali, del riflettersi in lui dei vari movimenti messianici. Per gli ebrei è come una «reclamazione» della ebraicità di Gesù, un «bringing home» di questo famoso rabbi.

Per capire la novità e anche la causa dell’ostilità storica fra i due gruppi, bisogna non dimenticare la situazione conflittuale cui furono sottoposti gli ebrei per secoli: da una parte l’accusa di deicidio e dall’altra la persistente pressione per indurli a «conversione».

Gesù e la sua croce nella storia sono diventati per gli ebrei il segno/sintesi della sopraffazione e delle violenze. Solo alcuni isolati e ammirevoli dissenzienti - come Maimonide (1135-1204) che riconosce come «provvidenziale» il cristianesimo - andavano oltre le solite accuse raccolte e diffuse nelle famose Tôledôth Yéshü (Vita di Gesù) piene di leggende infamanti (Gesù figlio di Pantèra...). Tali testi (la loro origine risale al sec. VIII) sono una specie di anti-evangelo, diffusi in ebraico e yiddish, erano molto conosciute negli stati popolari e spesso venivano letti durante la veglia di natale. (1)

Di recente ha preso l’avvio uno studio più esatto delle «concezioni» ebraiche (e anche islamiche) di Gesù nel medioevo, contestualizzando con maggiore cura le affermazioni nelle situazioni di conflitto, di polemiche culturali, di interessi economici, di modelli di società. E appare un mondo finora sconosciuto, in cui il rifiuto dell’accettazione di Gesù e della sua «chiesa» ha molteplici ragioni, non tutte senza peso. Si pensi alle critiche dei giudei e dei musulmani medievali della Spagna a certe forme «cristiane» di praticare la fede in Gesù Cristo, con fanatismo sanguinario.

Nel secolo scorso, quando i ghetti si smantellarono e cominciò una storia nuova per gli ebrei, più rispetto e libertà anche per loro, qualcuno comincia a riconoscere il valore spirituale dell’insegnamento del rabbi di Nazaret. Così H. Graetz, grande studioso ebreo, che riconosce in Gesù «nobiltà di cuore, profonda serietà morale e santità di vita», ma la cui stima viene contestata nell’ambiente ebraico. Così C.G. Montefiore, che lo definisce un autentico «profeta».

Il movimento sionista - cioè il grande revival del ritorno alla terra dei padri - con la fine del sentimento di emarginazione e di insicurezza, conduce più facilmente a riconoscere in Gesù di Nazaret un grande figlio di Israele. Ammiratori di Gesù sono tra gli altri: Moshé Hess, Max Nordau, Max Bodenheimer, Theodor Herzl, Klausner Joseph («Gesù è un grande artista delle parabole»).

Le conseguenze della visita storica del papa alla sinagoga di Roma (13 aprile 1986) sono ancora da verificare, sul piano di eventuale «riflesso» nella cristologia. Per ora però si possono meglio valutare le conseguenze di dialogo e collaborazione provocate dal paragrafo 4 della dichiarazione Nostra aetate del concilio Vaticano Il.

Sono tanti coloro che dal lato dell’ebraismo rileggono la vicenda Gesù.

Citiamo alcuni autori che si sono distinti in particolare su questo tema.

Jules Isaac (+ 1965): con la sua opera. Gesù e lsraele (2) inaugura una nuova era nei rapporti reciproci. E’ un invito ad una rimeditazione più equilibrata e onesta degli scritti neotestamentari. L’opera si divide in quattro sezioni: Gesù detto «il Cristo» era ebreo secondo la carne e la cultura; predicò il «Vangelo» nella sinagoga ebraica e nei luoghi sacri ebraici, fu in buone relazioni con il suo popolo, esclusa una piccola minoranza fanatica che lo condannò; del crimine di deicidio è imputabile una minoranza di «collaborazionisti» invasa da orgoglio dottorale, mentre il vero ebraismo non ha consegnato Gesù al potere occupante. Tipico tono dell’opera è quello del rispetto e dell’attenzione a tutte le fonti, per riscoprire la profondità ebraica di Gesù e del suo messaggio.

Martin Buber (+ 1965): l’autore dei famosissimi Racconti dei Chassidim. Egli affermava in una conferenza a Gerusalemme (1948): «lo credo fermamente che la comunità ebraica, nel corso della sua rinascita. riconoscerà Gesù.

Shalom Ben-Chorin: sostenitore dell’ebraismo progressivo e del dialogo ebraico-cristiano e autore di un famoso libro: Fratello Gesù. (3) Gesù vi appare come un maestro giudaico, vicino alla linea dei farisei, che ha proposto l’interiorizzazione della Legge condensandola nell’amore.

Pinchas Lapìde: autore del libro Ist das nichtJosephs Sohin? Jesus in heutigen Judentum.. Questo teologo ebreo ha dimostrato, anche con altri studi e pubblicazioni, come oggi fra gli ebrei sia altissimo l’interesse per Gesù di Nazaret:.

Egli sviluppa anche la ricerca sulle opinioni dei rabbini circa Gesù: e da questo studio sulle testimonianze di 18 secoli risulta evidente la stima per la qualità sapienziale del «rabbi» di Nazaret. In un dialogo con Hans Küng egli ebbe a dire:

«Il fratello Gesù viene finalmente riportato a casa come compagno, come connazionale e consanguineo... anzi, perfino come sionista e compagno di lotta». (4)

Franz Rosenzweig (+ 1929): interessante la sua teoria nella difficile opera La stella della redenzione, di recente tradotta in italiano. (5) Prendendo lo spunto dai due triangoli incrociati della «stella davidica» egli vede che l’ebraismo rappresenta la santa vita che anticipa l’eterna pienezza della redenzione: il popolo ebraico per questa vita è chiamato a star fuori del tempo, è da sempre presso Dio. Il cristianesimo invece rappresenta la via, perché il cristiano cammina nel tempo e nello spazio e, camminando, conduce al Padre i pagani attraverso il Figlio. Con riferimento alla stella davidica, l’ebraismo è il fuoco che brucia in eterno, mentre il cristianesimo è l’insieme dei raggi che sono lanciati, in tutte le direzioni.

«Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti ad una stessa opera. Egli non può far a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto...". (6)

David Flusser: con l’opera Jesus egli vuole recuperare le radici ebraiche e anche la personalità profetica e l’originalità dell’amore ai poveri e agli emarginati (e anche ai nemici) di Gesù. Egli difende decisamente la storicità della vicenda di Gesù, e anche la specificità («gli influssi ricevuti da Gesù non bastano a spiegare tutto il suo comportamento morale sulla dottrina dell’amore»). Accetta anche la situazione gloriosa del Cristo:

«Non abbiamo alcun motivo di dubitare che il crocifisso sia veramente “apparso” a Pietro, poi ai dodici, poi a più di 500 fratelli alla volta!...., poi a Giacomo e a tutti gli apostoli». (7)Anche se trascura Giovanni (non lo ritiene storico) e rifiuta di accettare le opere di potenza, il Gesù di Flusser appare un profeta impegnato per la conversione individuale e radicale a Dio, tuttavia non il Salvatore dell’umanità. Accetta però che Gesù si sia autoidentificato coni il «Figlio dell’uomo» di Daniele, senza che sia accettabile il «Figlio di Dio» in senso cristiano. In sostanza Flusser si interroga continuamente sul significato della figura e accetta che si «possa scrivere una vita di Gesù».

Molti altri nomi si potrebbero citare: Robert Aron con l’interessante operetta Gli anni oscuri di Gesù, Paul Winter, Samuel Sandmel, Harvey FaIk , letterati come Shalôm Asch (autore del romanzo Il Nazareno), Max Brod. J. Sinclair, J. Bor, A. Chouraqui (noto traduttore del NT in bellissimo francese). Infine il grande artista Marc Chagall che ha più volte dipinto la crocifissione, ma come «simbolo» del destino del popolo ebraico, non come segno «cristiano» .

Infine un fenomeno che sta suscitando parecchio interesse è il moltiplicarsi di gruppi di ebrei che permanendo nell’ambito ebraico, considerano Gesù come Messia vero: si chiamano Jews for Jesus. Si trovano diffusi in particolare in California.


Osservazioni

In conclusione quello che per un ebreo medio oggi può essere ammesso circa Gesù, è che si può considerare un grande profeta di Dio, maestro di sapienza, dalla morale elevata, che nella tradizione spesso è stato molto stimato, e che oggi ancor di più si può stimare, come una figura «eccezionale» della storia ebraica.

Però del «Verbo fatto ebreo» si continua a lamentare la trasformazione - ad opera di Paolo specialmente (cf. R. Aron) - della figura e del messaggio di Gesù in un qualcosa di «universale», però de-ebreizzato, e fatto figura teologica, rispondente ai canoni ellenistici. E qui il contrasto non è sanabile.

Note
1) Un’antologia dei testi: J.P. Osier, L’évangile du ghetto, ou comment les juifs se racontaient Jésus, Berg International, Paris 1984, importante per le varie redazioni delle Tôledôth. In italiano c’è anche R. Di Segni, Il Vangelo del ghetto, Newton Compton, Milano 1985, con intenti simili al precedente. Per un primo approccio più panoramico cf. Ben-Chorin, Jesus im Judentum, Wuppertal 1970, specie pp. 7-46.


2) Ed. Italiana Cardini, Firenze 1976 (originale tedesco 1948).

3) Morcelliana, Brescia 1985. originale tedesco: Bruder Jesus, der Nazarener in jüdiscer Sicht, Paul List, München 1967.

4) H. Küng-P.Lapide, Gesù segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 15.

5) Marietti, Casale Monferrato, 1985.

6) Rosenzweig, La stella, pp.444-445.

7) Gesù, p. 165.

II

... ed altrove…..

Bisogna chiarire subito una cosa: che in questo settore si può cadere facilmente nell’equivoco: o del riduttivismo (disprezzo dei valori altrui) o del parallelismo (somiglianze che non sono omogenee). Perciò poniamo alcune indicazioni di partenza.

Le domande vitali che l’uomo si pone. si ritrovano praticamente con eguale frequenza in tutte le religioni: sono le domande sulla nostra origine, sulla morte, sul dolore, sulla felicità, ecc. Dall’esperienza ellenistica, alle Svetasvara Upanishad (1,1) e alla Nostra aetate, (n. 1): ovunque sono espresse praticamente con gli stessi termini. Citiamo da questo ultimo testo:

«Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (NÆ 1).

Alla varietà delle domande religiose - seppur consonanti - corrisponde la pluralità della forma delle risposte. Qui nasce storicamente la varietà delle religioni, che risentono sia della peculiarità etnica (genio dei popoli), sia delle condizioni ecologiche, storiche, culturali, sia della presenza di leaders influenti, ecc.

Il cristiano che si incontra con la molteplicità e la varietà delle forme di religione, ha spesso rifiutato globalmente tutto, ritenendolo inutile e «estraneo”, o superstizione. Oggi il problema si pone invece in termini nuovi, molto interessanti, che propongono una possibile convergenza di tutta la varietà verso l’unità.

