«Il 1968 è passato alla storia come l’anno della contestazione. Io all’epoca avevo raggiunto la maggiore età e mi trovavo immerso in un mondo che contestavo contro tutto e contro tutti. Pur nella confusione generale che regnava c’era in me una solida certezza: Gesù Cristo!
Le parole del Vangelo le avevo sentite talmente vere per me, per la mia vita che avevano scombussolato tutti i progetti del mio futuro. Riscoprendo la mia fede avevo capito che Cristo era l’unico vero contestatore che meritava prendere sul serio e seguire. Gli altri volevano cambiare il mondo, cambiando le strutture e imponendo nuove regole e nuovi capi… Lui invece proponeva di seguirlo per la via stretta, prendendo la propria croce, eliminando le cose sbagliate che c’erano nel nostro cuore e amando anche coloro che non lo meritavano.
Ma, oltre a questo, avevo trovato colui che solo era capace di darmi una risposta alle domande di fondo che la vita impone e cioè: da dove vengo? qual è il senso dell’esistenza umana terrena? cosa ci attende dopo la morte?
Se le risposte a queste domande erano valide per me, lo erano anche per tutti. È questa la consapevolezza che ha fatto nascere e maturare in me la vocazione missionaria. Una vocazione che mi ha portato in Madagascar, tra i lebbrosi, per testimoniare Gesù Cristo. E annunciarlo a tutti come la via sicura, la verità che illumina sul senso di tutto e la vita che porta al suo vero compimento ogni esistenza umana che si apre a lui.
Dal giugno 1997 il Signore mi ha chiamato in questo eremo dedicato a Santa Maria. Ed è come se il Signore mi avesse detto: «Finora ti sei dedicato alla cura della lebbra del corpo; ora dedica le tue forze per curare quelle dello spirito». E sto vivendo questa “nuova missione” attraverso una vita di preghiera e di accoglienza per accompagnare le persone attraverso un cammino che le porti a una preghiera la quale sia un rapporto personale con il Signore, che coinvolga a poco a poco tutta la vita».
Questa è la sua storia. La riflessione che egli ci offre parte dalla convinzione che «il cristiano del 2000, se non vuole lasciarsi travolgere dalla corrente di un mondo che sta andando sempre più alla deriva, perdendo ogni riferimento etico e ignorando le risposte alle domande di fondo che la vita impone, deve imparare a pregare».
Ma come?
Per capire il mio rapporto con Dio, scrive, devo imparare a viverlo almeno in modo analogo a come vivo il mio rapporto personale con gli altri. Ora il rapporto personale con una persona, quando è corretto, è composto da tre elementi: l’incontro, l’ascolto e il dialogo. Infatti per vivere una relazione bisogna in primo luogo “incontrare” l’altro, poi “ascoltarlo” e “parlargli”.
È importantissimo rispettare la successione di questi tre momenti anche nel nostro rapporto con Dio. Pertanto, prima di parlare al Signore, devo incontrarlo, quindi salutarlo e cogliere la sua presenza come faccio con gli altri. Poi devo ascoltare ciò che desidera dirmi, e lui ci parla attraverso la sua Parola. E infine, ma solo in questo terzo momento posso io aprire il mio cuore, parlargli ed entrare in lui con tutta la mia vita.
L’INCONTRO AL SIGNORE
Cerchiamo ora di comprendere come vivere i tre tempi della preghiera, partendo dal primo momento che è l’incontro con il Signore.
Innanzitutto dobbiamo renderci conto che mentre da un lato l’incontro con le persone avviene sensibilmente – quindi l’altro lo vedo, gli sorrido, gli stringo la mano, lo saluto e magari lo abbraccio – dall’altro, l’incontro con il Signore avviene nella dimensione della fede, che è un incontro al di là del sensibile, ma non meno vero e reale dell’altro.
Il primo atto di amore che il Signore si attende da noi è un atto di fede nella sua presenza amante. Una presenza che Gesù stesso ha assicurato. Infatti prima di ascendere al cielo, dopo la risurrezione, Gesù aveva detto ai suoi: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).