Nei documenti conciliari vengono riconosciuti «elementi di verità e di grazia» (AG 9) anzitutto a livello di persone seguaci di altre religioni, e anche come dati oggettivi propri delle stesse tradizioni religiose: «riti e culture» (LG 17), «iniziative religiose» (AG 3), «ricchezze che Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli» e si riscontrano nelle loro «tradizioni religiose» (AG 11). E inoltre mostra una consapevolezza importante dell’influenza universale dello Spirito santo in tutto il mondo. «Indubbiamente lo Spirito santo operava nel mondo già prima che Cristo fosse glorificato» (AG 4). Lo Spirito chiama tutti gli uomini a Cristo, col Vangelo predicato, con i «semina Verbi» sparsi ovunque (AG 15) e offrendo a tutti «nel modo che Dio conosce.., la possibilità di venire a contatto col mistero pasquale» (GS 22). Forse il passaggio più «cattolico» del concilio sta nel paragrafo 92 di Gaudium et spes dedicato al dialogo fra tutti gli uomini, attraverso quattro cerchi concentrici. Termina accennando «a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi e umani». E si augura che «un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e portarli a compimento con alacrità». Il dialogo interreligioso appare elemento costitutivo intrinseco alla missione della chiesa.

Esempi recenti di testimoni profetici di questo incontro - da Ch. de Foucauld a Monchanin, da Peryguère a Le Saux, a Griffiths, ecc. — rendono questo discorso sempre più fecondo e carico di promesse.

Per il cristiano il centro dell’universo e della storia è Cristo Gesù: per cui la figura del «pantocrator» esprime bene il ruolo centrale rispetto ad ogni esperienza religiosa. Ma oggi questa universalità non è solo un concetto più o meno astratto e vago, è di fatto diventato un grosso problema; di fronte alla vitalità e al dialogo con le altre religioni.

Si parla oggi di «Cristo dentro le religioni»: è la posizione assunta dal concilio, specialmente in Nostra aetate e anche espressa dal teologo K. Rahner sui «cristiani anonimi». Ci sono tuttavia delle resistenze, perché questo fa delle altre religioni una «praeparatio evangelica», cioè del materiale grezzo che viene assorbito dal cristianesimo, una volta che il Vangelo sarà annunciato. E quindi le altre religioni hanno un valore subordinato e secondario, in fondo.

Altri parlano di «Cristo al di sopra delle religioni»: in questo modo di vedere le altre religioni non sono pura preparazione evangelica, ma di fatto sono autentiche «vie di salvezza», al di fuori dell’esperienza «chiesa cristiana». Questo toglierebbe a Cristo la normatività unica e ultima, perché Dio avrebbe da dire e da fare più di quanto non sia stato detto e fatto in Cristo. Il pluralismo di «figure» religiose sarebbe volontà di Dio, e Cristo sarebbe né contro, né sopra, ma «insieme» con le altre religioni. I diversi sentieri, quasi vie differenziate di salvezza, «portano» a Dio, e non più solo a Cristo.

C’è infine la «teologia della liberazione» delle religioni: che accentua il criterio della capacità non tanto di «affermare» verità e unicità, ma di «migliorare» la storia dell’umanità. Quindi il valore unico di Cristo si misura su questa capacità di essere l’unico che «libera» oppure di essere in compagnia di altri efficaci «liberatori». Quest’ultima posizione di fatto rinnega completamente quello che la rivelazione su Gesù Cristo (gli Evangeli) afferma in maniera non equivoca: che cioè egli è l’unico «liberatore» definitivo.

Mi pare meglio accettabile la posizione di chi suggerisce anche una lettura universalistica del messaggio biblico (che è attestata specialmente nelle correnti sapienziali), in modo da riuscire a cogliere le «tracce di Dio» o i cosiddetti «semina Verbi» in mezzo alle molteplici tradizioni religiose le quali risalgono a Dio, perché lui ne è l’autore.

Come bene spiega Rossano (8) le varie «risposte religiose» possono considerarsi risposta a quell’ interiore «instinctus Dei invitantis» con il quale Dio chiama tutti gli uomini a sé. C’è un tempo prima di Cristo e un tempo dopo Cristo: ma non esiste un tempo senza salvezza (Unheilzeit ) e un tempo con la salvezza (Heilzeit). La così detta «economia sapienziale» - cioè l’azione salvifica di Dio tramite la Sapienza e il suo Spirito - è attestata ampiamente sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo. Si pensi alle molteplici alleanze attestate nel Pentateuco dal codice sacerdotale. Si pensi a testi come questi: «Dio ama i popoli» (Dt 33,3), è «amante della vita» (Sap 11,26), «la terra è piena del suo amore» (Sal 32,5), «la potenza di Dio riempie l’universo» (Sap 1,7; Pro 8,31).

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento, soprattutto Giovanni e Paolo hanno assunto il criterio dell’universale sovranità di Cristo. Nella lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi Cristo è proclamato fondamento e chiave di volta di tutta la storia: tutto fu creato in lui, tutto sussiste in lui, tutto tende alla conciliazione ultima in lui (Col 1,15-20; Ef 1,10). Sempre secondo Paolo lo Spirito opera per la giustificazione in ogni uomo che opera il bene e che segue la legge dell’amore (Rm 2,25-29; cf. At 10,34-35). Ancor più splendida la testimonianza di Giovanni: nel prologo l’azione del Verbo è descritta come «presenza» nel mondo, «illuminazione» e vita spirituale per tutti (Gv 1,9). Nell’Apocalisse Cristo è «il Primo e l’Ultimo, il Vivente» (1,18), agnello vittorioso prima della fondazione del mondo (5,13) e nel libro che tiene in mano sono segnati i destini della storia (5,6-9).

La riflessione teologica di questi anni ha cercato di percorrere la strada degli epiteti cristologici come Logos, sapienza, manifestazione, ecc., per valorizzare tutto il patrimonio di «beni spirituali e morali» e i valori socio-culturali (NÆ 5) che si trovano nell’universo religioso delle grandi tradizioni religiose mondiali. E’ una riflessione ancora aperta e che già i Padri fecero (come Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino, Origine, Agostino, Gregorio Nisseno), ma rimangono da affrontare molti settori.

Non solo quello del riconoscimento di Gesù Cristo come «rivelatore e salvatore unico», ma anche quello del valore dei «libri sacri», degli «archetipi religiosi» propri dell’antropologia universale, dell’apporto delle religioni alla fede in Cristo e all’esperienza cristiana della salvezza. Si tratta cioè di un apporto di esplicitazione soltanto, o di scoperta di valenze nuove non ancora percepite, o vi sono addirittura degli elementi «nuovi» da «assumere»?

Così il dialogo interreligioso diviene un processo di annuncio e di ascolto, di accoglienza e di offerta: e non una pura presa di coscienza delle differenze esistenti, storiche ed esistenziali. Come appunto viene suggerito anche da documenti ufficiali più recenti.

Evangelii nuntiandi (n. 53) a riguardo delle altre religioni ossserva:

«Esse portano in sé l’eco di millenni di ricerca di Dio, ricerca incompleta, ma realizzata spesso con sincerità e rettitudine di cuore. Posseggono un patrimonio impressionante di testi profondamente religiosi. Hanno insegnato a pregare a generazioni di persone».

E in un altro documento recente, del Segretariato per le religioni non cristiane, che offre delle «riflessioni e orientamenti» per il dialogo interreligioso dice:

«A un livello più profondo, uomini radicati nelle proprie tradizioni religiose possono condividere la loro esperienza di preghiera, di contemplazione, di fede e di impegno, espressioni e vie della ricerca dell’Assoluto».

Il valore di quello che altre religioni possono dire oggi di Gesù Cristo (o arricchire il già detto) deve essere visto in questa prospettiva: che tenga conto delle ricchezze espressive e sacre delle altrui tradizioni, della capacità di ciascuna tradizione di assimilare in maniera creativa il messaggio di Cristo. L’esperienza del resto s’è già verificata per tutto l’occidente nei secoli IV e seguenti, e si sta ripetendo nei luoghi dove l’inculturazione spinge verso nuove «sintesi».

E’ tutto ancora da verificare l’impatto storico della grande riunione, ad Assisi dell’ottobre 1986, dei rappresentanti delle varie religioni del mondo. Ma certamente quell’esperienza ha aperto la strada ad una forma nuova di dialogo fra le religioni, e di rapporto tra religioni e storia comune.

È interessante che siano soprattutto gli asiatici e gli africani a sentire questo problema in maniera intensa. Essi amano oggi parlare di «Christus cosmicus», cioè «universale». Mentre la teologia occidentale ha posto l’accento di più sulla persona storica di Gesù di Nazaret e sulla chiesa come istituzione storica, la giovane teologia asiatica e africana è più attenta a cogliere le implicazioni universali del «primato» di Cristo.

Scrive il teologo dello Sri Lanka, Tissa Balasuriya (9):

«Cristo il Signore implica una dimensione di essere molto più vasta che non Gesù di Nazaret, sebbene Gesù sia il Cristo».

Lo studio di alcuni passi del Nuovo Testamento (es. Ef 1 e Col 1) in cui si parla del pieno compimento della rivelazione divina nella universale signoria del Risorto, invita ad una visione «cristica» di tutta la realtà. umana e cosmica.

Se una teologia centrata sulla figura di Gesù e la fondazione storica della chiesa ha indotto i cristiani - argomenta Balasuriya - a reclamare un monopolio su Dio, ritenendosi gli unici depositari della salvezza, la riflessione sul primato di Cristo e l’universale presenza del suo Spirito conduce a ripensare la creazione nei termini della presenza di Cristo in tutta la realtà creata. Se è vero il «disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef 1,10), allora bisogna cercare il messaggio di Dio in tutti gli strati dell’esistenza: storica, cosmica, sociale, individuale.

C’è una «teoprassi» nei valori «religiosi» dei popoli: tale patrimonio deve essere capito, assunto, letto in Cristo, purificato in lui. Bisogna far attenzione per non confondere l’universalità di Cristo come unico mediatore con la universalità del cristianesimo come religione storica.

Dice un altro teologo asiatico, A. Pieris: se la chiesa vuole conoscere e mostrare il «volto asiatico di Cristo», deve

«essere abbastanza umile da farsi battezzare nel Giordano della religiosità asiatica e abbastanza forte da essere crocifissa sulla croce della povertà asiatica»

La religiosità profonda e ricca dell’Asia e la sua immensa povertà (80% dei poveri del mondo) sono l’impasto per una chiesa cristiana a misura dell’Asia? Egli sostiene anche che vi sono quattro modelli di inculturazione: cultura e religione (latino); filosofia e religione (greco): questi sono impraticabili nel contesto asiatico. Il terzo: religioni cosmiche (animiste) e cristianesimo (nordeuropeo): potrebbe andare bene in Asia, ma per pochi ormai; altre grandi religioni sono già arrivate. E sono le religioni «metacosmiche»: cioè con una realtà trascendente che agisce in maniera immanente nel cosmo e nell’uomo, attraverso l’agape (amore redentore) e la gnosis (conoscenza salvatrice). Per cui conclude che il modello monastico è il più vicino al genio asiatico: per la solidarietà con i poveri (agape) e per la comprensione del linguaggio dei monaci (gnosis) asiatici.

Interessante è anche la «Minjung Theology», cioè la teologia coreana che ritiene il «popolo» (= minjung) come soggetto della storia. La «Minjung Theology» non intende essere né una teologia politica coreana, né una teologia coreana della liberazione. Essa si basa sulla convinzione che il messaggio cristiano si radica nell’esperienza storica e culturale di un popolo. Uno dei termini usati è han (da cui anche «Theology of han»): significa il sentimento collettivo del popolo oppresso, carico di tutti i soprusi e le violenze, è la «giusta indignazione» che permane oltre i tiranni e le tragedie, e indica una coscienza collettiva messianica di speranza e libertà.

In linea generale: si può dire che nelle grandi religioni non cristiane, Gesù Cristo è visto non solo come via all’uomo maturo e realizzato, ma anche come via a Dio, come mediazione al trascendente e al divino.


Note

8) P. Rossano, Teologia delle religioni: un problema contemporaneo, in R. Latourelle, (ed.), Problemi e prospettive di Teologia fondamentale. Queriniana, Brescia 1980, pp. 359-377.

9) Teologia planetaria.

Può essere utile richiamare alcune esperienze del silenzio cristiano sia nel mondo antico extracristiano, sia negli autori cristiani e nei testi liturgici delle Chiese. Esse possono suggerire delle piste di approfondimento teologico-spirituale di un elemento celebrativo spesso disatteso nella pratica.

di François Thual *

La Chiesa cattolica ha evoluto negli ultimi cinquanta anni. Tentiamo una proiezione: che cosa diventerà fra cinquanta anni?

È vero, la Chiesa ha evoluto, ma non sono stati affrontati due punti essenziali e non lo saranno nel prossimo mezzo secolo. Da una parte, la mondializzazione del cattolicesimo, che è presente, in gradi diversi, fin dalla fine del XIX secolo, su tutti i continenti. Dall'altra parte, il sistema di funzionamento interno della Chiesa, la sua organizzazione come “monarchia centralizzata elettiva”, che neppure cambierà nella misura in cui dipende dalla sua ecclesiologia, cioè dalle sue concezioni teologiche dogmatiche costruite per due millenni in modo piramidale.

Quelli che furono convertiti dal Concilio.
E quelli che no

di Marco Ronconi

Recentemente, al convegno di presentazione per una mostra fotografica organizzata dal­l’Azione cattolica italiana sul Concilio ecumeni­co Vaticano II ho ascoltato con piacere la vicepresiden­te del settore giovani ragionare su come il Vaticano Il corra i rischio di diventare solo un mito per le nostre ultime generazioni. "Solo", perché la mitizzazione è una delle più pericolose riduzioni di quell'evento che ha prodotto una gamma di documenti ricchissimi e ha introdotto uno stile ecclesiale adeguatamente aggiornato (bisognerebbe dire «nuovo», ma evito l'aggettivo per non distrarre alcune anime giustamente sensibili). Tali tesori non vanno posti sotto una campana di vetro e ammirati, ma vanno fatti circolare, verificati e recepiti fino all'osso. Ascoltavo e condividevo.

Il tentativo di ricezione riduttiva che conosco meglio è quello che cerca di incastrare i protagonisti del Concilio in categorie sociologiche comprensibili, ma tuffo sommato inadeguate (destra-centro-sinistra...). E altrettanto vero però, che anche fare del Concilio un evento "mitico", significherebbe isolarlo dal presente, levandogli quella carica propositiva che è ancora lonta­na non solo dall'esaurirsi, ma forse anche dal manifestar­si in tutta la sua forza. Non mitizziamo, dunque. È diffici­le, a ben guardare, ma lo si può fare. Soprattutto, rac­contiamo le storie tutte intere, senza paura, affrontan­do la fatica della loro complessità. Pretendiamo che ci vengano raccontate nella loro interezza.

Da tempo, discutendo e ascoltando di Vaticano II, io che ne ho letto solo sui libri, ho maturato l'idea che il dittico progressisti-conservatori (non) funziona esattamente come il dittico credenti-non credenti: a proposito di questa distinzione, ad esempio, il cardinale Martini rifletteva che «ogni credente dialoga con il non credente che è in lui» e proponeva perciò di ragionare abbandonando tale distinzione che non corrisponde alla realtà, preferendole invece la distinzione tra "pen­santi" e "non pensanti . Non sono in grado di propor­re un'analogia simile per inquadrare il Vaticano II, i suoi protagonisti e i suoi diversi modi di recepirlo, ma mi sembrerebbe una buona idea che qualcuno lo faccia. Qualcuno che, afferrando la mole di lavoro preziosissi­mo che gli storici stanno offrendo, dia vita a una tradi­zione rispettosa della complessità e dell'intelligenza di molti dei suoi protagonisti, da non ridurre, ma da cono­scere per discernere e progettare.

Faccio un esempio con la storia del cardinale canadese Paul-Emile Léger Nato nel 1904, entrato in seminario a 12 anni, prete di una congregazione auste­ra e rigorista, arcivescovo di Montreal a 46 anni, in occasione della porpora cardinalizia, si firma «principe della Chiesa» (dal linguaggio, sembra conservatore): grande oratore e predicatore radiofonico (atteggiamen­to progressista verso i mezzi di comunicazione?), si distingue nei primi anni di episcopato per la sensibilità verso le cause sociali dei malati e degli anziani (qui è difficile: conservatore o progressista?), nonché per una vigorosa campagna di moralizzazione contro l'alcool, le danze modeme, Elvis Presley, il cinema, il bingo e l'abbi­gliamento sulle spiagge (ok è conservatore). Nelle file dei prelati "tradizionalisti" si presenta al Concilio (an­che se alcune sue affermazioni sui poteri da riconoscere ai laici mi sembrano "progressiste" ancora oggi...), dove fa parte di alcune delle commissioni più importan­ti. Come "esperto", si avvale però di A. Naud, per il quale parla il titolo del suo libro più celebre: Il magistero incerto. Al termine del Concilio, nel 1967, il cardinale Léger lascia Montreal per trasferirsi a Yaoundé, in Ca­merun, dove resta 12 anni dedicando energie e denaro alla cura dei lebbrosi. Apparentemente, un mito. Per evitare quanto dicevamo prima, tuttavia, basta continua­re la storia fino in fondo. Il suo volontario trasferimento africano - che lascia tutti di stucco - non coincide infatti con un lieto fine. Léger incontrerà molti e difficili problemi con il clero locale, venendo costretto a un ulteriore ripensamento del suo modo di vivere l'aspetto missionario del cristianesimo, fino al ritorno in Canada.

Un'altra volta racconterò di come mi sia stupito a scoprire che è stato il cardinale Ottaviani a introdurre la prima volta frère Roger Schutz in Vaticano, o rievo­cherò la "conversione" del cardinale Parente che, da esponente della minoranza curiale si ritrovò nel post­concilio a difendere vigorosamente la dottrina della collegialità episcopale, avendo riconosciuto il valore degli studi del giovane prof. Alberigo ed essendo rima­sto colpito dagli interventi di alcuni confratelli, come l'allora ausiliare di Bologna, monsignor Luigi Bettazzi. Per ora penso basti ricordare che «ognuno può dire che il Concilio non è stato niente per lui, se non l'ha convertito, se non gli ha cambiato la vita, se non gli ha risvegliato responsabilità sino ad allora insospettate o troppo neglette» (cardinal Paul-Emile Léger).

(da Jesus, gennaio 2006)

Riflessioni sul corpo in un libro di Mario Antonelli

di Marcello Neri


La pastorale ha sempre avuto un certo “pudore” quando trattava il tema della corporeità. Il testo intende ridare ad essa il giusto posto nel contesto dell’annuncio cristiano.

Lectio divina su Apocalisse 12

La Donna dell'Apocalisse
e la spiritualità ecumenica

di Bruno Forte *

L’Apocalisse è una sorta di teologia della speranza sotto forma di teologia della storia: attraverso un susseguirsi drammatico di messaggi e di visioni essa intende annunciare la fede nella finale vittoria del Dio della promessa, invitando alla fiducia la comunità delle origini - provata dalle prime avvisaglie della persecuzione e dalla lacerazione in atto con la Sinagoga - e i discepoli d’ogni tempo. Quando la missione della Chiesa sarà compiuta e l’alba del Regno di Dio tutto in tutti spunterà sull’orizzonte della storia, allora la grande lotta svoltasi nel tempo giungerà alla fine e la vittoria del Signore risplenderà nei cieli nuovi e nella terra nuova delle Gerusalemme celeste. È nello scenario di questa battaglia che si colloca anche il dramma della divisione dei cristiani ed è nella luce della speranza del trionfo dell’Eterno, fondata sulla resurrezione del Crocifisso, che si fonda l’impegno ecumenico al servizio dell’unità per la quale Cristo ha pregato (cf. Gv 17,21). Proprio perché di questo scenario e di questa speranza si fa voce l’Apocalisse, è illuminante rivolgersi ad essa per approfondire le motivazioni e le caratteristiche di una spiritualità ecumenica.

In questa prospettiva, assume un particolare rilievo il capitolo 12, sintesi simbolica dell’intera storia della salvezza, dove viene presentato un “segno grandioso”, che “appare” nel cielo (la forma verbale usata è “ófthe”, propria delle teofanie e delle apparizioni del Risorto: cf. 1 Cor 15,5-8), la Donna (v. 1), a cui è contrapposta un’altra figura imponente, il Drago (v. 3), altrettanto densa di significato simbolico (come indica l’uso del medesimo verbo “ófthe”). Si tratta del “serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra” (v. 9). La Donna fugge nel deserto, simbolo ricchissimo nella tradizione biblica, dove Dio le ha preparato un rifugio (cf. v. 6), mentre si sviluppa la lotta fra Michele e i suoi angeli contro il Drago (cf. vv. 7ss), che, sconfitto e precipitato sulla terra, si avventa contro la Donna e il Figlio da lei generato (cf. vv. 13 e 17). La Madre e il Bambino non soccomberanno, riportando anzi la vittoria (cf. vv. 14 e 16).