Già l’Antico Testamento aveva la consapevolezza di questa presenza di Dio nella vita del redento. Il salmo 138 (139) ci fa cogliere questo in modo stupendo: «Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano (1-5).
Questo salmo ci fa cogliere una presenza del Signore, veramente “dentro” la nostra vita, partecipe delle nostre preoccupazioni. Una presenza che è consapevole dei nostri pensieri, che segue i nostri spostamenti, e con fare paterno e materno insieme, ci accompagna amorevolmente. E lui non solo tiene su di noi la sua mano, ma la sua presenza amorosa avvolge la nostra vita. Ecco perché san Pietro può dire: «Gettate in Dio ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pt 5,7). Ma oltre a questa presenza che dà sicurezza alla nostra vita, dobbiamo capire che il Signore non solo sa ogni cosa, conosce la nostra vita e la segue, ma è anche “coinvolto” in essa.
Quindi se noi gioiamo, oppure soffriamo, lui gioisce e soffre con noi. Infatti, quando Gesù appare a Paolo sulla via di Damasco mentre sta recandosi in questa città per perseguitare i cristiani, gli dice: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Gesù non dice a Paolo: «Perché perseguiti coloro che credono in me?». E nemmeno: «Perché perseguiti la mia Chiesa?», bensì: «Perché mi perseguiti?..». E dice questo perché nella persona dei suoi discepoli è il Signore stesso che è perseguitato, in quanto c’è in lui una sorte di identificazione con noi.
Anche nel brano del vangelo di Matteo che parla del giudizio finale, a un certo punto Gesù nella veste di pastore, rivolto alle pecore che stanno alla sua destra, dice loro: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…; ero malato e carcerato e mi avete visitato. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato… assetato … ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me…» (Mt 25,31-46).
Il commento che normalmente e giustamente si fa a questo vangelo è che alla fine della vita saremo giudicati sull’amore, sull’amore concreto che avremo saputo avere verso il povero e il sofferente. Inoltre viene richiamato il fatto che chi serve il fratello che è nella necessità serve Gesù stesso… Ciò è tutto vero. Ma oltre a questo, perché non cogliere anche questa “presenza divina” del “Verbo incarnato” che facendosi uomo è, in qualche modo, presente e coinvolto nella vita di ogni essere umano, e quindi anche nella nostra?
È anche nella consapevolezza di ciò che il primo momento della preghiera dovrebbe esprimere la fede di questa “presenza in noi”, aiutarci a coglierla e a gustarla.
Inoltre, nel suo eloquente e arguto discorso all’aeropago di Atene, san Paolo, a un certo punto, per far cogliere la presenza di Dio accanto a ogni essere umano, afferma: «In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28).
Il silenzio
È di tutte queste cose che abbiamo viste che deve essere ricco il silenzio del primo momento, nel quale vivere l’incontro. Quello della preghiera quindi non deve essere un silenzio forzato, o una tecnica del silenzio come la sia vive nella “meditazione trascendentale”, nello yoga o in altre metodiche orientali di concentrazione.
Il silenzio nella preghiera cristiana è quel sentire, quel gustare col cuore e nel più profondo di noi stessi la presenza dell’Altro. Inoltre, il silenzio nella preghiera deve esprimere quell’atteggiamento interiore di resa e di disponibilità che permette allo Spirito Santo di farci vivere l’incontro col Signore nel suo amore, superando quindi le nostre incapacità di amare e di pregare. Noi infatti non siamo capaci di pregare, né tanto meno di amare. Ma come dice bene san Paolo nella lettera ai Romani: «Lo Spirito Santo viene in aiuto della nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare. Egli intercede con insistenza per noi, secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27).
Quindi lo Spirito Santo non solo rende possibile il nostro incontro con Dio, ma ci permette di viverlo nella sua volontà e nel suo amore, dando profondità e comunione al nostro silenzio. Un silenzio che diventa così l’espressione del nostro “io”, che si lascia non solo amare, ma anche plasmare interiormente dal suo Dio.