È anzitutto lo sfondo veterotestamentario del racconto ad aiutarci a coglierne il significato: si avverte l’eco di Genesi 3,15, il testo che annuncia l’inimicizia perenne fra la Donna e il serpente, fra il seme di questi e il seme di lei. È poi evocato il contesto dell’Esodo, col tema del deserto (v. 6) e col motivo delle ali di aquila date alla Donna per volare verso di esso (cf. v. 14 e Es 19,4: “Vi ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me”). L’immagine della terra asciutta che assorbe il fiume delle acque suggerisce quindi quella del passaggio del Mar Rosso (cf. vv. 15-16 e Es 14,9 e 15,2). La figura della Donna richiama la nuova Gerusalemme, madre del popolo messianico (cf. Is 66,7), e in generale il popolo eletto (cf. Os 1-3; Is 26,17s e Ger 31,4.15): ella è “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (v. 1). L’essere vestita di sole - fonte della luce, immagine della sovranità e trascendenza di Dio, “avvolto di luce come di un manto” (Sal 104,2) - avvicina la Donna alla figura di Sion, che sarà “rivestita di magnificenza” (Is 52,1) e “delle vesti di salvezza” (Is 61,10) nel tempo escatologico. Poiché la luna è l’astro su cui si misurano i tempi (cf. Gn 1,14-19), il fatto che la Donna abbia la luna sotto i piedi significa che a lei è assicurata la vittoria sull’avvicendarsi delle stagioni: ella, cioè, non soccomberà alle vicissitudini terrene. La corona di dodici stelle, infine, richiama sia le tribù dell’antico Israele (cf. il sogno di Giuseppe in Gn 37,9), che “i dodici apostoli dell’Agnello” (Ap 21,10.12.14), fondamento della nuova Gerusalemme. Questo insieme di simboli autorizza a vedere nella Donna il popolo di Dio delle due alleanze, l’Israele dell’attesa e la Chiesa dell’avvento messianico. Come quello della Donna, il destino del Popolo dell’alleanza sarà segnato dalla lotta col Drago, di cui certamente il dramma della divisione è un frutto.

La Donna partorisce “un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro” (v. 5): è la madre del Messia, generato nel dolore come indica il fatto che la Donna “gridava per le doglie e il travaglio del parto” (v. 2). Il Figlio è oggetto della feroce avversione del Drago (cf. v. 4b), del quale tuttavia sarà vittorioso, come mostra il fatto di essere “subito rapito verso Dio e verso il suo trono” (v. 5). Il parto doloroso congiunto all’immediata esaltazione è chiara figura del mistero pasquale: è peraltro propria del quarto Vangelo l’immagine del parto applicata al passaggio dalla tristezza alla gioia dei discepoli nell’esperienza della morte e resurrezione del Signore: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16,21-23; cf. pure At 13,32-34).

Tenendo conto del duplice simbolismo della Donna e del parto, il messaggio di Apocalisse 12 può allora formularsi così: la Chiesa, nuovo Israele, nell’attuarsi della sua missione nel tempo, conosce le doglie ed è oggetto degli attacchi del Drago, di cui sono segno evidente non solo le persecuzioni dall’esterno, ma anche e specialmente le divisioni interne, frutto del peccato e dell’ostinazione in esso. Come, però, il suo Signore è stato vincitore della morte e dell’Avversario diabolico con la sua Pasqua, così la comunità messianica non soccomberà alla prova e sarà salvata dalla potenza di Colui, che è già presso il trono di Dio. Il trionfo pasquale del Figlio della Donna è anticipo e promessa del trionfo escatologico della Chiesa, anche se essa vive al presente la sua missione fra le doglie e il travaglio del parto, attraversando il suo “deserto”, che è tempo di prova e di grazia analogo a quello dell’esodo di Israele. L’azione del discepolo per realizzare il disegno di unità che Dio Padre ha per la Sua Chiesa può essere pertanto sostenuta da una speranza più forte di ogni disincanto e di ogni sconfitta.

Nella Donna, che genera il Messia Re, può essere vista anche la figura concreta di Maria, la Madre di Gesù, chiamata col titolo di Donna da Giovanni sia quando parla della sua presenza presso la croce (Gv 19,25-27), sia nel racconto delle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-12). Questo riferimento conferma come nella Chiesa delle origini la figura della Madre di Gesù era evocata quale densa immagine della vocazione e della vicenda dell’intero popolo di Dio e avvertita come motivo di conforto e di speranza di fronte al dolore presente. In questa luce è possibile leggere anche meglio il valore dell’ambiente in cui si svolge la drammatica lotta: il deserto. Combinando i significati vetero-testamentari del deserto a quelli legati alla figura della Donna - che è inseparabilmente la Chiesa e Maria - è possibile individuare quattro condizioni rilevanti per la vita e la missione del popolo di Dio, in particolare per il servizio alla causa dell’unità dei cristiani. Si delinea una spiritualità caratterizzata dall’ascolto contemplativo della Parola di Dio, dalla carità perseverante sotto la Croce, dalla fiducia incondizionata nella fedeltà divina e dalla speranza più forte di ogni delusione o apparenza contraria nella realizzazione della preghiera di Gesù “che tutti siano uno”.

Il deserto nella Bibbia è anzitutto il luogo della memoria dellamore e dellascolto della Parola dell’Amato: secondo quanto è detto nel libro del profeta Geremia, esso richiama il primo amore fra Dio e il suo popolo: “Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata” (2,2). Al tempo stesso, il deserto (in ebraico: “midbar”) è simbolo dell’ascolto accogliente della Parola (in ebraico: “dabar”), la sola forza che può trasformarlo nel meraviglioso giardino della nuova creazione: perciò, al centro della fede ebraica c’è l’ascolto - lo “shema” -, il silenzio accogliente in cui la Parola viene, come in un silenzioso deserto, a suscitare la vita. Secondo la meditazione dei Padri, Maria è il “deserto fiorito”: in quanto Vergine dell’ascolto ella è il silenzio in cui risuona la Parola di Dio, il “deserto” delle possibilità umane che si lascia totalmente abitare e plasmare dalla Grazia. Riconoscendosi nella Donna dell’Apocalisse condotta nel deserto e riconoscendo parimenti in essa la Vergine Maria come suo modello, la Chiesa apprende a “fare deserto”, a vivere cioè l’ascolto religioso e fecondo della Parola di Dio, da porre alla base della sua missione. Si profila così il primo tratto di una spiritualità che aiuti il popolo di Dio a sostenere la battaglia escatologica e essere vittorioso nella vittoria divina: il primato della dimensione contemplativa della vita spesa al servizio della causa dell’unità e nutrita dall’ascolto perseverante della Parola di Dio, come sorgente che sempre di nuovo convoca la Chiesa e la unifica nella comunione della fede e del servizio.

Il deserto è poi percepito nella Bibbia come il luogo della prova: nel Deuteronomio è scritto: “Il tuo cuore non si inorgoglisca in modo da dimenticare il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire” (8,14-16). Queste parole evocano le prove conosciute da Israele nel cammino dell’Esodo, ma si adattano anche alla terribile prova della lotta che secondo l’Apocalisse si scatena nel deserto contro la Donna da parte della Bestia. A sua volta, la donna Maria ha conosciuto la prova della fede (cf. la spada di cui parla Lc 2,35), fino ai piedi della Croce (Gv 19,25-27). Da Lei la Chiesa impara a sostenere la prova, fiduciosa in Dio e nella sua fedeltà, attraversando il deserto in tutta la sua ambiguità di luogo di rifugio e di spazio della lotta, dove si sperimenta la protezione dell’Altissimo e la ferocia del Drago. Da questa ricchezza simbolica, viene alla Chiesa la consapevolezza di non poter vivere la propria missione fino al tempo della fine senza essere sottoposta alla crisi ed alla prova, ma le giunge anche la certezza che il Dio che ha salvato la Donna nel deserto custodirà e salverà anche Lei, Madre nella grazia dei figli resi tali nel Figlio. Una spiritualità ecumenica, protesa al superamento delle lacerazioni che l’azione del Drago induce nella vita della Chiesa, è in tal senso anche un cammino sotto la Croce, che sa vivere ed offrire le prove come prezzo dell’amore per la causa dell’unità voluta dal Signore.

Continuando a percorrere la tradizione biblica, il deserto si presenta come il luogo della fedeltà divina: è ancora il Deuteronomio ad assicurarci che nel deserto Israele fa esperienza della fedeltà dell’Altissimo: “Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui alcun dio straniero” (32,10-12). Come Israele, così la Donna dell’Apocalisse sperimenta nel deserto la tenerezza della protezione divina, la fedeltà dell’Eterno all’alleanza. A sua volta, la Madre del Messia, la donna Maria, canta le meraviglie del Dio fedele: il Suo Magnificat ci insegna a credere nell’impossibile possibilità di Dio in ogni situazione. Da questo insieme di significati risulta per la Chiesa la certezza di non essere mai lasciata sola nella prova legata alla sua missione: il suo Signore è per lei il custode, che manifesta proprio nelle sfide dell’azione missionaria le riserve inesauribili della fedeltà al suo popolo. La spiritualità ecumenica si fonda sulla certezza della fedeltà di Dio, che non abbandona mai chi in Lui confida e porta a compimento le sue promesse, a cominciare da quella della finale riconciliazione di ogni creatura in Cristo, perché sia Lui a consegnare tutto al Padre e Dio sia tutto in tutti.

Il deserto, infine, è nella concezione biblica il luogo della sete del volto di Dio: il Salmo 63 lo testimonia: “O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (vv. 2.7-8). Nel Salmo 143 il deserto è simbolo dell’attesa di Dio: “A te protendo le mie mani, sono davanti a te come terra riarsa” (v. 6). La Donna dell’Apocalisse è portata nel deserto per esservi nutrita dall’Eterno, segno di una fame e sete che solo Lui può colmare. Maria, la Madre di Gesù, è la credente che cammina verso il Volto nascosto e ci insegna a desiderare sempre la visione del Volto divino con fede umile e abbandonata all’Altissimo. Da questa simbologia ricchissima, la Chiesa impara a vivere la propria missione nel segno della sete di Dio, attraversando il deserto del tempo nella ricerca del Suo Volto, che solo sazia l’attesa, contagiando agli uomini questa sete salutare, di cui l’arsura del deserto è metafora. Una spiritualità ecumenica vuol dire in questa luce l’incessante sete dell’unità voluta dal Signore e invocata da chi si pone nella Sua sequela e la speranza, più forte di ogni delusione o apparenza contraria, nel compimento della preghiera di Gesù affinché tutti siano uno. La spiritualità ecumenica è spiritualità della speranza!

La ricchezza dei simboli condensati nella figura della Donna dell’Apocalisse e della lotta di Lei e del Figlio suo con la Bestia sullo sfondo del deserto converge dunque per far riconoscere alla Chiesa la sua vocazione di popolo dei pellegrini in cammino verso la patria fra le immancabili prove, di cui la prima e forse la più dolorosa è proprio quella della divisione che può determinarsi al suo interno. Chiamata ad attraversare il deserto del tempo con lo sguardo rivolto all’ultimo tempo ed ai segni anticipatori di esso, la Chiesa contempla Maria, Madre del Signore, Donna dell’ottavo giorno, e, confidando nella sua vicinanza materna, Le chiede aiuto per vivere la sua missione di Chiesa della speranza, testimone credibile della carità e della fede, al servizio dell’unità che Cristo vuole, come e quando egli la vorrà. “La dolce Madre di Dio - invoca Lutero all’inizio del Commento al Magnificat da lui scritto nel 1521 - mi procuri lo Spirito, affinché io possa spiegare con giovamento e bene questo suo canto, in modo che tutti ne possiamo trarre un’intelligenza che ci porti alla salvezza e a una vita degna di lode, sì che poi nella vita eterna possiamo celebrare e cantare questo eterno Magnificat”. “Che questo canto - prega ancora il Riformatore in chiusura del suo commento - non soltanto illumini e parli, ma arda e viva nel corpo e nell’anima. Cristo ce lo conceda per l’intercessione e il volere della sua diletta madre Maria!”.

* Arcivescovo di Chieti-Vasto

Comunione dei santi,
comunione di ministeri

di Enzo Franchini

Perché non "passa" una sperimentazione più creativa della partecipazione nella chiesa? Perché - in particolare - il ritardo nell'attuazione dei ministeri istituiti? È troppo poco vederne la causa solo nella cattiva comprensione pastorale. È la cattiva spiritualità che inibisce. Ricentrare tutto nell'eucaristia diventa imperativo categorico.

Senza aggressività, come puro rilievo del dato di fatto, sembra di dover cominciare dall’osservazione che dovrà preoccupare le nostre riflessioni: l’eucaristia è troppo clericalizzata, troppo “monasticizzata”. Viene cioè legata prevalentemente alla celebrazione liturgica; a meno non giunga a quella devozione intesa come momento privato, in cui si dà appuntamento a Dio per parlargli della nostra anima.

Ancor più disincarnata ci sembra la proposta della comunione dei santi quale realtà non afferrabile sperimentalmente, vera ma nascosta dietro il velo «mistico» dell’arcano.

L’intenzione delle riflessioni che ci proponiamo è quella di rivendicare la fattibilità visibile di questa comunione: la comunicazione, la partecipazione, la consiliarità, sono infatti già un modo di fare eucarestia; e ancor di più lo sono i miniseri, che sono adempimenti eucaristici per loro natura. Se non fosse per queste tangibilissime realtà, non si attuerebbe il comando: «fate questo in memoria di me». Infatti il “corpo mistico” – realtà conclusive dell’eucarestia – non può essere alienato dalla storia, se Gesù resta con noi fino alla fine dei secoli. Parlare di “corpo mistico” deve significare che proprio di Gesù nato a Maria – e presente nell’eucarestia – dà alla chiesa di costruirsi; così come è la chiesa che fa crescere fino a compiutezza il corpo eucaristico di Gesù, che resterebbe mutilo se non inglobasse anche la nostra realtà presente.

Gesù come comunità

La premessa importante su cui fondare ogni applicazione comunionale è bene espressa nella celebre affermazione di Bonhoeffer: «Lo spazio di Gesù Cristo nel mondo, dopo la sua morte, viene occupato dal suo corpo, la chiesa (...). Alla chiesa si deve pensare come a una Persona fisica (...) l’uomo nuovo è uno, non molti (...). questo uomo nuovo è allo stesso tempo Cristo e la chiesa (...) Cristo è la chiesa (...). l’uomo nuovo non è il singolo (...), ma la comunità, il corpo di Cristo, Cristo» (Sequela pp. 216-218).

La citazione è forse più suggestiva che dimostrativa. E tuttavia essa prende tutto il suo valore una volta che si affermi che Gesù si definisce come persona, nella sua realtà costitutiva, proprio perché si attua come dedizione. Egli realizza la sua vita donandola agli altri: tanto da perdersi negli altri per ritrovarsi vivo in un modo nuovo. Per volontà del Padre, al quale si è abbandonato totalmente. Gesù si offre a noi in modo tale che il suo esistere è relazione con noi, per la nostra salvezza. Gesù è"transitivo" per definizione: perché, per essere se stesso, ha bisogno che qualcuno lo riceva. Gli uomini salvati sono essenziali a Gesù, come l'opera eseguita è necessaria a qualsiasi protagonista se egli vuoi essere riconosciuto capace e responsabile di gestire quell'opera.

Certamente, se non si fosse incarnato, il Verbo di Dio sarebbe stato in grado di dare a noi il suo insegnamento e la sua forza, senza bisogno di fare corpo con noi. Niente ci vieta di pensare che anche senza scendere dal cielo egli avrebbe potuto comunicare agli eletti le sue verità: gli sarebbe bastato comunicare per visione la totalità degli insegnamenti evangelici, come ha fatto coi profeti. C'è una sola cosa - ma questa decisiva per la sua esistenza - che non avrebbe potuto fare restando nel suo cielo: diventare "un solo corpo" con noi: e questo non come unità puramente interiore, realizzata niente più che nell'intimità del pensiero; occorre avere il coraggio di accettare che la sua unione con noi debba definirsi come realtà indubbiamente "fisica". Per realizzare questo impegno salvifico, non aveva altra possibilità che quella di assumere il nostro corpo, così che nessuno potesse più chiamarlo altro che insieme agli uomini con cui esiste in solido: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13).

La verità di questa solidarietà si concreta in modo indubitabile nell'eucaristia. L'eucaristia non è un mistero in più, da aggiungere agli altri articoli di fede elencati nel Credo: piuttosto l’eucaristia è lo strumento con cui quegli stessi articoli di fede diventano veri in ciascuno di noi, nella realtà della loro attuazione. Finché sono dichiarati nell’astrattezza della visione quegli articoli restano esterni all'uomo che li contempla. Ricevi l'eucaristia ed essi diventano invece carne della tua carne. Si inverano, si realizzano di nuovo in te come fatti concreti, salvano davvero tutti e singoli gli uomini che entrano nella comunione con Gesù. Senza l'eucaristia, il Credo conterrebbe la verità astratta - e dunque ancora inefficace - della salvezza. Con l'eucaristia avviene la sintesi tra il progetto ideale e la storia, tra l'ipotesi e la tesi.

La personalità relazionale di Gesù si decide eucaristicamente, perché è l'eucaristia che fa di noi unum corpus, in maniera sponsale così che i due - l'uomo e Cristo – siano una sola persona, e siano compartecipi e coeredi della stessa sostanza. Come Gesù è comunicatore effettivo dei dati elencati nel credo, così chi comunica con lui riceve, in lui, la pienezza del fatto creduto, e non solo la consolazione dell'intuizione: è questa, in sostanza, tutta la teologia dei capp. 14-17 di Giovanni (e non solo di quei capitoli).

Ma questa è dottrina sufficientemente nota, perché si debba insistervi più di tanto. Ciò che non è bastantemente affermato, invece, è che il Corpo mistico non è un’entità gia tutta adempiuta, come se esso non fosse più capace di agire nella storia. Al contrario è un corpo vivo anche su questa terra: è un corpo capace di crescere, di agire, di impegnarsi e sovraimpegnarsi (cf. 2Cor 12,15) per la salvezza delle anime.

Quello che è detto del suo santo corpo ecclesiale, può esser detto anche di Gesù: non è blasfemo parlare di Gesù che resta ancora "viatore" sulla terra, anche se assiso alla destra del Padre: infatti Gesù è nella gloria, ma non ancora del tutto, se egli sopporta in sé tutte le traversie del nostro corpo, che è suo. Gesù continua ad agire di più, e non di meno, di quanto abbia fatto nei giorni della sua carne mortale; solo che egli agisce ormai non senza il suo corpo totale; resta ancora e soltanto lui l’apostolo per eccellenza, ma tramite la sua chiesa.

La potenza della missione (e la dignità dei ministeri) e tutta qui: dopo l’ascensione, Gesù continua a donarsi solo per mezzo della dedizione dei suoi; sono i suoi fratelli che portano a compimento ciò che manca alla pienezza della sua opera salvifica (cf. Col 1,24).

Siamo già all'affermazione da cui si dovrà dedurre tutta la legge dell'apostolato: anche l'apostolato, infatti, con tutte le sue espressioni ministeriali, è in senso stretto un adempimento eucaristico.

L'eucaristia non è un deposito sacro, una presenza arcana da adorare: è una forza viva che fa potente la chiesa che ne è nutrita: chi mangia di lui vive di lui, dunque opera con la sua stessa energia.

Paradossalmente – ma non tanto – si potrà dire, allora: è vero che Gesù è la forza dell’apostolato, ma non è meno vero che anche l’apostolo è la forza di Gesù. Nessuno osi separare ciò che Gesù si è unito, fino a essere “una cosa sola”.

La carità eucaristica

Ma non si deve correre troppo. Prima di parlare direttamente di apostolato e ministeri, occorre fermarsi ancora un poco sulla “vera anima di ogni apostolato”, che è la carità. Un’altra volta, bisognerà dire che solo nell’eucarestia si comprende il valore teologale di ogni forma di carità, compresa la caritas pastoralis di cui parla Presbyterorum ordinis.

Nessuna carità umana può sostituire l’eucarestia: anche se dessi il mio corpo da bruciare a favore dei fratelli, prodigandomi senza sosta nel servizio; e anche se divenissi dolcezza e consolazione all’interno di una comunità tutta dolce e consolata, non per questo io realizzerei quella solidarietà nell’unico corpo che non può che essere quello di Gesù.

Non è la forza della nostra carità che consacra – cioè fa avvenire – l’eucarestia. È Gesù che facendosi nostra pane ci consacra nella sua carità.

D’altra parte, senza la nostra carità, la realtà eucaristica non perdurerebbe oltre il rito. Non serve a nulla il sacramento che non produce realtà, perchè è nella res sacramenti – nella verità dell’esistenza trasformata – che si attua il piano di Dio.

Simone Weil era sconvolta al dover constatare come Dio stesso si auto-limiti per far spazio all’uomo. L’azione di Dio sommata all’azione dell’uomo – osservava – non dà un risultato accresciuto, dà un risultato diminuito; è più una sottrazione che un’addizione. Eppure, supposto il piano creativo, la gloria del sommo Dio si realizza attraverso la debolezza umana: perchè l’amore di Dio è umile fino all’estremo del rispetto.

In modo analogo anche Gesù si auto-limita: egli certamente resta la presenza attiva che incentiva tutto il crescere del Corpo fino alla sua pienezza; ma non lo fa senza trasferirsi e in certo modo insediarsi nella nostra carità. Non si può comprendere la verità ontologica del Corpo mistico, senza credere anche alla sua verità caritativa: «Rimanete nel mio amore», comanda Gesù, così come io rimango nell’amore del Padre. Non meno di una quindicina di volte il Vangelo di Giovanni adopera il verbo “manere” per indicare questo reciproco insediarsi l’uno nell’altro, perfetti nell’unità.

Un’altra volta occorre lamentare l’interpretazione soltanto ontologica – e non soltanto attiva, operosa – della teologia giovannea. Sembrerebbe che, una volta stabiliti nell’amore che è Gesù in noi, si sia arrivati alla perfezione ultimativa, oltre la quale non ci sarebbero sbocchi per creare dell’altro.