Silenzio che crea comunione
Dio è una presenza talmente discreta e rispettosa che, senza silenzio, rischia di passare inosservata e di rivelarsi assente. Mentre invece san Paolo ci rivela tutta la verità e la consistenza della sua presenza in noi: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
L’amore che Dio ha verso di noi non è un’astrazione o una realtà che ci attende solo “al-di-là” di questa vita. Paolo ci dice che l’amore di Dio è una realtà presente fin d’ora al centro del nostro essere. Attraverso questa presenza abbiamo la possibilità e la capacità di partecipare al dialogo della vita trinitaria. Ma, come dicevamo, questa presenza dello Spirito Santo Amore, nell’intimo di noi stessi, è molto discreta. A questo proposito è illuminante considerare l’incontro che il profeta Elia ha sul monte Oreb con Dio; incontro descritto nel primo libro dei Re. Elia si trovava sul monte per incontrare il suo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dell’Alleanza, della comunione, ed «Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: «Che fai qui, Elia?» (1Re 19,11-13). Il mormorio di questa brezza leggera indica non solo che Dio è una presenza delicata, ma simboleggia anche l’intimità dell’incontro. Più si vuole che l’incontro tra due persone sia intimo e più si sente il bisogno di parlare sottovoce, di sussurrare le cose, e lasciare che la brezza leggera e forte dell’amore avvolga e unisca i cuori.
Ecco, il Dio della nostra fede desidera entrare in una comunione profonda con ciascuno di noi. Per questo ha bisogno del nostro silenzio, della nostra attesa, della nostra interiorità.
Comprendiamo quindi come il silenzio che ci è richiesto nella preghiera non può ridursi a essere uno stato di intima tranquillità, ma un’attesa serena che esprima un orientamento a Dio della mente, del cuore e della disponibilità di tutta la vita.
Lo Spirito Santo ha bisogno di questo nostro silenzio per farci entrare in questo incontro d’amore, poterlo animare e farlo crescere. Ecco perché solo lo Spirito Santo può essere il nostro Maestro di preghiera. Solo lui può farci entrare in questa avventura di amore in cui incontrare il Padre, per mezzo del Figlio. E solo lo Spirito Santo è quell’abbraccio d’amore che unisce il Padre e il Figlio, e unisce anche tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questo turbinio di “Amore-Eterno” che è la vita trinitaria.
Quindi la preghiera, nel primo momento dell’incontro, più che essere un atteggiamento attivo mediante il quale esprimere il nostro amore a Dio, dovrebbe esprimere un atteggiamento passivo, nel senso positivo del termine, che ci consente di lasciarci amare da Dio, portandoci a confidare in lui, Ecco perché il salmista recita: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui. Confida in lui, egli compirà la sua opera…» (Sal 36,7-5).
ASCOLTO DI DIO CHE PARLA
Al primo momento dell’incontro con Dio che ci permette di cogliere la sua presenza segue quello dell’ascolto. Normalmente il Dio della nostra fede non si manifesta alla nostra sensibilità con visioni esaltanti, e non si comunica a noi attraverso rivelazioni particolari, bensì ci parla soprattutto attraverso la sua Parola. E questa “Parola” che esce da Dio, ce lo rivela e ci parla, è Cristo Gesù, il “Verbo” di Dio mediante il quale è stato creato tutto ciò che esiste.
Cristo Gesù è quindi la “Parola” che rivela il Padre, è la “Parola” mediante la quale ha avuto origine la creazione, ed è la “Parola” che, accolta e seguita, ci fa diventare figli di Dio. Tutto questo è ben riassunto nel prologo del vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo (la Parola) il Verbo era presso Dio (il Padre) e il Verbo era Dio…Tutto è stato fatto per mezzo di lui… In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. A quanti però l’hanno accolta, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,1-5.12).
Ma come vivere concretamente l’ascolto della Parola? Ognuno può seguire il metodo che ritiene più opportuno. C’è chi in questo momento di ascolto valorizza le letture della liturgia del giorno. C’è chi legge la Bibbia in modo continuativo partendo dalla prima pagina. E c’è chi, di volta in volta, sceglie un libro dell’Antico Testamento, o un vangelo, o una lettera di Paolo o di altri apostoli, e la legge sistematicamente pagina per pagina.
Ognuno può quindi orientarsi a vivere l’ascolto del Signore che parla attraverso la sua Parola, nel modo a lui più consono. Importante è che ci sia questo incontro con la parola del Signore, e questo “incontro-ascolto” dev’essere quotidiano.
Questo incontro con la Bibbia non deve limitarsi a leggere la Parola, ma deve aiutarci a comprenderla, farla nostra, accoglierla nel cuore e incarnarla nella vita.
In questo secondo momento della preghiera quindi, l’approccio con la Parola ci educa a sentire il bisogno di nutrirci di essa, affinché illuminando la nostra mente, riscaldando il nostro cuore, e incarnandosi nella nostra vita, la Parola provochi in noi una trasformazione, un modo nuovo di pensare, di essere e di vivere, un modo più evangelico di rapportarsi alle cosa, alle persone e a Dio stesso.
Pregare la Parola
Tutta questa trasformazione si realizza gradualmente “pregando la Parola”, in questo modo. Mentre leggiamo la Parola attentamente cercando di comprenderla con l’intelligenza e di accoglierla col cuore, dobbiamo essere aperti a ringraziare subito con un moto del cuore per le cose belle e profonde che scopriamo in essa.
Quando invece quella Parola che stiamo leggendo mette in evidenza una contraddizione presente nella nostra vita, qualcosa cioè che è in contrasto con la fede che professiamo, allora dobbiamo chiedere perdono.
E se per caso quella Parola ci sollecita a vivere qualcosa che non viviamo ancora sufficientemente, allora è il momento di implorare il Signore, affinché, con il suo aiuto, riusciamo a rimediare a questa lacuna.
Se ci educheremo non solo a leggere la parola di Dio, ma anche a pregarla in questo modo, allora scopriremo tutta la verità di quanto dice l’autore della lettera agli ebrei: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12).
Questo dell’incontro con la Parola diventa allora il vero momento dell’ascolto del Padre, il quale ci parla attraverso il suo Verbo, la sua Parola, il Figlio suo Gesù Cristo. E noi gli rispondiamo attraverso quella preghiera di ringraziamento, di pentimento e di supplica che, quella Parola accolta e meditata, suscita in noi.
Ecco perché il Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica, nel capitolo concernente la preghiera, afferma: «La Chiesa esorta con forza e insistenza tutti i fedeli ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle divine Scritture. Però la lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio fra Dio e l’uomo» (2653).
Il secondo momento della preghiera diventa pertanto il momento del Figlio perché è attraverso lui che il Padre ci parla e tutta la Bibbia si riassume. Impariamo quindi a vivere bene questo tempo della Parola perché essa, oltre a illuminare la nostra mente e riscaldare i nostri cuori, possa veramente orientare nel giusto modo tutta la nostra vita e aiutarci a vivere sempre di più come veri figli e figlie di Dio.
E se a volte la nostra preghiera sembra essere una preghiera “troppo interessata”, “poco fraterna” e “tanto comoda” non dimentichiamo che il Dio a cui ci rivolgiamo è comprensivo e molto paziente. Dice infatti sant’Agostino: «La Bibbia è il libro della pazienza di Dio, il quale come un maestro conduce il discepolo lentamente verso la manifestazione della verità che non può essere subito colta. È quindi necessario questo pellegrinaggio del sapere e del graduale conoscere, per attingere una pienezza sempre più grande».
IN UNA RELAZIONE CON LE TRE PERSONE DIVINE
Stiamo considerando i tre aspetti fondamentali della preghiera cristiana che ci consentono di vivere con il Dio della nostra fede un rapporto personale d’amore vero e serio. Siccome il Dio in cui crediamo è sì un Dio unico, ma non solitario, bensì un Dio trinitario, egli è nella sua realtà intima una comunione di amore tra la realtà personale del Padre, con quella del Figlio, nello Spirito Santo.