Al contrario la comunione è certamente una realtà data ma, insieme, è un realtà tutta da farsi. La formula agostiniana con cui in certe chiese, per un certo tempo, si distribuiva la comunione, non potrebbe essere più eloquente: Ricevi ciò che sei. Diventa quello che già possiedi. Esercita attivamente la comunione, datti da fare, metti in opera quel Gesù che ti ha trasformato in lui: perché, se la comunione è potenza, non può continuare a essere senza l'esercizio attivo della comunionalità solidale con il prossimo.

«Fate questo in memoria di me»: ci si rifletta e si converrà che è questo il vero precetto eucaristico, quello che ci autorizza a continuare noi ciò che Gesù ha fatto per primo: non tanto il rito della cena, quanto l'offerta della vita.

E ancora adesso, quello che Gesù non smette di fare è di donarsi tutte le volte da capo, ogni volta che si attua in noi un sacramento.

Non bisogna esitare nel dire che egli non solo si dona, ma anche ci riceve. Noi ci diamo a lui in comunione. Egli si adempie accettando in sè la nostra vita. È questo che ci permette di pensare la redenzione - che è sicuramente già tutta data, interamente versata - come un fatto che tuttavia è capace di attuarsi di continuo, nella verità del tempo, dello spazio, degli impegni, delle vicissitudini. Per questo l'eucaristia non è mai finita, fino a tanto che i secoli non saranno consumati.

Ma ci tocca andare ancora più avanti: Gesù dona in comunione agli altri se stesso, ma, agli altri, dona anche noi, se facciamo comunione con lui. Quel pane eucaristico - annota il Martelet - è il corpo di Gesù, ma è anche il mio corpo: così che - una volta entrato nella solidarietà eucaristica - io stesso sono dato e mi dono in comunione.

In proposito Fulgenzio di Ruspe ha un lampo di splendida genialità: «Con il dono della carità ci è conferito d’essere (anche noi) in verità ciò che misticamente celebriamo nel sacrificio». E il discepolo di Agostino spiega ampiamente che quello che fa Gesù nel sacrificio eucaristico, lo possiamo fare anche noi: anche noi divenuti sacrificio, dunque anche noi dati in comunione: e questo non solo alla maniera mistica incontrollabile, ma anche nell'esplicazione attiva della nostra esistenza.

Questa è solo la metà della verità: l'altra metà consiste nella certezza che la comunione sta nel ricevere la vita degli altri, insieme a quella di Gesù. Loro sono pane per me. Vivo non senza il loro servizio, se è il loro servizio che mi dà la partecipazione all’unico corpo di Cristo...cosa che sarà anche meglio esplicitata quando, più avanti, si rifletterà sulla forza cristica e cristificante dei ministeri.

Per il momento, converrà insistere ancora sulla carità come attuazione efficace della res dell’eucarestia.

La teologia della liberazione ha spinto forse troppo verso l’eucaristia come simbolo dell'impegno, tanto da sembrare che l'impegno fosse già eucaristia: ed è vero, a patto però che si affermi con più forza che senza l’eucaristia non può darsi forma caritativa sacramentalmente efficace.

In compenso. la consuetudine europea continua a insistere troppo sulla celebrazione liturgica, e liscia la carità sullo sfondo, come possibilità di semplice applicazione etico-ascetica.

Bisognerà concentrarsi infinitamente di più sulla lavanda dei piedi perché qui è la sostanza eucaristica definitiva. La res del sacramento infatti, non è solo il corpo mistico come si continua a insegnare, ma è il corpo mistico in quanto persona attiva che fa servizio, e servizio umile in riconoscimento della presenza eucaristica nell'altro. Finchè siamo nel tempo della storia, l'ontologia si realizza nell'effettiva capacità di operare, così da dare corpo al Corpo perchè non si immagini che, per essere eucaristici, occorra uscire dalla corposità operosa del servizio.

Il servizio della comunione

C'è una concezione per lo meno mutila della comunione dei santi: quella di immaginare uno scambio in certa misura automatico dei "meriti", così come per pura forza di inerzia i vasi comunicanti allineano alla stessa altezza il livello del liquido che li riempie.

E invece la comunione dei santi è anche - e per certi aspetti prima di tutto - comunione di ministeri, tutti visibilissimi e sperimentabili.

È falso immaginare che tutti i servizi siano eguali, purché ci sia la carità; e che tutti i ministeri contino per l'amore che contengono. e non anche per la specificità del servizio prestato.

La nostra non è una comunione di uguali: c'è la fraternità, ma c’è anche la paternità, e, in casi precisi, anche la sponsalità. Ciò che viene dal padre o dallo sposo non è mai la stessa cosa di ciò che viene dal fratello: il «Dio che agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,6) ha voluto che il suo Cristo stabilisse «alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo» (Ef 11-12)

Naturalmente sono i ministeri ordinati che comportano uno specificità che è decisiva per la struttura stessa del Corpo; quelli istituiti (e quelli di fatto) variano secondo il variare delle esigenze cui rispondono. Ciò che conta è il convincimento di fede che sia negli uni che negli altri, ogni volta che si agisce nel nome di Gesù, Gesù continua a darsi in comunione.

Questo comporta una prima convinzione di fede, di grandissimo valore: ogni volta che esercito il ministero per cui sono posto, io faccio reale azione eucaristica, Faccio “epiclesi” sui fratelli, do il corpo di Cristo...e insieme do il mio corpo. Per Paolo era indubitabile che l’eucaristia si adempisse non senza quel “culto” (o liturgia) che è l’apostolato (cf. Rm 1,9; soprattutto Ef 4,11-13). Alla maniera di Cristo – e insieme a lui – osa affermare di essere anche lui libagione per il santo sacrificio (Fil 2,17; 2Tm 4,6).

Ma c’è una seconda convinzione, a cui, in particolare i preti, siamo poco abituati: ed è la coscienza che insieme a Gesù, riceviamo gli altri in comunione; e questo ogni volta che essi esercitano un ministero con l’energia ricevuta da Dio (1Pt 4,11). Il ministro in atto – sia ordinato che istituito o di fatto – può santificarmi, con la forza del Corpo di cui è membro attivo. Il suo servizio è un’epiclesi al concreto, che mi “eucaristizza” progressivamente. Convertirsi alla comunione comporta anche tanta fede quanta ne occorre per non dimenticare che Gesù mi contatta tramite l’intervento santificante del fratello che fa corpo con lui.

È per poca abitudine a pensare eucaristicamente – cioè comunionalmente – che ci si trova imbarazzati di fronte alle molteplici presenze con cui Gesù ci attiva. Sappiamo che Gesù è presente nella sua parola, nelle varie celebrazioni liturgiche, nei poveri, e infine quando due o tre sono insieme nel suo nome. Intanto, occorre ricordare che nessuno di questi ambiti è mediatore di Gesù, se non in forza dell’eucaristia data o ricevuta. Gesù non dispensa mai dall’eucaristia, perché è lì che egli si è consegnato una volta per tutte. E inoltre nessuno di questi ambiti è separabile dagli altri, perché tutti sono necessari per creare l’unico Corpo che esse attivano cristianamente.

Comunque, si entra nell’universo mentale eucaristico quando ci si rende conto che Gesù, in forza della sua eucaristia, continua a farci eucaristia tramite il servizio dei fratelli e ai fratelli: è nella concretezza dei molteplici servizi, in tutti i loro aspetti, che si adempie la realtà eucaristica.

Eucaristia e missione

Questi ultimi accenni aprono obbligatoriamente alla missione verso il mondo non ancora credente: perché è per la vita del mondo che Gesù si è consacrato.

Una comunità che si chiudesse nella propria beatitudine cristiana, celebrando una carità eucaristica che non sia, per forza di cose, anche carità sacrificale a favore di chi non fa ancora della chiesa, mutua la verità del sacramento.

Prima ancora che sia il singolo a dedicarsi ai lontani, quasi uscendo dalla comunità e andando come Gesù «fuori dell’accampamento» (Eb 13,12), è la comunità in quanto tale a non avere altro scopo che quello della dedizione all’altro.

Non basta aprirsi all’ospitalità ecclesiale, così da lasciare entrare quelli che sono fuori, invitandoli anzi al convito; in altre parole: non basta fare proselitismo per allargare le nostre tende. Quanti sono già nella tenda non hanno altro impegno che quello di uscire loro verso gli altri, prima di chiedere che gli altri vengano a noi. È così che dobbiamo imparare e volere la totalità della salvezza per tutti.

Sarebbe assurdo affermare, con questo, che tutti debbano andare a servire l’incredulo o il pagano. Le vocazioni interne alla chiesa continueranno probabilmente a prevalere sempre, rispetto a quelle cosiddette missionarie. E però anche chi serve nella sua piccola postazione – anche la vecchietta che stira la biancheria della chiesa o dice il suo rosario – dovrebbe imparare a pensarsi in vista della totalità. Quella vecchietta non è un pezzettino del tutto, non è la classica povera goccia nell’oceano: se è parte del corpo di Cristo, è dedicata come Cristo non meno che alla salvezza di tutti gli uomini, anche se non lo sa. Ma dovrà imparare a saperlo.

Se pensassimo l’eucaristia solo in termini di interiorità ecclesiale, faremmo cessare la verità stessa dell’eucaristia, che è il sacrificio con cui Cristo ricapitola ogni cosa per offrirla al Padre. No meno di Gesù, la chiesa deve versarsi per gli altri: in caso contrario, ci sarebbe contraddizione all’interno dell’unica eucaristia, con Gesù che si offre per tutti e la comunità che si appaga di se stessa. Mai rompere la solidarietà con i fratelli, anche quando sono peccatori: davanti a Dio e per volontà di Dio, noi dobbiamo stare dalla loro parte – come Gesù – per difenderli “dall’ira di Dio” col nostro stesso corpo.

Non resta, allora, che applicare: tutte e singole le comunità cristiane sono lealmente eucaristiche se, nel loro quotidiano concreto, hanno iniziative davvero “estroverse”, centrate cioè su servizi tangibile agli “altri”.

Un’ultima considerazione: queste cose non vano pensate solo per dirle agli altri (che è il servizio tipico del predicatore, che si proietta sempre verso l’insegnamento). Dovremmo cominciare noi a guardare gli operatori cristiani come santi che “mi” impongono le mani, “mi” consacrano, “mi” mettono in grado d’essere a mia volta comunione. Ne deriverebbe subito un capovolgimento di prospettive pastorali che risulterebbe convincente anche per rassicurare gli altri – i ministri istituiti o di fatto – che essi sono veramente azione del corpo mistico di Cristo.

(da Settimana, n. 39, 3 novembre 1996, pp. 8-9)

Abbiamo tutti bisogno di Berakhà. E’ una parola importante, ma nasconde un contenuto difficile, di difficile attuazione. Molti hanno parlato, parlano e parleranno di benedizione, ma forse sono stati e sono lontani dalla benedizione. C’è la benedizione che rivolge l’uomo a un altro uomo, c’è la benedizione che rivolge l’uomo a Dio, e c’è la benedizione che rivolge Dio all’uomo, al mondo. Sono tutte benedizioni, ma sono benedizioni diverse, perché sicuramente la benedizione autentica, sicuramente vera, è la benedizione di Dio.