È quindi importante che sappiamo rapportarci a lui nel giusto modo, vivendo un rapporto relazionale con ognuna delle tre Persone divine.
Sappiamo che l’unica via per la preghiera giunge al Padre unicamente se preghiamo nel nome di Gesù. Siamo però anche consapevoli, grazie a Paolo, che «nessuno può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3).
Tutto questo ci fa capire che la preghiera dev’essere rivolta al Padre, per mezzo di Gesù Cristo, nello Spirito Santo. Ecco perché il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «Per la preghiera cristiana non c’è altra via che Cristo. La nostra preghiera giunge al Padre soltanto se preghiamo nel nome di Gesù… Gesù è la via mediante la quale lo Spirito Santo ci insegna a pregare Dio nostro Padre» (2664). Gesù infatti aveva detto alla donna samaritana: «È giunto il tempo ed è questo in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).
Lo Spirito Santo è quindi l’animatore e il maestro interiore che facendoci accogliere Gesù (la verità) ci orienta al Padre e ci permette di adorarlo nel giusto modo. Ecco perché quel tempo quotidiano di preghiera che dedichiamo a Dio per vivere con lui un rapporto personale e un incontro di amore va iniziato “abbandonandoci” allo Spirito Santo, in quanto solo lui può immetterci in questa comunione, ravvivarla e farcela gustare. Questo lo abbiamo visto nella prima parte. Poi siamo passati al momento dell’ascolto attraverso l’incontro con la Parola.
Nel terzo momento dobbiamo “entrare” nel Padre con la nostra vita, partecipandogli tutto ciò che stiamo concretamente vivendo. Dobbiamo quindi ringraziarlo per le cose belle, impetrare il suo aiuto per le difficoltà da affrontare, chiedere perdono per le cose sbagliate fatte, fiduciosi che lui collabora con noi per il conseguimento delle attese più nobili e belle presenti nel nostro cuore.
La fede che esprimiamo attraverso questa preghiera diventa allora quell’atteggiamento di fondo che coinvolge tutta la nostra esistenza personale e conseguentemente diventa adesione al Padre della nostra mente, del nostro cuore e di tutta la nostra vita. È un’adesione questa che, in qualche modo, ci “espropria”, ma diamo volentieri il nostro assenso a questo esproprio poiché ci fa capire che noi non ci apparteniamo ma apparteniamo a un Altro. Dice infatti il salmo 99: «Riconoscete che il Signore è Dio, Egli ci ha fatti, a lui apparteniamo…» (3). E Isaia: «Tu, Signore, sei nostro padre, noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani” (Is 64,7).
Questa consapevolezza è molto importante poiché è nella misura in cui decidiamo di vivere sì responsabilmente, ma senza appartenerci, che arriveremo a prendere in mano la nostra vita nel giusto modo. E giungeremo anche a una realizzazione ben più completa di quella che i nostri poveri limiti, e meschini orizzonti, ci avrebbero fatto immaginare e sognare. Per questo Gesù dice: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà. Ma chi perderà la propria vita a causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,35).
E la vita la perdiamo o salviamo in base a come viviamo il “momento presente”, l’unico tempo che è nelle nostre mani. Ecco perché è importante che ogni giorno ci sia un “tempo-per-Dio” ben preciso, affinché questo incontro ci aiuti ad affrontare bene tutti gli altri tempi della giornata.
Il momento presente
L’intera esistenza è un susseguirsi di attimi, di “momenti-presenti” che, se sono vissuti in Dio, trasfigurano il tempo e lo rendono eterno. In altre parole, potremmo dire che l’attimo presente vissuto alla presenza di Dio, riempie di eternità il tempo. Ma per raggiungere queste mete bisogna educarsi a valorizzare continuamente quell’attimo di tempo che abbiamo tra le mani.
Qualsiasi persona che si ponga a considerare la propria vita è portata inevitabilmente a pensare al suo passato che può valorizzare come esperienza accumulata in seguito a cose vissute, ma è un tempo che non è più nelle sue mani. Oppure tale persona può anche riflettere sulle prospettive future nelle quali organizzare la sua esistenza. Ma qui il tempo è solo potenzialmente presente, quindi non realmente valorizzabile ora.
L’unico tempo che si può gestire continuamente è quell’ “istante presente” che si rinnova continuamente e che si ripropone per darci la possibilità di scrivere e orientare meglio la nostra storia. Per questo santa Teresina del Bambino Gesù scriveva: «Se talvolta ci si dispera è perché si pensa al passato o al futuro…».
Trascurando così il presente e le sue potenzialità… è quindi accogliendo e valorizzando continuamente il tempo che ci passa tra le mani che noi abbiamo la possibilità di arricchire l’ “oggi” del passato. Ed è arricchendo l’ “oggi” dell’esperienza del passato che ci predisponiamo a valorizzare meglio il futuro. La preghiera è un aiuto indispensabile per vivere bene tutto questo.
È molto importante capire questo modo di porsi del tempo nella storia per viverlo bene anche nella dinamica del nostro rapporto con Dio. Perché il progetto che Dio ha su di noi, egli ce lo fa comprendere gradualmente. Noi infatti non siamo a conoscenza di ciò che saremo chiamati ad affrontare fra 3,5,10 anni. Né sappiamo ora quello che il Signore si attenderà da noi domani o in un prossimo futuro.
Quello che conosciamo (quando lo sappiamo) è solo ciò che siamo chiamati a fare e a vivere oggi, ora, in questo momento. E nella misura in cui noi vivremo bene oggi il “momento presente” in riferimento a Dio, egli ci preparerà a poco a poco a capire e ad affrontare il domani, e a comprendere ciò che si attenderà da noi nel tempo che verrà. Goethe, scrittore e scienziato tedesco (1749-1832) soleva dire: «Si dovrebbe almeno una volta al giorno udire una canzoncina, leggere una bella poesia, vedere un bel quadro e, se possibile, dire poche parole ragionevoli…». A questo richiamo di Goethe, io aggiungerei: «Bisognerebbe almeno una volta al giorno incontrarsi veramente con Dio, per permettergli di illuminarci e aiutarci a rendere la nostra vita bella, seria ed entusiasmante. Perché “l’attimo presente” vissuto alla presenza di Dio riempie di eternità il tempo».
La vita è una cosa seria
Se l’unico tempo che abbiamo a disposizione è il “momento presente”, dobbiamo allora capire che è attraverso questa reale e unica vita che abbiamo tra le mani che siamo chiamati a fare la nostra personale esperienza di Dio.
«La gioia umana consiste nell’essere in armonia con gli uomini, mentre quella divina si sperimenta quando siamo in armonia con il cielo» (Chang Tzu). Pertanto, se da un lato a volte vorremmo che certe situazioni fossero diverse, certe croci meno pesanti, e certe realtà più maneggevoli, dall’altro dobbiamo avere la consapevolezza che la “realtà presente” nella quale siamo immersi, e che è nelle nostre mani, è un tesoro prezioso che possiamo e dobbiamo valorizzare per aprirci e offrirci a Dio, e nel contempo diventare un dono per gli altri.
Il terzo momento della preghiera diventa allora questo legame di fede che unisce la nostra vita, così com’è, a quella di Dio. In altre parole potremmo dire che l’entrare in Dio con la nostra vita, nel terzo momento della preghiera nel quale ci relazioniamo col Padre dobbiamo far sì che la preghiera diventi come una specie di “cordone ombelicale” che ci permette di accogliere la vita divina e di viverla nella nostra vita…
È quindi nella nostra storia che Dio si fa presente, ci prende per mano e si fa conoscere . Nonostante questa sua attenta e assidua presenza, egli normalmente non ci salva da un male o da una situazione spiacevole togliendocela, ma illuminandoci sul modo di affrontarla e sostenendoci in essa, permettendoci così di maturare e di crescere. È in questo modo che noi possiamo affrontare gli eventi, anche i più duri, senza subirli e orientandoli.