In cammino con Dio

Il passaggio del mare (Es 14)

di Marcello Milani


Premessa

Il brano «narrativo» in questione, a cui segue la versione poetica di carattere innico e liturgico (Es 15), contiene uno degli episodi più noti della Bibbia, ripreso e celebrato continuamente, nelle feste, nel teatro e nel cinema, nella Bibbia stessa, sia nell' Antico che nel Nuovo Testamento. Basti citare l'inno dal linguaggio mitico di Sal 77,14-21 e le menzioni in Sal 66,6; 78,13s; 106,7-12; 114, ecc.; ma anche in Is 43,16-21; Sap 10,18-19. Nel Nuovo Testamento si pensi a 1 Cor 10,1-2 (come simbolo battesimale) ed a Eh 11,29, per ricordare due citazioni esplicite (ma occorre ricordare le frequenti allusioni anche nei vangeli). Non si devono infine dimenticare Giuseppe Flavio (Antiquitates Jud. II, 318ss), Filone (Vita Mosis, I, 176ss e Legum Alleg. II, 102) e le tradizioni midrasciche. Il nostro testo ha messo in atto dunque una continua rilettura per celebrare il momento decisivo della liberazione dall'Egitto, l'addio definitivo e irrevocabile, che determinò una netta separazione tra passato e futuro e portò ad una situazione nuova (cf Is 43,18-19). «È l'ultima battaglia, l'ultima frontiera. Concentra tutte le tensioni precedenti in una giornata definitiva e per questo il suo ricordo è cifra abbreviata. Il Mar Rosso divide la geografia, divide la storia e si tramuta in una linea divisoria dell'esistenza».

Un racconto parallelo è costituito dall'ultimo atto dell'esodo: il passaggio del Giordano (cf Gs 1,10-18; 3-4; Sal 114), tanto che alcuni autori intendono il nostro racconto come secondario rispetto a quello, descritto a immagine dell'ingresso in Canaan (cf Bibbia di Gerusalemme).

Una prima lettura ha cercato di cogliere il formarsi storico del racconto (metodo storico-critico ), ravvisandovi almeno una duplice rappresentazione del nucleo centrale (vv. 21-29): da una parte il passaggio può avvenire in forza di un «vento impetuoso» che spazza via le acque e dissecca il mare, mentre gli egiziani sono sorpresi dal riflusso delle acque (è la tradizione detta jahwista: vv. 21b.24-25.27; Sal 77 e 114 aggiungono alla tempesta il terremoto), dall'altra Mosè stendendo la mano divide le acque e le fa ritornare alloro livello travolgendo gli egiziani (tradizione sacerdotale: vv. 21a.22-23.26.28-29). Per il narratore jahwista il Faraone prende l'iniziativa e da qui derivano gli eventi successivi; nel sacerdotale è Dio a prendere l'iniziativa, sviluppando il racconto in tre comandi e annunci con esecuzione e compimento. L'attuale racconto sottolinea la potenza della fede di Mosè (14,13-14.31), che rischia tutto sulla parola di Dio, e la salvezza miracolosa degli ebrei (vv. 30-31).

I particolari dell'avvenimento restano per noi oscuri. n linguaggio è da epopea. n luogo del passaggio resta incerto nella designazione. Il tenore del racconto attuale non si cura di precisare luoghi e fatti come essi esattamente siano avvenuti; invita a chiedersi piuttosto di che cosa essi siano simbolo, quale messaggio l'autore intenda offrire. Perciò il seguente lavoro si attiene alla fase narrativa di Es 14, nell'intento di cogliere la struttura del racconto attuale e i princìpi che danno coerenza al testo, per rilevarne i simboli e le implicanze teologiche.

Articolazione della narrazione

Il racconto, che contiene ripetizioni tematiche e alternanze tonali, frutto della rielaborazione di materiale diverso ma divenuti ora fatti di stile, è preparato e anticipato dalla narrazione della prima tappa del «cammino»: partenza dall'Egitto per la strada del deserto verso il Mare, viaggio da Succot fino a Etam (Es 13,17-22). È cammino lungo, non per la via più logica, «la strada dei Filistei», costeggiata di fortezze, ma attraverso il deserto. È motivato dalla necessità di assicurare la perseveranza dei fuoriusciti ed evitare che «ritornassero in Egitto» (vv. 17s). È anche marcia militare di un esercito a ranghi compatti, in ordine di battaglia o ben equipaggiato, cammino trionfale con il signore in testa, che manifesta la sua presenza nella «colonna di nube» di giorno e nella «colonna di fuoco» di notte (Es 13,21-22). I versi sembrano riassumere e anticipare il tema centrale dell'esodo: il cammino nel deserto (il vocabolario del v. 20 caratterizza il ritmo delle grandi tappe, cf 16,1-16). Essi preparano il lettore al distacco definitivo di Israele dall'Egitto (la partenza della mummia di Giuseppe porta via ogni segno egiziano) e lo convincono che egli sta per assistere a un momento unico della storia di Israele (il verbo «vedere» acquista nel contesto una funzione importante).

Nel capitolo 14 la salvezza-liberazione assume la forma di un racconto di guerra e di lotta che rivela la forza di Dio di fronte al potere egiziano. Al popolo che grida all'arrivo degli egiziani, Mosè risponde con un oracolo che fa eco allo schema della «guerra santa»: la «vittoria» è assicurata dalla presenza divina e sarà «salvezza» (v. 13); «n Signore combatterà per voi» (v. 14): Dio combatte da solo contro il potente esercito inseguitore e lo vince, dimostrando la sua «gloria», mentre il popolo rimane in silenzio; supera la paura di Israele con la rassicurazione di Mosè («non temete»); blocca, scompiglia e mette in fuga «esercito, carri e cavalieri».

n ritmo del racconto è segnato da tre riprese del discorso divino (vv. 1.15.26). È la parola di Dio che mette in moto gli eventi: come in Is 40-55, è parola creatrice all'inizio e in tutta la storia; sempre essa compie il disegno divino per cui è inviata (Is 55,11). Riconosciamo dunque tre scene o sequenze, le prime due di simile lunghezza (vv.I-14.15-25), la terza più breve (vv. 26-31). Ognuna inizia con il comando di Dio che dà istruzioni a Mosè e annuncia anticipatamente la vittoria; segue la descrizione degli eventi (=esecuzione e compimento). Al centro delle prime due è annunciato il riconoscimento di JHWH (vv. 4.18), ambedue si concludono con una medesima frase: Il Signore combatte per Israele (v. 14 = promessa, al futuro; v. 25 = riconoscimento degli Egiziani, presente). Due brevi pause (la crisi, vv. 10-13; l'angelo del Signore, vv. 19-20) servono a drammatizzare e rilanciare il racconto. o a creare un tono meditativo e di attesa. L'ultima scena è riassuntiva, realizzando la promessa del v. 13: Israele «vede la salvezza» e crede nel Signore e in Mosè che prima contestava (v. 31).

1. L’accampamento davanti al mare: cammino e attesa (vv. 1-14)

Il comando del Signore pone in moto il fatto narrativo (vv. 1-4): gli Israeliti devono «ritornare» per accamparsi di fronte al mare, così da suscitare la reazione del Faraone: li penserà errabondi e bloccati nel deserto. L'annuncio anticipa il risultato: almeno nell'ultima redazione, è Dio che «rende duro, ostinato» il cuore del re, impedendogli di comprendere il fatto, e lo incita nella sua avidità a inseguire gli schiavi fuggitivi con il suo esercito, preparandone la sconfitta.

Il fatto crea un problema: Dio incita al male? Qualcuno traduce il verbo come «incoraggiare, rendere fermo il cuore, renderlo ardito», cioè «incitare al combattimento», in un contesto di guerra santa o nel confronto di una tenzone, nel senso che Dio lancia la sfida. Ma perché Dio vuole il combattimento? Non per la vittoria di Israele, ma per manifestare la sua gloria di fronte a un potere violento ed essere riconosciuto dagli Egiziani (il v. 17 è tradotto, piuttosto liberamente: «asserire la mia autorità su»). Nel contesto del capitolo, quel combattimento appare un giudizio profetico sul peccato (cf Es 14,4.17-18 con Ez 28,22; 39,13). Infatti, l'ostinazione del Faraone è legata alla sua mutata opinione sulla liberazione. Egli intende ridurre ancora Israele in schiavitù e impedire il servizio-culto a Dio, che sarà dato dopo la liberazione, al Sinai. Il significato ultimo è dunque teologico: il ribelle alla sovranità del Signore sarà costretto, suo malgrado, a riconoscerlo: «gli Egiziani sapranno che io sono JHWH» (v. 4). Israele stesso «vedrà» il Signore come salvatore vittorioso. Così, Dio rivelerà la sua «gloria», manifesterà cioè la sua presenza attiva, «la sua mano potente». L'ostinazione del Faraone è dunque il modo con cui Dio fa conoscere la sua volontà e il suo giudizio, la sua potenza e il suo essere a chi lo rifiuta.

La narrazione (vv. 5-9) dimostra la realizzazione del piano divino: per Israele obbedendo (v. 4b), per il Faraone inconsciamente. Il lettore è condotto nel campo nemico che «insegue», ma due flash lo riportano nel campo di Israele, accentuando il contrasto ( cf due participi: in marcia a mano alzata, in segno di libertà, e accampato, vv. 8b.9b). Gli schieramenti si oppongono nei loro atti: gli Israeliti «fanno» quanto ha detto il Signore (v. 4b), ma rimproverano Mosè di averli fatti uscire («che hai fatto?», v. 11); gli Egiziani si pentono: «che abbiamo fatto?» (v. 5); tuttavia, è Dio il vero protagonista: il nome JHWH-Signore appare otto volte nella sezione, egli guida l'azione (vv. 8-9, cf v. 2), egli «farà» la salvezza (v. 13), risolvendo la crisi.

Il «discorso» divino però non si realizza subito. Il narratore opera uno stacco. Cambia soggetto e ci riporta dagli Israeliti (vv.10b-14): «vedendo» improvvisamente le truppe egiziane avvicinarsi minacciose, sono presi di sorpresa. L'uscita trionfante si tramuta in disperazione: da una parte gli Egiziani, dall'altra il mare. Ogni via è preclusa, il deserto diventa una tomba. È la prima «crisi» dopo l'uscita, descritta secondo il modello delle «mormorazioni» nel deserto (cf Es 15,22-18,27; N m 10,1-20,13; Sal 78), anche se il motivo presenta qualche differenza: la reazione non è dettata da fame e sete, ma da una minaccia esterna. Diventa grido al Signore-JHWH e ribellione contro Mosè. Se il primo risente l'eco delle invocazioni di aiuto in Egitto, la protesta contro Mosè riflette il mancato riconoscimento della liberazione e la nostalgia dell'Egitto: «È meglio per noi servire l'Egitto che morire nel deserto!». L'alternativa Egitto-deserto (vv.II-12) comporta connotazioni emotive e antitetiche; e nei due luoghi si oppongono i contendenti, Dio e Faraone. L'Egitto è insieme oggetto di odio e nostalgia, di rifiuto e desiderio: è il passato della schiavitù ma anche di una certa sicurezza; permane un legame invisibile tra aguzzino e vittima, inseguitore e perseguitato. Il deserto è il futuro con la prospettiva della libertà, ma più prossime appaiono morte e tomba. Tra le due tombe è preferibile «seppellirsi nel proprio passato piuttosto che rischiare il futuro di libertà nel deserto». Questa è rischio che si guadagna e difende contro i pericoli, ma negli Israeliti è ancora viva la mentalità degli schiavi che li porta a «tornare indietro». L'uomo - scrive Alonso Schokel - «si sente diviso tra l'ansia di libertà e il desiderio di sicurezza, e in mezzo al rischio ancora la sicurezza della schiavitù, il riposo finale in un sepolcro».