Ecco perché De Vigny, uno che di queste cose se ne intendeva, soleva dire: «L’uomo forte crea gli eventi; l’uomo debole invece subisce quelli che il destino gli impone».
Riguardo alla reazione istintiva che c’è in noi di evitare le cose spiacevoli e difficili che siamo chiamati a vivere, p. Pio un giorno fece un’osservazione. Egli stava osservando dalla sua finestra la folla che si accalcava nel piazzale sottostante per incontrarlo. A un certo momento, con fare pensoso e dispiaciuto, si rivolse al confratello che gli stava accanto e gli disse: «Vedi tutta questa gente? Viene da me affinché io interceda per loro e la croce che li ha colpiti sia loro tolta. Nessuno mi chiede il dono di saper portare quella croce».
Probabilmente il padre aveva ben presenti quelle parole di Gesù, riportate dall’evangelista Luca: «A tutti Gesù diceva: Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23).
Quindi riassumendo, potremmo in conclusione affermare che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono il Dio trinitario che è con noi, non per alienarci dalla nostra storia, ma per assumerla e trasformarla con noi. E, nella preghiera rivolta a questo Dio trinitario, ogni persona divina deve avere il nostro tempo, la nostra attenzione, e conseguentemente la nostra disponibilità.
Quando noi sapremo garantire la serietà di questa preghiera, di questo rapporto personale col Dio trinitario, allora anche la nostra preghiera – preghiere del mattino, della sera, lodi, ora media, vespri, via crucis, rosari, novene, ecc. – avranno una loro profondità e consistenza. Non si tratta quindi di educarsi alla preghiera eliminando o trascurando le preghiere. Si tratta invece di cogliere, finalmente, quel richiamo che Gesù rivolge alla donna samaritana, e vivere una preghiera rivolta al Padre, sostenuta dallo Spirito Santo, e orientata dalla verità di Cristo. Perché “il Padre cerca tali adoratori” (Gv 4,23).
Ecco il motivo per cui il Nuovo Catechismo della Chiesa cattolica afferma: «Per la preghiera cristiana non c’è altra via che Cristo. Egli è la via mediante la quale lo Spirito Santo ci insegna a pregare il Padre» (2664).
Questa preghiera è quindi il “momento” che dà qualità al nostro rapporto con Dio e alla nostra vita cristiana.
È un momento, questo della preghiera, che all’inizio potrebbe limitarsi a una mezz’ora, ma che deve gradualmente tendere a diventare l’“ora per Dio”. In questo modo avrà una sua consistenza, e un suo influsso benefico, che si ripercuoterà su tutto ciò che siamo chiamati a fare e a vivere nelle altre ore del giorno.
Inoltre è questo “momento” di incontro vero con Dio che darà un’anima e una profondità alle altre “preghiere” del giorno, permettendoci di santificare tutta la nostra vita, facendone cioè un’offerta al Padre, per mezzo di Gesù, nello Spirito Santo.
In questo modo, a poco a poco, tutta la nostra esistenza si trasformerà in un vero culto spirituale… Quel culto frutto della vita nuova in Cristo di cui parla san Paolo nelle sue lettere, in particolare in quella ai Romani: «Vi esorto fratelli, per la misericordia del Signore, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. È questo il vostro culto spirituale» (Rm 12,1).
Nell’Antico Testamento, i profeti hanno sempre disapprovato con energica e indignata fermezza i comportamenti morali dei credenti che erano in contraddizione con il culto che rivolgevano a Dio. Cristo Gesù ha reso al Padre il culto perfetto di una obbedienza filiale, durata tutta la sua esistenza terrena.
Questo di Cristo è l’unico culto valido che Dio si merita e si attende. E questo culto, il Signore Gesù lo partecipa ai suoi discepoli, mediante la grazia del battesimo. Quindi con il Signore, come lui e nello Spirito Santo, anche i discepoli (cioè i cristiani) possono e devono dire: «Ecco io vengo, o Padre, per fare la tua volontà» (Eb 10,7).
Ecco perché questo nuovo culto spirituale rivolto al Padre, vissuto in Cristo, e sostenuto dallo Spirito Santo, è talmente legato alla vita da formare con essa una unità indissolubile.
Ecco perché non ha senso dire, secondo una mentalità purtroppo diffusa tra molti cristiani: «Sono un credente, ma non sono praticante».
Ed ecco perché la fede che vive e testimonia il credente cristiano deve esprimere la consapevolezza di un rapporto personale, quella di una creatura con il suo Creatore, nel quale vivere, spendere e giocare tutta la propria vita.
È questo che mette le basi e le premesse per la venuta del regno di Dio sulla terra e la costruzione di un mondo nuovo.
E anche tu, sacerdote, ministro di Dio, non accontentarti di celebrare l’Eucaristia, dire il breviario e vivere il tuo apostolato. Tutto questo avrà il suo valore, porterà i suoi frutti e santificherà la tua vita e quella della Chiesa nella misura in cui permetterà all’amore di Dio, alla sua Parola e alla sua grazia di infiammare continuamente il tuo cuore.
In questi ultimi tempi ho notato con piacere che anche i pastori della Chiesa ci hanno fatto sentire il bisogno che abbiamo oggi di educarci a una preghiera più assidua e più vera. Il Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica ha riservato nientemeno che una settantina di pagine (dal n. 2559 al 2865) per illuminare sull’importanza della preghiera e sul modo di farla.
Negli orientamenti pastorali per la diocesi di Ivrea, mons. Arrigo Miglio ha detto: «La preghiera di Gesù ci interpella sulla fisionomia delle nostre comunità cristiane, chiamate a essere eucaristiche e oranti. È necessario sviluppare la vita di preghiera della comunità parrocchiale. Poi il vescovo per facilitarla dà alcuni suggerimenti pratici: avere la chiesa aperta e accogliente, almeno nelle ore del mattino e della sera; ritrovarsi per il rosario nei mesi di maggio, di ottobre e per i defunti; celebrare le novene più sentite e la Via crucis; prevedere periodicamente un tempo per l’adorazione eucaristica alimentata dalla lettura della parola di Dio; incoraggiare la preghiera di Lodi e di Vespro; meditare la parola di Dio che la liturgia offre ogni giorno» (Cinque pani e due pesci).
Il cardinale di Torino, Severino Poletto, in occasione dell’Avvento 2002, ha scritto un bel messaggio dal titolo La preghiera, respiro dell’anima, dove tra l’altro ha precisato una cosa molto importante dicendo: «Pregare non è anzitutto dire delle cose a Dio, ma fare silenzio davanti a lui, stare ad ascoltarlo sentendoci guardati da lui e godendo di stare a lungo in sua compagnia…».
E sentite cosa ha scritto sulla preghiera Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica redatta subito dopo l’anno giubilare: «C’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera. È necessario imparare a pregare. Perché questo è il segreto di un cristianesimo veramente vitale. Sì, carissimi, le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera, dove l’incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazioni di aiuto, ma anche di rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, fino a giungere a un vero invaghimento del cuore» (cioè fino a giungere a innamorarci del Signore) (Novo millennio ineunte, 32-33).
Per concludere questa riflessione sulla preghiera, come non citare santa Teresa d’Ávila, questa innamorata del Signore che giunge a dirsi e a dirci: «Nulla ti turbi, nulla ti sgomenti. Tutto passa, Dio non muta. La pazienza tutto vince, e a chi ha Dio, nulla manca. Dio solo basta!».
E il Dio della nostra fede basta veramente, poiché è lui il Signore del tempo e della storia, della vita e della morte.
Inoltre, la fedeltà del suo amore non ha limiti se non quelli dell’eternità. A noi dunque il compito di valorizzare il tempo storico che è nelle nostre mani, per viverlo in pienezza. E permettere così all’amore di Dio Padre, per mezzo della verità di Cristo Gesù, di realizzare in noi, mediante l’azione santificatrice dello Spirito Santo, il suo capolavoro.
(da Testimoni, 15 settembre 2006, n. 15)