La reazione di Mosè è diversa dalle altre scene di mormorazione: egli esorta il popolo al coraggio e a una nuova fiducia nel Signore. Occorre ritrovare la «tranquillità» della fede. La sua risposta contiene un oracolo di salvezza (vv. 13-14), la vittoria resta come promessa: non devono temere ('al-tîra'û), ma «stare saldi e vedere (ûre’û)» la salvezza-vittoria del Signore; gli Egiziani che oggi «stanno vedendo» avvicinarsi, non li «vedranno» mai più.

2. La notte in mezzo al mare: notte di veglia, marcia e vento (vv. 15-25)

In questo atto centrale, allo schema di spazio si aggiunge il tempo: la notte. La risposta del Signore conferma l'oracolo di salvezza di Mosè. Anzitutto interroga Mosè: «Perché gridi a me?». In realtà era stato il popolo a gridare (v. 10): la narrazione non accenna a una preghiera di Mosè (come in 5,22-23), forse perché lo identifica con il popolo stesso; egli è intercessore e partecipe di ogni vicenda del popolo (cf 32,31-32). Quindi indica una strada aperta per Israele, esorta al coraggio, a riprendere il cammino (v. 15): richiede l'obbedienza anticipata di fede come ad Abramo (cf Gn 12,1-3). Infine, impartisce l'ordine a Mosè con l'annuncio (vv. 16-18): quel mare che appariva un'invalicabile ostacolo si apre miracolosamente e offre un «passaggio», diventa il luogo della salvezza. E sarà opera del Signore! Accettando di entrare nel mare, Israele accetta il rischio della fede, sfida la morte e supera la paura di morire.

Il v. 17 riprende il v. 4: là Dio spingeva Faraone a inseguire, qui a entrare nel mare. Ma per gli Egiziani sarà un'imitazione fatale. E ribadito lo scopo non ancora realizzato: il Signore mostrerà la sua gloria e sarà riconosciuto dagli Egiziani.

Prima dell'esecuzione (vv. 21-23), un'interruzione narrativa (vv. 19-20) conferisce alla scena un carattere meditativo. È la necessaria riflessione per comprendere l'atto di salvezza. Quella notte sarà notte di veglia e di marcia (fino alla veglia del mattino, v. 24, come nella celebrazione liturgica della Pasqua), i cui protagonisti sono l' angelo e la nube, le tenebre, il vento e il mare. Angelo e nube segni della presenza di Dio, da avanguardia si spostano a retroguardia e separano i contendenti ponendosi in mezzo, mentre vento e acqua si affrontano in un combattimento cosmico, nella tenebra della notte. Tenebre, vento e acqua del mare richiamano l'inizio della creazione (Gn 1,2): dal caos Dio traeva il mondo, da questa grande battaglia sorge una nuova creazione, dalle tenebre una nuova luce. Mediante il «vento orientale», particolarmente arido e violento, il Signore stesso respinge e pone in fuga anzitutto le acque del mare che bloccano la marcia del popolo. Così Israele può entrare nel mare prosciugato e continuare la sua marcia, inseguito per la medesima strada dagli Egiziani con tutto il loro potenziale bellico, ma senza vedere gli avversari, protetti dalla nube opaca.

La lotta tra il vento e il mare dura tutta la notte fino al mattino: le acque si dividono e appare la terra asciutta (vv. 22.29), come nella creazione (Gn 1,9s). In modo simile, il vento aveva prosciugato le acque del diluvio (Gn 8,1), facendo emergere la terra con la ripresa della vita, evidenziando un nuovo cosmo e una nuova umanità. Così, il passaggio in mezzo alle acque del mare acquista un valore simbolico, segna la «nascita» di Israele come popolo, nell'avverarsi di una nuova creazione.

La lotta cosmica si intreccia con quella terrena. In realtà, si tratta di una battaglia umano-divina. Alla veglia del mattino (vv. 24-25), cioè sul far del giorno, il Signore getta il suo sguardo sul campo egiziano e lo mette in rotta. L'azione parte dalla «colonna di fuoco e nube» che di notte teneva i due gruppi separati (v. 24): l'espressione potrebbe essere un modo per dire che temporale, folgore e oscurità nel cielo, scoppiano annunciati dal forte vento del v. 21. Così a tenebre, mare, vento e terra, si aggiungono fuoco e luce. Il cosmo lotta per i fuggitivi, senza che essi combattano, devono solo obbedire. La nube che prima guidava, illuminava e proteggeva ora combatte per Israele, «blocca o frena» le ruote dei carri, oppure le «fa deviare» nel pantano, impedendo l'inseguimento, e travolge l'esercito egiziano seminando il panico. Così gli Egiziani riconoscono che JHWH combatte contro di loro. Si chiude un primo cerchio: la realizzazione della promessa di Mosè (v. 14) e il riconoscimento di JHWH e della sua gloria (vv. 4 e 18). Resta l'ultimo atto, la sconfitta definitiva del nemico, la salvezza e il riconoscimento del Signore da parte di Israele.

3. Il mattino liberatore: sconfitta e salvezza (vv. 26-31)

Nel terzo comando ed esecuzione (vv. 26-27) le azioni invertono il processo rispetto alla seconda scena: le acque divise «ritornano» allo stato originario, incontro agli Egiziani; gli «inseguitori» diventano «fuggitivi». Entrano nel mare, ma mentre per Israele le acque si «ritraggono» (v. 21), formando un muro (vv. 29.22), sicché esso «cammina in mezzo al mare», cioè trova la sua strada (a destra e a sinistra) nell'asciutto, per gli Egiziani non c'è passaggio: sono bloccati e travolti dal Signore «in mezzo al mare», le acque li ricoprono, diventano la loro tomba. I vv. 28-29 riassumono gli opposti effetti finali.

Acquista importanza il tempo. Alla notte di separazione, veglia e marcia, segue il mattino di liberazione e vittoria: il mare è superato, le tenebre sono vinte dal fuoco e dalla luce. Il mattino («la veglia del mattino», v. 24; «allo spuntar del giorno, il primo mattino», v. 27) è sovente simbolo di salvezza o vittoria, il tempo dei grandi interventi liberatori di Dio. È il momento della teofania (Es 19,16) e della manna (Es 16), in cui gli Israeliti vedono la gloria del Signore (16,7-8); al primo mattino avviene l'intervento divino liberatore di Gerusalemme assediata (Sal 46,6); è il mattino dei grandi giorni trionfali (Gs 6,12.15; 8,10). Così «quel giorno» (v. 30) diventa il «giorno della salvezza» (cf 1 Sam 14,23; 2 Sam 23,10), in cui il Signore «agisce» con la sua mano potente (v. 31), giorno da celebrare nella liturgia mediante le feste (cf Sal 118,24).

E la visione finale dei nemici morti sulla spiaggia produce il timore-rispetto di Dio: la vittoria induce il popolo a credere in Dio e nel suo rappresentante. È la sintesi del processo narrativo: di fronte a Faraone che si avvicinava, gli Israeliti levarono gli occhi e temettero assai e gridarono al Signore (v. 10); Mosè esortava a non temere ('al-tîra'û), perché avrebbero visto (ûre’û) la salvezza-vittoria del Signore («vedere e temere» sono foneticamente collegati in ebraico), gli Egiziani che oggi «stanno vedendo» avvicinarsi, non li «vedranno» mai più. Ora Israele sperimenta la liberazione e ritrova la fede: «Israele vide gli Egiziani morti sulla spiaggia», «vide la mano potente» del Signore, «e il popolo temette-rispettò il Signore e credette» (v. 31). La fede di Israele coincide con quella di Mosè. Essa emerge quando la prova è superata, abbandonando il terrore dello schiavo e la paura della morte. Uscendo dal mare Israele nasce come popolo che testimonia e annuncia la miracolosa liberazione di Dio. Allora, il passaggio del mare diventa fatto rivelatore che manifesta i due atteggiamenti opposti dell'Egitto e di Israele. «Da un lato, l'accettazione del rischio giunge alla negazione del mare come termine di tutta la storia e segna, per Israele, l'inizio di una nuova esistenza; dall'altro, l'avidità dell'Egitto ci fa assistere a uno dei molteplici esempi di "imitazione fatale"».

In conclusione, il racconto del passaggio del mare narra della nascita di Israele: «Immerso nelle acque delle origini, tuffato nella notte cosmica, Israele, è separato mediante il fuoco dal suo passato di schiavitù in Egitto e condotto da questo medesimo fuoco verso la luce della sua vita nuova e libera; questa via gli è offerta perché ha vinto la paura rischiando nello sconosciuto che sta al di là; essa è inaccessibile all'Egitto che cerca solo di perpetuare il suo passato». Per gli Israeliti il passaggio è trovare una strada verso una vita nuova, quando non c'è più speranza: entrando nel mare simbolo di morte, lo negano e lo superano. La loro forza deriva dall'obbedienza alla parola del Signore. Il racconto infatti proclama la salvezza mediante la fede. Nella grande lotta essi stanno in silenzio, passivi, inermi. Hanno una sola possibilità, ritrovare la tranquillità della fede (v. 13): se essi «muovono il campo» (nāśā’) e «ritornano» (ŝûb), non in Egitto, ma là dove il Signore ha loro indicato, egli aprirà loro una strada; se essi «fanno» quanto Dio dice, egli «fa» la liberazione. Allora inutilmente l'Egitto «muoverà il campo» dietro a loro; non sarà passaggio, ma imitazione fatale: le acque «ritorneranno» su di loro, per travolgerli «in mezzo al mare». Tuttavia, essi stessi sono invitati alla fede: riconosceranno il Signore che prima avevano rifiutato.

In questa prospettiva si può rileggere il contesto di guerra. Non celebrazione nazionale, ma lotta contro un «potere» che voleva dare la morte (cf Es 2), giudizio e azione di forza di Dio contro quanti si arrogano diritto e giustizia contro il debole, basandoli sulla propria forza (cf Sap 2,11), propagandata con esercito, carri e cavalieri. Costoro da inseguitori si ritrovano fuggitivi. E dalla sconfitta del nemico cosmico è un mondo nuovo che nasce.

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